Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    21/10/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

“Dice che potrà sposarci appena dopo Pasqua.” confermò Giovanni, aiutando Caterina a togliersi il mantello da viaggio: “Il giorno lo possiamo scegliere noi, perché non ha problemi.”

“Ha voluto denaro, per la sua discrezione?” chiese la donna, andando al camino e allungando le mani per scaldarsele.

Il Popolano scosse il capo: “No. Ha solo chiesto di mettere una buona parola per la Compagnia della Pietà e per i Battuti Bianchi. Sostiene che in questa terra si abbia davvero bisogno di qualche opera pia di quel genere...”

La Sforza sbuffò e poi concesse: “Dirò al mio cancelliere di revisionare lo statuto che il Vescovo ha abbozzato. Una volta reso ufficiale quello, in un paio di mesi potranno festeggiare la loro fondazione, visto che ci tengono così tanto. Sempre che accettino le cariche che ho deciso di tenere per me e mio figlio e che i nobili di questa città accettino di affiliarsi ai Battuti Bianchi.”

Il fiorentino annuì, sperando che tutte quelle variabili non andassero a rovinare il piano di partenza, e poi, mettendosi alle spalle della Tigre, iniziò a dire: “Io... Ecco, stamattina, mentre aspettavo che tornassi, ho visto un orafo di fiducia, che aveva lavorato per la mia famiglia anche a Firenze. È un uomo molto accorto, di cui mi fido. Ecco, io gli avrei commissionato gli anelli per noi due.”

Caterina voltò un poco la testa per guardarlo, a poi abbassò subito gli occhi e tornò a fissare le fiamme del camino.

In quel momento si era subito trovata a ricordare come lei e Giacomo non si fossero mai scambiati gli anelli. Il frate che li aveva sposati non aveva dato peso a quella variazione nel rito, tanto più che anche i più poveri erano soliti evitare lo scambio delle fedi.

Il fatto che dovessero tenere nascosto il loro matrimonio aveva imposto loro anche quel genere di accortezze. Eppure nemmeno Giacomo, che pure aveva un certo rispetto per le leggi e le usanze religiose, non aveva mai fatto cenno a quel dettaglio.

L'anello che le aveva dato Girolamo Riario, invece, la Tigre non l'aveva indossato quasi mai, se non in qualche evento ufficiale a Roma, quando erano sposati da poco. Ogni volta che se l'era trovato al dito, tra l'altro, le era sembrata come una catena che le ricordava che razza di mostro la sorte le avesse rifilato.

“Che genere di anelli sono?” chiese piano la donna, mentre Giovanni restava in silenzio, non capendo esattamente come stesse reagendo Caterina.

“Semplici. Che si notano poco. Mi ha anche fatto vedere un esempio che aveva con sé.” spiegò il fiorentino, con voce abbastanza bassa, ma cercando di apparire convincente: “Un classico nodo matrimoniale. Molto leggero, non come quelli che portano certi nobili.”

Quella frase, detta così a cuor leggero, ebbe un grosso impatto sulla Sforza che, forse per la prima volta da quando lo aveva alla sua corte, si rendeva conto che Giovanni, di fatto, non era un nobile, come lignaggio, benché ne avesse tutto l'aspetto.

I Medici erano una famiglia ricca, che aveva sgomitato negli ingranaggi dello Stato fino a prendersi un posto di rilievo, ma non erano nobili. Mercanti, possidenti, banchieri, addirittura qualche aspirante poeta e artista, ma mai un nobile vero e proprio. Né un guerriero.

“Un filo d'oro appena.” concluse il Popolano: “Se lo porterai assieme ad altri anelli, dubito che lo noteranno.”

La Contessa non diceva ancora nulla, ancora immersa nelle sue valutazioni, ma qualcosa nel modo in cui aveva inclinato la testa di lato fece ben sperare l'ambasciatore.

“Lo noteranno, invece.” lo corresse la donna, incrinando le labbra di lato e lasciando trasparire un velo di profonda inquietudine.

“Pensi che lo porterai?” chiese Giovanni, domandandosi per la prima se avesse fatto bene a prendere quell'iniziativa prima di consultarla.

“Per te sarebbe una cosa importante?” chiese la Leonessa, voltandosi finalmente verso di lui e facendosi tanto vicina da sfiorarlo appena.

Il Popolano scrutò i suoi occhi verdi e vivi e poi ammise, sentendosi scoperto: “Sì.”

“E perché lo sarebbe?” chiese di rimando la Tigre, con il solito tono imperscrutabile che adoperava quando voleva capire a fondo qualcosa senza sbilanciarsi troppo circa la sua impressione.

“Perché mi piacerebbe pensare che anche quando ci capiterà di dover stare lontani o di non poter stare insieme, tu mi porterai sempre con te.” spiegò l'uomo, sperando di non sembrare un ragazzino pieno di sogni plasmati leggendo i poeti e pensatori del passato.

“Allora lo metterò.” sorrise Caterina e poi soffiò: “Adesso vado un attimo nella mia camera. Voglio indossare abiti asciutti, prima di incontrare i miei figli. Questa nebbia gelata ti entra nelle ossa... Ti dirò, anche se la nebbia mi ricorda casa mia, ormai trovo che sia quasi meglio quando nevica.”

Il fiorentino la lasciò andare, senza trovare le parole per dirle che avrebbe preferito che le loro fedi fossero quelle che erano appartenute a suo padre, Pierfrancesco, e a sua madre, Laudomia. Anche volendo, però, quegli anelli erano già alle dita di Lorenzo e Semiramide, dunque due nodi forgiati di fresco sarebbero andati ugualmente bene.

 

Lucrecia fece entrare in fretta Giacomino nella sua stanza. Cesare sarebbe stato lì a breve e quindi era necessario fare tutto in gran velocità. Se suo fratello avesse scoperto quello che aveva in mente di fare, forse avrebbe scatenato la sua cattiveria su di lei, benché fosse la sua adorata sorella.

Quello che Cesare era capace di fare, ancora nessuno lo aveva capito, se non proprio Lucrecia. Si era resa conto che suo fratello era un diavolo, quando voleva, e che nulla l'avrebbe fermato, nemmeno l'idea di andare contro il proprio sangue.

Proprio per questo, quello che stava cercando di fare era di vitale importanza e farlo bene le avrebbe evitato di rischiare la vita per salvare quella di qualcun altro.

La figlia del papa ci aveva pensato a lungo e aveva deciso che, per quanto lei per prima non provasse alcun trasporto particolare per suo marito, toglierlo di mezzo nel modo vile e meschino con cui suo padre e i suoi fratelli avevano deciso di farlo non sarebbe stato giusto.

Così aveva cercato quel Giacomino, con cui lei in realtà aveva pochissima confidenza, ma che aveva il grande pregio di essere un parente alla lontana di Giovanni Sforza, nonché un suo fidato confidente. Non a caso il signore di Pesaro lo aveva portato con sé a Roma, quando il papa lo aveva imperiosamente richiamato in Vaticano pochi mesi addietro.

“Come dite..?” fece Giacomino, guardando la donna con tanto d'occhi, sicuro di aver capito male.

Lucrecia aveva accennato al fatto che Giovanni era in pericolo e poi aveva aggiunto, con il suo italiano che sconfinava a volte in un accento spagnolo: “Se non mi credete, nascondetevi dietro la spalliera di quella scranna.”

L'altro non aveva capito il motivo di quella richiesta, perciò provò a chiedere delucidazioni, ma la Borja scosse il capo con impazienza.

I suoi capelli biondi, acconciati ancora da quel mattino con fili d'oro e una mezza rete, ondeggiarono a ogni suo gesto, mentre lo spingeva con la furia di chi ha fretta nel nascondiglio che aveva accuratamente scelto: “Mio fratello sarà qui a momenti. Non potete farvi vedere, ma dovrete ascoltare molto attentamente ogni cosa.”

Giacomino non disse più nulla, avvertendo all'improvviso un senso di vuoto allo stomaco.

Lo stesso Giovanni Sforza lo aveva messo in guardia in ogni modo verso i Borja, descrivendoglieli come diavoli dalle sembianze umane, ribadendogli di diffidare perfino della bella Lucrecia, le cui movenze da angelo sapevano nascondere astuzie da demone, dunque trovarsi in quella stanza, solo con quella indecifrabile diciassettenne, già lo metteva a disagio. Sapere che a breve sarebbe arrivato anche Cesare...

Un paio di pesanti colpi alla porta fecero trasalire Giacomino, mentre la Borja chiuse gli occhi, lasciandosi scappare dalle piccole labbra un sospiro di agitazione.

La giovane si posò l'indice sulle labbra per richiamare ancora una volta al silenzio Giacomino e con un'ultima occhiata d'intesa lasciò il parente del marito dietro la spalliera e andò ad aprire.

“César...” disse Lucrecia, lasciando entrare in camera il fratello.

Il giovane non rispose al saluto, ma cominciò a vagare per la camera come una furia, le mani dietro la schiena e il capo chino. Non indossava l'abito talare, ma una blusa abbastanza anonima, priva dei soliti fronzoli con cui si adornava quando doveva partecipare a qualche festa importante, e quindi la sorella pensò che stesse per andare in città, per osterie o peggio, in un posto, comunque, dove portare un qualsiasi gioiello sarebbe solo stato un modo rapido per attirare ladri e aggressori della peggior specie.

“Calmati, César. Fermati...” provò a dirgli, temendo che potesse arrivare a vedere Giacomino nascosto dietro alla scranna.

Cesare soffiò e tentò di calmarsi, mentre Lucrecia gli domandava, accorata: “Qualcosa non va? È per mio marito? È successo qualcosa?”

L'altro agitò una mano in aria e ribatté: “Ho appena litigato con nostro fratello Juan...”

“Dovresti andare d'accordo con lui. Nostro padre lo ama molto, ma lo sai com'è fatto. Ti provoca e basta...” sussurrò Lucrecia, prendendo il viso del fratello tra le mani e dedicandogli un sorriso di una dolcezza così profonda che nessuno avrebbe potuto pensare che lo stesse ingannando.

“Parlando di tuo marito, piuttosto...” riprese Cesare, ma le parole che seguirono furono tutte quante borbottate in spagnolo.

Giacomino, acquattato come un gatto selvatico dietro la scranna di legno scuro, ascoltava tutto quanto, grato al fato della sua conoscenza della lingua dei Borja.

Alla parola 'veneno', l'uomo trattenne a stento un verso di orrore. Quello che aveva detto la figlia del papa era vero. Era tutto vero. I Borja volevano liberarsi dello Sforza e possibilmente guadagnarci qualcosa, facendo passare quella morte come un attentato alla loro stessa famiglia.

Cesare diceva che erano pronti alcuni doni molto costosi, che sarebbero arrivati per Pasqua, pregni di veleno di vario tipo e se il signore di Pesaro ne avesse preso in mano anche solo uno, sarebbe morto sul colpo, tra atroci dolori. A quel punto, lui e il papa avrebbero cominciato a fingere un'indagine, gettando ombre sulle famiglie di Roma che volevano indebolire e poi, trovato l'indiziato più fragile, lo avrebbero dichiarato colpevole, sequestrandogli ogni cosa e gettando la sua progenie nella disgrazia, in modo da potersi appropriare di eventuali titoli e vantaggi.

Lucrecia interloquiva solo di rado e proprio dopo una delle sue frasi più incomprensibili – perché detta con un tono tanto basso da non poter essere sentito da Giacomino – il discorso parve interrompersi con qualche ultimo motto da parte di Cesare, la cui voce andava spegnendosi come quella della sorella.

Dei suoni strani, a quel punto, che il parente dello Sforza non sapeva bene come interpretare, posero fine in modo definitivo alla conversazione.

Giacomino non voleva farsi scoprire, ma ormai era così concentrato su tutto quello che aveva scoperto e che avrebbe riferito a Giovanni Sforza, che anche quel dettaglio, si disse, poteva essergli utile.

Tuttavia, quando si azzardò a spostarsi di un filo per buttare un occhio sui fratelli Borja, tutto ciò che riuscì a vedere fu Lucrecia che allontanava con un braccio Cesare, per poi sussurrare, di nuovo in italiano: “Non adesso. Mio marito potrebbe essere qui tra poco...”

Il fratello sospirò pesantemente e poi concluse: “Come preferisci. Tu tieni a mente quel che devi e non aprire nessun pacco che arriverà al vostro palazzo. Per nessun motivo.”

Lucrecia annuì e poi lo scortò alla porta, salutandolo con qualche parola sussurrata e un bacio lanciato con la mano.

Dopo qualche momento, una volta certa che Cesare se ne fosse andato, la giovane corse con i suoi passetti leggeri fin dietro la scranna e prese Giacomino per le braccia, rimettendolo in piedi: “Avete sentito? Correte dal vostro padrone e riferitegli tutto quanto!”

“Perché non glielo dite voi stessa?” chiese l'uomo, ancora molto stordito, mentre seguiva docilmente la donna che lo stava portando all'uscita.

“Perché non posso. Non posso e basta. Voi non sapete che rischio. Non sapete che ho rischiato anche solo a farvi stare qui adesso. Voi dovrete dire che avete sentito tutto per caso. Non dite per nessun motivo che sono stata io.” lo implorò Lucrecia e i suoi occhi penetranti lo fissarono con una tale intensità che Giacomino non poté far altro che dare la sua parola e assicurare che avrebbe fatto come diceva lei.

 

Caterina ci aveva ragionato su un po' e alla fine aveva deciso di chiamare a sé i sue due figli più piccoli insieme.

Aveva trovato in fretta sia Bernardino sia Sforzino – il primo nelle cucine a rubacchiare del cibo e il secondo con gli artiglieri a spostare avanti e indietro delle pesanti munizioni – e li aveva portati con sé nello studiolo del castellano.

I due bambini, sei anni compiuti in novembre uno e nove anni e mezzo l'altro, l'avevano seguita senza fare domande, lievemente intimoriti da quella stanza un po' angusta e pregna dell'odore pungente dai registri e dell'inchiostro.

La madre li fece sedere e poi, incerta su come parlare loro, decise di esprimersi nel modo più chiaro possibile, sperando che malgrado la loro giovane età, potessero capirla: “Cosa ne pensate di messer Medici?” cominciò a dire.

I due bambini si guardarono un momento, poi Sforzino, con le guance tonde che prendevano un po' di colore, parlò a nome di entrambi: “Con noi è sempre molto gentile.”

“Vi fa piacere che viva qui alla rocca assieme a noi?” proseguì la donna, scrutando soprattutto il volto di Bernardino che, per quanto più piccolo, pareva già aver capito qualcosa.

“Sì...” ammise Sforzino, la cui pancina tonda tendeva un po' il farsetto che indossava: “Ci ha anche fatto dei bei regali per Natale...”

“Anche tu, Bernardino, sei contento che messer Medici viva qui?” indagò la Tigre, accucciandosi per stare alla stessa altezza degli occhi del figlio più piccolo.

L'espressione interrogativa del figlio le ricordava sempre troppo quella che Giacomo aveva quando si sentiva in difficoltà per qualcosa. Il confronto era così spietato che per poco non fu tentata di congedarlo, per non averlo più davanti agli occhi. Era straziante come quel bambino sapesse riportarla indietro in un momento, vanificando quasi ogni sforzo fatto per rimettere insieme i pezzi dopo la morte del suo amato Giacomo.

“Dicono che voi...” cominciò Bernardino, ma poi la voce gli morì in gola e non aggiunse altro.

Caterina capì subito che probabilmente il bambino aveva sentito dei commenti poco lusinghieri negli alloggi dei soldati.

Non trovando altro che potesse correrle in aiuto, finì per buttare la notizia in pasto ai figli, augurandosi di non suonare troppo brutale: “Io e messer Medici ci sposeremo presto. Vorrei sapere cosa ne pensate.” soggiunse, come per mostrare un minimo di apertura.

Sforzino strinse gli occhi, ma dopo pochi istanti il suo sguardo si rasserenò e disse: “A me sta bene, madre. Messer Medici è un uomo buono.”

Bernardino, invece, era molto più agitato. La Sforza avrebbe voluto chiedergli che cosa lo metteva così in ansia, ma non ne ebbe ragione, dato che il piccolo parlò da solo, senza bisogno di imbeccate.

“Quindi avrete una nuova famiglia? Avrete degli altri figli? A noi non vorrete più bene?” chiese il bambino, trattenendo a stento le lacrime.

“Ma cosa dici...” soffiò Caterina, mettendosi in ginocchio e stringendo a sé il piccolo.

Sforzino osservava la madre che si lanciava in quella dimostrazione di affetto verso il fratellastro e cercò di ripensare a quando mai lui avesse ricevuto un trattamento analogo, senza riuscire a ricordarlo.

“Se ci vorrete ancora bene anche se avrete un nuovo marito...” farfugliò Bernardino, ancora avvolto dalle braccia della madre, che se lo teneva tanto stretto a sé soprattutto per non doverlo guardare in viso: “Allora sta bene a anche a me...”

 

“E pagherà bene?” chiese Bartolomea Orsini, tossendo poi con tanta forza da farsi lacrimare gli occhi e ardere la gola.

Bartolomeo, che era tornato da pochi giorni da Roma, dove aveva trattato i termini della pace con un portavoce del papa assieme a Giorgio di Santacroce, le diede un colpetto sulla schiena, per aiutarla a respirare meglio e poi annuì: “Piero Medici ha ancora molte risorse e vuole tornare alla Signoria. Pagherà più che bene.”

La donna fece un sospiro spezzato e dovette attendere qualche momento, prima di tornare a parlare, per evitare di tossire di nuovo.

Era imbacuccata in una serie di scialli e mantelli, seduta in poltrona davanti al fuoco, eppure il freddo non voleva lasciarla. Si rendeva conto che gli altri non lo stavano patendo quanto lei, men che meno suo marito, che girava per la stanza in camicia, senza alcun problema. Quella consapevolezza le rendeva ogni ora sempre più penosa. Si sentiva vecchia e sconfitta, come un ramo secco che attende un colpo di vento che lo stacchi dall'albero una volta per tutte.

Quando si soffermava a pensare alla sua condizione, non poteva fare altro che rammaricarsi per la fragilità del suo corpo. Fino a qualche anno prima, si sarebbe ripresa in pochi giorni, mentre ormai il suo fisico era recalcitrante a ogni forma di guarigione. Il costato non aveva mai smesso di farle male e c'erano notti in cui prendere fiato diventata un'impresa quasi impossibile.

Bartolomeo sembrava intenzionato a fare tutto quel che era in suo potere, pur di restarle accanto fino alla fine, ma la donna voleva che il marito sfruttasse quel momento di debolezza del papa per farsi notare.

Il matrimonio che avrebbe contratto con la Baglioni, una volta che lei fosse morta, l'avrebbe portato lontano da Bracciano ed era giusto così. Tuttavia, secondo lei, era cruciale far sì che lui sfruttasse quei giorni per rafforzare la sua fama e riempire i suoi forzieri, oltre che recuperare i beni degli Orsini, per quanto possibile.

“Stai attento – disse Bartolomea, appoggiando una mano sul braccio dell'uomo che stava proteso verso di lei – che se il Medici ti dirà che ti pagherà dopo...”

Ogni parola costava molta fatica all'Orsini, perciò il marito l'anticipò: “Lo so, non è detto che riesca a riprendersi Firenze. Devo farmi pagare subito e con quei soldi saldare il riscatto imposto dal papa per le tue terre.”

Bartolomea annuì: “Arriva a Siena come mercenario. Aiutali contro i fuoriusciti. Non sarà nulla di difficile. E poi, quando le rivolte saranno sedate, parti con Piero Medici e scortalo a Firenze. Ma una volta arrivato a Firenze, attacca solo se sarai sicuro di vincere.”

“Tanto ormai mi avranno già pagato...” parafrasò l'uomo, grattandosi il mento asimmetrico.

“Sì.” confermò Bartolomea, i cui occhi acquosi per la febbre che non la lasciava mai stavano vagando dal volto del marito alla mano di lui che le accarezzava con lentezza il braccio: “E poi accetta tutte le condotte che possono portarti soldi e un nome. Nulla di troppo impegnativo, sia chiaro, né di pericoloso, ma quando sposerai Pantasilea, tu dovrai essere un uomo ricco e di fama.”

A quelle parole il condottiero si schiarì la voce e fece per dire qualcosa, ma la moglie lo fermò subito, alzando a fatica una mano: “Tu la sposerai. Abbiamo già discusso di questa cosa. Non intendo discuterne mai più.”

Bartolomeo d'Alviano strinse le labbra sottili e non disse nulla, sapendo che ormai la sua promessa era stata fatta e che non avrebbe mai trovato il coraggio di tirarsi indietro, dando un dispiacere alla donna che aveva amato più di ogni altra cosa al mondo. Lei lo voleva sapere al sicuro e allora lui l'avrebbe accontentata.

“Adesso riposati un po', smettila di correre dietro a me...” bofonchiò Bartolomea, appoggiando con cautela la testa allo schienale della poltrona e mettendosi a fissare il soffitto: “Sono vecchia e malata. Tu sei ancora giovane. E hai ancora delle guerre da combattere e vincere. Non puoi fare il servo di un'inferma...”

Bartolomeo era pronto a contraddirla, ma non voleva agitarla. Ogni volta che ci aveva provato, sua moglie era diventata quasi aggressiva e la sua irritazione si era invariabilmente tramutata in un aggravamento della sua strana malattia.

Perciò, con un bacio sulla fronte, l'uomo si congedò, promettendo che avrebbe riposato qualche ora.

“Predisponi per la tua partenza.” aggiunse Bartolomea, quando ormai il marito era vicino alla porta: “Fai in modo di essere a Siena entro un paio di giorni.”

 

Galeazzo era stato facile da trovare. Nonostante il freddo, era nel cortile che si addestrava assieme al maestro d'armi.

Nella luce calante del pomeriggio, Caterina era rimasta qualche minuto a guardarlo, aspettando il momento buono per interrompere i suoi esercizi e chiamarlo a sé per parlargli.

Il ragazzino, di quasi undici anni e mezzo, dimostrava una grande prontezza di riflessi, ma il suo modo di sferrare gli assalti, secondo la madre, era ancora troppo impreciso e frettoloso. Forse non avrebbe mai avuto uno stile perfetto, però si scagliava sul maestro con una certa ferocia e pareva non avesse alcuna paura di farsi del male, il che, per un guerriero e per il signore di uno Stato, era un grande vantaggio.

Approfittando di un momento di stallo, durante il quale Galeazzo e il suo addestratore stavano prendendo fiato, la Contessa si avvicinò, lasciando il palo per cavalli a cui s'era appoggiata e disse al figlio di levarsi le protezioni e lasciare la spada al maestro d'armi.

Ligio come un vero soldato, l'erede designato della Tigre fece quel che gli era stato detto di fare e poi le si avvicinò.

La nebbia fitta che si alzava dalla neve gelata che stava ovunque, sia nei campi attorno alla rocca, sia nel cortile stesso, rendeva l'aria nebulosa e fredda.

La Sforza fu tentata di entrare, ma poi pensò che quel silenzio ovattato andasse bene per discutere e, nell'indifferenza generale tanto del maestro, quanto di un paio di servi che lo stavano aiutando a riportare delle cose nella sala delle armi, si rivolse a Galeazzo: “Stai facendo ottimi progressi. E secondo i tuoi precettori sei molto bravo anche con la matematica e il latino.”

Il ragazzino chinò il capo in segno di ringraziamento e allacciò le mani dietro la schiena. Aveva il volto arrossato per gli sforzi appena sostenuti e i suoi capelli erano incollati alla fronte da un velo di sudore e dall'umidità della nebbia.

Tra tutti i figli maschi avuti dal suo primo marito, secondo Caterina lui era quello che assomigliava di meno a Girolamo, in tutti i sensi.

“Volevo farti sapere che presto sposerò messer Medici.” disse la donna, convinta che almeno con quel figlio non ci fosse bisogno di molti giri di parole.

Galeazzo si mosse appena sul posto e poi raddrizzò la schiena e la guardò come chiedendo il permesso di parlare.

Quando la Leonessa glielo concesse, il figlio disse solo: “Sono felice per voi.”

“Sei sicuro?” chiese Caterina, a voce bassa, scrutando nella nebbia per vedere se vi fosse qualcuno in ascolto.

“Sì, madre. Messer Medici mi piace. Sono contento che resti qui.” confermò Galeazzo, mentre il suo atteggiamento da soldatino un po' si sfumava in quello di un bambino della sua età: “Mi ha raccontato della sua città e poi mi fa divertire, quando parla in quel modo buffo...” sorrise, ritornando poi quasi subito serio.

“Sai che presto potrebbe esserci una guerra?” fece la Sforza, posando una mano sulla spalla del figlio.

Egli annuì: “I miei precettori mi hanno spiegato che Venezia e Firenze vogliono contendersi alcuni mercati e che quindi le nostre terre interessano a tutti e due.”

Caterina annuì, felice nel vedere come Galeazzo sembrasse ben informato e di certo più interessato a quel genere di cose di altri: “Proprio così – confermò – e quindi noi dobbiamo essere pronti. I veneziani non scherzano, quando fanno la guerra.”

“Nemmeno noi scherziamo, quando facciamo la guerra.” ribatté il ragazzino, gonfiando di nuovo il petto e assumendo una postura marziale così teatrale che fece sorridere la madre.

“Continua ad allenarti e a studiare. Un giorno sarai un buon signore per queste terre.” gli sussurrò Caterina, allargando le braccia e stringendolo a sé per qualche secondo: “Tu porti il nome di mio padre e sarai il mio erede. Rendimi sempre fiera di te.”

Galeazzo ricambiò un po' impacciato l'abbraccio e poi, quando la madre si staccò da lui, fece un profondo inchino e assicurò: “Non deluderò né voi, né messer Medici.”

La Tigre lo lasciò libero con un cenno del capo e poi lo guardò mentre correva nella nebbia verso la sala delle armi. Lo sentì mentre diceva al maestro che voleva andare avanti con l'addestramento e poi lo sentì esultare quando l'uomo gli concesse un'altra ora di esercizio.

Tornando nelle viscere della rocca, la Sforza si sentì molto rassicurata, ma subito dopo, quando pensò che le restavano i tre più grandi con cui parlare, l'agitazione tornò a chiuderle lo stomaco e si trovò a sperare con tutta se stessa che la sera arrivasse in fretta.

 

Sancha d'Aragona spostava gli occhi dall'aggressiva e prorompente bellezza da una dama di compagnia all'altra, lasciando che la musica molle e opulenta dei suonatori pagati dal papa le riempisse le orecchie come una marcia trionfale.

Aver fatto litigare due dei figli di Alessandro VI per causa sua era una gioia insperata. La sua vendetta per il modo in cui Sua Santità l'aveva sempre trattata finalmente cominciava a compiersi.

“Ma è così, vi dico!” esclamò Sancha, mentre le altre giovani – gran parte delle quali ancora così inesperte del mondo da aver avuto bisogno di spiegazioni molto chiare per capire a fondo quel che l'Aragona stava dicendo – pendevano dalle sue labbra: “E potrei anche dirvi chi di loro se la cava meglio!”

Diede in una risata argentina che molte delle altre imitarono, e poi si rimise composta sul divanetto e fece loro segno di avvicinarsi di più.

Come un capannello di cospiratrici, le donne si sporsero, puntellandosi sui bordi di poltrone e ottomane e tesero l'orecchio: “Io adesso – sussurrò Sancha, con un sorriso malizioso – sono tre volte nuora di un papa che mi voleva nuora solo per metà!”

Qualcuna rise, qualcun'altra si fece spiegare in sussurri veloci dalle vicine che cosa la moglie di Jofré Borja intendesse, e un paio annuirono con serietà, come se avessero colto nelle parole dell'Aragona qualcosa di estremamente profondo.

“E vi dirò anche – riprese l'Aragona, sempre con la voce bassa, da complotto – che il ragazzino, quando vuole, sa essere un uomo, invece il guerriero si stanca molto in fretta, quando combatte, mentre quello che si veste da prete, sotto tutte quelle gonne è tutt'altro che un santo!”

Altre risate riempirono il salottino, qualcuna delle donne batté i piedi in terra, in segno di divertita eccitazione, un paio di dame dovettero sostenersi a vicenda e asciugarsi le lacrime che scendevano sulle loro guance per il troppo ridere e un'altra espresse parole di invidia per Sancha, che conosceva così a fondo gli uomini e quel che ci si doveva attendere dalla loro compagnia.

“Oh, eravate qui...” fece Lucrecia, apparendo sulla soglia, proprio mentre il gruppo di dame di compagnia stava ancora reagendo scompostamente alle ultime parole di Sancha.

“Stavamo aspettando voi, cara cognata...” disse proprio l'Aragona, picchiettando il palmo della mano sul cuscino accanto al suo.

Tre volte cognata...” bisbigliò una dama a un'altra che le stava accanto e tutte e due sghignazzarono, coprendosi la bocca con una mano.

“Che c'è da ridere così?” chiese la Borja, sorridendo suo malgrado, ma intuendo che probabilmente le facezie che il suo seguito trovava così divertenti dovevano coinvolgere lei, o i suoi fratelli, o suo padre.

“Nulla di importante, cara cognata...” minimizzò Sancha, facendole un po' di posto sul divano, mentre si sedeva: “Sparlavamo di quello strano Cardinale, Sansoni Riario, l'avete presente? Quello che sta sempre insieme a quel pittore... Come si chiama? Michelangelo o qualcosa del genere...”

A Lucrecia non sfuggirono alcuni sguardi che corsero tra le dame di compagnia e che le fecero capire che l'Aragona stava inventando qualcosa di sana pianta giusto per sviare il discorso.

Preferì non metterla in difficoltà, per evitarle l'incomodo di inventarsi qualche cattiveria su quell'allampanato Cardinale che continuava a sperperare denaro in statue e dipinti e disse: “Oh, non tediatemi con discorsi sui Cardinali... Giochiamo a carte, piuttosto.”

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas