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Autore: Nanas    23/10/2017    3 recensioni
“[…] Perché Gotham è, prima di tutto, i suoi cittadini.
Cittadini che continuano a portarla sull’orlo del baratro solo per tirarla all’ultimo nuovamente via, desiderosi di combattere per l’anima di quella città che si ritrova ad essere ancora una volta appagata del caos che la compone, soddisfatta della consapevolezza che il vivere le sue ombre comporta.
Poiché tutti sono parte della sua esistenza, tutti sono sangue che scorre caldo nelle sue vene e che rende possibile la sopravvivenza al freddo della notte:
Tutti sono criminali, a loro modo. E finché vivono, così vive la città.
E poiché la città vive, così vive Batman.”
_________________________________
Hint: [KuroKen] [BokuAka] [DaiSuga] [IwaOi]
[Batman AU] [WARNING: Slow Build Fanfiction!]
Genere: Azione, Dark, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Daichi Sawamura, Hajime Iwaizumi, Morisuke Yaku, Tetsurou Kuroo
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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10. Sotto la fragile crosta della civiltà si agita il freddo caos.
(E in certi posti il ghiaccio è pericolosamente sottile.)



V for Vendetta





GOTHAM CITY Sawamura Enterprises (Old Gotham)

22/12/1976 – Mattina


Il giorno dopo lo scontro con Joker, Poison e Due Facce, la notizia della rapina allo Jezebel Center era già su tutti i giornali; veri e finti testimoni si accalcavano agli incroci delle vie principali, fingendo di bisbigliare i loro falsi segreti ai passanti e tentando al contempo di farsi sentire da quanta più gente possibile, mentre tra le strade trafficate bambini in abiti malconci e rattoppati sventolavano giornali con la prima pagina recante una frase corta ma d’effetto, sufficiente cioè a permettere che decine di monete finissero nelle loro piccole tasche bucate.

Nessun luogo è più sicuro!

Lo spettegolare sulla faccenda aveva animato gli animi più chiacchieroni della città, ma persino tra i reticenti a quel cicalio sommesso le insinuazioni e le dichiarazioni riguardo quella notte sembravano pizzicare la corda della curiosità. C’era persino chi affermava di aver visto Batman arrivare insieme alla polizia, cosa su cui chiunque si sarebbe sentito di dubitare in altri momenti – soprattutto a causa del rapporto men che meno duale che il Cavaliere Oscuro pareva avere con la legalità – mentre altri giuravano di averlo visto lottare sulle scale antincendio di uno dei palazzi fiancheggianti il centro commerciale, magari perfino passando accanto l’appartamento del figlio di questo o quel vicino che nessuno ovviamente conosceva ma che indiscutibilmente doveva esistere.

Tra realtà e finzione tutto aveva quindi preso un contorno labile e sfumato quella mattina del ventidue dicembre, ed alla fine delle controversie riguardo le testimonianze a volte discordanti solo dubbi e domande rimanevano ai cittadini, che venivano così posti davanti ad un gioco di sfide e di obblighi alla verità che li portavano a comprare i quotidiani con la stessa passione che un senzatetto avrebbe avuto nell’addentare un pasto caldo durante una lunga notte invernale.




Una copia del The Gotham Times arriva tra le mani di Daichi quando questo ne compra una dal piccolo venditore davanti l’entrata della Sawamura Enterprises, e mentre il bimbo è ancora intento a gridare dello scandalo del giorno al resto dei passanti la transizione si completa con qualche moneta in più da parte dell’adulto, le dita della mancina libera che vanno a frizionare morbidamente il cappellino di lana che il bimbo porta mentre un sorriso paterno si delinea sulle labbra al vederlo schiudere le sue tutto emozionato, mostrando orgoglioso il balconcino che la caduta dei denti da latte gli ha lasciato.

Daichi legge velocemente le prime righe della notizia principale, superando nel frattempo la grande porta a vetri che lo accompagna verso l’interno dell’edificio, ma non riesce a raggiungere la metà pagina che viene raggiunto da un uomo e da una donna, entrambi vestiti elegantemente ed entrambi veloci sul marmo chiaro e venato della Hall.

«Signor Sawamura, i suoi impegni per la giornata».

«Signore, le donazioni della campagna per gli orfani di Gotham».

Daichi annuisce con espressione seria, fermandosi a controllare le carte che i due dipendenti tengono fra le mani mentre posa sul bancone d’ingresso il giornale, prendendo la penna offertagli nel frattempo per firmare una serie di documenti recanti il simbolo della sua azienda.

«Grazie Tanaka. Come procedono, piuttosto?»

«Senta qui: sembra stiano crescendo velocemente, e con velocemente intendo molto velocemente. Si figuri che anche quest’anno contiamo di sostituire un nuovo record al precedente. Ormai potrebbe considerarsi un’abitudine, ah!»

«Bene, porti le nuove analisi al signor Ennoshita allora. Magari potreste iniziare a vedere quali acquisti per gli orfanotrofi della città sia possibile fare con le donazioni attuali. Signorina Michimiya–»

La ragazza dai capelli mori e dal taglio corto e curato si volta a guardalo, i grandi occhi castani che rimangono appena un secondo a rimirare quelli di Daichi prima che un leggero rossore si impadronisca delle sue guance perlacee, un sorriso reso insicuro dall’imbarazzo che trema dolcemente sulle labbra colorate.

«Sì, signor Sawamura?»

«Dia pure a me la tabella degli impegni e vada a prendersi qualcosa di caldo. Ho saputo che suo fratello amministrava uno dei negozi presi d’assalto ieri dai criminali: me ne dispiaccio enormemente».

Daichi sorride teneramente nel vederla allargare le palpebre, probabilmente sorpresa lui si ricordi di quando – mesi fa – si è lasciata sfuggire l’enorme novità che ha portato il fratello a tornare ad amministrare un locale dopo tanti anni di disoccupazione. Si premura intanto di sfilarle delicatamente i documenti dalle mani affusolate, gli occhi che slittano sugli impegni della mattina prima di tornare a specchiarsi in quelli dell’altra.

«Oh– Grazie mille signor Sawamura, io– vorrei solo fare una chiamata, sa, per assicurarmi che mio fratello stia bene… Stamattina è stato convocato dalla polizia a testimoniare, e non l’ho sentito da quando è entrato in dipartimento quindi..!»

«Signorina Yui non si preoccupi, davvero. Faccia con calma».

La vede fare un inchino appena accennato in segno di rispetto, e abbassa la testa anche lui prima di vederla allontanarsi velocemente, la gonna stretta che si tira sulle ginocchia mentre i tacchi picchiettano sulla superficie lucida del pavimento elegante.

In ogni caso, dalle carte risulta non abbia impegni fino a metà mattinata.

Daichi sospira mentre entra nell’ascensore dell’azienda, e attende in silenzio mentre questo sale sino al piano ove è situato il suo ufficio, superando poi la porta di noce scuro e seguendo il tappeto rosso su cui è ricamato lo stemma della sua famiglia. Si sistema con la mano libera il nodo della cravatta che indossa, andando nel frattempo a circumnavigare la grande scrivania in massello fino a portarsi accanto alla poltrona ottomana in ecopelle, ed una mano va a posarsi sullo schienale alto e maestoso per farla strusciare contro la moquette, così da allontanarla dallo scrittoio.


Sono passati anni, ma non ha fatto cambiare nulla di quel luogo.

Da quando i genitori sono venuti a mancare, ormai decenni prima, Daichi ha fatto in modo che tutto quello che una volta era stato lo studio del padre rimanesse immutato. Come risultato di questa fedeltà totale, ancora nel presente gli sembrava di sentire, negli angoli più stretti ed illibati dell’ufficio, il flebile odore dei sigari che questi era solito fumare mentre indaffarato a lavorare sulle carte poste sul suo elegante sottomano in pelle, i bordi rinforzati in metallo dorato e leggermente rigati dall’usura; ai tempi lo studio del padre gli era sembrato un ambiente in stile antico e tradizionale, circondato da mobili pregiati e confortevoli realizzati con la bellezza unica di materiali naturali e ricercati, e Daichi aveva fatto in modo rimanesse tale. Ai lati della porta alta e dai pannelli regolari i due fantasmi dei genitori rimirano con i loro occhi impressi ad olio la stanza, i grandi quadri fatti durante la sua infanzia appesi sopra un paio di divani in pelle nera e raffiguranti da una parte le due figure dietro ad un bambino giovane e riservato, dall’altra lo stesso uomo con una mano posata simbolicamente sulla piccola spalla del giovane erede. I due dipinti sono illuminati da piccole lampade in ottone per quadri, mentre una serie di piante da interni – le preferite dalla madre – fioriscono ai lati, decorando gli angoli esposti dell’enorme ufficio liberi dalle colonne in marmo rosso e dalle lunghe librerie in legno scuro ricolme di libri scritti in più lingue. Seguono le ricostruzioni in gesso di famosi mezzi busti romani, un angolo per il bancone degli alcolici per i clienti più importanti – costantemente illuminato di una luce fioca e fredda proveniente dalle piccole luci distribuite più in alto – ed infine, alle sue spalle, una serie di larghe ed alte vetrate che danno sulla trafficata e misteriosa Gotham.



Daichi ha appena abbassato lo sguardo sulle carte che tiene sulla scrivania, posando il documento con gli impegni previsti per la giornata accanto al sottomano, quando sente bussare alla porta. Alza gli occhi appena in tempo per vedere una delle due ante aprirsi, ed un sorriso affiora involontariamente sulle sue labbra quando nota una chioma pallida come la neve fare la sua comparsa, seguita da un viso morbido ed ovale.

«Posso?»

«Prego, signor Sugawara. Sa già di essere sempre il benvenuto qui».

Le parole di Daichi sono calde, fedeli, e sono accompagnate da un gesto di invito mentre il palmo della destra va ad allargarsi appena verso l’esterno, proponendo all’altro di farsi avanti.

«So anche che siamo da soli, Daichi. Non c’è bisogno di essere così professionali anche in queste occasioni, sai?»

E nel mentre lo dice Koushi gli sorride di rimando, gli angoli delle labbra rosate che si sollevano appena mentre le dita affusolate vanno ad accompagnare la porta alle sue spalle, allontanandosi quando un rumore morbido ne rende nota la chiusura.

«Niente segretaria oggi? Non sono stato fermato e non ho subito nessun controllo di sicurezza mentre salivo, sei fortunato io non sia un malvivente!»

Daichi si lascia andare ad una risata al sentire quelle parole mentre si porta davanti la scrivania, la parte inferiore del busto a posarsi contro la lastra di legno.

«È in pausa al momento. Ed in ogni caso non credo nessuno ti fermi più da tempo in generale, Koushi. Persino il portiere mi ha confidato essersi stancato di chiederti il documento di riconoscimento all’entrata, visto il numero di volte che ti ho invitato io stesso a salire».

E stavolta è Sugawara a scoppiare in una leggera risata, scuotendo leggermente la testa mentre la stoffa leggera dei pantaloni produce un rumore soffice ad ogni passo. Sawamura posa i palmi sulla superficie in legno dietro a lui, andando a premervi sopra per qualche secondo prima di allontanarsi e portarsi sulla destra, facendo segno all’altro di seguirlo.

«Da come lo dici pare ti sia pentito di averlo fatto!»

Il giornalista finge di crucciarsi nel dirlo, ma viene tradito dalle iridi che navigano ancora ridenti sulle linee definite del viso di Daichi mentre questo alza un braccio, prendendo dalle mensole alle spalle del bancone una bottiglia in cristallo, togliendo il tappo lavorato e ruotando appena il polso, così da far fluire il forte odore del liquido al suo interno sin dentro le sue narici.

«Ormai ti conosco da troppi anni per poter anche solo ipotizzare tu creda veramente potrei farlo, Koushi. Piuttosto, sono lieto di vedere tu abbia ricevuto il mio messaggio per oggi».

«Asahi è venuto stamattina stessa a recapitarmelo. Devi vedere come si faccia ancora problemi ad entrare in casa mia, seppure lo conosca da praticamente una vita. Continua ad essere di una timidezza disarmante! L’ho dovuto praticamente obbligare a sedersi al tavolo da pranzo per offrirgli un tea, o sarebbe probabilmente rimasto in piedi all’ingresso

Daichi scuote la testa, non rimanendo affatto sorpreso da ciò che il compagno sta raccontando, e nel frattempo che lo ascolta parlare si allunga a prendere due bicchieri da dietro al bancone, versando due dita di quella miscela color paglia in entrambi; posa poi la bottiglia sul ripiano liscio e lucido, ed una mano si alza a mezz’aria, porgendo uno dei due calici a Sugawara.

«Ti prego di non prenderla sul personale, sai che Asahi è fatto così. Ma sono sicuro abbia apprezzato il tuo gesto, nonostante tutto–»

«Lo spero bene! Era anche il mio miglior tea, se posso essere sincero. Continua però a sorprendermi qualcuno possa davvero sentirsi in soggezione davanti alla mia persona. Lo immagineresti mai?»

«In vero, credo di aver visto più persone uscire imbarazzate e sconfitte da conversazioni avute con te che con il Sindaco stesso. E molte di queste erano conosciute essere ben più spigliate di Asahi».

«Sì? Oh beh, magari sono un inconsapevole bravo oratore!»

«Semplicemente, credo nessuno immagini come dietro un viso come il tuo possano nascondersi idee così cocciutamente incontestabili. O che tu possa avere tanta tenacia nel difenderle».

Gli occhi nocciola di Sugawara sembrano legna da ardere mentre si posano su di lui, il bicchiere che viene abbassato verso la vita mentre un sorriso accondiscendente si schiude nuovamente sul viso morbido, con fare eloquente.

«Come il mio, Daichi?»

«Sai cosa intendo».

Una risata.

«Beh– Direi che questo non invalida la mia teoria sull’essere un buon oratore, in ogni caso».

«… Sì, su questo suppongo tu abbia ragione».

E nel dirlo Daichi sorride, abbassando le palpebre e piegando il bicchiere in orizzontale, così da sorseggiare il liquore custodito al suo interno.

«Piuttosto, posso sapere cosa è successo ieri?»

La domanda dell’altro giunge spontanea, e per qualche secondo Daichi rimane in silenzio, l’espressione una maschera di normalità mentre dentro il dubbio l’altro sappia lo porta per una manciata di istanti a cadere vittima del gelo. Ma poi il ricordo della cena, dei balli e degli sfarzi visti solo qualche ora prima a casa del Sindaco tornano in mente, e l’uomo torna a sorridere morbidamente, un’espressione rammaricata sul volto.

«Un’emergenza con Yuu, mi spiace molto non ti abbia salutato prima di abbandonare la festa».

«Yuu? Aspetta– Non ancora il gioco delle boe, voglio sperare».

«Sembra lo trovino veramente irresistibile come passatempo».

«Sembra non amino l’idea di rimanere in vita, più che altro. Noi eravamo molto più tranquilli alla loro età, o sbaglio?!»

Daichi scuote il viso, prendendo il bicchiere ormai vuoto che l’altro gli pone per posarlo sotto il getto di acqua fredda del lavabo, prodigandosi nel frattempo a sciacquare il suo. Le memorie della giovinezza passata assieme al compagno sono come una calda coperta che ancora indossa con estremo piacere nei momenti di solitudine, e le labbra si schiudono leggermente nel ricordo di loro due, ancora giovani al mondo, chiusi ogni fine settimana nella sua grande e solitaria villa poco fuori da Gotham, seduti sui tappeti arabici di uno dei tre larghi saloni mentre intenti a leggere volumi antichi trovati nella libreria della casa.

«Noi eravamo già anziani alla loro età, Koushi».

«Sai, se vuoi che lo prenda come un complimento sarà bene che riformuli la frase».

«Signor Sawamura!»

Le porte dell’ufficio si aprono improvvisamente e lo sguardo di entrambi saetta verso di esse appena in tempo per vedere la segretaria di Daichi, Yui Michimiya, entrare nella stanza a passi veloci, un’espressione terrorizzata a martoriarne il volto piccolo e tondo.

«Signorina Michimiy–»

«Signor Sawamura, deve venire al piano terra, sta succedendo qualcosa fuori dall’edificio!»



°°°°



Urla, gemiti, stridii di macchine che si puntano nel mezzo della strada e allarmi dei negozi che suonano mentre autobus e persone sbandano contro le loro vetrine, mandandole in frantumi su un mare di uomini e donne intenti a strapparsi le carne con le unghie, tirarsi via i capelli o schiacciarsi contro le mura degli edifici più vicini.

Questo è il panorama che si apre davanti agli occhi dei tre adulti non appena l’ascensore dell’azienda apre le sue porte a due battenti, un suono acuto che indica l’arrivo al piano terra mentre il display posto sopra i pulsanti si accende in un piccolo zero, luminoso e rotondo nell’ignoranza della sua incoscienza. I vetri che chiudono l’entrata principale e le larghe finestre offrono riparo a quello che sembra essersi trasformato in un nuovo mondo fuori la Sawamura Enterprises, una isteria di gruppo che i dipendenti ed i clienti dello stabile stanno guardando dall’interno, alcuni terrorizzati sul posto, altri involontariamente ipnotizzati da quello che sembra essere frutto della loro immaginazione, qualche passo incerto che viene fatto verso le porte chiuse della costruzione nel fissare quelli che minuti fa erano cittadini come loro, vicini di casa, colleghi del lavoro.

«No».

Daichi non ha idea di cosa stia accadendo, ma è certo non sia nulla che vada guardato da troppo vicino. Pone una mano sulla spalla di uno degli uomini che si sono avvicinati alla porta d’ingresso, fermandolo mentre la mano dello stesso è a qualche metro dal pulsante necessario all’apertura della spessa vetrata. L’uomo si volta verso di lui, e Sawamura lascia che quegli occhi allargati dallo shock trovino un poco di conforto nella sua espressione ferma, rimanendogli accanto sino a quando questo non abbassa titubante il braccio, lasciandolo ricadere sul fianco.

«Signor Takeda».

Si volta verso il portiere, trovandolo ancora immobile alla sua postazione e visibilmente in stato confusionario, e alza la voce per attirare la sua attenzione, il tono fermo ed improvvisamente autoritario, le sopracciglia aggrottate a formare un’espressione tesa e dominante.

«Signor Takeda».

Ripete, ma il giovane uomo sembra assente, le iridi che si muovono esitanti tra gli individui che riesce a scorgere all’esterno, lo sguardo che scivola su una donna presa a rotolarsi a terra, le mani fra i capelli e la bocca aperta in un grido animale.

«Signor Takeda!»

Il ragazzo sobbalza mentre la voce tonante di Daichi riesce in qualche modo a tirarlo nuovamente in sé, e si volta a guardarlo, tremolante ed insicuro, i grandi occhiali che ne incorniciano gli occhi smarriti e scossi.

«Blocchi immediatamente tutte le uscite del palazzo, e faccia calare le grate a protezione delle vetrate. Nessuno deve avvicinarsi o aprire le finestre di questo o altri piani».


Thump.


Un rumore sordo attira l’attenzione di tutti i presenti nella sala, ed una serie di occhi si voltano a guardare verso l’origine di quel colpo pesante e cupo, l’urlo di un dirigente che spezza il silenzio calato nel frattempo.


Thump.


Una figura accartocciata e dall’aspetto ansante si arrotola contro il vetro fumè a pochi passi dai presenti, indietreggiando giusto per andare a sbattere nuovamente contro di esso, il materiale semi trasparente che vibra in riflesso a quello scontro rimanendo però privo di qualsiasi crepa sospetta; Sawamura si prende un secondo per ringraziare mentalmente l’insistenza del suo architetto nel sostituire, solo qualche mese prima ed a seguito dell’ultima evasione di Black Mask dalla prigione, tutte le vetrate d’epoca del piano terra con vetri balistici: nulla avrebbe presagito in passato sarebbero risultate tanto utili, e certamente non così a breve.

Avrà al massimo trent’anni, pensa intanto, e nel mentre i pensieri si articolano composti all’interno della sua mente il suo sguardo cade sulla carrozzina a pochi passi da lei, al cui interno un bambino sta alzando le piccole mani in aria, cercando di graffiare una morbida giraffa in cotone posta a decorazione sopra il parasole della culla che lo ospita.

«… Signorina Michimiya, porti tutti all’interno del caveau: chiudetevi al suo interno e non aprite per nessun motivo fino al mio ritorno. Vi è un sistema di ventilazione a circuito chiuso quindi non dovreste avere problemi a rimanervi per tutto il tempo necessario».

Dichiara infine, gli occhi che rimangono fissi sulla giovane sconosciuta mentre le labbra della stessa si schiudono in maniera innaturale, iniziando a rilasciare saliva schiumata.


Thump. Thump, thump, thump!


Un botto, un altro ancora, e stavolta sembra che il rumore abbia attirato anche l’attenzione di altri nelle stesse condizioni della ragazza, cittadini e passanti trasformati, da un momento all’altro, in quelli che sembrano essere animali senza raziocinio, la bocca che viene aperta e chiusa ritmicamente nel tentativo di azzannare aria davanti a loro.

«Signor Sawamura, lei cosa»

«Vada!»

Dice soltanto, e si volta a lanciarle uno sguardo ferreo mentre la vede arretrare di qualche passo, l’indecisione e la preoccupazione chiaramente visibili sul suo viso. Alla fine cede, spronando i presenti a seguirla e salire insieme a lei le scale, e Daichi rimane in silenzio a vedere la gente iniziare a raggrupparsi mentre il cerca-persone chiuso nella tasca destra della sua giacca vibra un paio di volte. Non ha bisogno di vedere chi sia: quello è il cerca-persone che usa per accogliere le richieste di aiuto della GCPD, e solo il commissario ne ha il numero.

«Daichi!»

Ormai sono scomparsi quasi tutti oltre quel muro che porta alla seconda rampa di scale; eppure quella voce – appartenente all’unica persona rimasta nella sala insieme al proprietario – è capace di superare qualsiasi rumore proveniente dall’esterno, qualsiasi urlo, qualsiasi verso e qualsiasi allarme che si stia allargando in maniera scoordinata e disomogenea nell’aria di Gotham, alzandosi in coro e spegnendosi solo per poi riprendere, più forte e più disperato, a graffiare quell’incubo a cielo aperto che è diventata in pochi minuti la città.

Daichi! È stato Koushi ad urlarlo, le iridi del compagno due pozzi di espressività che sembrano arpionare Sawamura a sé mentre lo studiano da lontano, da vicino le scale, puntati in una muta richiesta che Daichi non ha davvero bisogno di sentire per intuire.

E tu, dove stai andando?

«Devo controllare che Nishinoya ed Asahi stiano bene».

«Vuoi uscire da qui?! Quanti passi pensi di riuscire a fare prima che quelle– cose ti prendano?!»

Il tono è confuso, accusa e ragionevole dubbio che si mescolano in una scelta di frasi che sembrano lasciare lo stesso Koushi in difficoltà, in bilico tra la necessità egoistica di convincere Daichi a rimanere in quell’edificio e la razionale consapevolezza di come uscire da quel luogo sia rischioso, non necessario, ma soprattutto potenzialmente mortale.

«Non uscirò sulle mie gambe. Nel garage interrato ci sono una serie di macchine di servizio, userò una di quelle. E no, non posso permetterti di fermarmi, né tanto meno di venire con me–»

Risponde anticipandolo, e prima che l’altro possa a sua volta rispondere va a scuotere lentamente il viso, le pupille che tornano a cercare quelle di Sugawara.

«Sarai più al sicuro nel caveau, lo sai».

«Anche tu lo saresti, e anche tu lo sai. Almeno lascia che ti accompagni!»

«Koushi, no. Ho bisogno che tu stia qui, che tranquillizzi la gente, che non lasci che nessuno di loro cada nel panico e faccia sciocchezze. Li hai visti, sai che ne basterebbe uno».

«Daichi–!»

«Se non puoi farlo per te, fallo per loro».

«Ma–!»

«Koushi, fallo per me. Te ne prego».

Il compagno rimane in silenzio, le sopracciglia che si aggrottano mentre la mascella va ad indurirsi, un’espressione testarda e leggermente indignata che fa perno su quei tratti delicati. Daichi sa che sta giocando scorrettamente, e che Sugawara non gli perdonerà facilmente tutto ciò: non solo sta facendo leva sulla sua umanità e sul suo essere fortemente protettivo verso le persone in difficoltà, ma soprattutto – e ancora più imperdonabile, probabilmente – sta facendo leva su qualcosa che ha giurato tempo addietro non avrebbe mai sfruttato.

Sentimenti, sentimenti che Koushi gli ha confidato tempo addietro, e che ora sta usando per obbligare Koushi stesso a non fare qualcosa che sarebbe più che intenzionato a compiere.


Thump.

Thump, thump, thump!


Le iridi di Sugawara, solitamente delle più morbide e tenui sfumature del sottobosco, sembrano tronchi sradicati mentre si avvicina a Sawamura, e ad ogni passo che l’altro compie Daichi sente il buio dei suoi occhi inabissarsi nella sua anima, obbligandolo a rimanere impassibile persino quando Koushi arriva ad un passo da lui, incredibilmente vicino, eternamente lontano.

«Avevi promesso–»

«Lo so».

Lo sa davvero, ma non può fare altro. Lo sa, ma non può permettere che una promessa renda tutto diverso; perché Sugawara non può e non deve seguirlo, e non solo per non venire a conoscenza della sua seconda identità. Non può perché sarebbe in pericolo, e perché l’accusa che ora macchia il suo sguardo non sarà mai grande quanto la disperazione che proverebbe Daichi nel saperlo perduto per un suo sbaglio, per un suo calcolo sbagliato o per un secondo di troppo nel voltare verso una strada ghermita di individui senza più umanità.

«Torna».

Un sussurro duro, detto a mandibola contratta prima che l’altro si volti verso le scale, a guardare il portiere tornato sul pianerottolo a cercarlo. Daichi può vedere l’attesa ed il terrore chiaramente visibili sul volto emaciato che lo guarda da lontano, e rimane in silenzio mentre osserva Koushi lanciargli un’ultima occhiata prima di affrettarsi verso le scale, lasciandolo in quella sala enorme e ormai vuota.


Thump, thump, thump!


Un altro urlo, e Daichi si gira verso il vetro, guardando un uomo ringhiare verso di lui mentre la saliva cola schiumosa dalla bocca. Le pupille sono dilatate, gli occhi si muovono a scatti in ogni direzione portandolo a sbattere contro il vetro, poi contro le colonne e infine contro le grate che proteggono le entrate della struttura e che a quella pressione cigolano pesantemente, opponendo resistenza alla sua azione.

E lo sa: non può perdere un secondo di più.




°°°°



GOTHAM CITY Near GCPD (Old Gotham)

22/12/1976 – Ore 12:00 circa


Il viaggio era stato lungo, oltre che incredibilmente complicato. Non appena era sceso in garage Daichi aveva chiamato villa Sawamura dal telefono di emergenza della cabina del guardiano, ascoltando con tensione sempre crescente quel suono regolare e privo di sicurezze per quella che gli era parsa un’eternità; arrivato al decimo squillo era stato quasi sul punto di chiudere quando finalmente un rumore acuto e breve aveva interrotto quei lunghi istanti di attesa, e subito dopo la voce del ragazzo dall’altra parte della cornetta era arrivata gracchiante alle orecchie di Daichi, permettendogli di riacquistare il suo autocontrollo qualche secondo prima di iniziare a parlare.

Nishinoya non aveva avuto neppure il tempo di iniziare veramente una conversazione: Daichi aveva chiesto, anzi preteso, di sapere in quale punto della villa fossero lui e Asahi, ed era stato solo dopo aver sentito il minore rispondere confuso di essere nella palestra sotto terra che Sawamura si era rilassato, accorgendosi solo in quel momento di aver talmente contratto i muscoli della schiena e delle spalle da aver riaperto alcune ferite procuratosi il giorno prima e nascoste dalla garza e dai vestiti pesanti.

La conversazione era proseguita per breve tempo; Yuu aveva chiesto a Daichi cosa fosse successo, prima di raccontargli lui stesso dell’esperienza avuta mentre al telefono con il suo amico. A quanto pare era già vestito e pronto a uscire di casa quando il compagno di scuola, con lui al telefono e in ritardo come lui per gli allenamenti di calcetto, gli aveva iniziato a dire qualcosa riguardo un odore buonissimo che si stava espandendo nel salotto dopo essere entrato dalla finestra lasciata aperta dalla madre. Poi, a detta di Nishinoya, erano seguiti una serie di tossii, e lentamente le parole si erano trasformate in una serie di rantolii a cui era susseguita la caduta della linea telefonica. Da allora Yuu aveva provato più volte a richiamarlo senza successo, e poco dopo erano iniziate ad arrivare dalla radio delle richieste di SOS e racconti febbricitanti da parte dei conduttori radiofonici rimasti chiusi nei loro studi di registrazione, la strada fuori dal loro edificio ghermita a loro dire da gente fuori di sé e veicoli senza controllo.

Era stato in quel momento che Daichi aveva avuto conferma di come ciò che era successo fosse effettivamente dovuto a quello che temeva: aria tossica.

Era l’aria la fonte, seppure il motivo ed il modo attraverso cui potesse diventare tossica da un momento all’altro erano ancora un mistero: aveva detto quindi a Nishinoya di indossare il costume da Robin, di farsi dare da Asahi la maschera filtrante che aveva tra i gadget nella bat-caverna e di andare verso Gotham, a cercare zone non ancora intossicate così da spingere i cittadini illesi a rifugiarsi in locali completamente climatizzati.


Quando era tornato alla villa per prendere gli occorrenti e diventare ancora una volta Batman, Robin era già uscito ed Asahi aveva seguito le sue indicazioni, tenendo i depuratori d’aria al massimo e le finestre completamente chiuse, rifugiandosi nuovamente nella palestra sotto terra.



°°°°



La Batmobile ruggisce fedele mentre lo stivale di Batman va a premere appena sul freno, rallentandone la velocità sino a farla fermare davanti ai cancelli della GCPD; si sporge lentamente, premendo la mano contro il telaio non appena la portiera si alza a mezz’aria, prima di uscire tacitamente dalla macchina, il silenzio proveniente dalla strada e dai palazzi grigio e disturbante.

La maschera che indossa gli copre il viso intero, permettendogli di camminare sull’asfalto e sotto il cielo aperto senza respirare nulla che non venga prima filtrato dai boccali di metallo che si aprono ai lati: la struttura è in acciaio fine, si allunga da orecchio a orecchio, e copre da metà del setto nasale ad oltre il mento squadrato. Fa qualche passo in avanti, e il panneggio del mantello scivola morbidamente nel seguire le correnti della leggera e pericolosa brezza, la strada deserta che si apre intorno a lui e che lascia il panorama a portiere delle macchine lasciate spalancate, altre ribaltate, mentre vestiti strappati e documenti spaiati vengono sospinti dal vento ai margini del viale.


La GCPD sembra abbandonata.

I cancelli socchiusi non sono presidiati da nessuna guardia, nessun punto di controllo anticipa l’entrata tenuta fino a qualche ora prima sotto sorveglianza da uomini e telecamere ad infrarossi, solitamente controllate dall’interno del dipartimento ed ora con la lente puntata verso il basso, ad esprimere nella loro immobilità l’aspetto decadente proprio del disuso.

Sembra tutto addormentato, in pausa o forse in attesa di qualcosa: Daichi si muove con costanza, gli stivali che creano rumori secchi e prepotenti nel silenzio irreale che dimora nel quartiere deserto, e alza gli occhi verso le torri di guardia un’ultima volta prima di posare il guanto della mancina su una delle grate principali del grande cancello, imprimendo una forza appena sufficiente per aprire uno stretto varco attraverso il quale entrare.

Il cigolio che si crea nel momento stesso in cui l’inferriata viene spostata è inaspettato, e nel tacito mondo che lo circonda risuona come una sirena dolente che stia spirando nei suoi ultimi istanti di vita, piangendo mentre arenata sulla spiaggia, vuota di ogni speranza e in collera con il fato avverso che l’ha voluta esiliare in un ambiente che non le appartiene. Le labbra di Daichi si stringono leggermente, seppure nascoste dalla maschera integrale che lo protegge dall’aria ma non da ciò che lo circonda, ed apre maggiormente il cancello, l’urlo di quel ferro non lubrificato che graffia la quiete di quel luogo in maniera continua e disperata, echeggiando e rimbalzando sulle pareti silenti del dipartimento della GCPD.

All’inizio non vi è reazione a questo pianto disperato e metallico; poi, un lamento lontano sembra rispondere a quella muta richiesta di aiuto. Un secondo, poi a questo se ne aggiunge un altro, un altro ancora, un altro ancora ed ancora mentre dai lati della strada e da sotto le macchine strisciano fuori e zoppicano incerti uomini e donne di ogni età, ringhiando come animali o respirando pesanti raschiando la gola, come nel tentativo di superare il gorgoglio liquido che l’eccessiva salivazione sta creando nella parte superiore delle loro trachee.

Daichi rotola in avanti un secondo prima che un uomo dall’età avanzata gli si avventi addosso, e si alza in tempo per vedere questo cadere rovinosamente a terra, voltandosi a guardarlo con gli occhi aperti in maniera eccessiva ed innaturale, i capillari arrossati e le narici dilatate nel tentativo di acquistare l’ossigeno che i battiti cardiaci accelerati consumano velocemente. Ruota su se stesso, poi, quando un urlo proveniente dalle sue spalle anticipa l’arrivo di un altro di quelle cose, e quando lo sente calargli sulle spalle si abbassa, piegando il busto in avanti e tirandoselo sopra, facendolo cadere rovinosamente a terra dopo averlo obbligato ad una mezza capriola sulla sua schiena.

Il viso appartiene ad un ragazzo, i capelli scuri e pari sulla frangia, le sopracciglia spesse e di un blu spento; gli occhi sono larghi, mori, il taglio della palpebra chiaro e definito. Sono i tratti del viso, prima che l’uniforme blu con lo stemma della GCPD cucito sopra, ciò che permette a Batman di collegare all’immagine della creatura lì davanti quella del ragazzo che solo la sera prima ha visto accanto al commissario allo Jezebel Center. Sotto lo stemma, il nome Tsutomu Goshiki si pone in rilievo sulle cuciture del taschino destro dell’uniforme, ma nonostante la somiglianza fisica non lasci dubbi Daichi trova tuttavia non poche difficoltà ad accostare a quello sguardo, a quei denti che vengono fatti sbattere in avanti nel tentativo di morderlo e a quelle pupille dilatate come se sotto effetto di stupefacenti, quello del ragazzo visto qualche ora prima: l’espressione di un giovane nuovo ad un lavoro di cui pareva essere totalmente infatuato, tutto intento a prendere più informazioni possibili sul come fare un’attenta analisi di una scena del crimine o di un criminale, le sopracciglia aggrottate per la concentrazione e per il desiderio di migliorarsi il prima possibile.

Ma non è il momento di lasciarsi andare a simili ricordi: l’uomo anziano si è nel frattempo rialzato, e a lui non rimane altro che porsi di lato mentre nota due donne avvicinarsi con la stessa espressione rancorosa e disperata dell’altro, una delle due lacrimante mentre si avvicina a passi incerti verso l’uomo pipistrello. Ora può vedere chiaramente gli stemmi cuciti sulle giacche di tutti i presenti, e nel momento stesso in cui si rende conto di aver visto almeno una volta ciascuno di loro sul tetto della GCPD non riesce a non guardarsi attorno un secondo di troppo, alla ricerca di quei capelli castani o dell’altezza caratteristica che gli permettano di distinguere Yaku all’interno di quell’orda di figure dai tratti umanoidi.

Non è lui. Nemmeno lei. Nemmeno lui, o l’altro, o l’uomo in fondo.

Non sembra scorgere nessuno con tali caratteristiche, e questo seppure il numero di quelle persone paia crescere di minuto in minuto. Ed anzi, forse è davvero così: in un momento di silenzio, Daichi si rende effettivamente conto di quanto lo spostare e buttare a terra quegli esseri nel tentativo di allontanarli stia attirando dall’esterno un numero sempre crescente di ex-cittadini, contrariamente a quanto inizialmente programmato.

Non ha un minuto da perdere.

Il Cavaliere Oscuro fa una serie di veloci capriole indietro, uscendo dal cerchio immaginario di esseri umani che lo avevano circondato, prima di portarsi in piedi, superando quelle poche scale che lo avvicinano al portone d’ingresso della GCPD ed andando a sfilare dalla cintura un paio di piccoli oggetti sferici, alzandoli verso l’alto.

Devo trovare Yaku, pensa, prima che quelle bombe grandi quanto delle palline da tennis vengano lanciate verso i piedi degli uomini e delle donne che si stanno avvicinando, aprendosi e rilasciando una cortina densa e chiara di fumo. Uno dopo l’altro, e dopo gli iniziali tossii e gorgoglii, Batman inizia a vedere gli ex agenti del commissario cadere a terra, addormentati per via del potente sonnifero che quel gas ora libero nell’aria contiene, e non aspetta un secondo prima di portare dietro la mano a cercare a tentoni il maniglione dorato dell’enorme porta di legno che segna l’ingresso del dipartimento, spingendo dietro di sé finché non lo sente cedere, a concedergli l’entrata.

Spera sinceramente di essere arrivato in tempo.

Ma c’è solo un modo per scoprirlo.



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… … … Insomma, un po’ in ritardo.
Sono ingiustificabile. Talmente ingiustificabile che niente, non ho nulla da dire.
… Alla prossima. (…)

  
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