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Autore: Alchimista    24/10/2017    2 recensioni
Shirabu non lo aveva mai detto a nessuno, ma gli spogliatoi avevano in qualche modo il potere di rilassarlo. Tutto pareva restare sigillato al di fuori di essi: la folla che li acclamava, la frenesia del campo, l’agitazione e l’adrenalina della sfida, ogni cosa entrava in pausa per tutto il tempo in cui lui restava negli spogliatoi e il giovane alzatore poteva prendersi qualche istante per pensare in maniera rilassata, senza la pressione del gioco, senza il costante pensiero di dover essere perfetto.
«È ora, Shirabu», si sentì chiamare dal capitano.
No. Aveva bisogno ancora di qualche istante, solo un paio, il tempo necessario a pensare ancora una volta, magari da solo…
«Solo un secondo, vi raggiungo subito».
Quarta soulmate della raccolta | Ushishira | Semiten | IwaOi
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eita Semi, Kenjiro Shirabu, Tendo Satori, Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fate don't know you like I do'
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PairingUshishira | TenSemi |IwaOi

Parte: 3/9.

AvvertimentiSoulmates!AU in cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno. | Angst | Malattia | Non odiatemi troppo | Per le parti in cui saranno coinvolti gli IwaOi è necessario leggere la prima soulmate, che trovate qui.

Alla mia parabatai Luna: ci ho messo mesi a finire questa storia, mi sembrava giusto dedicarla a te e cominciare la pubblicazione nel giorno del tuo compleanno.

 

Don’t let me be gone.

 

Parte terza.

 

 

Ushijima non era mai stato il più bravo a capire i sottintesi nelle parole delle persone o nelle situazioni in cui si trovava, spesso anzi gli sfuggivano finché qualcuno - solitamente Tendou - non gli faceva notare una sfumatura del contesto a cui non aveva affatto pensato, per quanto ovvia fosse. Eppure in quel momento il ragazzo non aveva bisogno di Satori per capire che il coach Washijou si sentiva estremamente a disagio mentre andava avanti e indietro lungo i pochi metri della stanza in cui si trovavano.

L’uomo non aveva ancora detto una parola, sebbene dopo gli allenamenti gli avesse chiesto di restare perché doveva parlargli - Ushijima aveva annuito, seguendolo, ed aveva chiesto a Tendou di passare da Shirabu perché non restasse solo, dal momento che non sapeva quando si sarebbe liberato. Tuttavia, una volta arrivati davanti nella stanza alla cui scrivania di solito il coach lavorava, era calato uno strano silenzio.

«Ho visto che i ragazzi si stanno allenando molto», esordì l’uomo, fermandosi finalmente, ma senza sedersi - Ushijima, sulla sedia opposta, annuì.

«Allenarci è il solo modo che conosciamo per migliorare. E sebbene per quest’anno le competizioni siano finite, anche noi dell’ultimo anno abbiamo deciso di continuare fino al diploma, così da lasciare una squadra ben disciplinata e forte». Era questo che preoccupata il coach? Sapere in che modo stessero reagendo alla sconfitta con la Karasuno?

L’uomo lo guardò, senza parlare, per qualche istante - Ushijima lo fissava con rispetto ma senza alcun timore, attendendo quello che aveva da dire. Continuava a sfuggirgli la reale ragione per cui lo stesse trattenendo e si chiese se almeno Washijou la conoscesse.

«Come… come procede la terapia di Shirabu

Wakatoshi non lo aveva mai sentito parlare in modo tanto sottile e insicuro - per qualche istante pensò che potesse sentirsi male da un momento all’altro. L’uomo abbassò lo sguardo in attesa di una risposta.

«È presto per poter avere qualche nuovo risultato, signore. I medici faranno le prime analisi del sangue alla fine di questo ciclo di chemioterapia». Cercò di essere il più dettagliato possibile restando allo stesso tempo semplice - Ushijima aveva osservato che era questo il modo in cui parlavano i dottori in ospedale: specifici ma in modo da non stordire con parole difficili.

«Capisco».

Ci fu ancora silenzio, scandito solamente dalla lancetta dell’orologio che segnava in modo ritmico lo scorrere dei secondi.

«Se non c’è alt-».

«Ma Shirabu come si sente?»

Ushijima non poté trattenere la sorpresa che quella domanda gli suscitò - aveva creduto che l’interesse del coach fosse del tutto professionale, che gli stesse implicitamente chiedendo quando sarebbe potuto tornare a seguire i corsi e soprattutto allenarsi, mentre quella domanda aveva una sfumatura d’interesse personale che non si aspettava.

«È molto stanco, signore. La chemioterapia sta avendo diversi effetti collaterali, ma è forte e supererà tutto». Wakatoshi si aggrappava a quella speranza, dirlo ad alta voce faceva bene.

«E tu… sei sempre accanto a lui?»

«Signore, se per caso è preoccupato per il mio rendimento, le posso assicurare di essere in grado di prendermi cura del mio compagno e allo stesso tempo-».

«No, no. Dio, no». La voce del coach rischiò di incrinarsi «Voglio dire… lo sapevi? Sapevi che Shirabu stava male quando avete disputato il torneo? Quando io...».

Wakatoshi si rabbuiò. Il ricordo di quell’evento, del fatto che per giorni Kenjirou gli avesse mentito dicendo che stava bene e che non c’era nulla di cui preoccuparsi faceva ancora stranamente male, come una ferita non del tutto rimarginata che ancora tira e prude. Il ragazzo si trovò a chiedersi perché avesse ancora tutta quella importanza.

«L’ho saputo poco prima di lei, insieme al resto della squadra», confessò - non c’era ostilità o vergogna nelle sue parole, solo un po’ di dolore.

Washijou annuì, sedendosi finalmente alla sua scrivania. Ushijima non poteva sapere che in qualche modo il coach si sentiva responsabile per le condizioni di Shirabu. Non era stato lui a causare il suo cancro, ovvio, eppure in quei giorni s’era scoperto a pensare al ragazzo più spesso di quanto avesse mai fatto con qualcuno dei suoi giocatori: avrebbe dovuto insistere di meno con lui, considerato che stava male già da prima dell’esito delle analisi? Avrebbe dovuto imporsi perché saltasse qualche partita, facendo entrare più spesso Semi, magari? Ma solo Shirabu aveva la coordinazione perfetta con Ushijima, era quello il motivo principale per cui era in squadra!

«Puoi andare, Ushijima», disse dopo un lungo silenzio, ricordando che il ragazzo era ancora lì.

Il capitano della Shiratorizawa cercò di tornare quanto prima alla sua stoica calma - era qualcosa che gli succedeva spesso, restare stordito e confuso di fronte alle reazioni emotive di chi non conosceva bene. Con la squadra ormai era diventato semplice, perché li conosceva abbastanza da poter prevedere le loro reazioni, ma il coach era sempre stato un estraneo a ben pensarci…

Controllò il cellulare quasi senza rendersene conto - un altro riflesso incondizionato che aveva da quando Shirabu non era con lui. Per questo fu preso alla sprovvista dalle notifiche delle diverse chiamate perse che si erano accumulate sul display e che gli fecero perdere contatto con la realtà.

Era successo qualcosa. E lui non aveva sentito nulla?

Erano tutte chiamate dal cellulare di Shirabu e questo riuscì a rassicurarlo: se fosse successo qualcosa avrebbero provato a chiamarlo anche i genitori di lui o i ragazzi che erano andati a trovarlo, giusto? Ma Ushijima si accorse anche che il colloquio con il coach era durato più tempo di quanto aveva pensato, quindi almeno per Tendou e gli altri poteva essere già terminato l’orario delle visite…

L’ultima cosa che notò fu un messaggio vocale sempre proveniente dal cellulare di Shirabu e per qualche istante fu indeciso su se correre direttamente in ospedale o ascoltarlo prima. Ma poteva essere qualcosa di importante, quindi decise di fermarsi.

“Ciao… Umh, io… non so bene da dove cominciare. Mi dispiace. Mi dispiace per averti detto di andare via e mi dispiace se in qualche modo la mia situazione ti ha allontanato o ferito… Io… L’idea che quello che mi sta succedendo abbia effetto anche su di te mi uccide, Wakatoshi e il fatto che tu sia bloccato qui con me, con qualcuno che non è più alla tua altezza è un pensiero che non riesco ad allontanare. Ma allo stesso tempo… mi manchi”.

Ushijima lo sentì prendere un fiato in modo pesante e gli si strinse il petto. Faceva così male.

“Mi manca la tua presenza rassicurante e mi manca la tua capacità di starmi accanto senza che mi senta a disagio. Mi manca tutto di te e non credo sia solo per il legame. Non è mai stato solo il legame - ho cominciato ad innamorarmi di te la prima volta che ti ho visto, quando ancora non ti conoscevo e non sapevo che persona fantastica sei. E paziente e generosa e buona. E non ti merito, non ti ho mai meritato ed ora ancora di meno, perché sono rotto, sono malato ed usato dalla vita. Solo… non riesco a farcela senza di te. I ragazzi sono appena andati via, non ho chiesto loro perché tu non c’eri: è evidente che mi hai dato retta questa volta, che sei andato via… Goshiki era distrutto, più di quanto io e te sembriamo distrutti e questa cosa mi ha fatto pensare… non volevo lasciare qualcosa di non detto tra di noi, quindi te lo sto dicendo. Che sei la cosa più importante della mia vita e che mi dispiace per quello che ti ho fatto, che ti sto facendo. Ora la smetto, mi sono reso fin troppo patetico”.

Wakatoshi non si rese conto di aver preso a piangere in preda ad un dolore che non aveva nulla a che fare con la malattia di Shirabu o con il legame, un dolore che era solo suo e dell’amore che provava per Kenjirou a prescindere da ogni cosa. Come aveva potuto sbagliare ancora a quel modo?

Ci aveva pensato: dopo la telefonata col padre, era rimasto sveglio tutta la notte a pensare al modo in cui sistemare le cose con lui ed aveva finalmente capito che la chiave perché tutto tornasse a com’era prima era parlare senza aver paura di ferire. S’era trattenuto, non aveva detto come stavano le cose per timore di poter essere inopportuno, di poter far del male a Kenjirou, ma aveva finito col fare peggio. Quindi, alla fine, forse anche grazie alle parole di suo padre, aveva deciso che sarebbe andato da lui ed avrebbe semplicemente detto quello che pensava riguardo alla malattia, alla loro relazione, al loro futuro. Non era certo fosse la soluzione, ma poteva essere un inizio.

Poi il coach lo aveva chiamato e allora Ushijima aveva semplicemente chiesto a Tendou di precederlo così che Shirabu non restasse da solo. Non avrebbe mai immaginato che la sua momentanea assenza potesse essere fraintesa a quel modo, che Kenjirou avesse potuto pensare che non sarebbe tornato.

Ushijima corse alla fermata della metropolitana come mai aveva fatto prima, neanche per una partita o durante un allenamento estremo. Corse e quando fu salito in metro l’adrenalina e l’irrequietezza minacciarono di spezzarlo - avrebbe voluto lanciarsi fuori e continuare a correre piuttosto che aspettare i tempi di quel treno sotterraneo e tutto il suo corpo fremeva per il nervosismo.

Fu quasi una liberazione riuscire nuovamente a correre, una volta tornato in superficie. Correre da Shirabu per dirgli che aveva sbagliato tutto, che non aveva capito niente, che era stato tutto un grandissimo malinteso e lui era lì per sistemare le cose. Che non avrebbe mai dovuto allontanarsi.

Quando spalancò la porta della stanza del compagno, Shirabu era distrattamente coinvolto in una conversazione con sua madre; l’entrata di Ushijima spezzò la scena e la gettò in un clima quasi surreale. Kenjirou non aveva mai visto Ushijima tanto sconvolto: il suo viso era pallido e gli occhi arrossati recavano ancora traccia di qualche lacrima, mentre le labbra dovevano essere state torturate dai denti perché erano gonfie e quasi livide. Shirabu non riusciva ad immaginare qualcosa di tanto grave da ridurre così Wakatoshi.

«Wakatoshi che cosa succede?» gli chiese la donna, alzandosi in piedi, spaventata.

Ma il ragazzo non sembrava in grado di parlare - fissava Shirabu e riprendeva fiato ed era tutto quello che poteva permettersi di fare.

«Mamma, ci lasceresti un po’ da soli?» Kenjirou aveva capito di cosa si trattava, ma non era certo di poter affrontare ciò che stava per succedere: una parte di sé s’era convinta che Ushijima non sarebbe tornato, che magari lo avrebbe chiamato ed avrebbero parlato al telefono piuttosto che affrontarsi occhi negli occhi a quel modo. Forse era il momento di lasciarsi davvero e l’ultima cosa di cui aveva bisogno era la presenza di sua madre.

La donna annuì, comprendendo almeno in parte la situazione, e lasciò silenziosamente la stanza.

«Tu non sei rotto ed usato dalla vita», esordì Ushijima. Shirabu rise.

«Perché a te che cosa sembro?»

«Mi sembri un ragazzo a cui è successa una cosa orribile, che sta cercando di reggere una situazione tremenda col massimo delle sue forze. Mi sembri spaventato, ma deciso ad andare avanti e, paradossalmente, hai più paura degli effetti che questo cancro avrà sugli altri che su te stesso. Tu… tu sei speciale, Shirabu Kenjirou, così determinato a dare il massimo, ad arrivare quanto più in alto possibile e allo stesso tempo così fragile… Sei umano e ti amo per questo, ti amo perché non sei forte abbastanza da bastarti da solo anche se lo vorresti, ti amo perché tra tutti hai scelto me, perché ricordo bene la prima volta che i nostri occhi si sono incontrati e nei tuoi c’era fierezza ed ammirazione ed ho pensato “voglio che faccia parte della mia vita, non portatelo lontano da me”».

Kenjirou ascoltava stordito dal significato di quelle parole. Ascoltava e non riusciva a credere che provenissero da Ushijima, non perché il suo compagno non fosse in grado di amare a quel modo, ma perché lui non si riteneva degno di ricevere il suo amore. Era sempre stato così, dopotutto: non importava quanti traguardi avesse raggiunto e quanto si fosse impegnato, Shirabu non aveva mai pensato di poter brillare accanto ad Ushijima perché semplicemente non era abbastanza. Dopotutto, il capitano della Shiratorizawa non diceva sempre che quell’Oikawa Toru sarebbe dovuto entrare nella loro squadra?

«Arriverà un momento in cui tutto quello che hai detto non ti basterà più. Magari alla fine del prossimo ciclo di chemio, o quando starò così male da non riuscire a restare sveglio. Arriverà il momento in cui ti stancherai di me, delle mie imperfezioni, e allora mi lascerai. E hai ragione, non sarò abbastanza forte da poter reggere quel giorno.  Per questo ti ho detto di andare via».

«Non sarebbe stato più facile chiedermi di restare?»

Shirabu ci pensò: non era più facile, perché lui non sapeva chiedere aiuto. Bastare a se stesso era davvero la cosa che più desiderava al mondo, forse la sola che gli avrebbe davvero dato la pace.

«Tu non capisci, Wakatoshi! Io posso farcela! Posso fare tutto, non ho bisogno di aiuto, non ho bisogno che resti solo perché sono malato!»

«Non ho mai detto che tu-». Ushijima fu disorientato dal cambiamento improvviso di argomento. Non si trattava di questo…

«So che sei arrabbiato con me per questo. Hai detto di amare il fatto che sia umano ed abbia bisogno di te, ma ti sbagli. Tu lo odi e mi odi e posso sentire così chiaramente la tua rabbia che-».

Che mi uccide più di questa malattia.

«Credi che la mia rabbia sia rivolta verso di te? Dio, Kenjirou, perché dovrei avercela con te? Sono arrabbiato, hai ragione, ma con questa situazione, col fatto che la persona che più amo al mondo rischia di lasciarmi per sempre! Ce l’ho con chiunque abbia deciso di farti del male e sono frustrato perché non posso fare nulla per cambiare la situazione, per farti stare meglio!».

Ushijima aveva di nuovo gridato: non era abituato a farlo, ma il dolore gli ruggiva dentro con più aggressività di quanto pensasse.

«Non sto con te per solo perché abbiamo un legame», continuò poi con più calma «Non starò mai con te solo perché abbiamo un legame: quello si può spezzare, ma non esiste un modo o un tempo in cui il mio amore per te possa finire, Kenjirou».

Wakatoshi glielo avrebbe ripetuto ogni minuto se fosse stato necessario perché si convincesse di meritare il suo amore, fosse anche solo per il semplice fatto che lui non poteva fare a meno di offrirglielo in modo completo ed incondizionato.

«Io sono forte».

Kenjirou aveva preso a piangere e quelle poche parole erano uscite strozzate tra un singhiozzo e l’altro. Quando aveva preso a piangere? Ushijima s'era perso quell'istante: poteva davvero essere successo?

«Io sono forte. Sono forte, Wakatoshi».

Il Capitano gli si avvicinò e provò a stringerlo a sé, ma le braccia di Shirabu, piantate contro il suo petto, posero un limite alla loro vicinanza.

«Io sono forte». Era la quarta volta che lo ripeteva, Ushijima le contava come si contano i respiri. Perché non capiva, perché non voleva far altro che capire.

Parlami come ti ho parlato io. Non lasciare nulla indietro. Non possiamo permettercelo...

Col corpo fece una leggera pressione contro quelle braccia che volevano cedere, lo sapeva.

«Ho bisogno che tu ci creda», singhiozzò Shirabu - come poteva fargli capire che cosa provava? Come poteva fargli capire che, nonostante tutto, aveva bisogno di sentirsi forte da solo o sarebbe crollato? «Ho bisogno che tu ci creda perché io non lo so più, Wakatoshi. Non so più se ci credo davvero».

Ma Ushijima aveva capito, aveva finalmente capito. Non si trattava di poter essere deboli, ma di dover essere forti. E lui lo amava anche perché era forte.

«Sei forte, Kenjirou. Sei la persona più forte che io conosca», disse con fermezza, ma Shirabu scosse ancora la testa.

«Mi sento così dannatamente arrabbiato, come se non potessi provare altro, come se fosse tutto quello che mi resta. E credevo che saresti andato via, credevo che non saresti più tornato dopo ieri».

«Non andrò mai via. Ricordalo, mai».

Ushijima finalmente lo abbracciò.

 

«Di nuovo!»

Semi era nervoso. Lo si poteva capire dal modo in cui, anche quella mattina, stava continuando a rimproverare i suoi compagni di squadra del primo e del secondo anno ad ogni passaggio sbagliato, ad ogni schiacciata che mancava di potenza o veniva respinta dal muro avversario, ad ogni muro che per contro non riusciva a bloccare un attacco. Sembrava che in nessun modo lo si potesse accontentare e molto più di Ushijima aveva preso il ruolo del severo allenatore.

I ragazzi del terzo anno erano rimasti ad allenarsi nonostante il congedo ed il passaggio di consegne che avevano fatto all’indomani della sconfitta contro la Karasuno. Forse era stato per un senso di diligenza, per fare in modo che la squadra fosse preparata al meglio per l’anno successivo; forse era stato perché nessuno di loro sapeva davvero lasciare il gruppo o la pallavolo o magari perché la malattia di Shirabu aveva portato fin troppi cambiamenti nella loro vita e non ne volevano aggiungere un altro.

Ad ogni modo, soprattutto Semi aveva preso negli ultimi giorni ad essere aggressivo e seccato da qualunque cosa i suoi compagni sbagliassero, quasi non fosse concesso essere imperfetti neanche in allenamento e le partite di prova erano diventate ridicole: doveva per forza di cose esserci un vincitore ed un perdente, ma a Semi non andava mai bene l’errore.

I compagni di squadra il più delle volte sopportavano: non aveva tutti i torti e le sue contestazioni erano corrette seppure tremendamente scortesi, mentre Ushijima e Tendou avevano provato a parlargli senza riuscire ad avere un effettivo dialogo. Eita li aveva liquidati con poche parole prima di andare via lasciandoli più confusi di prima.

«Da’ un po’ di tregua a tutti, Eita, o non avremo più una squadra da far partecipare ai tornei nel prossimo anno!», suggerì con ironia Tendou, mentre Semi guardava con furia un gruppo di tre ragazzi del primo anno che fino a quel momento erano stati praticamente sempre in panchina.

Il ragazzo sbuffò seccato e si allontanò dal campo, borbottando che avevano tutti qualche minuto di pausa - Tendou potè chiaramente sentire i ragazzi sospirare e sperare che il capitano tornasse quanto prima. Seguì Semi quasi fosse un riflesso incondizionato, naturale come respirare e l’altro non fece nulla per allontanarlo; dopotutto, alle volte starsi così accanto era il solo modo che avevano per sentire davvero che cosa succedeva.

Tendou l’aveva capito da subito che c’era qualcosa che non andava nel loro legame. Lo aveva sentito nascere e lo aveva sentito ansimare come se non avesse forze sufficienti a bruciare, come se facesse fumo anziché fiamma. Era stato strano e probabilmente non avrebbe saputo spiegare fino in fondo la sensazione che aveva provato: come corde che vibrano tese ed improvvisamente cedono, spezzandosi sotto un peso troppo grande, i colori s’erano insidiati nella sua vista, avevano tremolato e poi erano fuggiti lasciando solo ombre di ciò che erano stati. Satori aveva sentito un brivido scuoterlo tutto, come una scossa di corrente elettrica: ogni cosa s’era illuminata per qualche istante e poi il contatto era saltato, quasi avesse fatto corto circuito, lasciando solo un po’ di energia residua, che forse faceva ancora più male. Leggére sfumature colorate, alle volte appena distinguibili, erano tutto ciò che era rimasto a mostrargli il legame.

Semi, invece, era stato perfetto. Semi, d’altronde, era sempre perfetto e anche con il legame tutto aveva funzionato come doveva. Vedeva i colori, vedeva Tendou brillare più di ogni altra cosa e forse non era neanche così sorpreso dal fatto che fossero stato uniti.

Da allora avevano preso a conoscersi meglio, a lasciar esposti di sé lati che prima non avrebbero mai concesso all’altro di vedere ed Eita aveva compreso la tristezza e la forza sotto l’aria da buffone di Satori, mentre questi aveva scoperto la dolcezza da cui nasceva la serietà di Semi. Tendou però aveva avuto paura di parlargli del legame, del modo particolare in cui aveva preso a vedere i colori; ricordava i pochi istanti in cui tutto era stato perfetto e Semi aveva brillato, bellissimo come un angelo, prima che tutto si sistemasse nella penombra di sfumature appena abbozzate e ne aveva paura. Non aveva avuto voglia di scoprire che cosa significasse e parlarne con Semi avrebbe reso tutto estremamente serio.

Aveva invece finto che le cose andassero come dovevano e s’era innamorato di lui con la sola forza dei suoi sentimenti: il legame appena accennato aveva fatto ben poco eppure Tendou poteva dire di non essersi mai innamorato in quel modo, così all’improvviso e così in profondità, così completamente da non poter più  farne a meno. Semi era in breve tempo diventato essenziale, indispensabile.

«Cosa vuol dire che la metro ha avuto problemi?»
«Nulla di grave, Satori davvero. Il macchinista ha avuto un malore e noi ci siamo presi un grosso spavento, ma il treno si è fermato in tempo e non è successo nulla!»

Tendou, però, non si era allarmato per questo - o meglio, era ovviamente allarmato per quello che era successo, ma soprattutto perché non aveva sentito nulla: il legame non aveva mandato segnali e non gli aveva trasmesso la paura che, sicuramente, Semi aveva provato in maniera maggiore rispetto a quanto stava raccontando. Forse, a ben pensarci, aveva provato un lieve fastidio al petto, quasi un prurito, ma non più di quello. Niente più del fastidio che si proverebbe per la puntura di un insetto.

Semi per lui era la puntura di un insetto.

Tendou aveva ansimato, ancora a telefono. S’era sentito morire e ovviamente Eita aveva percepito che qualcosa non andava. Lo aveva chiamato, aveva gridato attraverso il cellulare, aveva aspettato che gli rispondesse ma dall’altro lato della chiamata c’era stato solo silenzio. Poi erano arrivati i singhiozzi - singhiozzi orribili, che Eita aveva odiato con tutto se stesso, perché aveva creduto di esserne la causa.

«Non fare così, Satori, ti prego. Non è successo niente, sto bene, sto arrivando a piedi», aveva cercato di rassicurarlo, ma non aveva compreso che Tendou piangeva per se stesso e a causa della sua mancanza. Piangeva perché Eita sarebbe stato per sempre legato a qualcuno che non lo sentiva, che riusciva a malapena a percepire la sua presenza, qualcuno che faticava a distinguere le sfumature di colori perché davanti ai suoi occhi era tutto una dannata sfumatura e che aveva paura di svegliarsi un giorno e scoprire che anche quelle erano sparite. Perché se Tendou fosse stato qualcun altro, una persona seria, qualcuno che teneva davvero ad Eita, lo avrebbe lasciato andare nella speranza che il legame si formasse in modo completo con una persona che lo meritasse davvero. Ma la verità era che Tendou non riusciva a lasciarlo andare, non sapeva come fare.

Quando Semi era arrivato all’Accademia, aveva fatto fatica a trovarlo: al cellulare non aveva sentito altro che singhiozzi e dopo poco la chiamata s’era interrotta, quindi non aveva potuto far altro che aggrapparsi al suo legame per capire dove si trovasse. Sentiva il dolore dell’altro, intenso e disarmante, e non riusciva a spiegarsene la ragione - stava bene, non era davvero stato nulla, perché Tendou l’aveva presa a quel modo?

Lo aveva trovato rannicchiato nello spogliatoio della palestra - non c’erano allenamenti quel pomeriggio e la stanza se ne stava nella penombra dell’ora tarda. Tendou era raggrumato sul pavimento, la testa nascosta tra le gambe e i singhiozzi che scuotevano tutto. Semi non avrebbe mai pensato di poterlo trovare in uno stato simile. Gli si accucciò contro, stringendolo tra le sue braccia e sussurrandogli che era lì con lui, che non doveva avere paura di nulla.

«Non voglio perderti», aveva mugugnato Satori senza guardarlo in viso «Non posso, non riesco a pensare ad una vita in cui non ci sei».

Semi gli aveva alzato a forza il capo per poterlo guardare negli occhi e gli aveva preso il viso fra le mani, asciugando le guance con i pollici.

«Non mi hai perso, non mi perderai mai, Satori, sono qui», aveva provato a rassicurarlo, ma Tendou aveva scosso la testa, quasi a scacciarlo.

«Tu-tu non capisci… io- io- tu non sai nulla… Io non ti merito». Aveva cercato di essere forte, Satori, aveva finto che quel legame strano non significasse nulla, che potesse andare avanti anche in quel modo, ma la verità lo stava schiacciando: il suo non era un vero legame, a nessuno sarebbe apparso come tale. Neanche a Semi.

«Ti prego, dimmi che cosa sta succedendo. Da dove saltano fuori queste parole?».

«Ti ho mentito. Ti- ti ho mentito. I colori- Il legame… è tutto sbagliato!».

A Semi era parso che la terra sotto i piedi tremasse, che l’aria intorno a loro si fosse improvvisamente rarefatta e raffreddata. Che cosa stava dicendo?

«Che significa? ...Non- non vedi i colori? Non sei il mio compagno?». Faceva male anche solo pensarlo; dirlo aveva ridotto la voce ad un tremolio insulso - Eita non poteva contemplare una situazione del genere.

«Ci sono… ci sono solo sfumature… gradazioni così chiare che alle volte mi sembra di nuovo tutto bianco o tutto nero…. Io… non so perché sia così. Sono sbagliato, Semi, sono sempre stato sbagliato e questo legame strano ne è la prova; tu invece sei perfetto e non meriti che ti venga fatto questo, che il mio legame sia così sottile da sentire appena quando stai male e-».

Semi lo aveva baciato. Intensamente, profondamente, con tutti i sentimenti che provava in quel momento e la confusione che aveva in testa. Il legame aveva brillato, bellissimo, quasi accecante e la sensazione di essere nel posto giusto, il solo in cui stare, aveva pervaso tutta la sua essenza. Se non fosse stato un momento tanto drammatico, Semi non avrebbe risposto di sé e si sarebbe lasciato andare agli istinti che provava, inevitabilmente, ogni volta che Tendou gli era accanto.

«Che cosa hai sentito?» gli aveva chiesto, quando le loro labbra avevano deciso di lasciarsi.

Tendou restava puntualmente senza fiato dopo i baci di Semi: il potere che avevano di annullare ogni cosa in quel gioco di labbra e lingue, di diventare la sola realtà di cui avesse bisogno, l’unica sensazione che sentisse il dovere di provare non aveva eguali. Non c’entrava nulla il legame: quello era il modo in cui era innamorato di Semi, a prescindere da quanto fossero fiochi i colori.

«Ti amo, Semi». Lo aveva detto d’istinto, lo aveva detto senza rifletterci, perché era la cosa più giusta da fare, perché era quello che provava.

«Allora tutto il resto non conta», aveva sussurrato contro le sue labbra Eita, baciandolo ancora ed ancora ed ancora. Lo spogliatoio era loro, per fare quello che i loro sentimenti suggerivano.

Da allora Semi aveva fatto di tutto perché Tendou non sentisse la mancanza del suo legame - un legame atrofico, come era chiamato dagli specialisti - e Tendou aveva imparato che fare domande, chiedere al proprio compagno come stesse o cosa provasse, non avrebbe in alcun modo rovinato quello che avevano. Erano semplicemente troppo innamorati.

«Che cosa ti sta succedendo?», chiese Tendou, mentre Semi infilava la testa sotto il getto d’acqua del rubinetto. Semi non si arrabbiava mai così con la squadra, non era mai tanto aggressivo o fastidioso, mentre ora a Satori ricordava una versione molto più giovane - e di sicuro più bella - del loro coach.

«Non so di cosa parli», lo evitò Eita, cercando di svincolarsi dalla sua presenza ed uscire dal bagno, mentre i capelli umidi gocciolavano sul suo viso e sulla divisa di pallavolo.

«Sai perfettamente di cosa parlo - sono io a non poterti sentire bene, ricordi?», lo chiuse Satori, bloccandogli anche fisicamente il passaggio: non lo avrebbe lasciato andare a meno che non gli avesse detto a cosa era dovuto tutto quel nervosismo.

«Spostati, Satori, abbiamo una squadra da allenare in caso te ne fossi dimenticato. Qualcuno deve pur provvedere a dare delle basi a quei ragazzini».

«Dio, sembri davvero il coach, cominci a terrorizzarmi!», continuò a scherzare Tendou, ma il corpo stava fermo, dritto, un ostacolo saldo lungo il cammino di Semi, la cui pazienza cominciava a venir meno.

«Si può sapere perché hai deciso di tormentarmi oggi?» sbottò stizzito.

«Perché sono il tuo compagno e ho bisogno di sapere che cosa c’è che non va. Non posso farti tornare in campo in queste condizioni o ben presto ci sarà un ammutinamento e allora sì che l’Accademia non avrà più una squadra di pallavolo con cui vincere il prossimo anno! Chi lo sente poi Shirabu quando torna e trova tutto sottosopra?».

Tendou parlava di Shirabu con leggerezza - no, dalla sua prospettiva non era leggerezza; era parlare di Kenjirou come aveva sempre fatto, perché davvero non capiva la ragione per cui quella malattia avrebbe dovuto impedirgli di scherzare o di coinvolgere l’alzatore nella più semplice delle conversazioni. Ma aveva notato che tutti lo guardavano quando faceva il suo nome - tutti, forse, tranne Ushijima che capiva - e soprattutto Semi pareva essere scosso da un brivido ogni volta che quel nome veniva pronunciato, forse ancora di più da quando aveva discusso con Kenjirou, in ospedale. Anche questa volta aveva sgranato gli occhi e si era irrigidito, restando sul posto con le spalle ferme e il volto tirato.

«Non dovresti-».

«Cosa? Parlare di lui? Perché non dovrei? Shirabu è vivo, supererà questa cosa, tornerà a scuola e sarà essenziale per la squadra il prossimo anno! Tutto questo è ridicolo! Se prendiamo a non parlarne sembrerà che siamo noi i primi a considerarlo già morto!»

Ancora una volta, quella parola colpì Semi come una coltellata in petto.

«Non dirlo, stai zitto!» gridò senza potersi controllare, sopraffatto dalla paura.

Tendou lo guardò in silenzio: vide chiaramente i lineamenti del volto di Eita cambiare, gli occhi stringersi e la bocca calare in una smorfia di puro dolore. L’attimo successivo il suo compagno stava piangendo, crollando sulle proprie ginocchia e nascondendo il viso nelle mani. Era semplicemente troppo, Semi non poteva più reggere la pressione, il dolore, il segreto che da tempo si portava dietro. Tendou si chiese se fosse quello lo stato in cui Semi lo aveva trovando, quando era stato lui a crollare. A differenza di allora, però, lui non gli fu subito accanto ma lo guardò dall’alto della sua posizione, realizzando improvvisamente qualcosa che forse aveva inconsapevolmente saputo da sempre.

«Eri innamorato di lui».

Semi tremò a quelle parole, le spalle sussultarono e il viso si alzò a cercare quello del compagno, incurante ora delle lacrime. L’espressione di Tendou era imperscrutabile, seria e criptica tanto da mandarlo in crisi. Anche il legame non lo aiutava: in quel momento non riusciva a sentire niente.

«Non so che cosa sia...», sussurrò - doveva spiegarsi, era arrivato il suo turno di confessare. Lo avrebbe odiato per quel ritardo? «…Forse lo ero… e poi sei arrivato tu e il nostro legame e sai quanto ti ami, Satori, lo sai che cosa significhi per me-».

«Ma hai amato anche lui».

Tendou non era cattivo: le sue parole non erano crudeli, non stava sottolineando la cosa in maniera aggressiva o ferita. Era un dato di fatto, la presa di coscienza di una verità oggettiva. Semi era stato innamorato, in qualche modo, di Shirabu prima che i due alzatori avessero i rispettivi legami - era qualcosa a cui Tendou non aveva mai pensato, perché aveva amato ed era stato amato da Semi praticamente dal primo momento. Ma, a rifletterci bene, c’era sempre stato qualcosa che legava i due alzatori: aveva pensato che fosse competizione ed un po’ di sano astio tra avversari, di quello che spinge a migliorarsi. Ora però vedeva chiaramente che Semi aveva sempre avuto un particolare comportamento con Shirabu, che tutti i suoi incentivi e stimoli non erano dovuti alla competizione ma all’amore.

Ne era ferito? No, davvero no. Ma avrebbe voluto che Semi gliene avesse parlato, se non da subito almeno quando avevano saputo della malattia di Kenjirou.

Finalmente, Tendou si abbassò raggiungendo la stessa altezza di Eita, ancora inginocchiato a terra. E gli sorrise. Un sorriso così bello che Semi ne fu stordito, perché era l’ultima cosa che si aspettava dopo una confessione del genere.

«Non sei arrabbiato?», gli chiese.

«Avrei voluto che me ne avessi parlato prima, perché tra di noi la comunicazione è importante. Ma non sono arrabbiato. Io conosco quello che provi per me e non lo sento messo in dubbio. Piuttosto… sei stato tanto triste, Eita, e tanto solo. Non voglio che tu sia solo, mai più».

Fu il suo turno di baciarlo.

 

Taichi era appena uscito dall’ascensore, poco lontano dalla stanza in cui stava Shirabu, quando nel raro silenzio del pomeriggio uno strano rumore attirò la sua attenzione, spingendolo a velocizzare il passo. Kawanishi era solitamente una persona molto razionale, eppure in quel momento furono solo l’istinto e la paranoia a farlo agire: Ushijima aveva raccontato un po’ a tutti di come il primo ciclo di chemio avesse indebolito abbastanza il compagno e per qualche istante la paura che Kenjirou fosse caduto mentre era da solo, col rischio di farsi davvero male, gli fece balzare il cuore in gola.

Per il tempo che impiegò a raggiungere la stanza, ad ogni modo, Kawanishi riuscì a recuperare la freddezza necessaria a realizzare che il tonfo che aveva sentito non poteva essere quello di un corpo, ma piuttosto doveva essere stato causato da qualcosa di metallico a giudicare dal tintinnio acuto che aveva emesso. Una parte di lui si calmò: se il rumore proveniva davvero dalla stanza di Shirabu, era più probabile che Kenjirou avesse fatto cadere qualcosa con un movimento sbadato.

Quando entrò, però, ciò che vide lo lasciò spiazzato: Kenjirou non era nella stanza. Si sarebbe aspettato di trovarlo a letto, magari alle prese con un manuale o terribilmente irritato per ciò che era caduto, ma tutto quello che si trovò davanti era la stanza di un bianco asettico ed irritante e le lenzuola vuote.

«Shirabu?», chiamò, guardandosi intorno: non c'erano molti posti in cui poteva essere. «Shirabu, sei in bagno?», disse ancora, avvicinandosi alla porta.

Quando dall’interno non provenne alcun rumore, Taichi pensò che forse un infermiere aveva accompagnato l’amico a fare delle analisi di cui lui non era a conoscenza, per quanto strana fosse la cosa dal momento che tanto Ushijima quanto Shirabu sapevano che Kawanishi sarebbe andato in ospedale quel pomeriggio.

Prima di lasciare la stanza per chiedere informazioni, comunque, Taichi ebbe l’accortezza di aprire la porta del bagno e sincerarsi con sicurezza che non ci fosse nessuno. O meglio, sarebbe stata sua intenzione farlo, ma nel provare s’accorse che qualcosa di pesante bloccava quasi del tutto la porta. Il ragazzo provò con più forza ad aprirla, cercando di capire quale fosse il problema e al secondo tentativo realizzò che ad impedirgli di aprire la porta era proprio Shirabu, seduto a terra.

«Potresti smetterla, mi stai facendo male», disse stizzito il ragazzo, guardando l’amico dal basso.

«Che diavolo ci fai per terra? Sei caduto?» chiese Taichi - se non fosse stato alquanto preoccupato avrebbe riso di lui senza alcun pudore.

«A quanto pare non posso neanche vomitare in santa pace! No, devo trascinarmi la flebo dietro e far cadere tutto!» gridò Kenjirou.

Taichi guardò l’asta della flebo, rovesciata per terra, e il tubicino della sacca che, staccatosi dal braccio di Kenjirou, aveva lasciato scorrere un rivolo di sangue lungo la pelle chiara del ragazzo macchiando il pigiama.

«Hai la nausea?» chiese, entrando nello stanzino attraverso quel po’ di spazio che le gambe di Shirabu gli concedevano. Tirò lo scarico, rimediando almeno al tanfo del vomito.

«La nausea sta diventando la mia condizione esistenziale. E avevo da poco fatto uno spuntino!».

Kawanishi sentì chiaramente il nervosismo colorare le parole dell’amico e si accovacciò accanto a lui, per cercare di aiutarlo: Ushijima aveva detto loro anche di come la chemioterapia rendesse nervoso il compagno, perché Shirabu non era abituato a sentirsi tanto indebolito.

«Non sto ancora morendo, posso alzarmi da solo!» gridò ancora il ragazzo, tirando via in malo modo il braccio che Taichi aveva preso per sollevarlo.

«Allora che stai facendo ancora per terra?» lo provocò l’amico, onestamente seccato.

«Mi piace il fresco delle mattonelle!» rispose con prontezza Shirabu. Taichi sospirò, già stanco.

«Ascolta: sei sfinito e lo capisco - ti trovi in una situazione orrenda e affrontarla può sembrarti un’impresa troppo grande, ma non andrai di certo avanti standotene seduto qui a terra, a prendere freddo!»

«Sono malato, posso fare tutto quello che voglio! Basta che dica una parola e-».

Taichi non gli fece concludere la frase, ma si alzò di scatto e lo prese per le spalle tirandolo su con sé: era già dimagrito da che era stato ricoverato e non fece alcuno sforzo a muoverlo di peso. Kenjirou lo guardò sconvolto, spalancando gli occhi e senza trovare le parole giuste per commentare.

«Smettila, Shirabu. Ora basta! Non ho alcuna intenzione di star qui e lasciarti fare i capricci come un bambino di tre anni, mi hai capito?».

L’alzatore restò a fissarlo sorpreso, quasi traumatizzato dall’impeto con cui Taichi si stava muovendo: solitamente il suo compagno di stanza era sempre fin troppo quieto e passivo, come se nulla lo interessasse davvero tranne rare eccezioni. Non era abituato a vederlo così fervido, mentre lo stringeva tra le sue mani.

«Ed io non ho intenzione di farmi trattare come tale, né da te né da chiunque altro!» riuscì a rispondere, sebbene la sua convinzione vacillasse.

«Allora smettila di comportarti come tale!» tuonò ancora Kawanishi, prima di lasciarlo andare - s’era assicurato che stesse in piedi da sé. «Chiamerò un infermiere che ti rimetta la flebo», disse poi, uscendo per primo dal bagno.

«Sono stanco, Taichi! E furioso! Sono così furioso da essere a tanto così da usare l’asta della flebo per distruggere ogni cosa in questa stanza! E non so cosa farne di tutta questa rabbia! Più mi indebolisco e più stringo i denti per non gridare, per non prendere a pugni il muro».

A quelle parole Kawanishi si fermò sulla soglia della porta, voltando la testa verso l’amico. Shirabu aveva raggiunto i letto e vi aveva poggiato i pugni sopra, restando rigido. Tremava, non sapeva se per la rabbia o per lo sforzo a cui erano sottoposti i muscoli in quella posizione.

«Non voglio scaricare tutto addosso a voi, ma sta diventando difficile tenere tutto dentro. Così difficile».

«Allora non farlo», Taichi tornò sui suoi passi «Non imbottigliare tutto ed esplodere, lascia andare le cose con più grazia. Per essere così gracilino hai davvero poca grazia, Kenjirou».

Shirabu lo guardò rabbioso e Kawanishi sorrise.

«Sei il primo a dirmi cosa fare. Alle volte ho la sensazione che nessuno voglia prendere posizione, che abbiano tutti paura di me. Anche Semi, nella sua rabbia, non fa altro che allontanarmi».

«Dai tregua a Semi, credo di non averlo mai visto così spossato. E di’ agli altri quello che pensi! Nessuno sa come comportarsi, Kenjirou».

«Come avete sempre fatto, Taichi. Tu ci riesci».

«Per favore! Io non sono gli altri, ti sopporto da due anni!»

Shirabu lo colpì con un pugno alla spalla, come facevano sempre quando l’altro usava la propria lingua affilata per una battuta. Taichi sorrise e salutandolo con un occhiolino uscì per chiamare l’infermiere.

«Aspetta che Semi sappia che sei caduto in bagno!», disse quand’era ormai uscito. Shirabu raggelò alla sola idea.

 

Shirabu avrebbe dovuto capirlo da quella mattina che le cose non sarebbero andate come voleva. Avrebbe dovuto capirlo dai messaggi che aveva preso a scambiarsi con Kawanishi che la quiete era finita e stava arrivando la tempesta.

“Questo pomeriggio non riesco a passare da te per studiare insieme. Scusami”, gli aveva scritto il suo compagno di stanza, senza specificare se fosse successo qualcosa e senza dargli alcuna motivazione per quell’improvviso cambiamento.

Shirabu aveva risposto che non c’erano problemi ed aveva mentalmente sostituito quell’impegno con qualcosa di diverso: Ushijima sarebbe stato lontano per tutto il pomeriggio per via di alcune faccende da sbrigare con i suoi genitori e probabilmente il resto della squadra sarebbe stato impegnato con gli allenamenti o i compiti, quindi non si aspettava che qualcuno venisse. Dopotutto, era stato abbastanza chiaro un paio di giorni prima, quando l’intera squadra si era presentata da lui - l’intera squadra tranne Semi, ad ogni modo. Non voleva essere un peso o un pensiero fisso per loro e, d’altro cantopo, aveva anche bisogno di un po’ tempo per stare da solo, quindi non importava se non riuscivano a passare ogni giorno, non dovevano farlo per forza.

Da allora, la sua casella di messaggi era stata invasa da testi più o meno lunghi nelle più disparate ore del giorno - e anche della notte - ma in compenso si aspettava che qualche volta il pomeriggio sarebbe trascorso nella solitudine dei suoi pensieri e quello, a quanto pareva, si avviava ad essere il primo della lista.

Per questo si era fatto accompagnare in cortile - l’aria calda del tardo pomeriggio era piacevole, soprattutto quando le quattro mura bianche della sua stanza cominciavano a dargli una brutta sensazione di claustrofobia. Non era abbastanza forte da stare in piedi senza aiuto per troppo tempo e per non rischiare aveva chiesto ad un infermiere di aiutarlo a scendere per godersi un po’ di quel bel sole che con tanta fatica entrava nella sua stanza. Quella che stava provando era una sensazione di pace che credeva non sarebbe più riuscito a sentire, mentre ad occhi chiusi si lasciava riscaldare dai raggi pomeridiani. Avrebbe potuto addormentarsi in quella calma, avrebbe potuto passare la sua vita nella pace di quel momento.

«Sono contento di vederti qui fuori».

La voce di Semi lo colse alle spalle e lo fece sussultare. Era passata più di una settimana dal litigio che avevano avuto nella sua stanza  e in quei giorni i suoi erano i soli messaggi che Shirabu non aveva ricevuto.

«Quindi sei ancora vivo?» gli chiese con una certa acidità Kenjirou - cercò di nascondere il fatto che fosse ferito dalla sua assenza o stranamente contento di sentirlo nuovamente.

«Non dovrei essere io a farti questa domanda?»

Kenjirou aprì gli occhi e cercò la figura dell’amico, che lo affiancava: non si sarebbe mai aspettato che Semi fosse in grado di scherzare su una cosa simile e volle guardarlo in viso, negli occhi, mentre ancora quella frase vibrava nell’aria. Semi sembrava diverso: il viso un po’ tirato, i lineamenti un po’ tristi, gli pareva essere improvvisamente cresciuto e diventato adulto nell’arco dei giorni che non s’erano visti.

«Perché sei venuto?» Shirabu non voleva lasciar perdere, ad ogni modo. Non voleva che il loro litigio andasse dimenticato senza essere chiarito. Semi gli doveva delle scuse per come s’era comportato.

«Kawanishi non poteva e allora...»

Kenjirou si lasciò scappare una risatina: era molto più probabile che Semi avesse fermato Taichi e non gli avesse permesso di andare in ospedale di proposito, pensò, ma non disse nulla perché voleva vedere fin dove avrebbe portato quella storia Semi.

«Quindi hai deciso di venire al suo posto per ribadire il fatto che non dovrei fare nulla se non starmene a vegetare nel mio letto finché il cancro non mi sarà passato?» chiese con sfacciataggine.

«Quindi ho deciso di portarti i libri e gli appunti che doveva darti lui e di dirti semplicemente di fare tutto con calma e senza sforzarti troppo».

Questa poi! Da quando Eita era tanto accomodante? Da quando era tanto remissivo e accettava la volontà altrui pur non condividendola? Davvero si poteva cambiare in questo modo in così poco tempo?

Shirabu inclinò la testa da un lato, restando dubbioso mentre Semi prendeva dal proprio zaino qualche quaderno ed un libro, per poi posarli delicatamente sulle gambe del più piccolo. Tutto si svolse in silenzio ed Eita smise subito di guardarlo, fissando qualcosa all’orizzonte, lasciandosi accecando dal sole che stava tramontando.

«Tu capisci perché devo continuare a studiare, Semi?» Shirabu voleva che comprendesse che studiare era la sola cosa che poteva fare - occuparsi della propria istruzione, del proprio corso di studi lo aiutava a non impazzire, gli dava almeno la sensazione di avere ancora controllo su qualcosa dal momento che il suo stesso corpo stava cercando di ucciderlo. Studiare era il solo momento in cui Kenjirou aveva l’impressione di potercela ancora fare, che non tutto era perduto.

Semi annuì, senza dire nulla. Lo aveva capito, ci aveva messo un po’ ma aveva capito che cosa provava Shirabu e si era sentito in colpa per aver gridato contro di lui a quel modo. Il fatto che lo avesse amato, che lo amasse ancora non riusciva più a giustificare le sue azioni, non del tutto almeno. Per questo in qualche modo si era arreso. Voleva solo che Shirabu stesse attento, che non esagerasse come era solito fare, che avesse cura di sé nei limiti del possibile, perché se gli fosse successo qualcosa Semi non sapeva come avrebbe reagito.

«E tu capisci perché sono così preoccupato per te?» Semi s’era chiesto se Kenjirou si fosse mai accorto di qualcosa - il suo legame con Ushijima era nato diversi mesi dopo che lui e Tendou avevano preso a stare insieme, ma anche prima Shirabu era parso come rapito dal capitano: non c’era mai stato posto per nessun altro.

Shirabu però annuì, badando a che l’altro vedesse quel gesto. Perché col tempo, anche dopo che Semi e Tendou avevano preso a stare insieme, Kenjirou aveva capito che Eita lo aveva amato, che qualcosa in lui cambiava quando gli stava accanto. Non avrebbe mai potuto ricambiare quel sentimento e dopotutto anche Semi aveva trovato il suo giusto compagno, ma quell’amore - che durava ancora, che sarebbe durato per sempre - aveva preso a riscaldarlo con dolcezza e lui, a modo suo, non se n’era mai allontanato. Ora voleva riconoscergli quell’affetto di cui s’era nutrito in silenzio per così tanto tempo.

«Grazie, Eita».

   
 
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