Pairing: Ushishira
| TenSemi |IwaOi
Parte: 3/9.
Avvertimenti: Soulmates!AU in
cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno.
| Angst | Malattia | Non odiatemi troppo | Per
le parti in cui saranno coinvolti gli IwaOi è
necessario leggere la prima soulmate, che trovate qui.
Alla
mia parabatai Luna: ci ho messo mesi a finire questa storia, mi
sembrava giusto dedicarla a te e cominciare la pubblicazione nel giorno del tuo
compleanno.
Don’t
let me be gone.
Parte terza.
Ushijima non era mai stato il più bravo a capire i
sottintesi nelle parole delle persone o nelle situazioni in cui si trovava,
spesso anzi gli sfuggivano finché qualcuno - solitamente Tendou
- non gli faceva notare una sfumatura del contesto a cui non aveva affatto
pensato, per quanto ovvia fosse. Eppure in quel momento il ragazzo non aveva
bisogno di Satori per capire che il coach Washijou si sentiva estremamente a disagio mentre andava
avanti e indietro lungo i pochi metri della stanza in cui si trovavano.
L’uomo non aveva ancora detto una parola,
sebbene dopo gli allenamenti gli avesse chiesto di restare perché doveva
parlargli - Ushijima aveva annuito, seguendolo, ed
aveva chiesto a Tendou di passare da Shirabu perché non restasse solo, dal momento che non sapeva
quando si sarebbe liberato. Tuttavia, una volta arrivati davanti nella stanza
alla cui scrivania di solito il coach lavorava, era calato uno strano silenzio.
«Ho visto che i ragazzi si stanno
allenando molto», esordì l’uomo, fermandosi finalmente, ma senza sedersi - Ushijima, sulla sedia opposta, annuì.
«Allenarci è il solo modo che conosciamo
per migliorare. E sebbene per quest’anno le competizioni siano finite, anche
noi dell’ultimo anno abbiamo deciso di continuare fino al diploma, così da
lasciare una squadra ben disciplinata e forte». Era questo che preoccupata il
coach? Sapere in che modo stessero reagendo alla sconfitta con la Karasuno?
L’uomo lo guardò, senza parlare, per
qualche istante - Ushijima lo fissava con rispetto ma
senza alcun timore, attendendo quello che aveva da dire. Continuava a
sfuggirgli la reale ragione per cui lo stesse trattenendo e si chiese se almeno
Washijou la conoscesse.
«Come… come procede la terapia di Shirabu?»
Wakatoshi non lo aveva mai sentito parlare in modo
tanto sottile e insicuro - per qualche istante pensò che potesse sentirsi male
da un momento all’altro. L’uomo abbassò lo sguardo in attesa di una risposta.
«È presto per poter avere qualche nuovo
risultato, signore. I medici faranno le prime analisi del sangue alla fine di
questo ciclo di chemioterapia». Cercò di essere il più dettagliato possibile
restando allo stesso tempo semplice - Ushijima aveva
osservato che era questo il modo in cui parlavano i dottori in ospedale:
specifici ma in modo da non stordire con parole difficili.
«Capisco».
Ci fu ancora silenzio, scandito solamente
dalla lancetta dell’orologio che segnava in modo ritmico lo scorrere dei
secondi.
«Se non c’è alt-».
«Ma Shirabu come
si sente?»
Ushijima non poté trattenere la sorpresa che
quella domanda gli suscitò - aveva creduto che l’interesse del coach fosse del
tutto professionale, che gli stesse implicitamente chiedendo quando sarebbe
potuto tornare a seguire i corsi e soprattutto allenarsi, mentre quella domanda
aveva una sfumatura d’interesse personale che non si aspettava.
«È molto stanco, signore. La chemioterapia
sta avendo diversi effetti collaterali, ma è forte e supererà tutto». Wakatoshi si aggrappava a quella speranza, dirlo ad alta
voce faceva bene.
«E tu… sei sempre accanto a lui?»
«Signore, se per caso è preoccupato per il
mio rendimento, le posso assicurare di essere in grado di prendermi cura del
mio compagno e allo stesso tempo-».
«No, no. Dio, no». La voce del
coach rischiò di incrinarsi «Voglio dire… lo sapevi? Sapevi che Shirabu stava male quando avete disputato il torneo? Quando
io...».
Wakatoshi si rabbuiò. Il ricordo di quell’evento,
del fatto che per giorni Kenjirou gli avesse mentito
dicendo che stava bene e che non c’era nulla di cui preoccuparsi faceva ancora
stranamente male, come una ferita non del tutto rimarginata che ancora tira e
prude. Il ragazzo si trovò a chiedersi perché avesse ancora tutta quella
importanza.
«L’ho saputo poco prima di lei, insieme al
resto della squadra», confessò - non c’era ostilità o vergogna nelle sue
parole, solo un po’ di dolore.
Washijou annuì, sedendosi finalmente alla sua
scrivania. Ushijima non poteva sapere che in qualche
modo il coach si sentiva responsabile per le condizioni di Shirabu.
Non era stato lui a causare il suo cancro, ovvio, eppure in quei giorni s’era
scoperto a pensare al ragazzo più spesso di quanto avesse mai fatto con
qualcuno dei suoi giocatori: avrebbe dovuto insistere di meno con lui,
considerato che stava male già da prima dell’esito delle analisi? Avrebbe dovuto
imporsi perché saltasse qualche partita, facendo entrare più spesso Semi,
magari? Ma solo Shirabu aveva la coordinazione
perfetta con Ushijima, era quello il motivo
principale per cui era in squadra!
«Puoi andare, Ushijima»,
disse dopo un lungo silenzio, ricordando che il ragazzo era ancora lì.
Il capitano della Shiratorizawa
cercò di tornare quanto prima alla sua stoica calma - era qualcosa che gli
succedeva spesso, restare stordito e confuso di fronte alle reazioni emotive di
chi non conosceva bene. Con la squadra ormai era diventato semplice, perché li
conosceva abbastanza da poter prevedere le loro reazioni, ma il coach era
sempre stato un estraneo a ben pensarci…
Controllò il cellulare quasi senza
rendersene conto - un altro riflesso incondizionato che aveva da quando Shirabu non era con lui. Per questo fu preso alla
sprovvista dalle notifiche delle diverse chiamate perse che si erano accumulate
sul display e che gli fecero perdere contatto con la realtà.
Era successo qualcosa. E lui non aveva
sentito nulla?
Erano tutte chiamate dal cellulare di Shirabu e questo riuscì a rassicurarlo: se fosse successo
qualcosa avrebbero provato a chiamarlo anche i genitori di lui o i ragazzi che
erano andati a trovarlo, giusto? Ma Ushijima si
accorse anche che il colloquio con il coach era durato più tempo di quanto
aveva pensato, quindi almeno per Tendou e gli altri
poteva essere già terminato l’orario delle visite…
L’ultima cosa che notò fu un messaggio
vocale sempre proveniente dal cellulare di Shirabu e
per qualche istante fu indeciso su se correre direttamente in ospedale o
ascoltarlo prima. Ma poteva essere qualcosa di importante, quindi decise di
fermarsi.
“Ciao… Umh, io…
non so bene da dove cominciare. Mi dispiace. Mi dispiace per averti detto di
andare via e mi dispiace se in qualche modo la mia situazione ti ha allontanato
o ferito… Io… L’idea che quello che mi sta succedendo abbia effetto anche su di
te mi uccide, Wakatoshi e il fatto che tu sia bloccato qui con
me, con qualcuno che non è più alla tua altezza è un pensiero che non riesco ad
allontanare. Ma allo stesso tempo… mi manchi”.
Ushijima lo sentì prendere un fiato in modo
pesante e gli si strinse il petto. Faceva così male.
“Mi manca la tua presenza rassicurante e
mi manca la tua capacità di starmi accanto senza che mi senta a disagio. Mi
manca tutto di te e non credo sia solo per il legame. Non è mai stato solo il
legame - ho cominciato ad innamorarmi di te la prima volta che ti ho visto,
quando ancora non ti conoscevo e non sapevo che persona fantastica sei. E
paziente e generosa e buona. E non ti merito, non ti ho mai meritato ed ora
ancora di meno, perché sono rotto, sono malato ed usato dalla vita. Solo… non
riesco a farcela senza di te. I ragazzi sono appena andati via, non ho chiesto
loro perché tu non c’eri: è evidente che mi hai dato retta questa volta, che
sei andato via… Goshiki era distrutto, più di quanto
io e te sembriamo distrutti e questa cosa mi ha fatto pensare… non volevo
lasciare qualcosa di non detto tra di noi, quindi te lo sto dicendo. Che sei la
cosa più importante della mia vita e che mi dispiace per quello che ti ho
fatto, che ti sto facendo. Ora la smetto, mi sono reso fin troppo patetico”.
Wakatoshi non si rese conto di aver preso a
piangere in preda ad un dolore che non aveva nulla a che fare con la malattia
di Shirabu o con il legame, un dolore che era solo
suo e dell’amore che provava per Kenjirou a
prescindere da ogni cosa. Come aveva potuto sbagliare ancora a quel modo?
Ci aveva pensato: dopo la telefonata col
padre, era rimasto sveglio tutta la notte a pensare al modo in cui sistemare le
cose con lui ed aveva finalmente capito che la chiave perché tutto tornasse a
com’era prima era parlare senza aver paura di ferire. S’era trattenuto, non
aveva detto come stavano le cose per timore di poter essere inopportuno, di
poter far del male a Kenjirou, ma aveva finito col
fare peggio. Quindi, alla fine, forse anche grazie alle parole di suo padre,
aveva deciso che sarebbe andato da lui ed avrebbe semplicemente detto quello
che pensava riguardo alla malattia, alla loro relazione, al loro futuro. Non
era certo fosse la soluzione, ma poteva essere un inizio.
Poi il coach lo aveva chiamato e allora Ushijima aveva semplicemente chiesto a Tendou
di precederlo così che Shirabu non restasse da solo.
Non avrebbe mai immaginato che la sua momentanea assenza potesse essere
fraintesa a quel modo, che Kenjirou avesse potuto
pensare che non sarebbe tornato.
Ushijima corse alla fermata della metropolitana
come mai aveva fatto prima, neanche per una partita o durante un allenamento
estremo. Corse e quando fu salito in metro l’adrenalina e l’irrequietezza
minacciarono di spezzarlo - avrebbe voluto lanciarsi fuori e continuare a
correre piuttosto che aspettare i tempi di quel treno sotterraneo e tutto il
suo corpo fremeva per il nervosismo.
Fu quasi una liberazione riuscire
nuovamente a correre, una volta tornato in superficie. Correre da Shirabu per dirgli che aveva sbagliato tutto, che non aveva
capito niente, che era stato tutto un grandissimo malinteso e lui era lì per
sistemare le cose. Che non avrebbe mai dovuto allontanarsi.
Quando spalancò la porta della stanza del compagno,
Shirabu era distrattamente coinvolto in una
conversazione con sua madre; l’entrata di Ushijima
spezzò la scena e la gettò in un clima quasi surreale. Kenjirou
non aveva mai visto Ushijima tanto sconvolto: il suo
viso era pallido e gli occhi arrossati recavano ancora traccia di qualche
lacrima, mentre le labbra dovevano essere state torturate dai denti perché
erano gonfie e quasi livide. Shirabu non riusciva ad
immaginare qualcosa di tanto grave da ridurre così Wakatoshi.
«Wakatoshi che
cosa succede?» gli chiese la donna, alzandosi in piedi, spaventata.
Ma il ragazzo non sembrava in grado di
parlare - fissava Shirabu e riprendeva fiato ed era
tutto quello che poteva permettersi di fare.
«Mamma, ci lasceresti un po’ da soli?» Kenjirou aveva capito di cosa si trattava, ma non era certo
di poter affrontare ciò che stava per succedere: una parte di sé s’era convinta
che Ushijima non sarebbe tornato, che magari lo
avrebbe chiamato ed avrebbero parlato al telefono piuttosto che affrontarsi
occhi negli occhi a quel modo. Forse era il momento di lasciarsi davvero e
l’ultima cosa di cui aveva bisogno era la presenza di sua madre.
La donna annuì, comprendendo almeno in
parte la situazione, e lasciò silenziosamente la stanza.
«Tu non sei rotto ed usato dalla vita»,
esordì Ushijima. Shirabu
rise.
«Perché a te che cosa sembro?»
«Mi sembri un ragazzo a cui è successa una
cosa orribile, che sta cercando di reggere una situazione tremenda col massimo
delle sue forze. Mi sembri spaventato, ma deciso ad andare avanti e, paradossalmente,
hai più paura degli effetti che questo cancro avrà sugli altri che su te
stesso. Tu… tu sei speciale, Shirabu Kenjirou, così determinato a dare il massimo, ad arrivare
quanto più in alto possibile e allo stesso tempo così fragile… Sei umano
e ti amo per questo, ti amo perché non sei forte abbastanza da bastarti da solo
anche se lo vorresti, ti amo perché tra tutti hai scelto me, perché ricordo
bene la prima volta che i nostri occhi si sono incontrati e nei tuoi c’era
fierezza ed ammirazione ed ho pensato “voglio che faccia parte della mia vita,
non portatelo lontano da me”».
Kenjirou ascoltava stordito dal significato di
quelle parole. Ascoltava e non riusciva a credere che provenissero da Ushijima, non perché il suo compagno non fosse in
grado di amare a quel modo, ma perché lui non si riteneva degno di ricevere il
suo amore. Era sempre stato così, dopotutto: non importava quanti traguardi
avesse raggiunto e quanto si fosse impegnato, Shirabu
non aveva mai pensato di poter brillare accanto ad Ushijima
perché semplicemente non era abbastanza. Dopotutto, il capitano della Shiratorizawa non diceva sempre che quell’Oikawa Toru sarebbe dovuto
entrare nella loro squadra?
«Arriverà un momento in cui tutto quello
che hai detto non ti basterà più. Magari alla fine del prossimo ciclo di
chemio, o quando starò così male da non riuscire a restare sveglio. Arriverà il
momento in cui ti stancherai di me, delle mie imperfezioni, e allora mi
lascerai. E hai ragione, non sarò abbastanza forte da poter reggere quel
giorno. Per questo ti ho detto di andare via».
«Non sarebbe stato più facile chiedermi di
restare?»
Shirabu ci pensò: non era più facile, perché lui
non sapeva chiedere aiuto. Bastare a se stesso era davvero la cosa che più
desiderava al mondo, forse la sola che gli avrebbe davvero dato la pace.
«Tu non capisci, Wakatoshi!
Io posso farcela! Posso fare tutto, non ho bisogno di aiuto, non ho bisogno che
resti solo perché sono malato!»
«Non ho mai detto che tu-». Ushijima fu disorientato dal cambiamento improvviso di
argomento. Non si trattava di questo…
«So che sei arrabbiato con me per questo.
Hai detto di amare il fatto che sia umano ed abbia bisogno di te, ma ti sbagli.
Tu lo odi e mi odi e posso sentire così chiaramente la tua rabbia che-».
Che mi uccide più di questa malattia.
«Credi che la mia rabbia sia rivolta verso
di te? Dio, Kenjirou, perché dovrei avercela con te?
Sono arrabbiato, hai ragione, ma con questa situazione, col fatto che la
persona che più amo al mondo rischia di lasciarmi per sempre! Ce l’ho con
chiunque abbia deciso di farti del male e sono frustrato perché non posso fare
nulla per cambiare la situazione, per farti stare meglio!».
Ushijima aveva di nuovo gridato: non era abituato
a farlo, ma il dolore gli ruggiva dentro con più aggressività di quanto
pensasse.
«Non sto con te per solo perché abbiamo un
legame», continuò poi con più calma «Non starò mai con te solo perché abbiamo
un legame: quello si può spezzare, ma non esiste un modo o un tempo in cui il
mio amore per te possa finire, Kenjirou».
Wakatoshi glielo avrebbe ripetuto ogni minuto se
fosse stato necessario perché si convincesse di meritare il suo amore, fosse
anche solo per il semplice fatto che lui non poteva fare a meno di offrirglielo
in modo completo ed incondizionato.
«Io sono forte».
Kenjirou aveva preso a piangere e quelle poche
parole erano uscite strozzate tra un singhiozzo e l’altro. Quando aveva preso a
piangere? Ushijima s'era perso quell'istante: poteva
davvero essere successo?
«Io sono forte. Sono forte, Wakatoshi».
Il Capitano gli si avvicinò e provò a
stringerlo a sé, ma le braccia di Shirabu, piantate
contro il suo petto, posero un limite alla loro vicinanza.
«Io sono forte». Era la quarta volta che
lo ripeteva, Ushijima le contava come si contano i
respiri. Perché non capiva, perché non voleva far altro che capire.
Parlami come ti ho parlato io. Non
lasciare nulla indietro. Non possiamo permettercelo...
Col corpo fece una leggera pressione
contro quelle braccia che volevano cedere, lo sapeva.
«Ho bisogno che tu ci creda», singhiozzò Shirabu - come poteva fargli capire che cosa provava? Come
poteva fargli capire che, nonostante tutto, aveva bisogno di sentirsi forte da
solo o sarebbe crollato? «Ho bisogno che tu ci creda perché io non lo so più, Wakatoshi. Non so più se ci credo davvero».
Ma Ushijima
aveva capito, aveva finalmente capito. Non si trattava di poter essere deboli,
ma di dover essere forti. E lui lo amava anche perché era forte.
«Sei forte, Kenjirou.
Sei la persona più forte che io conosca», disse con fermezza, ma Shirabu scosse ancora la testa.
«Mi sento così dannatamente arrabbiato,
come se non potessi provare altro, come se fosse tutto quello che mi resta. E
credevo che saresti andato via, credevo che non saresti più tornato dopo ieri».
«Non andrò mai via. Ricordalo, mai».
Ushijima finalmente lo abbracciò.
«Di
nuovo!»
Semi era nervoso. Lo si poteva capire dal
modo in cui, anche quella mattina, stava continuando a rimproverare i suoi
compagni di squadra del primo e del secondo anno ad ogni passaggio sbagliato,
ad ogni schiacciata che mancava di potenza o veniva respinta dal muro
avversario, ad ogni muro che per contro non riusciva a bloccare un attacco.
Sembrava che in nessun modo lo si potesse accontentare e molto più di Ushijima aveva preso il ruolo del severo allenatore.
I ragazzi del terzo anno erano rimasti ad
allenarsi nonostante il congedo ed il passaggio di consegne che avevano fatto
all’indomani della sconfitta contro la Karasuno. Forse era stato per un senso
di diligenza, per fare in modo che la squadra fosse preparata al meglio per
l’anno successivo; forse era stato perché nessuno di loro sapeva davvero
lasciare il gruppo o la pallavolo o magari perché la malattia di Shirabu aveva portato fin troppi cambiamenti nella loro
vita e non ne volevano aggiungere un altro.
Ad ogni modo, soprattutto Semi aveva preso
negli ultimi giorni ad essere aggressivo e seccato da qualunque cosa i suoi
compagni sbagliassero, quasi non fosse concesso essere imperfetti neanche in
allenamento e le partite di prova erano diventate ridicole: doveva per forza di
cose esserci un vincitore ed un perdente, ma a Semi non andava mai bene
l’errore.
I compagni di squadra il più delle volte
sopportavano: non aveva tutti i torti e le sue contestazioni erano corrette
seppure tremendamente scortesi, mentre Ushijima e Tendou avevano provato a parlargli senza riuscire ad avere
un effettivo dialogo. Eita li aveva liquidati con
poche parole prima di andare via lasciandoli più confusi di prima.
«Da’ un po’ di tregua a tutti, Eita, o non avremo più una squadra da far
partecipare ai tornei nel prossimo anno!», suggerì con ironia Tendou, mentre Semi guardava con furia un gruppo di tre
ragazzi del primo anno che fino a quel momento erano stati praticamente sempre
in panchina.
Il ragazzo sbuffò seccato e si allontanò
dal campo, borbottando che avevano tutti qualche minuto di pausa - Tendou potè chiaramente sentire i
ragazzi sospirare e sperare che il capitano tornasse quanto prima. Seguì Semi
quasi fosse un riflesso incondizionato, naturale come respirare e l’altro non
fece nulla per allontanarlo; dopotutto, alle volte starsi così accanto era il
solo modo che avevano per sentire davvero che cosa succedeva.
Tendou l’aveva capito da subito che c’era
qualcosa che non andava nel loro legame. Lo aveva sentito nascere e lo aveva
sentito ansimare come se non avesse forze sufficienti a bruciare, come se
facesse fumo anziché fiamma. Era stato strano e probabilmente non avrebbe
saputo spiegare fino in fondo la sensazione che aveva provato: come corde che
vibrano tese ed improvvisamente cedono, spezzandosi sotto un peso troppo
grande, i colori s’erano insidiati nella sua vista, avevano tremolato e poi
erano fuggiti lasciando solo ombre di ciò che erano stati. Satori
aveva sentito un brivido scuoterlo tutto, come una scossa di corrente
elettrica: ogni cosa s’era illuminata per qualche istante e poi il contatto era
saltato, quasi avesse fatto corto circuito, lasciando solo un po’ di energia
residua, che forse faceva ancora più male. Leggére sfumature colorate, alle
volte appena distinguibili, erano tutto ciò che era rimasto a mostrargli il
legame.
Semi, invece, era stato perfetto. Semi,
d’altronde, era sempre perfetto e anche con il legame tutto aveva funzionato
come doveva. Vedeva i colori, vedeva Tendou brillare
più di ogni altra cosa e forse non era neanche così sorpreso dal fatto che
fossero stato uniti.
Da allora avevano preso a conoscersi
meglio, a lasciar esposti di sé lati che prima non avrebbero mai concesso
all’altro di vedere ed Eita aveva compreso la
tristezza e la forza sotto l’aria da buffone di Satori,
mentre questi aveva scoperto la dolcezza da cui nasceva la serietà di Semi. Tendou però aveva avuto paura di parlargli del legame, del
modo particolare in cui aveva preso a vedere i colori; ricordava i pochi
istanti in cui tutto era stato perfetto e Semi aveva brillato, bellissimo come
un angelo, prima che tutto si sistemasse nella penombra di sfumature appena
abbozzate e ne aveva paura. Non aveva avuto voglia di scoprire che cosa
significasse e parlarne con Semi avrebbe reso tutto estremamente serio.
Aveva invece finto che le cose andassero
come dovevano e s’era innamorato di lui con la sola forza dei suoi sentimenti:
il legame appena accennato aveva fatto ben poco eppure Tendou
poteva dire di non essersi mai innamorato in quel modo, così all’improvviso e
così in profondità, così completamente da non poter più farne a meno.
Semi era in breve tempo diventato essenziale, indispensabile.
«Cosa
vuol dire che la metro ha avuto problemi?»
«Nulla di grave, Satori davvero. Il
macchinista ha avuto un malore e noi ci siamo presi un grosso spavento, ma il
treno si è fermato in tempo e non è successo nulla!»
Tendou, però, non si era allarmato per questo -
o meglio, era ovviamente allarmato per quello che era successo, ma soprattutto
perché non aveva sentito nulla: il legame non aveva mandato segnali e non gli
aveva trasmesso la paura che, sicuramente, Semi aveva provato in maniera
maggiore rispetto a quanto stava raccontando. Forse, a ben pensarci, aveva
provato un lieve fastidio al petto, quasi un prurito, ma non più di quello. Niente
più del fastidio che si proverebbe per la puntura di un insetto.
Semi per lui era la puntura di un insetto.
Tendou aveva ansimato, ancora a telefono. S’era
sentito morire e ovviamente Eita aveva percepito che
qualcosa non andava. Lo aveva chiamato, aveva gridato attraverso il cellulare,
aveva aspettato che gli rispondesse ma dall’altro lato della chiamata c’era
stato solo silenzio. Poi erano arrivati i singhiozzi - singhiozzi orribili, che
Eita aveva odiato con tutto se stesso, perché aveva
creduto di esserne la causa.
«Non fare così, Satori,
ti prego. Non è successo niente, sto bene, sto arrivando a piedi», aveva cercato di rassicurarlo, ma non
aveva compreso che Tendou piangeva per se stesso e a
causa della sua mancanza. Piangeva perché Eita
sarebbe stato per sempre legato a qualcuno che non lo sentiva, che riusciva a
malapena a percepire la sua presenza, qualcuno che faticava a distinguere le
sfumature di colori perché davanti ai suoi occhi era tutto una dannata
sfumatura e che aveva paura di svegliarsi un giorno e scoprire che anche quelle
erano sparite. Perché se Tendou fosse stato qualcun
altro, una persona seria, qualcuno che teneva davvero ad Eita,
lo avrebbe lasciato andare nella speranza che il legame si formasse in modo
completo con una persona che lo meritasse davvero. Ma la verità era che Tendou non riusciva a lasciarlo andare, non sapeva come fare.
Quando Semi era arrivato all’Accademia,
aveva fatto fatica a trovarlo: al cellulare non aveva sentito altro che
singhiozzi e dopo poco la chiamata s’era interrotta, quindi non aveva potuto
far altro che aggrapparsi al suo legame per capire dove si trovasse. Sentiva il
dolore dell’altro, intenso e disarmante, e non riusciva a spiegarsene la
ragione - stava bene, non era davvero stato nulla, perché Tendou
l’aveva presa a quel modo?
Lo aveva trovato rannicchiato nello
spogliatoio della palestra - non c’erano allenamenti quel pomeriggio e la
stanza se ne stava nella penombra dell’ora tarda. Tendou
era raggrumato sul pavimento, la testa nascosta tra le gambe e i singhiozzi che
scuotevano tutto. Semi non avrebbe mai pensato di poterlo trovare in uno stato
simile. Gli si accucciò contro, stringendolo tra le sue braccia e
sussurrandogli che era lì con lui, che non doveva avere paura di nulla.
«Non voglio perderti», aveva mugugnato Satori senza guardarlo in viso «Non posso, non riesco a
pensare ad una vita in cui non ci sei».
Semi gli aveva alzato a forza il capo per
poterlo guardare negli occhi e gli aveva preso il viso fra le mani, asciugando
le guance con i pollici.
«Non mi hai perso, non mi perderai mai, Satori, sono qui», aveva provato a rassicurarlo, ma Tendou aveva scosso la testa, quasi a scacciarlo.
«Tu-tu non capisci… io- io- tu non sai
nulla… Io non ti merito». Aveva cercato di essere forte, Satori,
aveva finto che quel legame strano non significasse nulla, che potesse andare
avanti anche in quel modo, ma la verità lo stava schiacciando: il suo non era
un vero legame, a nessuno sarebbe apparso come tale. Neanche a Semi.
«Ti prego, dimmi che cosa sta succedendo.
Da dove saltano fuori queste parole?».
«Ti ho mentito. Ti- ti ho mentito. I
colori- Il legame… è tutto sbagliato!».
A Semi era parso che la terra sotto i
piedi tremasse, che l’aria intorno a loro si fosse improvvisamente rarefatta e
raffreddata. Che cosa stava dicendo?
«Che significa? ...Non- non vedi i colori?
Non sei il mio compagno?». Faceva male anche solo pensarlo; dirlo aveva
ridotto la voce ad un tremolio insulso - Eita non
poteva contemplare una situazione del genere.
«Ci sono… ci sono solo sfumature…
gradazioni così chiare che alle volte mi sembra di nuovo tutto bianco o tutto
nero…. Io… non so perché sia così. Sono sbagliato, Semi, sono sempre stato
sbagliato e questo legame strano ne è la prova; tu invece sei perfetto e non
meriti che ti venga fatto questo, che il mio legame sia così sottile da sentire
appena quando stai male e-».
Semi lo aveva baciato. Intensamente,
profondamente, con tutti i sentimenti che provava in quel momento e la
confusione che aveva in testa. Il legame aveva brillato, bellissimo, quasi
accecante e la sensazione di essere nel posto giusto, il solo in cui stare,
aveva pervaso tutta la sua essenza. Se non fosse stato un momento tanto
drammatico, Semi non avrebbe risposto di sé e si sarebbe lasciato andare agli
istinti che provava, inevitabilmente, ogni volta che Tendou
gli era accanto.
«Che cosa hai sentito?» gli aveva chiesto,
quando le loro labbra avevano deciso di lasciarsi.
Tendou restava puntualmente senza fiato dopo i
baci di Semi: il potere che avevano di annullare ogni cosa in quel gioco di
labbra e lingue, di diventare la sola realtà di cui avesse bisogno, l’unica sensazione
che sentisse il dovere di provare non aveva eguali. Non c’entrava nulla il
legame: quello era il modo in cui era innamorato di Semi, a prescindere da
quanto fossero fiochi i colori.
«Ti amo, Semi». Lo aveva detto d’istinto,
lo aveva detto senza rifletterci, perché era la cosa più giusta da fare, perché
era quello che provava.
«Allora tutto il resto non conta», aveva
sussurrato contro le sue labbra Eita, baciandolo
ancora ed ancora ed ancora. Lo spogliatoio era loro, per fare quello che i loro
sentimenti suggerivano.
Da allora Semi aveva fatto di tutto perché
Tendou non sentisse la mancanza del suo legame - un
legame atrofico, come era chiamato dagli specialisti - e Tendou
aveva imparato che fare domande, chiedere al proprio compagno come
stesse o cosa provasse, non avrebbe in alcun modo rovinato quello che avevano.
Erano semplicemente troppo innamorati.
«Che cosa ti sta succedendo?», chiese Tendou, mentre Semi infilava la testa sotto il getto
d’acqua del rubinetto. Semi non si arrabbiava mai così con la squadra, non era
mai tanto aggressivo o fastidioso, mentre ora a Satori
ricordava una versione molto più giovane - e di sicuro più bella - del loro
coach.
«Non so di cosa parli», lo evitò Eita, cercando di svincolarsi dalla sua presenza ed uscire
dal bagno, mentre i capelli umidi gocciolavano sul suo viso e sulla divisa di
pallavolo.
«Sai perfettamente di cosa parlo - sono io
a non poterti sentire bene, ricordi?», lo chiuse Satori,
bloccandogli anche fisicamente il passaggio: non lo avrebbe lasciato andare a
meno che non gli avesse detto a cosa era dovuto tutto quel nervosismo.
«Spostati, Satori,
abbiamo una squadra da allenare in caso te ne fossi dimenticato. Qualcuno deve
pur provvedere a dare delle basi a quei ragazzini».
«Dio, sembri davvero il coach,
cominci a terrorizzarmi!», continuò a scherzare Tendou,
ma il corpo stava fermo, dritto, un ostacolo saldo lungo il cammino di Semi, la
cui pazienza cominciava a venir meno.
«Si può sapere perché hai deciso di
tormentarmi oggi?» sbottò stizzito.
«Perché sono il tuo compagno e ho
bisogno di sapere che cosa c’è che non va. Non posso farti tornare in campo in
queste condizioni o ben presto ci sarà un ammutinamento e allora sì che
l’Accademia non avrà più una squadra di pallavolo con cui vincere il prossimo
anno! Chi lo sente poi Shirabu quando torna e trova
tutto sottosopra?».
Tendou parlava di Shirabu
con leggerezza - no, dalla sua prospettiva non era leggerezza; era parlare di Kenjirou come aveva sempre fatto, perché davvero non capiva
la ragione per cui quella malattia avrebbe dovuto impedirgli di scherzare o di
coinvolgere l’alzatore nella più semplice delle conversazioni. Ma aveva notato
che tutti lo guardavano quando faceva il suo nome - tutti, forse, tranne Ushijima che capiva - e soprattutto Semi pareva essere
scosso da un brivido ogni volta che quel nome veniva pronunciato, forse ancora
di più da quando aveva discusso con Kenjirou, in
ospedale. Anche questa volta aveva sgranato gli occhi e si era irrigidito,
restando sul posto con le spalle ferme e il volto tirato.
«Non dovresti-».
«Cosa? Parlare di lui? Perché non dovrei? Shirabu è vivo, supererà questa cosa, tornerà a scuola e
sarà essenziale per la squadra il prossimo anno! Tutto questo è ridicolo! Se
prendiamo a non parlarne sembrerà che siamo noi i primi a considerarlo già
morto!»
Ancora una volta, quella parola colpì Semi
come una coltellata in petto.
«Non dirlo, stai zitto!» gridò senza
potersi controllare, sopraffatto dalla paura.
Tendou lo guardò in silenzio: vide chiaramente i
lineamenti del volto di Eita cambiare, gli occhi
stringersi e la bocca calare in una smorfia di puro dolore. L’attimo successivo
il suo compagno stava piangendo, crollando sulle proprie ginocchia e nascondendo
il viso nelle mani. Era semplicemente troppo, Semi non poteva più reggere la
pressione, il dolore, il segreto che da tempo si portava dietro. Tendou si chiese se fosse quello lo stato in cui Semi lo
aveva trovando, quando era stato lui a crollare. A differenza di allora, però,
lui non gli fu subito accanto ma lo guardò dall’alto della sua posizione,
realizzando improvvisamente qualcosa che forse aveva inconsapevolmente saputo
da sempre.
«Eri innamorato di lui».
Semi tremò a quelle parole, le spalle
sussultarono e il viso si alzò a cercare quello del compagno, incurante
ora delle lacrime. L’espressione di Tendou era
imperscrutabile, seria e criptica tanto da mandarlo in crisi. Anche il legame
non lo aiutava: in quel momento non riusciva a sentire niente.
«Non so che cosa sia...», sussurrò -
doveva spiegarsi, era arrivato il suo turno di confessare. Lo avrebbe odiato
per quel ritardo? «…Forse lo ero… e poi sei arrivato tu e il nostro legame e
sai quanto ti ami, Satori, lo sai che cosa significhi
per me-».
«Ma hai amato anche lui».
Tendou non era cattivo: le sue parole non erano
crudeli, non stava sottolineando la cosa in maniera aggressiva o ferita. Era un
dato di fatto, la presa di coscienza di una verità oggettiva. Semi era stato
innamorato, in qualche modo, di Shirabu prima che i
due alzatori avessero i rispettivi legami - era qualcosa a cui Tendou non aveva mai pensato, perché aveva amato ed era
stato amato da Semi praticamente dal primo momento. Ma, a rifletterci bene,
c’era sempre stato qualcosa che legava i due alzatori: aveva pensato che fosse
competizione ed un po’ di sano astio tra avversari, di quello che spinge a
migliorarsi. Ora però vedeva chiaramente che Semi aveva sempre avuto un
particolare comportamento con Shirabu, che tutti i
suoi incentivi e stimoli non erano dovuti alla competizione ma all’amore.
Ne era ferito? No, davvero no. Ma avrebbe
voluto che Semi gliene avesse parlato, se non da subito almeno quando avevano
saputo della malattia di Kenjirou.
Finalmente, Tendou
si abbassò raggiungendo la stessa altezza di Eita,
ancora inginocchiato a terra. E gli sorrise. Un sorriso così bello che Semi ne
fu stordito, perché era l’ultima cosa che si aspettava dopo una confessione del
genere.
«Non sei arrabbiato?», gli chiese.
«Avrei voluto che me ne avessi parlato
prima, perché tra di noi la comunicazione è importante. Ma non sono arrabbiato.
Io conosco quello che provi per me e non lo sento messo in dubbio.
Piuttosto… sei stato tanto triste, Eita, e tanto
solo. Non voglio che tu sia solo, mai più».
Fu il suo turno di baciarlo.
Taichi era appena uscito dall’ascensore, poco
lontano dalla stanza in cui stava Shirabu, quando nel
raro silenzio del pomeriggio uno strano rumore attirò la sua attenzione,
spingendolo a velocizzare il passo. Kawanishi era
solitamente una persona molto razionale, eppure in quel momento furono solo
l’istinto e la paranoia a farlo agire: Ushijima aveva
raccontato un po’ a tutti di come il primo ciclo di chemio avesse indebolito
abbastanza il compagno e per qualche istante la paura che Kenjirou fosse caduto mentre era da solo, col rischio di
farsi davvero male, gli fece balzare il cuore in gola.
Per il tempo che impiegò a raggiungere la
stanza, ad ogni modo, Kawanishi riuscì a recuperare
la freddezza necessaria a realizzare che il tonfo che aveva sentito non poteva
essere quello di un corpo, ma piuttosto doveva essere stato causato da qualcosa
di metallico a giudicare dal tintinnio acuto che aveva emesso. Una parte di lui
si calmò: se il rumore proveniva davvero dalla stanza di Shirabu,
era più probabile che Kenjirou avesse fatto cadere
qualcosa con un movimento sbadato.
Quando entrò, però, ciò che vide lo lasciò
spiazzato: Kenjirou non era nella stanza. Si sarebbe
aspettato di trovarlo a letto, magari alle prese con un manuale o terribilmente
irritato per ciò che era caduto, ma tutto quello che si trovò davanti era la
stanza di un bianco asettico ed irritante e le lenzuola vuote.
«Shirabu?»,
chiamò, guardandosi intorno: non c'erano molti posti in cui poteva essere. «Shirabu, sei in bagno?», disse ancora, avvicinandosi alla
porta.
Quando dall’interno non provenne alcun
rumore, Taichi pensò che forse un infermiere aveva
accompagnato l’amico a fare delle analisi di cui lui non era a conoscenza, per
quanto strana fosse la cosa dal momento che tanto Ushijima
quanto Shirabu sapevano che Kawanishi
sarebbe andato in ospedale quel pomeriggio.
Prima di lasciare la stanza per chiedere
informazioni, comunque, Taichi ebbe l’accortezza di
aprire la porta del bagno e sincerarsi con sicurezza che non ci fosse nessuno.
O meglio, sarebbe stata sua intenzione farlo, ma nel provare s’accorse che
qualcosa di pesante bloccava quasi del tutto la porta. Il ragazzo provò con più
forza ad aprirla, cercando di capire quale fosse il problema e al secondo
tentativo realizzò che ad impedirgli di aprire la porta era proprio Shirabu, seduto a terra.
«Potresti smetterla, mi stai facendo
male», disse stizzito il ragazzo, guardando l’amico dal basso.
«Che diavolo ci fai per terra? Sei
caduto?» chiese Taichi - se non fosse stato alquanto
preoccupato avrebbe riso di lui senza alcun pudore.
«A quanto pare non posso neanche vomitare
in santa pace! No, devo trascinarmi la flebo dietro e far cadere tutto!» gridò Kenjirou.
Taichi guardò l’asta della flebo, rovesciata per
terra, e il tubicino della sacca che, staccatosi dal braccio di Kenjirou, aveva lasciato scorrere un rivolo di sangue lungo
la pelle chiara del ragazzo macchiando il pigiama.
«Hai la nausea?» chiese, entrando nello
stanzino attraverso quel po’ di spazio che le gambe di Shirabu
gli concedevano. Tirò lo scarico, rimediando almeno al tanfo del vomito.
«La nausea sta diventando la mia
condizione esistenziale. E avevo da poco fatto uno spuntino!».
Kawanishi sentì chiaramente il nervosismo colorare
le parole dell’amico e si accovacciò accanto a lui, per cercare di aiutarlo: Ushijima aveva detto loro anche di come la chemioterapia
rendesse nervoso il compagno, perché Shirabu
non era abituato a sentirsi tanto indebolito.
«Non sto ancora morendo, posso alzarmi da
solo!» gridò ancora il ragazzo, tirando via in malo modo il braccio che Taichi aveva preso per sollevarlo.
«Allora che stai facendo ancora per
terra?» lo provocò l’amico, onestamente seccato.
«Mi piace il fresco delle mattonelle!»
rispose con prontezza Shirabu. Taichi
sospirò, già stanco.
«Ascolta: sei sfinito e lo capisco - ti
trovi in una situazione orrenda e affrontarla può sembrarti un’impresa troppo
grande, ma non andrai di certo avanti standotene seduto qui a terra, a prendere
freddo!»
«Sono malato, posso fare tutto quello che
voglio! Basta che dica una parola e-».
Taichi non gli fece concludere la frase, ma si
alzò di scatto e lo prese per le spalle tirandolo su con sé: era già dimagrito
da che era stato ricoverato e non fece alcuno sforzo a muoverlo di peso. Kenjirou lo guardò sconvolto, spalancando gli occhi e senza
trovare le parole giuste per commentare.
«Smettila, Shirabu.
Ora basta! Non ho alcuna intenzione di star qui e lasciarti fare i capricci
come un bambino di tre anni, mi hai capito?».
L’alzatore restò a fissarlo sorpreso,
quasi traumatizzato dall’impeto con cui Taichi si
stava muovendo: solitamente il suo compagno di stanza era sempre fin troppo
quieto e passivo, come se nulla lo interessasse davvero tranne rare eccezioni.
Non era abituato a vederlo così fervido, mentre lo stringeva tra le sue mani.
«Ed io non ho intenzione di farmi trattare
come tale, né da te né da chiunque altro!» riuscì a rispondere, sebbene la sua
convinzione vacillasse.
«Allora smettila di comportarti come
tale!» tuonò ancora Kawanishi, prima di lasciarlo
andare - s’era assicurato che stesse in piedi da sé. «Chiamerò un infermiere
che ti rimetta la flebo», disse poi, uscendo per primo dal bagno.
«Sono stanco, Taichi!
E furioso! Sono così furioso da essere a tanto così da usare l’asta della flebo
per distruggere ogni cosa in questa stanza! E non so cosa farne di tutta questa
rabbia! Più mi indebolisco e più stringo i denti per non gridare, per non
prendere a pugni il muro».
A quelle parole Kawanishi
si fermò sulla soglia della porta, voltando la testa verso l’amico. Shirabu aveva raggiunto i letto e vi aveva poggiato i pugni
sopra, restando rigido. Tremava, non sapeva se per la rabbia o per lo sforzo a
cui erano sottoposti i muscoli in quella posizione.
«Non voglio scaricare tutto addosso a voi,
ma sta diventando difficile tenere tutto dentro. Così difficile».
«Allora non farlo», Taichi
tornò sui suoi passi «Non imbottigliare tutto ed esplodere, lascia andare le
cose con più grazia. Per essere così gracilino hai davvero poca grazia, Kenjirou».
Shirabu lo guardò rabbioso e Kawanishi
sorrise.
«Sei il primo a dirmi cosa fare. Alle
volte ho la sensazione che nessuno voglia prendere posizione, che abbiano tutti
paura di me. Anche Semi, nella sua rabbia, non fa altro che allontanarmi».
«Dai tregua a Semi, credo di non averlo
mai visto così spossato. E di’ agli altri quello che pensi! Nessuno sa come
comportarsi, Kenjirou».
«Come avete sempre fatto, Taichi. Tu ci riesci».
«Per favore! Io non sono gli altri,
ti sopporto da due anni!»
Shirabu lo colpì con un pugno alla spalla, come
facevano sempre quando l’altro usava la propria lingua affilata per una
battuta. Taichi sorrise e salutandolo con un
occhiolino uscì per chiamare l’infermiere.
«Aspetta che Semi sappia che sei caduto in
bagno!», disse quand’era ormai uscito. Shirabu
raggelò alla sola idea.
Shirabu avrebbe dovuto capirlo da quella mattina
che le cose non sarebbero andate come voleva. Avrebbe dovuto capirlo dai
messaggi che aveva preso a scambiarsi con Kawanishi
che la quiete era finita e stava arrivando la tempesta.
“Questo pomeriggio non riesco a passare da
te per studiare insieme. Scusami”,
gli aveva scritto il suo compagno di stanza, senza specificare se fosse
successo qualcosa e senza dargli alcuna motivazione per quell’improvviso
cambiamento.
Shirabu aveva risposto che non c’erano problemi
ed aveva mentalmente sostituito quell’impegno con qualcosa di diverso: Ushijima sarebbe stato lontano per tutto il pomeriggio per
via di alcune faccende da sbrigare con i suoi genitori e probabilmente il resto
della squadra sarebbe stato impegnato con gli allenamenti o i compiti, quindi
non si aspettava che qualcuno venisse. Dopotutto, era stato abbastanza chiaro
un paio di giorni prima, quando l’intera squadra si era presentata da lui -
l’intera squadra tranne Semi, ad ogni modo. Non voleva essere un peso o un
pensiero fisso per loro e, d’altro cantopo, aveva
anche bisogno di un po’ tempo per stare da solo, quindi non importava se non
riuscivano a passare ogni giorno, non dovevano farlo per forza.
Da allora, la sua casella di messaggi era
stata invasa da testi più o meno lunghi nelle più disparate ore del giorno - e
anche della notte - ma in compenso si aspettava che qualche volta il pomeriggio
sarebbe trascorso nella solitudine dei suoi pensieri e quello, a quanto pareva,
si avviava ad essere il primo della lista.
Per questo si era fatto accompagnare in
cortile - l’aria calda del tardo pomeriggio era piacevole, soprattutto quando
le quattro mura bianche della sua stanza cominciavano a dargli una brutta
sensazione di claustrofobia. Non era abbastanza forte da stare in piedi senza
aiuto per troppo tempo e per non rischiare aveva chiesto ad un infermiere di
aiutarlo a scendere per godersi un po’ di quel bel sole che con tanta fatica
entrava nella sua stanza. Quella che stava provando era una sensazione di pace
che credeva non sarebbe più riuscito a sentire, mentre ad occhi chiusi si
lasciava riscaldare dai raggi pomeridiani. Avrebbe potuto addormentarsi in
quella calma, avrebbe potuto passare la sua vita nella pace di quel momento.
«Sono contento di vederti qui fuori».
La voce di Semi lo colse alle spalle e lo
fece sussultare. Era passata più di una settimana dal litigio che avevano avuto
nella sua stanza e in quei giorni i suoi erano i soli messaggi che Shirabu non aveva ricevuto.
«Quindi sei ancora vivo?» gli chiese con
una certa acidità Kenjirou - cercò di nascondere il
fatto che fosse ferito dalla sua assenza o stranamente contento di sentirlo
nuovamente.
«Non dovrei essere io a farti questa
domanda?»
Kenjirou aprì gli occhi e cercò la figura
dell’amico, che lo affiancava: non si sarebbe mai aspettato che Semi fosse in
grado di scherzare su una cosa simile e volle guardarlo in viso, negli occhi,
mentre ancora quella frase vibrava nell’aria. Semi sembrava diverso: il viso un
po’ tirato, i lineamenti un po’ tristi, gli pareva essere improvvisamente
cresciuto e diventato adulto nell’arco dei giorni che non s’erano visti.
«Perché sei venuto?» Shirabu
non voleva lasciar perdere, ad ogni modo. Non voleva che il loro litigio
andasse dimenticato senza essere chiarito. Semi gli doveva delle scuse per come
s’era comportato.
«Kawanishi non
poteva e allora...»
Kenjirou si lasciò scappare una risatina: era
molto più probabile che Semi avesse fermato Taichi e
non gli avesse permesso di andare in ospedale di proposito, pensò, ma non disse
nulla perché voleva vedere fin dove avrebbe portato quella storia Semi.
«Quindi hai deciso di venire al suo posto
per ribadire il fatto che non dovrei fare nulla se non starmene a vegetare nel
mio letto finché il cancro non mi sarà passato?» chiese con sfacciataggine.
«Quindi ho deciso di portarti i libri e
gli appunti che doveva darti lui e di dirti semplicemente di fare tutto con
calma e senza sforzarti troppo».
Questa poi! Da quando Eita
era tanto accomodante? Da quando era tanto remissivo e accettava la volontà
altrui pur non condividendola? Davvero si poteva cambiare in questo modo in
così poco tempo?
Shirabu inclinò la testa da un lato, restando
dubbioso mentre Semi prendeva dal proprio zaino qualche quaderno ed un libro,
per poi posarli delicatamente sulle gambe del più piccolo. Tutto si svolse in
silenzio ed Eita smise subito di guardarlo, fissando
qualcosa all’orizzonte, lasciandosi accecando dal sole che stava tramontando.
«Tu capisci perché devo continuare a
studiare, Semi?» Shirabu voleva che comprendesse che
studiare era la sola cosa che poteva fare - occuparsi della propria istruzione,
del proprio corso di studi lo aiutava a non impazzire, gli dava almeno la
sensazione di avere ancora controllo su qualcosa dal momento che il suo stesso
corpo stava cercando di ucciderlo. Studiare era il solo momento in cui Kenjirou aveva l’impressione di potercela ancora fare, che
non tutto era perduto.
Semi annuì, senza dire nulla. Lo aveva
capito, ci aveva messo un po’ ma aveva capito che cosa provava Shirabu e si era sentito in colpa per aver gridato contro
di lui a quel modo. Il fatto che lo avesse amato, che lo amasse ancora non
riusciva più a giustificare le sue azioni, non del tutto almeno. Per questo in
qualche modo si era arreso. Voleva solo che Shirabu
stesse attento, che non esagerasse come era solito fare, che avesse cura di sé
nei limiti del possibile, perché se gli fosse successo qualcosa Semi non sapeva
come avrebbe reagito.
«E tu capisci perché sono così preoccupato
per te?» Semi s’era chiesto se Kenjirou si fosse mai
accorto di qualcosa - il suo legame con Ushijima era
nato diversi mesi dopo che lui e Tendou avevano preso
a stare insieme, ma anche prima Shirabu era parso
come rapito dal capitano: non c’era mai stato posto per nessun altro.
Shirabu però annuì, badando a che l’altro vedesse
quel gesto. Perché col tempo, anche dopo che Semi e Tendou
avevano preso a stare insieme, Kenjirou aveva capito
che Eita lo aveva amato, che qualcosa in lui cambiava
quando gli stava accanto. Non avrebbe mai potuto ricambiare quel sentimento e
dopotutto anche Semi aveva trovato il suo giusto compagno, ma
quell’amore - che durava ancora, che sarebbe durato per sempre - aveva preso a
riscaldarlo con dolcezza e lui, a modo suo, non se n’era mai allontanato. Ora
voleva riconoscergli quell’affetto di cui s’era nutrito in silenzio per così
tanto tempo.
«Grazie, Eita».