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Autore: Adeia Di Elferas    19/10/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il Moro aveva ripetuto a Leonardo di finire in fretta l'affresco che ritraeva Gesù e i suoi apostoli attorno al tavolo dell'ultima cena, ma il domine magister continuava a rimandare.

L'artista si dimostrava sempre più recalcitrante a ogni ordine del suo signore, tanto che anche sotto aperta minaccia di essere mandato via, spesso tutto quello che faceva era sollevare le spalle e bofonchiare a mezza bocca qualche parola storta.

La verità era che Leonardo ricordava anche troppo bene di quanto la Duchessa Beatrice fosse affezionata a quel dipinto che immortalava l'ultimo pasto del Signore, benché lei l'avesse sempre e solo visto incompleto e impreciso, e quasi sempre di nascosto, dato che l'uomo detestava mostrare le sue opere incompiute a chicchessia.

Per Leonardo, lavorare a quel cenacolo era ancora troppo difficile.

Per di più, l'affresco era stato già in partenza pensato per la chiesa di Santa Maria delle Grazie, la stessa chiesa dove ora riposavano le spoglie mortali dell'Este e tanto bastava all'artista per sentire il cuore stringersi nel petto ogni volta che prendeva in mano il pennello.

Anche se in molti l'avevano vista come una donna dispotica e inflessibile, per Leonardo la Duchessa era stata una presenza importante, alla corte di Milano e senza di lei, forse, il Moro non gli avrebbe mai accordato tanta fiducia e tanta libertà.

Beatrice aveva rappresentato una ventata di novità per la muffa corte milanese. Dopo gli anni di limbo in cui Galeazzo Maria Sforza prima e Bona di Savoia poi avevano relegato gli intellettuali del Ducato, l'Este era stata capace di ridare vita a ciò che sembrava in punto di morte.

L'operato della Duchessa, pensava Leonardo, forse non era stato appieno capito dai suoi sudditi e dalla sua corte, ma sarebbe arrivato un giorno in cui i posteri l'avrebbero ringraziata, passando davanti alle meravigliose migliorie artistiche da lei volute per ridar lustro a Milano.

E così, pensare di mettersi a lavorare a qualcosa che, in fondo, sarebbe rimasto a memoria di Beatrice, nella chiesa in cui era sepolta per di più, gli metteva addosso una tristezza tale da paralizzarlo.

Quel giorno, poi, il domine magister aveva una grande scusa dalla sua parte: Lucrezia Crivelli, l'amante ufficiale del Duca, stava partorendo, e lui, come moltissimi altri cortigiani, si stava corrodendo nell'attesa di avere notizie.

Il palazzo di Porta Giovia era in fermento e nessuno riusciva a far altro che camminare da una parte all'altra, aspettando di sapere cosa stava accadendo nelle stanze della Crivelli.

Si diceva che Ludovico Sforza si fosse chiuso nei suoi appartamenti privati, in preghiera, terrorizzato all'idea che anche la sua amata Lucrezia potesse morire proprio come sua moglie Beatrice.

Leonardo, invece, era quasi sicuro che il Duca fosse con lei. Conosceva a sufficienza il carattere impulsivo del Moro per immaginarselo al capezzale dell'amante, intento a tenerle la mano, occhieggiando con inquietudine e speranza verso le levatrici che, troppo in soggezione per dirgli di uscire, gli riferivano i progressi della partoriente a ogni spinta.

La Crivelli non era più giovane. Aveva quasi quarantacinque anni e anche se il suo fisico ricordava ancora quello di una ragazza, era chiaro che i rischi che correva nel dare alla luce un bambino erano alti. Che il Duca fosse in ansia era più che normale.

Il domine magister si era infilato sotto i portici del cortile e, raggomitolato in uno scialle di lana pesante, stava affrontando la nebbia fitta che quasi gli impediva di vedere oltre il suo naso, facendo la punta a qualche penna ormai rovinata, tanto per tenere impegnate le mani.

Muoveva il taglierino con gesti rapidi e precisi, ma le sue orecchie erano allerta. Al primo urlo della prima serva, avrebbe capito se il nato era vivo o morto e forse anche se era maschio o femmina.

Era ormai arrivato all'ultima penna, forse troppo rovinata per essere affilata un'ennesima volta, e in quel lasso di tempo quasi infinito nel cortile erano entrati e usciti almeno una dozzina di uomini a cavallo, quando, finalmente, sentì dei passi rapidi nel loggiato e poi delle voci di donna che si inseguivano.

“È nato!” aveva esclamato quella coi polmoni più potenti: “Il figlio del Duca è nato! È nato!”

Leonardo tirò un sospiro di sollievo e, lanciando le penne, anche quella non ancora appuntita, nella sua bisaccia, lasciò il suo nascondiglio e tornò dentro al palazzo.

 

Caterina e Giovanni erano tornati a Ravaldino quando ormai era quasi pomeriggio. Avevano passato il ponte e poi erano andati direttamente a lasciare i cavalli nelle stalle. Qualcuno li aveva guardati con curiosità, soprattutto quando l'uomo aveva porto la mano alla Sforza per aiutarla a smontare di sella – cosa che non di norma lei non permetteva mai a nessuno di fare – ma ovviamente nessuno si era permesso di commentare.

Il castellano, poi, pur vedendoli rientrare assieme, non aveva fatto domande e aveva anche cercato di non lasciare intendere nulla attraverso il suo sguardo.

Tuttavia, quando la Contessa salutò in fretta il Medici per andare a sentire se fosse successo qualcosa mentre era fuori, Cesare Feo non riuscì a nascondere del tutto la sua agitazione.

Quello che lo rendeva teso era soprattutto non sapere quello che sarebbe accaduto. Checché la Leonessa di Romagna sembrasse pensare, la sua vita privata avrebbe condizionato pesantemente ogni risvolto della sua vita pubblica e quindi il destino della Stato.

Cesare si sentiva uno dei difensori di Forlì, essendo il castellano della rocca più importante, l'unica che avrebbe potuto resistere a un massiccio assedio, e quindi non sapere di preciso cosa stesse accadendo nella testa e nell'anima della sua signora lo rendeva incredibilmente teso.

Dopo la morte di suo nipote Giacomo, il castellano aveva accettato con un certo liberalismo il fatto che la Tigre fosse usa a portare nelle proprie stanze degli uomini. Non era fatta di ghiaccio, in fondo, ed era ancora molto giovane. Poteva capirla e credeva che fosse meglio così, piuttosto che vederla indulgere in violenze e soprusi come aveva fatto nelle settimane immediatamente successive alla morte di Giacomo.

Avere degli amanti passeggeri, finché restava un passatempo relativamente innocuo, non era poi un grosso danno per lo Stato. Nessuno pareva farci troppo caso e se le battutacce e i soprannomi non davano fastidio alla Sforza, allora poteva anche andare bene così.

Però avere come amante un Medici, in quel momento, era tutto fuorché innocuo.

Rimini era in mano dei veneziani e Faenza aveva cominciato ad alzare la testa. Milano, al nord, bolliva e sembrava in procinto di armarsi per una guerra che forse avrebbe visto di nuovo i francesi protagonisti. Al sud, Napoli stava riprendendo forma e re Federico stava faticosamente ricostituendo una parvenza di unità. Il papa si comportava come un animale braccato e proprio per quello, secondo Cesare Feo, lo si poteva ritenere in procinto di mostrare le zanne. Firenze era in preda a una silenziosa guerra civile.

Era davvero quello, il momento di schierarsi con un uomo della repubblica fiorentina?

“Finalmente siete tornata...” disse il castellano, deglutendo e occhieggiando verso Giovanni, che seguiva la Contessa a un paio di metri di distanza: “Sono ore che vi aspetto.”

“E come mai mi aspettavate con tanta impazienza?” domandò la Sforza, tralasciando il tono seccato dell'uomo e concentrandosi sulla sostanza del discorso.

“Achille Tiberti ha mandato un legato per chiedervi di raggiungerlo a Forlimpopoli entro sera, per discutere. Ha aggiunto che non si fermerà che fino a stanotte, dato che deve urgentemente tornare a Cesena per certi affari.” spiegò il castellano, incrociando le braccia sul petto: “Se volete raggiungerlo, vi consiglio di partire subito, vista l'ora che s'è fatta...”

Caterina sbuffò, ma pensò subito che, se il Capitano voleva incontrarla dal vivo, doveva esserci qualcosa di importante di cui discutere, magari qualcosa che non poteva essere affidato a una lettera.

“Fatemi preparare un cavallo. Partirò nel giro di una mezz'ora.” decise alla fine la donna, mentre Giovanni le passava accanto, precedendola dentro la rocca: “Prima ho una cosa da fare.”

Il castellano chinò il capo e andò subito nelle stalle per sceglierle una cavalcatura adeguata. Non aveva chiesto alla sua signora se intendesse portare con sé anche una scorta, ben sapendo che in tal caso l'avrebbe detto. Così, per prudenza, dopo aver trovato il cavallo adatto, andò nella sala delle armi e le preparò una spada e un pugnale.

Qualunque tipo di affari avessero in piedi lei e Tiberti, a Cesare Feo appariva chiaro che non volesse orecchie e occhi indiscreti alle spalle, ma ciò non significava che dovesse mettersi in strada del tutto disarmata e indifesa.

Caterina, lasciato il castellano, era subito andata a cercare Giovanni, che si era ritirato nella sua camera per cambiarsi e riscaldarsi un po' davanti al camino.

Appena la Contessa entrò nella stanza, l'uomo lasciò il tepore delle fiamme per andare da lei ad abbracciarla e baciarla come se non la vedesse da qualche anno e invece che da pochi minuti.

“Devo andare subito a Forlimpopoli.” disse la Tigre, allontanadolo appena: “Credo che passerò fuori la notte. Se tutto va bene, tornerò domani.”

Giovanni strinse le labbra, un po' contrariato da quel contrattempo, ma non si oppose in alcun modo, capendo, dal tono usato dalla Contessa, che nessuna sua richiesta di restare con lui quella notte, per quanto accorata, avrebbe funzionato.

E non poteva nemmeno chiederle di portarlo con lei a Forlimpopoli. Anche se si amavano e stavano per sposarsi, Giovanni voleva essere cauto, per quanto poteva, senza imporsi mai in quel genere di cose.

Erano gli affari di Stato a reclamarla e dunque lei sarebbe andata, per quanto il Medici avrebbe voluto trovare una scusa per tenerla con sé senza doverla più concedere a nessun altro, men che meno al freddo pugno della politica.

“Hai già pensato a una data per il matrimonio?” chiese il fiorentino, tenendole una mano nelle sue, aggrappandosi al pensiero delle imminenti nozze.

“No...” ammise Caterina: “Tu?”

“Domani è troppo presto?” fece Giovanni, con un sorrisetto speranzoso che la Sforza cercò di non far svanire, malgrado la risposta che dovette dare.

“Siamo ancora in Quaresima. Non troveremmo nessuno disposto a sposarci. Dobbiamo aspettare che sia passata la Pasqua.” sospirò la donna.

“A Pasqua in fondo mancano solo pochi giorni...” soppesò il Popolano, come a darsi forza da solo.

“Cosa credi che cambierà, quando saremo sposati?” domandò a quel punto la Contessa, curiosa, visto che l'ambasciatore sembrava davvero abbattuto per quel ritardo sul programma.

Mentre tornavano dalla Casina, si erano confrontati in modo molto schietto su come avrebbero gestito il loro matrimonio. Erano d'accordo sul fatto che non si dovesse suscitare troppo clamore, né troppe chiacchiere, senza per questo nascondere la testa sotto la sabbia.

Caterina aveva già sul collo il fiato pesante del papa e dello zio, dunque, se si fosse saputo troppo in fretta e con troppa certezza che aveva sposato un Medici, di certo anche Venezia, per tramite di Faenza, avrebbe cominciato a farle pressioni e chissà chi altri si sarebbe aggiunto alla lista dei suoi tormenti.

Però avevano anche deciso, pur non volendo dare ufficialità alla cosa in modo plateale, di non nascondersi nemmeno troppo.

La Tigre aveva provato a farlo quando aveva sposato Giacomo e il finale della loro storia era stato quanto di più tragico potesse accadere. La signora di Imola e Forlì aveva detto chiaramente che non voleva più passare una simile agonia.

Si sarebbero sposati in una chiesa tranquilla, in un'ora in cui nessuno avrebbe fatto caso a loro e poi avrebbero condotto una vita normale, per quanto possibile viste le loro cariche. Non avrebbero negato né confermato nulla con chiarezza, lasciando che le corti d'Italia si crogiolassero nel dubbio.

In tal modo, avrebbero preso tempo e poi, una volta definite meglio i confini della guerra che andava preparandosi, avrebbero deciso come uscire definitivamente allo scoperto.

“Una volta sposati, potrò smetterla di fingere di non provare nulla per te, almeno in questa rocca, quando c'è altra gente.” disse piano Giovanni, iniziando a girovagare per la stanza, una gamba che cedeva appena ogni due o tre passi: “E...”

“Perché, adesso ti stai dando molta pena per nasconderlo?” sorrise Caterina, scuotendo il capo divertita: “Ti ricordo che a Carnevale mi hai chiesto di ballare davanti alla Forlì che conta. Se questo è nascondere il proprio interesse...”

Il fiorentino si fermò e aprì la bocca, probabilmente per dire qualcosa in propria difesa, ma la Tigre non aveva molto tempo e sapeva di dover partire per Forlimpopoli il prima possibile, prima che scendesse il buio, per cui lo mise a tacere con un cenno della mano.

“Piuttosto – disse la Sforza, facendosi molto più seria – mentre sono via, cerca di parlare con i segretari della tua città. Fai in modo di capire che spazio di manovra abbiamo. E se tuo fratello dovesse scriverti ancora, cerca di non dire nulla che possa farlo arrabbiare. Quello che stiamo facendo è da incoscienti. Guarda che avrebbe ragione lui: dovresti tornare a Firenze e supportarlo contro Savonarola.”

Giovanni strinse i denti e inclinò la testa di lato, passandosi una mano tra i riccioli, molto più corti di quanto la moda non imponesse: “Mio fratello se la sa cavare benissimo anche senza di me. Il primogenito è lui ed è lui quello che ha sempre voluto riconquistare Firenze. E poi posso fare anche qui la mia parte.”

“Convincendomi a usare i miei soldati nella vostra guerricciola contro Pisa?” lo anticipò la Tigre, che fin dal giorno prima ogni tanto aveva pensato a quell'ipotesi.

Le orecchie del Popolano arrossirono e i suoi occhi chiari corsero al pavimento: “Se ci pensi, non è una cattiva idea...”

“No, non la sarebbe, per Firenze. Tamponereste uno scontro che Venezia sta fomentando solo per distrarvi senza sprecare nemmeno uno dei vostri uomini. Ma se io mandassi le mie truppe a Pisa, allora sarei io a restare del tutto sguarnita.” fece notare la donna.

Giovanni aveva apprezzato fin da subito l'organizzazione dell'esercito di Forlì. Pur essendo uno Stato piccolo, aveva delle truppe proprie e stabili, una vera rarità, di quei tempi.

Il quartiere militare che stava in città era un piccolo gioiello, tanto per organizzazione quanto per efficienza e a conti fatti gli uomini della Contessa erano meglio addestrati della quasi totalità dei soldati dei dintorni, e in più sembravano seguire un ferreo codice di comportamento che li rendeva molto più duttili e facili da domare, rispetto alla maggior parte dei mercenari che Firenze aveva al soldo.

“E a quel punto – proseguì la Leonessa, prendendo fiato e battendo le mani l'una nell'altra – se io venissi attaccata da Rimini o da Faenza per conto di Venezia, chi mi proteggerebbe?”

In quel momento il Popolano si rese conto di non aver ragionato come il futuro marito della Tigre, ma come un membro della Signoria.

“Hai ragione – ammise – il tuo esercito deve restare qui.”

“Ne riparleremo con calma quando sarò tornata da Forlimpopoli.” concluse la donna, apparentemente più distesa: “E magari per allora troveremo un buon compromesso.”

Giovanni annuì e poi le si avvicinò per salutarla, prima che ripartisse. Mentre si baciavano, entrambi ripensavano a ciò che si erano appena detti eppure, malgrado le tante perplessità che quelle poche frasi avevano sollevato in loro, quando si divisero, le loro menti erano di nuovo invase solo da un pensiero: il matrimonio.

“Cerca un prete, mentre sono via. So che sai essere molto discreto, quando vuoi.” disse piano Caterina, tenendogli una mano sulla guancia: “Digli che si tenga pronto a sposarci appena dopo Pasqua.”

“Prima di sposarci – sospirò il Popolano, appoggiando una mano sopra quella della donna – devi parlarne anche coi tuoi figli.”

Aveva parlato con un tono un po' dolente, come se lui per primo preferisse evitare quel passaggio che, però, gli pareva obbligatorio.

“Perché?” domandò la Tigre, sulla difensiva, trattenendosi a stento dal fare un passo indietro.

“Perché è una scelta che coinvolgerà anche loro.” spiegò l'uomo, avvertendo il tremito che correva nella sua donna.

“Ma non è una cosa che li riguarda.” si incaponì Caterina, stavolta allontanandosi davvero di mezzo metro dal fiorentino: “Sono io che decido della mia vita e nessun altro.”

“Questo è vero, della tua vita decidi tu, ma non puoi fingere che loro non ne saranno coinvolti. Nel bene e nel male, riguarderà anche loro. Non devono venirlo a sapere per caso e a cose fatte.” la fece ragionare Giovanni: “Devi dirglielo e basta.”

“E se a loro non andasse bene?” soffiò la Tigre, adombrandosi: “Ti sarebbe sufficiente per tirarti indietro?”

“Se a loro non andrà bene, io ti sposerò lo stesso – assicurò il Popolano – ma, almeno, in quel caso saprò di dovermi guardare le spalle anche da loro.”

In quel momento Caterina si rivide davanti Giacomo crollare in terra con il corpo trafitto dalle lame che Ottaviano aveva pagato per ucciderlo.

Chiudendo con forza gli occhi, concordò: “Hai ragione. Sarà la prima cosa che farò quando tornerò, domani.”

Con un ultimo abbraccio e un rapido bacio, i due si lasciarono e la Contessa fu libera di raccogliere qualche documento che da tempo voleva consegnare a suo fratello Piero e di partire alla volta di Forlimpopoli.

 

Le parole del trattato di filosofia che Anna Maria stava leggendo si inseguivano ormai senza senso nella sua mente. Di solito si appassionava molto a quel genere di letture, ma quella sera non c'era verso di concentrarsi.

Aveva un gran sonno, eppure, ogni volta che provava a chiudere occhio, il pensiero di quello che il medico di corte le aveva detto quel giorno le impediva di addormentarsi.

Era quasi scesa la notte e suo suocero Ercole era come sempre impegnato con il loro illustre ospite, Francesco Gonzaga, che probabilmente non sarebbe ripartito che a fine mese, mentre Alfonso doveva essere ancora con i fabbri di Ferrara a giocare con i suoi metalli, come un bambino.

L'ultima volta che era stato nelle sue stanze, Anna Maria aveva notato come le sue mani iniziassero a essere rovinate. Tutti dicevano che fosse per colpa della sua malattia, ma secondo lei gran parte del merito per quelle piaghe andava alla sua insana passione per la fusione del bronzo.

Nemmeno la sua schiava era lì per lei, quella sera. Avrebbe tanto voluto mandarla a chiamare, ma sapeva che la sua amante era poco tollerata in casa e che forse Ercole d'Este aspettava solo una scusa che non coinvolgesse la loro scabrosa relazione per cacciarla.

Se l'avesse distolta dai suoi compiti, l'avrebbe fatta tacciare di non essere volonterosa e di aver mancato a un suo preciso dovere. A quel punto il Duca di Ferrara avrebbe potuto rivenderla o farla arrestare e a qualunque pettegolo avrebbe potuto fornire una scusa molto comune per quell'allontanamento.

In quel momento, infatti, tutti i servitori erano impegnati nelle cucine e nel sistemare ogni cosa, come accadeva tutti i giorni, da quando il Marchese di Mantova era da loro.

Nemmeno avessero avuto in casa un principe...

Per certi versi, Anna Maria vedeva delle somiglianze tra il Gonzaga e suo marito. Entrambi sembravano allergici a tutto ciò che avesse anche lontanamente la forma di un libro e quando avevano cinque minuti liberi o correvano nei boschi a cacciare coi cani o si rintanavano nella sala delle armi a discutere di falconetti e colubrine.

E proprio come Alfonso, anche il Marchese pareva avere una spiccata passione per le donne, che fossero da pagare o meno.

Anna Maria aveva sentito dire che la moglie del Gonzaga, sua cognata Isabella, era molto innamorata di lui. Alla Sforza sembrava difficile che una donna raffinata come la sorella di Alfonso potesse provare anche solo una vaga attrazione per il Marchese, che era un uomo grezzo, brutto e ignorante come pochi.

Isabella d'Este dettava la moda in tutta Italia, da quando era Marchesa di Mantova, e si diceva che fosse lei il vero cuore politico e diplomatico del suo Stato. Una donna di tanto pregio poteva davvero provare qualcosa che andasse oltre il disprezzo e la commiserazione, per un essere come Francesco Gonzaga, un uomo che non sapeva far altro che menar le mani e correre senza posa da un letto all'altro non appena lasciava quello coniugale?

Anna Maria sospirò pesantemente, scuotendo tra sé il capo, convinta che tutta la felicità dell'unione tra il Marchese e la consorte non potesse che essere una bella favola confezionata a uso e consumo delle altre corti italiane.

Trattenendo a stento uno sbadiglio, si sistemò una ciocca di capelli biondi dietro l'orecchio e poi passò gli occhi – di un azzurro scuro, quasi grigio – ancora una volta sulle stanche parole di un filosofo di cui non ricordava nemmeno il nome.

Tutto ciò che riusciva ad affollare la sua mente, accantonato il paragone tra Francesco Gonzaga e Alfonso, era solo la notizia che il medico di corte le aveva dato e che lei sperava con tutta se stessa fosse vera.

Mentre voltava pagina con uno sbadiglio che questa volta non era riuscita a trattenere, la porta della stanza si aprì di scatto, per poi richiudersi subito dopo.

Alfonso, la barba lunga – portata così forse solo per far innervosire il padre – non la guardò nemmeno.

Stava già slegando il nodo delle brache, indicando con un breve movimento del capo il letto alla moglie, quando Anna Maria per la prima volta sentì l'euforia di avere un modo per evitare quella tortura.

“Il medico dice che potrei essere incinta.” confessò.

L'Este sollevò lo sguardo su di lei. Aveva le sclere arrossate e anche il colorito del volto non era dei migliori. Forse non stava troppo male, in quei giorni, ma di certo non era in forma.

In più, quando parlò, fu chiaro che avesse anche ecceduto con il vino: “Credi che sia vero?”

“Forse è presto per esserne certi. Però lo spero.” fece lei, restando seduta dov'era e osservando il marito, che era rimasto con le mani sui laccetti di cuoio delle brache e un'espressione stolida in viso.

“Che diamine, lo spero anche io.” convenne Alfonso, dopo qualche istante e, risistemandosi il nodo in vita, aggiunse: “E speriamo anche che sia maschio. Così almeno la potremo smettere con questa tortura.”

Anna Maria annuì e guardò con sollievo il marito uscire.

Era strano come anche lui si fosse riferito all'intimità tra loro con lo stesso termine che lei usava quando ci ragionava sopra. Tortura. Rendeva molto bene l'idea di quello che si infliggevano a vicenda, quando si vedevano costretti a unirsi.

Con un sospiro pesante, la donna chiuse il volume, convinta ormai che fosse inutile provare a seguirne il senso logico, e poi si andò a coricare.

Questa volta, non temendo più l'arrivo improvviso di Alfonso, riuscì a prendere sonno subito e in modo tanto profondo da non accorgersi nemmeno, un paio d'ore più tardi, dell'arrivo della sua schiava, che si accoccolò accanto a lei, intrecciando le dita di ebano alle sue, che sembravano intagliate nell'alabastro.

 

“Grazie.” sussurrò Caterina, mentre Piero le passava un calice di vino caldo speziato, il cui aroma pieno riempiva la saletta come un effluvio benefico.

Era ormai piena notte e la rocca di Forlimpopoli sembrava un gigante addormentato. La Contessa aveva da poco congedato Tiberti e si sentiva molto stanca.

Il Capitano le aveva riferito con dovizia di particolari l'agguato teso a Pandolfo Malatesta e il modo in cui era disgraziatamente fallito.

Le aveva anche fornito una mappa molto precisa dello stanziamento delle truppe veneziane a Rimini e nelle campagne e le aveva riferito di come il Pandolfaccio fosse scappato alla volta di Venezia appena dopo essere scampato alla morte.

La donna aveva assorbito tutte quelle novità con uno spirito molto diverso da quello che avrebbe avuto solo un paio di giorni prima.

Adesso che era in procinto di unirsi legalmente, non solo sentimentalmente, con un Medici, sapeva che non avrebbe potuto scegliere altro alleato se non Firenze. E in quel momento Firenze non le dava alcuna garanzia.

Aveva ripromesso a se stessa che non avrebbe mai più lasciato che la sua vita privata condizionasse quella pubblica, ma poi era arrivato Giovanni e le promesse stavano andando all'aria. Non aveva creduto possibile innamorarsi di nuovo, non dopo quello che aveva provato per Giacomo.

Finalmente capiva davvero le parole di sua madre, che una volta le aveva detto con semplicità che una vita è abbastanza lunga per amare due uomini, anche se molto diversi tra loro.

Ma tutto questo a Tiberti non doveva importare. A nessuno doveva importare. Anche se i motivi potevano sembrare opinabili, ormai Caterina aveva fatto la sua scelta, e i suoi sudditi dovevano solo ubbidirle.

“Che cosa devo fare?” aveva chiesto Tiberti, dopo il suo lungo racconto che era terminato con la fuga del Pandolfaccio.

La Tigre aveva giocherellato nervosamente con uno dei segnalini della mappa che stavano consultando e poi aveva decretato: “Per il momento niente. Quando il Malatesta tornerà a Rimini, allora lo attaccheremo di nuovo.”

Il Capitano le era parso fin troppo sollevato da quella decisione, ma poteva capirlo. Trovarsi contro gli uomini del Doge non sarebbe piaciuto a nessuno.

“Perché vuoi fare guerra a Rimini?” chiese Piero, sedendosi davanti a lei.

Caterina guardò il fratello, il cui volto, illuminato dal camino e dalla torcia a muro, sembrava molto più scarno di un tempo. Il mento si era fatto più squadrato e il suo portamento era migliorato, probabilmente per via del grande esercizio fisico che faceva ogni giorno.

Era diventato ormai un uomo e la Sforza riusciva a intravedere in lui sempre di più alcuni tratti della loro defunta madre. Tuttavia trovava anche qualcosa di sé e qualcosa della loro sorella Bianca.

Piero restava un legame familiare che la teneva ancorata al suo passato a Milano e perciò, quella notte più che in altri momenti, le pareva preziosissimo.

“Pandolfo Malatesta è un assassino. Un violento.” prese a dire la Tigre, con scarsa convinzione: “Il mondo starà meglio, senza di lui.”

“Se volessi mondare l'Italia dagli assassini e dai violenti, non ti basterebbe una vita per portare a termine la missione.” notò il giovane, alzando la sua coppa di vino verso di lei: “Senza contare che anche tu potresti rientrare nella categoria che vuoi sterminare.”

La Contessa incassò senza fare una piega, anzi, quasi sorrise nel pensare a come lei stessa avrebbe potuto fare simili commenti a parti invertite. Benché avessero padri diversi, lei e Piero erano simili più di quanto si potesse credere.

“Voglio metterlo in ginocchio e basta.” tagliò corto la Sforza, bevendo il suo vino: “Ormai conquistare Rimini è un'utopia, per me, ma potrebbe servire annientarlo per spianare la strada a Firenze e far retrocedere Venezia.”

“Se è questo ciò che pensi ora, so bene che non è quel che pensavi all'inizio. Quando hai cominciato a puntare all'espansione dello Stato, Firenze non era ancora così vicina a noi.” scosse il capo Piero, grattandosi la barba chiara che gli cresceva sconclusionata sul mento e sulle gote.

Caterina pensò che forse, per un uomo così giovane, la vita del castellano non era il massimo.

Anche se restava un ragazzo di bell'aspetto, Piero iniziava a dare segni di trascuratezza, tipica di chi vive a lungo in un posto senza mai poterne uscire, circondato solo da rozzi uomini d'arme.

“Non era il motivo iniziale, ma adesso il mio obiettivo è questo.” disse la Contessa e poi, come nulla fosse, cambiò argomento.

Restarono davanti al fuoco a lungo, fino a che, dopo un interminabile sbadiglio, la Tigre chiese scusa e decise di ritirarsi.

Piero l'accompagnò fino alla porta della sua camera e, appena prima di congedarsi da lei per la notte, le disse: “Ci sono delle voci che girano su quel che accade a Ravaldino. So che tu e quel Medici avete danzato insieme a Carnevale.”

Caterina non disse nulla, curiosa di vedere dove il fratello sarebbe arrivato con il suo discorso.

“Dicono che adesso lui sia il tuo amante.” continuò il giovane, tradendo per un attimo un velo di imbarazzo nel parlare di quell'aspetto della vita della sorella: “E dicono anche che da un paio di mesi non hai più portato nelle tue stanze nemmeno un soldato per la notte...”

“Accidenti, non hanno proprio niente di meglio da fare che discutere di quello che faccio tra le lenzuola...” sbuffò la donna, insofferente.

“Dimmi la verità. Sono tuo fratello, ma sono anche castellano di questa rocca e, se scoppierà una guerra, devo sapere bene da che parte stiamo, perché sarò uno dei tuoi baluardi, da questo lato del fronte.” fece Piero, serissimo, il mento alto e un'espressione fiera.

La Tigre annuì in silenzio. Piero aveva ragione su tutta la linea. Doveva sapere esattamente cosa stava per accadere. Doveva avere le idee chiare. In caso di guerra, quella di Forlimpopoli era praticamente la prima rocca che li avrebbe protetti a sud. Era sul confine con Cesena. Colpire lì sarebbe stato logico, per i veneziani.

“Io e Giovanni Medici ci stiamo per sposare.” disse tutto d'un fiato Caterina: “Appena dopo Pasqua, saremo marito e moglie.”

“Ho capito.” sussurrò di rimando Piero.

La Sforza sapeva che il fratello aveva davvero capito tutte le implicazioni di quella notizia e, come solo di rado le capitava, sentì di poter confrontarsi con qualcuno che come lei aveva una certa visione d'insieme: “Pensi che sia un errore?” gli chiese.

“Perché lo sposi?” chiese Piero, con il tono pratico di chi sta conducendo un'indagine puntuale.

“Perché lo amo.” rispose la Contessa, prima di ragionarci sopra.

“Nostra sorella Bianca, per amore, ha sposato un uomo che non l'ha mai voluta davvero e sappiamo quanto è stata infelice.” disse piano il ragazzo, tenendo alta la torcia e spostando il peso da un piede all'altro: “Lui ti ama?”

“Sì.” rispose Caterina, sempre senza esitazione.

“E allora non è un errore.” concluse Piero, sforzandosi di sorridere.

Dopo un breve momento di malinconia, in cui entrambi si trovarono a pensare a Bianca e al suo matrimonio con Tommaso Feo, il castellano salutò la sorella con un mezzo inchino.

“Ti farò trovare il cavallo per domani, dopo colazione.” assicurò.

“Grazie. Dormi bene, fratello.” ricambiò la Sforza, chiudendosi in camera.

Dopo essersi spogliata, Caterina si gettò sul letto, senza nemmeno ravvivare la fiammella che agonizzava nel piccolo camino.

Respirò lentamente, fissando il soffitto buio e poi, coprendosi fino al mento, cercò di evocare l'immagine di Giovanni.

Malgrado i suoi sforzi, per parecchio tempo non riuscì a ricordare altri se non Giacomo. Dopo un po', complice il suono silenzioso di qualche carro che passava attorno alla rocca facendo scricchiolare la neve fresca caduta quella sera, riuscì ad accantonare il ricordo di Giacomo, sostituendolo con l'immagine viva e presente di Giovanni.

E ci riuscì così bene che, quando mentre si stava addormentando, le sembrava di essere tra le braccia snelle e rassicuranti del fiorentino, e di sentire l'eco del suo respiro tranquillo e leggero.

 
   
 
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