Videogiochi > Ratchet & Clank
Segui la storia  |       
Autore: Iryael    18/10/2017    2 recensioni
Ratchet racconta in prima persona l’esperienza della DreadZone: l'arrivo, la finta libertà dei gladiatori, le giornate scandite dai combattimenti, la fuga.
«All'inizio mi rifiutai di capire che quel che pensavo dei gladiatori, in realtà, era l'immagine che i mass-media vendevano agli spettatori. Ma il mio rifiuto non durò a lungo: bastarono pochi giorni a farmi aprire gli occhi.
Non esisteva paragone migliore del circo: noi gladiatori eravamo le fiere; mentre gli Sterminatori, le brillanti stelle dello spettacolo, erano domatori che si alternavano sulla pista dell'Arena.
Poi c'era lui, Gleeman Vox. Lui che aveva l'abito rosso del presentatore e coordinava la baracca, guadagnando sulla nostra pelle.
Fama, soldi e belle ragazze erano la nostra gabbia dorata. Quella vera, esplosiva, ce l'avevamo chiusa al collo.
Aprire gli occhi mi fece incazzare di brutto.
Nessun circo poteva permettersi di tenere un drago in gabbia. E loro - Vox e compagnia - l'avrebbero capito presto.»

============
[Galassie Unite | Arco I | Schieramento]
[Personaggi: Big Al, Clank, Gleeman Vox, Nuovo Personaggio (Takami Kinomiya), Ratchet] [Probabile OOC]
Genere: Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Ratchet & Clank - Avventure nelle Galassie Unite'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
[ 11 ]
Catacrom Quattro: la pista
(Hiring Show atto secondo)
 
Ancora Kyzil Plateau, ancora un caldo pazzesco, ancora la fantomatica piscina. Stavolta, però, eravamo solo io e Takami. Io ero in acqua, appoggiato di spalle al bordo. Lei aveva un costume pieno di fronzoli, che se non fosse stato nero forse sarebbe stato anche normale per una bambina. Sedeva sulla punta del trampolino, le gambe ciondoloni, e mi fissava con aria divertita.
«“Criosonno”, eh?» domandò con una voce decisamente adulta. «Sai, a volte fatico nel capire voi mortali. Solo qualche millennio fa vi sarebbe bastato un sacerdote per indurlo. Adesso vi affidate a cosa? Polvere?»
La guardai con aria incuriosita. La voce era chiaramente quella di Chaos, ma perché quella svitata era lì?
«Vai su qualche pista anche te?»
«Non hai risposto.»
Alzai gli occhi al cielo e scossi la testa. «È gas. E adesso sta a te rispondere.»
«Oh. Gas.» pronunciò quella parola con delusione. Chissà, magari si aspettava una risposta più “maGGica”. Poi appoggiò un tallone sul trampolino e premette una guancia contro il ginocchio. Da quella posizione apparentemente comoda borbottò: «Tecnicamente è la mia protetta che mi sta portando su una pista esterna alla stazione spaziale. L’unico posto dove IO mi sono recata, al momento, è qui. Mi accompagneresti nell’âdyton, Ratchet di Veldin?»
Âdyton, vabbé. Tacqui la polemica. «Perché cambiare scenario? Qui è rinfrescante.»
L’umana si guardò intorno. «Qui siamo nella mente. E la mente è debole, come dimostra che voi mortali riusciate a forzarvela un con l’altro. L’âdyton è molto più sicuro.»
«Nessuno forza la mente di chi porta un congegno tachys. Perché vuoi tornare là?»
L’umana inspirò a lungo e sospirò. «Ma perché devono avere sempre una vena recalcitrante? Odômke, lombâx, ojjantô-mone âf-si fô lâcfeö pîf kuä âdyton.[1]»
Le parole entrarono dalle orecchie, si trasferirono ai centri decisionali e – ping! – quando ripresi pieno controllo di me stesso ero di nuovo sotto il gazebo di quella città nota e sconosciuta. Takami non c’era più: al suo posto era tornata la donna di fumo, stavolta col bikini tutto balze della bambina. Allarmato, la prima reazione fu lanciare brevi occhiate tutt’intorno.
Ero pronto a mettere in chiaro tutto quel che pensavo sugli esper manipolatori, ma lei mi precedette con un sorriso cortese e un pacato: «Grazie per la cavalleria, Ratchet di Veldin.»
«Sai dove te lo devi mettere.» ringhiai. «Vedi di tenere ‘sto giochetto per te, in futuro.»
«Ma questo dipende solo da te.» rispose, sorniona. «Tè con pasticcini? Avremo da discutere un po’.»
«Non ho voglia di discutere con te.»
Lei materializzò vettovaglie e cibarie. Si limitò ad allargare un altro sorriso; poi, semplicemente, cominciò.
 
All’inizio mi parlò un po’ di Catacrom Quattro. Mi raccontò della sua geografia, di come fosse in origine e di quanto fiorente fosse la civiltà che l’aveva abitata. Poi mi parlò dei suoi templi, di quanto fossero antichi e di come il circuito magico d’interconnes­sione si fosse guastato nel tempo.
«Circuito magico?» domandai, scettico.
«Formato dai templi stessi, sì. Serviva a tener buone le anime dei caduti.» confermò lei. «Vedi: eoni fa esisté un gruppo di sacerdoti noti come la Confraternita del Sangue Misto. Erano i tempi delle prime ibridazioni fra specie senzienti: momenti difficili, dato che spesso gli ibridi erano malvisti da entrambe le specie genitoriali. La Confraternita del Sangue Misto fu la prima associazione di questi reietti. I loro fondatori incapparono quasi subito nel culto dei toksâme e lo elessero a loro culto ufficiale. I toksâme li ascoltarono, li aiutarono, insegnarono loro l’Idioma – la loro lingua, che oggi chiamate panskâra. Soprattutto, però, insegnarono loro ad invocare la magia.»
Ah, ecco. Fantasy puro. Presi un pasticcino anch’io.
«La Confraternita si fece più grande.» continuò «E, nei giorni in cui Catacrom Quattro era un florido pezzo di terra, stabilì qui la sua sede. Prese accordi con molte organizzazioni, ottenne che gli ibridi venissero portati su questo suolo piuttosto che cacciati a vista. E con le migrazioni crebbe di decine, centinaia di volte. Arrivarono al punto di acquistare il pianeta ed eleggerlo a casa felice... finché qualcuno decise che sarebbe stato il terreno ideale per un conflitto. La storia ufficiale riporta solo quattordici grandi conflitti, ma Catacrom ne vide più del doppio, e nessuno di questi involse schieramenti della Confraternita.»
Udii echi di lezioni scolastiche. Le Veertien Slag, le Quattordici Stragi. Ma si erano concluse con un trattato, se non ricordavo male.
«Il trattato fu scritto solo dopo che gli ibridi, sfiancati e snobbati da tutti, optarono per la soluzione drastica. Misero a punto una magia tanto potente quanto ingenua, che invocarono durante il terzultimo conflitto. Da allora chiunque muoia su quel pianeta non se ne va come tutti gli altri mortali: la sua anima continua ad esistere perché si lega al terreno, facendo del pianeta il suo âdyton e della protezione il suo scopo eterno.»
La interruppi: «Stai dicendo che laggiù ci sono fantasmi veri?»
«Finti semôke, per la verità. Hanno troppa poca energia per rendersi visibili, ma sono capaci di muovere ciò che è inanimato.»
«Semôke?» domandai ancora, incerto.
«Fantasmi, tanto per capirsi, ma approvati dai toksâme. Il fatto che siano scelti dagli dèi conferisce loro qualche bonus.»
Quindi sì, dannazione, c’erano i fantasmi.
Seguì un attimo di silenzio. Mi piacevano i filmacci di serie Z e il succo del discorso era terribilmente vicino a una di quelle trame. La coda tradì tutto l’interesse che provavo e lei se ne accorse.
«Dopo la magia gli ibridi sfruttarono la tecnologia, costruendo corpi robot che le anime dei soldati potessero usare. Nacque così l’esercito invincibile che mise fine alle stragi. A quel punto fu firmato il trattato che vietava di usare Catacrom Quattro come campo di battaglia e tutto sembrò tornare alla normalità. Peccato che nessuno rimise a posto il suolo, che così non perse la magia invocata dai confratelli.»
Mangiò un altro pasticcino e riprese: «Tutti i morti, civili e militari, presero a divenire anime legate al suolo. Allora i reggenti del culto si rivolsero di nuovo ai toksâme, che imposero la costruzione di templi in posizioni specifiche. Tutti i templi vennero muniti di un certo nucleo, così i finti semôke smisero di circolare liberamente e la Storia fece il suo corso.»
«Ora che ci penso le prime leggi a favore degli ibridi vennero scritte dopo le Veertien Slag.»
«Fu solo per il timore che il loro esercito si muovesse contro coloro che avevano usato il pianeta come un tabellone di Risiko. In realtà i finti semôke non potevano combattere fuori da Catacrom Quattro, ma questo era noto solo agli alti sacerdoti della Confraternita.»
«Wow.» Che dire: vista così la storia aveva tutt’altre sfumature rispetto a quelle viste a scuola.
«Interessante, eh?» si compiacque. «Ma saltiamo all’epoca attuale. La Confraternita del Sangue Misto non esiste più, ma il suo lascito è tutto lì. Il circuito dei templi è tutt’ora in piedi e ha funzionato fino a pochi anni fa, quando Gleeman Vox è divenuto proprietario del pianeta.»
Dal tono era facile intuire che proprio con lui qualcosa fosse andato storto.
«Che ha fatto?»
«Al proprietario precedente non è piaciuta la sua manovra d’acquisto, così ha trafugato i nuclei d’âsa dei templi. Come risultato la magia della Confraternita si è riattivata e Gleeman Vox sfrutta i finti semôke per il suo spettacolo.»
«Gli... zombie?»
Annuì. «Saranno piuttosto imprevedibili, temo. L’anima dinanzi a te potrebbe essere quella di un antico soldato come di un gladiatore moderno, un contadino o un tassista.»
«Immagino che dovrò distruggerli e basta, allora.»
Chaos riempì l’aria con una risata civettuola. La sua mano sorvolò con uno svolazzo il piatto di pasticcini. «Questa era così buona che meriti un consiglio diretto, Ratchet di Veldin: non sottovalutare i Confratelli. Mai. O la loro fede ti ucciderà.»
* * * * * *
Il criosonno terminò con un gas al disinfettante e un biiip così perforante che “stragalassia qualcuno spari all’olovisore”.
Aprii gli occhi con un senso di caldo sulla pelle, come sentendomi ancora sotto il gazebo, ma il grigio asettico della cella lo smorzò quasi subito. Mi rimase solo la pesantezza lasciata dal gas e l’odore chimico nelle narici.
Sbuffai.
Poi, all’improvviso, la chioma blu-nera di Takami rotolò fuori dalla sponda e piovve quasi fino in terra. I suoi occhi fecero capolino dall’intelaiatura della branda e mi studiarono con espressione assorbita.
«Che c’è?» domandai. Comparve uno dei suoi schermi verdolini.
 
Chaos dice che ti ha conosciuto.
È vero che pensi che è pazza?
 
«Sì, certo.»
Compresi l’attimo dopo che Takami era in relazione con lei, e allora mi tirai a sedere di scatto. «Aspetta: conosci quella donna?»
Annuì.
La invitai a scendere facendo pat pat sul materasso di gel. Dopo un attimo lei si accoccolò nell’angolo in fondo. Le chiesi: «Quando l’hai conosciuta?»
Lei si raggrinzì in un’espressione pensierosa per qualche istante, e alla fine fece spallucce.
 
Non ricordo. La conosco da sempre, credo.
 
«Ah. Da sempre.»
Annuì.
Questo fallava la mia teoria della gladiatrice. A meno che non si conoscessero da prima e fossero entrate insieme nella DreadZone: questo la teneva in piedi, invece.
«E... me la puoi descrivere? Com’è nella realtà, intendo.»
 
Chaos mi ha detto che una toksâma può darsi tutte le forme che vuole. Però nell’âdyton sembra sempre un’umana.
 
Toksâma. Toksâme. Di nuovo quella parola.
Dovevo ricordarmi di chiedere a Clank.
 
Una volta ho chiesto perché il fumo se può mostrarsi come vuole. L’unica cosa che ha fatto è stata dirmi “spoiler”. Ma non lo so cosa vuol dire.
 
«E... parlate spesso?»
Annuì.
«In sogno?»
Scosse la testa.
 
Non è proprio un sogno. Comincia lì ma poi andiamo nell’âdyton e il sogno diventa parte della realtà.
 
«Come fai a dirlo?»
 
Perché è diverso. Quello che faccio sento come che lo faccio davvero, da sveglia.
E poi me l’ha spiegato lei, e mi ha sempre detto cose vere.
 
Mi presi il mento. Forse su Chaos ero partito da un punto sbagliato. Avevo dato per scontato che fosse di una specie fra le più diffuse, ma pareva proprio di no.
 
BIIIIIIP!!!
Di nuovo il fischio dall’olovisore. Odioso lunghissimo fischio trapanante. Takami schizzò sulla sua branda, poi lo schermo si accese e comparve la faccia a bersaglio di Monocolo.
«Vi do il benvenuto su Catacrom Quattro, gladiatori. La sezione di contenimento è stata sganciata dalla nave trasporto e a breve atterrerà nell’alloggiamento al campo base. La temperatura al suolo è confortevole e il clima non presenta anomalie. Dopo la procedura di radicamento siete attesi dai vostri tecnici per la vestizione.»
Temetti che la cella si sarebbe rimessa a stridere come prima del criosonno, ma la procedura fu molto silenziosa. Evidentemente era un problema di manutenzione della stazione spaziale, conclusi quando la porta cominciò ad aprirsi.
L’aria si riempì subito di un odore misto di muschio e ruggine. Guardai in alto, sulla branda di Takami. Si stava legando i capelli.
«Vieni, andiamo. Ma guai a te se ti perdo di vista.»
Sobbalzo, e al contempo le sue orecchie si fecero porpora. Faceva bene a sentirsi colpevole, coi giorni che mi aveva fatto passare.
Armeggiò freneticamente con l’elastico per un ultimo attimo, prima di mostrarmi il vambrace.
 
Scusa. Prometto che non mi allontano.
* * * * * *
Il campo base era una tendopoli militare, ma al posto delle tende c’erano dei container. I corridoi, trasparenti, erano oblò ininterrotti sul panorama desolato del pianeta. Qui e là alberi spogli rinsecchivano su rocce scure, tendendosi al cielo come mani livide. Le nuvole, spesse, brillavano di una luce lattiginosa, malaticcia.
Capii meglio perché il pianeta era fra i cento più quotati fra i turisti dell’orrore: quello era senza dubbio il genere di panorama in cui aspettarsi fantasmi e non morti.
Finti semôke, mi corressi in automatico. Risi della mia correzione: di sicuro i fantasmi avevano una spiegazione alternativa e scientificamente valida. Erano robot, dopotutto.
 
Sentii tirare il gomito. Takami mi indicò un container sulla sinistra: sulla sua porta c’era scritto 4-723. Ci piazzai subito una mano contro, avviando il meccanismo di apertura.
La cella era incasinata e l’odore di saldatura era pungente. Al centro, chino sul banco da lavoro, Al stava togliendo dallo stomaco di Clank un avvitatore dalla punta minuscola. Era concentratissimo. Dato il paziente, però, sentii subito la tensione salire.
«Che succede?» domandai.
Al afferrò un saldatore di precisione. Dalla punta curva emerse una scintilla bianco-azzurra. La infilò nel ventre di Clank e dopo un attimo si sentì odore di metallo bruciato.
Aspettò di finire prima di rispondere: «Hardware usurato, roba di routine.»
Alzò la testa e il monocolo ingrandente finì in automatico fra i capelli. Individuò me e rimase rilassato. Poi individuò Takami, ferma sulla soglia, e la sua espressione si fece più dura.
«Credevo di essere stato chiaro con te.»
La bambina sobbalzò. Abbassò lo sguardo, incassò la testa nelle spalle e subito dopo si ritirò dietro lo stipite, fuori dalla vista di Al. Lui, contento del risultato, riportò il monocolo sul naso e si chinò nuovamente su Clank.
«Tutto bene durante il viaggio?» il suo tono era calmo, come se non fosse successo nulla.
«Se parli del criosonno sì, non poteva andare meglio.»
Mi guadagnai un’occhiata dubbiosa. La domanda, quindi, mi venne istantanea: «Perché, tu non sei stato..?»
«Niente criosonno, no.»
Ah. Quindi addormentavano solo metà della squadra. Supposi che fosse per tenere sotto minaccia l’altra metà.
«E voi che avete fatto per queste..–» mi resi conto di non avere la più pallida idea di quanto avessi dormito. «...ore? Intendo durante il viaggio.»
Attimo di silenzio.
«Ore? Oh, sì, puoi dirlo forte. Abbiamo viaggiato a sub luce per più di un giorno.» spiegò. «E abbiamo avuto un po’ di tempo per prepararci alla pista.»
«Vi hanno dato dettagli?»
«Qualcosina. Ho migliorato il sistema di tiro della coda, poi Clank è andato in corto.»
Portai lo sguardo sul mio amico. «Cosa si è guastato?»
«Oh, minuteria. Un cordone irkassiano, ma era in un posto infame da raggiungere.»
«E il software?»
«È tutto a posto; ho controllato. Sono il migliore, ricordi?»
Richiuse il soffietto e allontanò le mani. L’attimo dopo il lume dell’antennino prese a lampeggiare. Il sistema di Clank si stava riavviando.
Al lo tenne d’occhio ancora per qualche istante, poi fissò me e indicò le armature appese ai manichini dietro di lui. «Vieni che ti aiuto. Fra quindici minuti verranno a prendervi.» e poi, inasprendo la voce: «Ehi, lì fuori! Vieni a sistemarti, cammina!»
Takami, in silenzio, entrò nella cella e camminò raso al muro fino alla sua armatura. Riservò uno sguardo a Clank, ma Al le abbaiò qualcosa e allora lo inchiodò al suolo.
Fu così che ci preparammo per la nostra prima performance su un pianeta esterno.
* * * * * *
Quindici minuti più tardi, appena dopo aver dato il bentornato a Clank, fummo teletrasportati senza preavvisi. Dalla cella ben illuminata di Al e Clank passammo ad una scatola buia dove l’odore del marciume prendeva alla gola. Istintivamente materializzai il casco. I filtri purificarono l’aria e la visiera mi mostrò un luogo stretto, poco più grande di un armadietto.
Mi accorsi che Takami stava spalmata sulla parete di fondo come una persona in trappola. Respirava pesantemente e guardava fisso avanti a sé con la faccia terrorizzata, mormorando parole che non sentivo.
Pensai che stesse avendo un’allucinazione. Che l’aria marcia nascondesse qualche gas tossico.
Le schiacciai il pulsante sulla pettorina. Il casco si materializzò sulla sua pelle e lei rimase immobile. Lì per lì pensai che il pericolo fosse scampato: tutt’al più ci sarebbe voluto qualche altro secondo. Poi però mi accorsi che stava pigolando a nastro la stessa parola: paura.
Scelsero quel momento per aprire la gabbia. I chiavistelli si fecero indietro e la parete davanti a noi si ribaltò.
La prima immagine che ricordo di Catacrom Quattro comprende un sentiero sconnesso fra due scarpate piuttosto ripide. E alberi morti (o morenti) che accompagnavano la strada. E una leggera foschia attorno ai dettagli sullo sfondo.
 
«Ooohh! È il Team Darkstar, gente!» trillò la voce di Dallas.
«Questo sì che potrebbe essere un problema per gli zombie robot!» gli fece eco Juanita.
«Vi ricordiamo che le Vox Industries hanno superato se stesse nel trasformare quello che un tempo era un terreno sacro di sepoltura dei robot in un letale percorso di guerra di DreadZone!»
«Peccato che le defunte Truppe Grunt non abbiano gradito l’ammodernamento! E adesso il loro sonno sarà minacciato dalle capacità elettrocinetiche di questi due! Posso già sentire la tensione che sale!»
«Il team Darkstar dovrà dare tutto se stesso per raggiungere il tempio oltre il percorso! Ci riusciranno?»
«O forse... sarà la rabbia dei robot a mietere le vite di questi disgraziati?»
«Sono concorrenti, Juanita. Volontari pagati per gettarsi nelle gare.»
 
Ci fu un attimo di silenzio, poi i due presentatori scoppiarono a ridere. Alcune telecamere volteggiarono attorno a noi, inquadrandoci da vicino. E intanto Takami continuava a ripetere quella parola, “paura”. E intanto Clank le prometteva che, una volta fatti i primi passi, non avrebbe più avuto paura. E Al mi dava dritte sulla pista.
Dubito che nella storia di tutti i giochi gladiatori si sia mai vista una squadra tanto scalcinata. Comunque: eravamo lì per giocare no?
«Vieni Takami, andiamo.»
Pistole in pugno, feci qualche passo.
Un phaser volò sopra le rocce. Mi sfiorò lo zigomo e quasi centrò in petto Takami. Quasi, perché il segmento d’energia rimbalzò sull’armatura e si schiantò sulla scarpata poco distante.
Mi gettai dietro una roccia, mentre Clank esclamava «Cecchino!». Takami mi raggiunse l’istante dopo. Aveva smesso di pigolare a nastro.
«Dove?»
«Ore due, sopra la scarpata. Dev’essere un tiratore volante.»
Mi sporsi oltre il nascondiglio. Eccolo, sopra una lunghissima radice morta. «Lo vedo.»
Aveva in mano un fucile dalla canna lunga e vestiva un’armatura spessa. Con le vipere non avevo molte possibilità, a meno di sprecare il caricatore. Rimaneva solo la mia opzione customizzata.
«Sorridi all’uccellino...» mormorai posizionando la coda. «Shot!»
La vampa di calore corse dalla schiena alla punta della coda e... wham! L’attimo dopo il tiratore cadde sul sentiero e non si mosse più.
«Ce ne saranno altri. Devo recuperare quel coso per tirarli giù.»
«Hai le vipere.» ricordò Al.
«Scherzi? Gli faccio il solletico con quelle!»
«Po-Posso f-fare uno scudo.»
Mi voltai verso Takami. Guardava i miei piedi. Ed era chiaro che dire quelle parole aveva richiesto tutto il suo coraggio.
«Sul serio?»
«Se-Se non lo faccio e vai, muori.»
«Fra voi e quel fucile ci sono almeno una decina di striker» fece presente Clank. «Takami, deve essere uno scudo molto resistente.»
«Pr-prima ha funzionato.»
Attimo di silenzio.
Quindi ha deflesso il phaser da sola? Non era l’armatura?
Ero meravigliato. E in quel frangente quella era una notizia meravigliosa, intendiamoci: mi serviva letteralmente tutto. Però non toglieva che così tremante non potevo portarla con me sotto fuoco incrociato. «Puoi farlo rimanendo qui?» domandai, spiccio. «Io apro la pista e tu mi segui quando la via è libera. Stai al sicuro e mi fai da scudo.»
Scosse violentemente la testa.
«No?»
«No-non so se ci riesco. Però non rischiare! Ve-vengo con te.»
Scorsi lo sguardo su di lei, testa-piedi e ritorno. Tremava. Avrei preferito lasciarla lì, ma... «Usciamo al tre.»
* * * * * *
Oggalassia!
Mai provate le armi a pallini di gomma? Mai provato il dolore simil-pizzicotto che provocano? Ecco, quello è lo stesso che provoca un phaser che s’infrange su uno scudo. Fa male, ma invece di un buco uno guadagna un livido. Con quello scudo invece... niente! Neanche quello! Deflessione totale!
Gli striker praticamente si erano uccisi con le proprie mani, e noi in quel momento avevamo guadagnato il fucile da cecchino e un lanciagranate EMP. I phaser, a nostro discapito, provenivano tutti da armi integrate nei robot.
 
«Ma è regolamentare una cosa del genere?!» sbottò Juanita.
«Io non credo proprio!» le fece eco un Dallas parecchio indignato.
«Qualcuno si degni di uccidere questi imbroglioni!»
 
Hah! Idioti.
«Beh, il bottino è povero ma interessante.» commentai, ispezionando il lanciagranate. Aveva dieci colpi a disposizione. Il fucile da cecchino invece ne aveva otto. «Come va Takami? Stai bene?»
Non mi rispose. Quando alzai lo sguardo la trovai che sparava a bruciapelo nelle ginocchia degli striker disattivati.
«Ci sono i f-finti semôke.» spiegò. «Chaos ha detto di non lasciargli corpi.»
«Finti semôke?» domandò Clank. «E chi è Chaos?»
Spiegare a Clank che una tipa in sogno mi aveva detto che c’erano i fantasmi sarebbe stato imbarazzante, quindi glissai alla grande. «Ti spiego a fine gara. Takami, ti prego, non abbiamo colpi da sprecare.»
«Ma..–»
«Niente ma. Andiamo.»
Obbediente, smaterializzò la vipera e si rimise in piedi.
«Come ti senti?» le chiesi di nuovo. Desideravo solo che tutti si dimenticassero delle domande di Clank.
«Ho male alla pancia.»
Le scoccai un’occhiata veloce. «Sei nervosa. Passerà, vedrai.»
«La mappa segnala una postazione fissa poco più avanti.» interruppe Clank. Istintivamente mi levai d’in mezzo al sentiero e feci cenno a Takami di fare altrettanto. E lei, com’era immaginabile, non capì.
«Vuol dire togliti di mezzo.» tradusse Al, con un tono che... beh, gelido non rende abbastanza ma non ho altri termini. Efficace, perché Takami mi imitò, ma assolutamente in contrasto con la personalità del mio amico.
 
Il sentiero continuava a snodarsi fra due scarpate e ci obbligava a seguirlo con tutta una serie di paturnie. In cima alla lista io temevo i cecchini, un po’ perché erano una categoria che negli FPS odiavo e un po’ perché non mi fidavo troppo dello scudo offerto da Takami: utilissimo, per carità, ma non potevo sapere quando mi avrebbe mollato. Quindi tenevo lo sguardo più sulla cima delle scarpate che sul sentiero.
Proprio mentre mi dicevo che era strano che non ci fossero cecchini, arrivammo a una curva che girava intorno ad una guglia di roccia. I “presentatori” smisero di sparare cattiverie (e questo avrei dovuto vederlo come un segno), ma li ignorai. Ed eccola! Appena dopo la curva!
WHAM! WHAM!
Una specie di bolla d’energia che sparava phaser larghi come il mio pugno. Tornai sui miei passi alla velocità della luce. Dallas e Juanita risero. Risero a crepapelle.
WHAM! WHA--CLASH!
Takami ruzzolò alla meno peggio dietro lo spuntone roccioso, nascondendosi al mio fianco. Quando si rimise in ginocchio notai che l’armatura attorno al braccio destro era consumata.
«Il fantastico scudo ha fatto cilecca, pare» malignò Al.
Takami non rispose. Non ce n’era bisogno.
Quindi regge benissimo i phaser base e malissimo quelli più intensi, annotai. Sbuffai, pensando al nostro magro arsenale e al mostro che avevamo sulla strada.
«Gli scudi su quella torretta sono impenetrabili.»
Grazie Clank. Proprio utile!
Ci pensò Al a risollevare l’umore: «Però sono sempre parte di un sistema aprossiano integrato. Sai cosa vuol dire, vero Ratchet?»
Ho bisogno di risposte, non di domande! – pensai esasperato. Poi, però, il meccanico in me capì. E sorrisi assieme a lui, mentre dal mio guanto si materializzava il lanciagranate EMP rubato agli striker.
«Okay Takami: io esco e attiro la loro attenzione. Tu concentrati sull’operatore della torretta. Tiralo giù prima che riformi lo scudo e prendi possesso del mezzo. Tutto chiaro?»
«Sì.»
«Avrai poco tempo.»
«Farò del mio meglio.»
«Brava.»
 
Il bello dei lanciagranate è che non serve una mira accurata. Non mi scoprii neanche: lo puntai al cielo, più o meno nella direzione, e feci fuoco. Tre secondi esatti più tardi arrivò lo scoppio, segnato da un’interferenza nelle nostre radiotrasmittenti. Approfittando della confusione uscii allo scoperto. Due striker corsero verso di me, le armi spianate e pronte al fuoco. Peccato per loro che anch’io avessi già cambiato il lanciagranate con le vipere, e aprii un fuoco selvaggio. Fuoco al quale, però, la torretta non prese parte.
Subito dopo Takami uscì dalla curva. Corse a ridosso della scarpata, approfittando del mio diversivo. L’operatore della torretta doveva aspettare lei, perché come comparve attivò i cannoni.
La bambina impresse un’accelerazione che non dimenticherò mai. Potere della fifa! Però, in questo modo, riuscì ad evitare di essere bucata entro i primi dieci passi. Poi la persi di vista, impegnato com’ero con gli striker.
A furia di saltare qui e là mi misi con le spalle contro la scarpata. Errore madornale. E allora, a denti stretti, scambiai una delle vipere con il fucile a fusione. Colsi di sorpresa lo striker alla mia sinistra: era un’arma a lunga gittata, inadatta alla nostra situazione.
BANG!
La sua testa si dimezzò. Perse tutta la metà di sopra, strappata via dal phaser uscito dal fucile a fusione. E il suo collega mi tempestò di phaser con la mitraglia integrata.
 
«Mossa particolare, Juanita. Che ne pensi?»
«Ho visto robot grandi e grossi perdere le braccia per un rinculo come quello. Sicuramente un organico non ha speranze.»
 
Doloroso, sì. C’è un motivo se certe armi si maneggiano a due mani e in situazioni di calma. Ma non avevo il tempo di pensarci: come stava ricordando Al, l’integrità dei miei scudi stava scendendo a rotta di collo, quindi smaterializzai la seconda vipera e mi concentrai sul secondo.
BANG!
Una fitta mi attraversò la spalla. Doloroso, sì. Poi un phaser di torretta mi fischiò a un nanometro dalla testa.
«Takami!» Doveva solo tirarlo giù, porca miseria! Possibile che non riuscisse a fare neanche quello?!
«Mordi, Takami!»
 
«Oooh! Guarda Dallas! Un’altra dimostrazione delle capacità della spalla!»
Dallas rispose in tono schifato: «Lo ha... abbracciato? Mi rifiuto di crederlo! Voglio il replay!»
«Whoa, la regia ti ha accontentato! Ecco il momento... e quella è chiaramente una reverse bear hug!»
«Hai ragione... hai decisamente ragione, Juanita! Per un attimo ho temuto il peggio, ma quella è decisamente una presa da dietro! E che scarica che ha rilasciato subito dopo! Impossibile sopravvivere!»
«Ma sarà stata una mossa furba? Se l’ho avvertita io, qui in quota, gli zombie robot devono aver pensato ad un lauto pasto!»
 
La torretta smise di illuminare a giorno le scarpate attorno al sentiero. Per qualche istante sembrò persino disattivata. Silenzio in pista. Silenzio alla radio.
Oh no!
Mi precipitai alla postazione. «Takami stai bene?!» gridai, aggirandola.
La trovai in ginocchio, con le mani ancora sul corpo dello striker. Il robot emetteva qualche scintilla qua e là. Siccome era immobile, per un attimo temetti che avesse nuovamente fritto l’armatura.
«È in riavvio d’emergenza?»
«È operativa.» replicò Al.
E allora perché non si muoveva? – mi chiesi afferrandola per la spalla bruciacchiata. Lei fece un debole tentativo di togliere l’arto dalla mia presa.
«Juanita ha ragione. Mi hanno sentito. Ora arrivano.» mormorò, piatta.
«Chi?»
«Un’armata.» concluse Clank. «Arrivano dal vostro punto di partenza.»
Di riflesso guardai in quella direzione. La guglia, dietro la quale ci eravamo nascosti poco prima, non sembrava nascondere nulla.
«Che vengano. Li aspetto su una Stalker da 70 millimetri.»
«Ma sei fuori? Dovete andarvene!» strillò Al, parecchio indignato.
«Anche gli striker vi aspettavano su quella torretta.» infierì Clank, alludendo col tono alla fine che avevano fatto. «Al ha ragione. Impantanarvi lì vi renderà più difficile arrivare all’obiettivo dopo.»
«Ma scappare ci farà proseguire con un nemico davanti e uno dietro.»
«Andiamo via.»
Guardai Takami. «Ti prego.» aggiunse, con quel tono piatto.
Nell’attimo che seguì da dietro la guglia spuntò metà dello striker cui avevo fregato il fucile da cecchino. Attivai la torretta e lo aprii all’altezza della vita, poi tornai a guardare la bambina. Il visore a tre punte era girato verso di me, in attesa.
«Va bene, andiamo.»
 
Il sentiero continuò, sempre incavato fra le due scarpate. La roccia continuò ad essere coperta qui e là da macchie di muschio e a fare da base per le lunghissime radici nerastre degli alberi. Incontrammo altre quattro squadre di nemici, che ripeterono tutte lo schema cecchino-fanteria-torretta-fanteria. Parlare di questi scontri sarebbe inutile perché furono fotocopie del primo. Però occorre sapere che l’ultimo avvenne ai piedi di un enorme muro. E con enorme intendo un grattacielo di pietra.
 
«Oh sì gente! Il Muro delle Formiche!» trillò Dallas, entusiasta all’ennesima potenza.
«Un grande classico di Catacrom!» rincarò Juanita, anche lei bella carica. «I concorrenti dovranno scalare la parete di roccia sotto il fuoco incrociato degli zombie e degli striker!»
 
Lo sapevo io che dovevamo farli fuori prima, gli zombie. Ma gli altri “no, dai, proseguite che lì vi impantanate”! Perché qui no, vero?
 
«Proprio come bambini dispettosi i nostri aspetteranno che il team Darkstar abbia cominciato la sua bella fatica nello scalare prima di arrivare con i loro letali ditini a schiacciare i concorrenti!»
«Puntate bene i vostri bolt, perché per la loro performance questi non ne usciranno vivi!»
 
Grandioso.
«Come se la sono cavata gli altri?» domandai.
«Quelli come noi o hanno scalato con gli scudi forti o hanno combattuto prima di salire.» riassunse Takami, con voce affaticata.
«Perfetto, l’ultima opzione è la nostra.» dichiarai, materializzando per l’ennesima volta le vipere.
«Ma è quella con più fallimenti!» protestò Al. «Oltretutto non avrete altri proiettili per dopo!»
Imprecai mentalmente.
Era vero, ma allo stesso tempo se avessimo tentato la scalata saremmo diventati oggetto di un feroce tiro al bersaglio.
Mi voltai a guardare l’umana. Realizzai solo in quel momento che il respiro affannato che tremolava nell’intercom doveva essere il suo.
La presi per le spalle. «Non è vero che non abbiamo armi. Anzi, abbiamo un test da fare, ricordi?»
Qualsiasi cosa rispose, la voce di Juanita la coprì. «Sembra che il team Darkstar voglia combattere prima di scalare!»
«Una scelta audace. Ci vogliono le palle per affrontare a viso aperto le truppe di Catacrom!»
«Non credevo che quel nanerottolo le avesse!»
«Beh, Juanita cara, vedi, in realtà ogni organico maschio le ha...»
 
Clank si fece sentire alla radio, e per fortuna fece in modo di isolare quello scempio di discussione. «È strano che non vi abbiano ancora sparato. Sono schierati da un pezzo.»
«Sono cecchini. Vivono per nascondersi e sparare alla bastarda.»
«Aspettano che ci sono tutti.» mormorò Takami.
«Giusto, così ci logoriamo un po’.» rifletté Al.
«...Alza gli ascolti...»
 
Feci rimbalzare lo sguardo tutt’intorno. Loro erano lì, anche se non riuscivo a vederli. Strinsi i pugni e li riaprii e continuai a farlo a nastro, pensando rapidamente.
La soluzione arrivò all’improvviso e bruciò tutti gli altri pensieri. Galassia, era tanto semplice! Erano tutti lì, fermi, in attesa intorno a noi...
«Ratchet, ma stai davvero ghignando?»
Sì, ghignavo. Ghignavo dei tattici DreadZone, pensando che fossero dei cretini.
Perché noi, pur a corto di risorse, un attacco ad area ce l’avevamo.
«Ruggisci Takami.»
* * * * * *
«Ladrare! Questo è la-dra-re!»
Dallas si sgolava mentre io guidavo Takami nella scalata del Muro delle Formiche. «Brava. Adesso la mano destra l’appoggi su quella roccia lì – no, non quella, quella di fianco. Quella, sì – E adesso...»
Inutile dire che di sotto avevamo combinato un casino magistrale. Il ruggito stavolta era stato più veloce nel manifestarsi, e secondo me era stato anche più denso di saette. Alla fine, però, stesso risultato: dovunque avesse colpito c’erano solo lattine fumanti. I finti semôke erano tornati al terreno e, con ogni probabilità, sarebbero respawnati più avanti. Gli striker si erano fusi e basta. Noi, salvo un riavvio in remoto delle armature, ce l’eravamo cavata egregiamente. E Al – informato nel mentre da Clank – aveva pure deciso di riprodurre la tuta di Rop’roc. Definirmi soddisfatto era riduttivo. Ero ben oltre l’euforico. Avrebbero potuto chiedermi di espugnare Fort Sprocket e l’avrei fatto senza battere ciglio.
Almeno finché non arrivammo in cima.
Lassù, ad attenderci, c’era una piana di muschio a macchie rugginose. Era grossa come una piazza di Metropolis e gremita come un centro commerciale ai saldi. Solo che i presenti erano tutti armati fino ai denti... e l’unico divisorio fra noi e loro era una barriera olografica su cui si leggeva un conto alla rovescia. Segnava quasi quattro minuti. Avevamo tempo di riprendere un po’ di fiato.
 
«Ah, il tempio di Rad’uhr-kaa! Molto, molto antico! Pensa, Juanita, che nelle sue mura hanno trovato scheletri delle Vertieen Slag!»
«Bei tempi quelli! Sangue e morte nello stile preferito dai nostri spettatori: brutale e non stop!»
 
Il tempio stava sullo sfondo della piazza. Era una piramide a gradoni mezza mangiata dai licheni. Dalla punta partiva la colonna azzurrina del goal, mentre al centro aveva un buco quadrato: guardarlo mi riportò in mente stralci della chiacchierata con Chaos.
 
«L’obiettivo di questi criminali è espugnare il tempio e guadagnarsi il trofeo che dà accesso alla prossima gara! In che modo? Beh, dovevo dirglielo, ma siccome sono dei bari credo lo terrò per me!»
 
Maturo. Indubbiamente maturo.
«Non vi gettate a capofitto. Un crepaccio taglia tutta la piana; se ci cadeste sarebbe la fine.» informò Clank.
«E quel ponte a ore undici?» chiesi, riferendomi a una gobba di roccia nuda che sicuramente era vecchia come il posto.
«Temo sia minato. L’alternativa è un ponte allungabile di cui, però, dovrete attivare i nodi.»
«Quanti?»
«Due. Dopo il ponte, poi, troverete un landstalker. È con quello che dovrete espugnare il tempio.»
Perfetto.
Studiai velocemente il nemico. L’esercito era disposto in tanti piccoli gruppi sparsi e qua e là. Non c’era possibilità di passare non visti. E ingaggiare il fuoco sarebbe stato a dir poco stupido.
«Ehm... ragazzi, dovete muovervi.» intervenne Al. «Lo schermo ausiliario indica che qualcuno sta scalando il muro.»
Sgranai gli occhi. Com’era possibile?, pensai andando a controllare. Eppure eccoli lì, gli zombie. Un braccio avanti all’altro salivano, e quelli che non avevano le braccia si erano ammassati ai piedi della parete.
«Ma perché diamine ce l’hanno con noi?!» sbottai.
«Eseguiranno degli ordini.» buttò lì il nostro Tecnico.
Ordini. Da quando uno zombie prende ordini?
«O magari seguono quanto rimasto della programmazione degli striker.» ipotizzò Clank. «Comunque adesso cercate un nascondiglio.»
Programmazione. Come se un’anima potesse essere programm–oh, merda. Sì che può.
...IDEA!
«Takami.» chiamai. «Adesso ascoltami. Metti via la tua pistola. Quando la barriera calerà scapperemo in direzioni diverse in mezzo a loro» e indicai la folla di robot e mercenari. «Corri e basta, più veloce che puoi. Porta gli zombie in mezzo a loro. Ci rivediamo al ponte di pietra. Pensi di riuscirci?»
«Penso di sì.»
«Bravissima.»
In una manciata di secondi il conto scese a zero. Successero tre cose:
La barriera calò.
I primi zombie emersero dallo strapiombo alle nostre spalle.
Io e Takami cominciammo a correre.
* * * * * *
Quando, dopo mesi, ho rivisto una registrazione della puntata, mi sono sbellicato dalle risate. Eravamo così malmessi che, tra la performance e il commento tecnico di Dallas e Juanita, neanche io da fuori avrei puntato un bolt sulla mia squadra. Eppure sulla pista mi era sembrato tutto così incredibilmente diverso..!
Soprattutto la parte in cui avevamo portato gli zombie fra i mercenari di Vox. Io ricordavo solo di aver corso zigzagando a casaccio fino a far scoppiare gambe e polmoni, ma dalle riprese capii che io e Takami avevamo dato letteralmente inizio ad una rivolta.
Avevo messo insieme tutte le informazioni che avevo, comprese quelle fornitemi da Chaos. Paradossale, dato che la credevo una pazza. Però avevano funzionato, perché l’immortale esercito che aveva fermato le Vertieen Slag intervenne ancora per eliminare i soldati che osavano trattare il loro suolo come un campo di battaglia. I morti, nei loro corpi metallici, si avventarono su tutti coloro che brandivano un’arma, organici o robot che fossero.
Perché era questo che rendeva bellicosi i finti semôke, non la prospettiva di mangiare (cara Juanita).
Quindi, com’è immaginabile, quando sparammo il primo colpo rientrammo a pieno titolo fra gli invasori da abbattere.
* * * * * *
Tutt’intorno a noi era un vorticare di phaser rossi, verdi e blu; di cigolii di lamiere piegate e di tonfi di cose che cadono. Ci arrischiammo ad attraversare il ponte di pietra, che non saltò perché l’addetto alle mine – chiunque fosse – era alle prese con gli zombie.
Fu un colpo di culo. E, siccome i colpi di culo danno tanto l’idea di vincere barando, la situazione peggiorò subito dopo.
Mi guardai alle spalle e decisi di lasciare la carneficina al di là del crepaccio. Il baratro era così profondo che nessuno l’avrebbe passato senza allungare il ponte di DreadZone, il che – con i nodi infognati chissà dove – in quel momento era parecchio difficile. Dunque l’unico ostacolo era l’esistenza del ponte minato.
Pensai di avere la soluzione ideale al momento ideale. Purtroppo avevo già dimenticato che gli zombie se la prendessero con chiunque fosse armato...
Semplicemente: materializzai le vipere e sparai alle mine sull’intradosso. Quelle esplosero disegnando fiori di scintille gialle e arancioni, che a loro volta emanarono piccole nuvole di fumo scuro. La roccia s’incrinò, si spezzò e cadde nel vuoto, portando con sé fumo e schegge.
All’istante dal terreno emersero braccia semi arrugginite, dita adunche e lamiere taglienti. Ci avevo gettato dritti dalla padella nella brace.
«Via! Via di qui!» sbraitai all’intercom.
 
Raggiungemmo il landstalker correndo come forsennati. La piazzola di ricarica era stata montata in un’insenatura a lato del percorso. Il gigantesco ragno carro armato giaceva accoccolato sulle sue zampe, del tutto indifferente alla bolgia. Mi dovetti appoggiare ad esso per riprendere fiato.
«Hoverboot... –pant– servono gli... –puff– hoverboot...»
«Dovrebbero essere integrati. Ne vedo i circuiti.» rispose Al.
«Cos..?!»
«Magari andranno sbloccati.»
Aveva ragione lui, ma l’avrei scoperto solo al rientro. In quel momento pensai solo una fila di insulti. Non avevo il fiato per esternarli.
Poi captai i passi aritmici delle macchine possedute. Non avevo neanche il tempo per esternarli, così mi girai verso Takami e battei due pacche sulla zampa del landstalker.
«Come hai detto... –puff– che te la cavi... –pant– coi mezzi?»
«Uh... Così così...»
Piegai leggermente le ginocchia e intrecciai le mani a mo’ di pedalina. Non colse subito l’invito, così specificai: «Salta su. E no... –uuuff!– non toccare nulla!»
 
Mai stati dentro un landstalker? Beh, lo spazio è così poco che si rischia di fare a botte. Ci sono due sedili – o forse dovrei dire due piatti di metallo – mignon. Quello dietro è più alto di quello davanti perché sopra ci va il tiratore. E ovviamente gli ammortizzatori nei sedili sono inesistenti, con tutto ciò che ne consegue.
La prima cosa che feci, una volta che la calotta di vetro adamantino si fu richiusa sopra di noi, fu disabilitare i comandi di Takami. Decisi che sarei stato l’unico manovratore del mezzo. C’era da ballare parecchio e non potevo affidare i cannoni al plasma a un’undicenne dalla lacrima facile.
 
THUD! THUD! THUD!
Manate e colpi vari grandinarono lungo tutta la carrozzeria. Gli zombie erano venuti a farci la corte. Feci piegare le zampe al nostro amico e... hop! Un bel salto laterale per uscire dal gruppo. All’atterraggio ne schiacciai qualcuno; me ne accorsi dal rumore di lattine che arrivò tramite le lamiere.
«Il percorso è rettilineo. Pendenza lieve e regolare. Suolo non sconnesso. Assicuratevi di abbattere le sfere quasar con i mortai e passerete le barricate in men che non si dica.» asserì Clank.
«Barricate?»
Fu una domanda cretina. Quando rientrammo sul percorso e vidi gli enormi shanghai piantati a casaccio capii: poco ma sicuro non li avremmo passati né di lato né saltandoli.
Strinsi meglio i comandi.
«E allora distruggiamoli.»

[1|⇑] Avanti, lombax, accompagnami oltre la soglia del tuo âdyton.

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Ratchet & Clank / Vai alla pagina dell'autore: Iryael