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Autore: Adeia Di Elferas    25/10/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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La Tigre si era finalmente addormentata, stremata dopo un notte trascorsa a parlare del passato e a ragionare sul presente. Come una guerriera dopo la battaglia, aveva accettato l'appoggio solido e caldo che la spalla di Giovanni rappresentava e aveva chiuso gli occhi, per assopirsi all'istante.

Il Medici, invece, per quanto ci avesse provato, non era riuscito a prendere sonno. Anche mentre i primi raggi del sole entravano dalla finestra e le ultime candele arrivavano alla fine, l'uomo restava con gli occhi spalancati e la mente al lavoro.

Era steso sul letto, accanto a Caterina, che solo di quando in quando borbottava qualche parola, continuando a dormire, come faceva spesso quando gli incubi che le infestavano il riposo non erano troppo spaventosi.

Quello tra loro, quella notte, era stato un confronto molto intenso e Giovanni era contento che la sua donna si fosse fidata tanto di lui da dirgli tutto quanto.

All'inizio, dopo le prime parole, si era fatta un po' restia e gli aveva chiesto, prima, di parlarle anche un po' di lui, ma alla fine aveva ripreso in mano il discorso e aveva toccato tutti i punti che per lei erano più importanti.

All'inizio, per assecondare la sua richiesta, il Popolano aveva deciso di farle leggere qualcosa che ancora non le aveva mostrato, nell'intento di usare quelle poesie come pretesto per iniziare a parlare di sé e della sua infanzia e prima giovinezza.

Si trattava di alcuni fogli scritti a mano da lui, su cui aveva copiato delle canzoni di suo cugino, Lorenzo il Magnifico, come lo chiamavano i potenti della Terra.

Glieli aveva letti, insistendo soprattutto su quelli che preferiva e solo poi le aveva rivelato chi fosse l'autore.

“Anche se preferivo andare a cavallo e stare all'aperto, anche prima di ammalarmi mi piaceva leggere le cose belle. Li ho copiati tanti anni fa, certi quando ancora vivevo a casa sua... Altri da raccolte che mi sono capitate tra le mani. Sai, mio cugino, a Firenze, lo leggevano in molti a un certo punto.” aveva spiegato il fiorentino: “Li ho copiati perché mi piacevano, anche se li aveva scritti lui.”

“Tuo cugino doveva essere un uomo interessante.” aveva detto allora Caterina: “Oltre ad aver voluto lui la morte del mio primo marito, sapeva anche scrivere bene. Aveva molte ottime qualità.”

Giovanni non aveva detto nulla, apparendo un po' a disagio.

La Sforza, allora, aveva cambiato tono, prendendo i fogli e appoggiandoli con cura alla cassapanca, per poi tornare a sedersi accanto a lui sul letto: “Lo so che brucia ancora. Ti capisco, e lo dico davvero. So bene che significa, sentirsi traditi da parenti che credevi volessero solo il tuo bene.”

“Scusami – aveva subito soffiato l'ambasciatore, sentendosi decisamente fuori luogo – io penso al furto di qualche proprietà e di un po' di soldi, mentre tu hai perso l'uomo che...”

“Non mi riferivo al tradimento di Cesare e Ottaviano nei miei confronti.” aveva ribattuto subito la Leonessa, con un respiro fondo, che stava a indicare che forse era pronta a parlare: “Mi riferivo a mio padre. Io l'ho amato moltissimo, e lui, in cambio del mio amore, mi ha venduta a un uomo che nemmeno conosceva solo per evitare una guerra, senza nemmeno darsi pena al pensiero che io avevo solo nove anni e il mio promesso sposo – aveva detto quelle parole con le labbra distorte dal disgusto – ne aveva venti più di me.” e da lì aveva cominciato il suo racconto.

Giovanni ci aveva messo tutto quel che poteva per restare tranquillo, man mano che Caterina passava da un anno all'altro, nella sua storia, ma ogni sopruso e ogni difficoltà che lei narrava di aver superato era per lui un dolore. Avrebbe voluto esserle al fianco fin dal principio, per aiutarla e difenderla, anche se forse, in alcuni frangenti, sarebbe stato del tutto inutile.

“Avremmo dovuto incontrarci almeno venticinque anni fa.” aveva concluso il fiorentino, quando la donna aveva fatto una breve pausa.

“Venticinque anni fa...” aveva sussurrato lei, quasi sorridendo: “Allora tu avresti avuto quattro anni e io otto...”

“Almeno, se ti avessero promessa a me, non avresti dovuto...” aveva cominciato a dire l'uomo, ma Caterina l'aveva fermato subito, alzando la mano.

“Siccome non è andata così, è inutile parlarne.” aveva concluso, per poi prendere un respiro profondo e ricominciare il suo racconto.

E così il Popolano non aveva più detto nulla di simile, anche se pensava realmente che sarebbe stato diverso, se per qualche capriccio del fato, fosse stato lui, il promesso sposo di Caterina, fin dall'inizio.

Sentiva che erano stati destinati a stare insieme, dunque, anche se con un matrimonio combinato, sarebbero stati felici. Però, ormai quel che era stato era stato, aveva ragione lei.

Ripensare a tutto quello che si erano detti e alle lacrime versate quella notte – perché la Tigre, tra le sue braccia, sembrava anche capace di sciogliersi parlando dei figli, perfino, anzi, soprattutto di Ottaviano, quando invece il resto del mondo non lo avrebbe mai creduto possibile – non aveva permesso al fiorentino di prendere sonno.

Così restava in silenzio, una mano sul cuore, come ad accertarsi che continuasse a battere lento e regolare, e un braccio attorno alle spalle della Leonessa di Romagna, scossa ogni tanto da un fremito, quando la sua mente le riproponeva nel sonno immagini che da sveglia cercava con tutta se stessa di allontanare.

 

Giovanni Sforza sentiva ancora il freddo dell'alba nelle ossa, ma la strada tra la sua stanza e quella della moglie Lucrecia era stata sufficiente a farlo sudare abbastanza da fargli incollare il camicione alla schiena.

Bussò un paio di volte, fino a che la donna non gli disse di entrare pure. Era già sveglia anche lei, probabilmente perché la sua preparazione per il Venerdì Santo richiedeva molte ore. In fondo, tutti gli occhi di Roma sarebbero stati puntati su di lei, in quei giorni di Messe solenni e processioni.

Lucrecia lesse qualcosa di strano negli occhi tondi del marito e così congedò le due dame di compagnia e le altre serve che si stavano occupando di lei chiedendo loro di lasciarla sola con il signore di Pesaro.

“Andrò a confessarmi a San Crisogono.” disse Giovanni, tenendo le mani dietro la schiena e fissando un punto della parete.

Come sempre, quando era solo con Lucrecia, sentiva su di sé i suoi occhi penetranti e intelligenti, così simili a quelli di papa Alessandro VI, anche se meno crudeli. Era una sensazione tanto strana che come sempre, malgrado lui fosse più vecchio di lei, si sentiva in agitazione come uno scolaro davanti a un precettore inflessibile.

“Buona idea.” sussurrò Lucrecia, riprendendo a pettinarsi i lunghi capelli color oro.

“O a Sant'Onofrio. Non ho ancora deciso.” soggiunse Giovanni, sia per non dare punti fermi a una Borja, sia per non starsene zitto.

“Sono entrambe chiese molto concilianti, per una confessione.” commentò la giovane, mettendo in pratica l'arte oratoria dei salotti dove, per non annoiarsi troppo, si imparava a ricamare su dettagli e frasi di circostanza.

“Poi farò un giro di penitenza delle Sette Chiese...” proseguì lo Sforza, sentendo una goccia di sudore scendergli lungo la tempia e temendo che la moglie la notasse e si impensierisse, visto che lei era sempre pronta a cogliere da lui ogni minimo segnale.

Invece Lucrecia non lo guardò nemmeno. Non era solita fare a quel modo, a maggior ragione quando erano soli, eppure quel venerdì sembrava proprio intenzionata a fare come se il marito non fosse presente.

“Dunque vi saluto.” concluse Giovanni, schiarendosi la voce.

Finalmente la Borja sollevò gli occhi e lo fissò un momento. I loro sguardi si incrociarono per la frazione di un istante, ma allo Sforza fu sufficiente per sapere che Lucrecia aveva capito. Aveva capito tutto.

Ancora più nervoso di quando era entrato, l'uomo baciò la mano che la moglie gli stava offrendo.

“State attento.” disse solo la figlia del papa, rimettendosi subito allo specchio e non voltandosi più.

Il signore di Pesaro annuì e poi uscì. Fuori dal palazzo lo aspettava la sua scorta, un manipolo di uomini appena. Montato in sella, prese dapprima la strada che portava a San Crisogono, ma poi, appena fu lontano dalle finestre della sua casa, tagliò verso le porte della città.

Assieme ai suoi cavalieri, fendendo l'aria tersa del primo mattino del Venerdì Santo, Giovanni Sforza cominciò a galoppare, stringendo con forza le redini nelle mani.

Appena fuori Roma, condusse i suoi attraverso la campagna romana e poi, infischiandosene del vento freddo che soffiava senza requie e della sacralità di quel giorno, si diresse senza indugio verso gli Appenino, desideroso come non mai di rivedere la sua Pesaro.

 

Benché fosse il Sabato Santo e il resto della città fosse impegnata ai preparativi per la domenica, Caterina era ancora alla scrivania, al palazzo, assieme a Luffo Numai, a Cardella e a un altro paio di Consiglieri.

Aveva appena finito di revisionare con attenzione lo statuto della Compagnia della Pietà e dei Battuti Bianchi ed era abbastanza sicura di aver fatto un buon lavoro.

Subito dopo Pasqua, di comune accordo con i suoi più stretti collaboratori, avrebbe letto in Consiglio quei documenti e avrebbe costretto con le buone i notabili della città a piegarsi al suo volere. E poi avrebbe anche dovuto notificare a Ottaviano la sua nuova carica, laica, ma pur sempre pubblica.

“Questo è l'ultimo...” disse la donna, passando il foglio che chiudeva lo statuto a Cardella, che applicò i sigilli e sistemò il plico con fare molto professionale.

“Un messaggio da Roma.” annunciò una guardia, entrando nella saletta e porgendo una busta alla Contessa.

Caterina la prese subito, convinta che fosse stata presentata come una missiva urgente, se il soldato si era permesso di disturbarla in quel momento.

Scusandosi un momento con i suoi Consiglieri, la Sforza lasciò il tavolo e si mise vicino alle finestre per leggere meglio alla luce del sole.

Si trattava di un messaggio scritto dal Cardinale Raffaele Sansoni Riario. La donna scorse in fretta le prime righe, attendendosi le solite frasi vuote in cui il cugino acquisito era solito lanciarsi quando le doveva poi dire qualcosa di spiacevole.

Quella volta, invece, Raffaele era passato subito alle cose urgenti, lasciando solo a un laconico 'spero che stiate in salute voi e la famiglia vostra' tutto il compito di assolvere alle formule di prammatica.

'Vi invito – aveva scritto il Cardinale – a consegnare infine in modo ufficiale lo Stato vostro al vostro figlio primogenito Ottaviano, ben ricordandovi che in meno d'un mese ei avrà passato la soglia dei diciotto anni. È espressa volontà del Santo Padre che sia Conte e che sia padrone delle terre che furono del padre.'

Siccome non era la prima missiva che Raffaele le mandava per insistere su quel punto, la Tigre fu quasi tentata di non proseguire nemmeno la lettura e di andare oltre, ma proprio mentre stava per convincersi a farlo, i suoi occhi caddero sulla frase che seguiva.

'Voi Sforza avete già adirato più assai del possibile Sua Santità, con questa e altre condotte, e ricordo a voi che la vostra terra è concessione del Santo Padre e che le intemperanze vostre si sommano a quelle dei vostri parenti e infine vi si farà tutt'un conto.'

Caterina imprecò sottovoce, affibbiando qualche titolo onorifico poco gentile sia al papa, sia al Cardinale e poi accartocciò la lettera.

Invece di gettarla, però, o stracciarla, come aveva pensato di fare in un primo momento, preferì ficcarsela nel tascone dell'abito e rifletterci su con più calma una volta che fosse stata nella rocca.

Raffaele non aveva attaccato solo lei, come faceva sempre, e aveva usato anche toni molto più decisi rispetto al solito. Aveva incolpato gli Sforza in generale, per il malcontento del papa. Che cosa poteva essere successo ancora?

Se fosse capitato qualcosa a Milano, probabilmente l'avrebbe già saputo anche lei. L'Oliva, ex ambasciatore milanese, ormai era la sua vera fonte di notizie dalla sua città natale e quell'uomo sembrava sapere tutto prima di chiunque altro.

Se il Moro avesse fatto o deciso qualcosa di grave, era certa che il capo delle spie le avrebbe riferito all'istante le novità.

Dunque, che altro Sforza poteva aver fatto arrabbiare tanto Rodrigo Borja?

“La seduta è tolta. Finite gli ultimi dettagli formali. Il prossimo Consiglio si terrà finiti i festeggiamenti pasquali.” decise Caterina, tornando al tavolo dove Numai, Cardella e gli altri si stavano ancora affaccendando.

Gli uomini annuirono e fecero qualche mezzo inchino col capo, e poi guardarono la Leonessa uscire di corsa dalla sala.

“Dite che è successo qualcosa di grave?” chiese Cardella, occhieggiando preoccupato verso gli altri.

“Se è qualcosa che riguarda lo Stato – interloquì Luffo Numai, picchiettando un plico di carte sul tavolo – di certo la nostra signora ce ne parlerà al momento opportuno.”

“Ovvero?” chiese uno degli altri Consiglieri, accigliandosi.

“Ovvero dopo che ne avrà parlato con il Medici...” ridacchiò un altro.

“State zitti!” li redarguì Numai, alzando il dito sia verso l'ultimo che aveva parlato sia verso gli altri.

Quel gesto imperioso bastò a tutti quanti per archiviare qualsiasi velleità di pettegolezzo e tornare a lavorare.

 

I segretari di Giovanni Sforza, rimasti a Roma solo per il generoso compenso che il loro signore aveva elargito a ciascuno di loro, stavano aspettando nell'anticamera dell'ufficio di Stefano Taverna, ambasciatore milanese presso la corte papale.

Il signore di Pesaro aveva ordinato loro di andare lì subito quel giorno, il Sabato Santo, in modo da evitare che fosse il Moro a richiamarli, non appena saputo della sua fuga improvvisa.

Quando finalmente l'ambasciatore si liberò dal suo primo appuntamento, i segretari entrarono e si fermarono dopo pochi passi, timorosi, le mani dietro la schiena e gli occhi in terra.

“Che accidenti è saltato in mente al vostro padrone?!” sbottò subito Taverna, la cuffietta da scrivani di traverso e il volto livido: “Che ha nella testa quel cialtrone?! Ma si rende conto dell'incidente diplomatico che ha creato?! Papa Alessandro è su tutte le furie, da quando l'ha scoperto!”

“Il nostro signore...” cominciò a dire uno dei segretari, ma la voce gli morì in gola.

Con un passo marziale sottolineato dallo sguardo duro, l'ambasciatore milanese andò a piazzarsi davanti ai segretari di Pesaro e li fissò uno per uno: “Il vostro signore cosa, esattamente?!”

“Il nostro signore se n'è andato perché scontento di Sua Santità, suo suocero.” disse uno di loro, parlando tanto in fretta che le parole si accavallarono una sull'altra.

“Scontento di suo suocero?” chiese Taverna, apparendo incredulo.

Il segretario si sentì ridicolo, ma ripeté le parole che lo stesso Giovanni Sforza aveva usato nello spiegarsi con lui e con i suoi colleghi: “Sì, dice di avere un certo malcontento verso suo suocero...”

“Per Dio!” esclamò l'ambasciatore, battendo un piede in terra: “Per un malcontento si rifiuta un invito a cena! Si evita una battuta di caccia! Si finge di non aver gradito un regalo! Non si scappa di nascosto all'alba!”

I segretari rimasero a lungo in silenzio e in quegli estenuanti minuti, il milanese fece del suo meglio per calmarsi e ragionare.

Viveva ormai da anni a Roma e conosceva molto bene le dinamiche della corte dei Borja, le sue fragilità e le sue barriere invalicabili. Forse ci sarebbe stato comunque un modo per uscirne indenni, o quasi, ma doveva ragionarci molto attentamente.

“Sedetevi.” ordinò, con tono ruvido, indicando le sedie: “Ormai il vostro padrone ha combinato il disastro. Sta a noi sistemarlo. Dunque ditemi tutto quello che sapete. Se vi ha autorizzati o no a parlarne, me ne importa meno che sapere quanti capelli ha in testa sua Santità. Dunque parlate e basta.”

I segretari, annichiliti dal carattere furente e al contempo pratico dell'ambasciatore, si sistemarono attorno alla scrivania con lui e cominciarono a vuotare il sacco, benché non fossero poi molte le notizie a loro disposizione.

“E così ha lasciato un biglietto alla moglie?” chiese Taverna, a un certo punto, mentre uno dei segretari raccontava la partenza di Giovanni Sforza.

“Sì, prima di andarla a salutare, le ha scritto un breve messaggio e l'ha lasciato a una delle serve affinché glielo consegnasse entro sera.” confermò l'uomo.

“Va bene.” concluse l'ambasciatore: “Ora andatevene. Scriverò al Duca e vedremo cosa ci consiglierà di fare per evitare lo sfacelo.”

 

“Sta solo aspettando di trovare una scusa per distruggermi.” disse Caterina, appoggiando una mano al bordo del camino e sporgendo un po' in fuori il mento.

Giovanni teneva ancora tra le mani la lettera scritta dal Cardinale Raffaele Sansoni Riario. La Tigre gliel'aveva fatta leggere non appena rientrata alla rocca.

“Ma davvero non sai dire che cosa potrebbe essere successo?” chiese il fiorentino, un po' agitato.

Proprio come la Sforza, anche lui aveva subodorato la pericolosità delle parole che il romano aveva messo nero su bianco. Era chiaro come sotto vi fossero delle minacce molto chiare.

“No che non lo so.” rispose la Contessa, sbuffando: “So solo che non posso lasciare lo Stato a mio figlio. L'ho giurato a me stessa e quindi non lo farò mai. E poi è un incapace. In un mese si farebbe togliere sia Imola sia Forlì e Rodrigo Borja potrebbe usare queste terre come preferisce, e mettere me in carcere. O farmi finalmente uccidere, chi può dirlo.”

“Ma perché ce l'ha tanto con te?” chiese Giovanni, ripiegando la lettera.

“Ovviamente vorrebbe più controllo su queste terre. Durante l'ultima guerra si è reso conto della loro importanza e credo che stia evitando di requisirmele solo perché ha paura di un'eventuale reazione di mio zio.” spiegò Caterina, riprendendo la missiva e infilandola ancora nel tascone dell'abito: “In fondo contro gli Orsi, Ludovico era intervenuto. Forse il papa ha paura che i nostri rapporti siano migliori di quello che sembrano.”

Il Medici incrinò le labbra: “Però non lo sono. Quindi se mai dovesse davvero provare a prendere il tuo Stato...”

“Nessuno verrebbe in mio aiuto.” l'anticipò Caterina, senza nemmeno provare a citare l'eventuale protezione di Firenze, viste le sconfortanti notizie che continuavano ad arrivare dalla patria di Savonarola.

“Hai cambiato idea su di noi?” chiese a quel punto Giovanni, cercando il suo sguardo coi suoi occhi chiarissimi.

“Che cosa intendi dire?” ribatté la Sforza, mettendosi sulla difensiva.

“Che forse sposandoci gli presteremmo il fianco per l'affondo finale.” sussurrò il fiorentino, facendo una smorfia, come se stesse mangiando qualcosa di molto amaro: “Forse non è il momento per procurargli un casus belli del genere.”

La Tigre esitò un momento e l'ambasciatore fiorentino fu certo che stesse per dirgli che aveva ragione e che si doveva rimandare tutto.

Invece, dopo quella parentesi di angoscia, Giovanni sentì le mani della sua donna posarsi sulle sue guance per indurlo a sollevare lo sguardo.

Caterina lo guardò un momento, poi gli diede un rapido bacio e gli assicurò: “Quando ho deciso di stare con te, ho deciso anche di non permettere mai più a nessuno di interferire con la mia vita privata. Mi sono promessa che non avrei mai più permesso a nessuno di precludermi la felicità. E quando prendo una decisione e faccio una promessa a me stessa, non torno indietro.”

“Quindi...” provò a dire l'uomo, con la gola un po' secca e una certa soggezione per il tono sicuro con cui la Leonessa aveva parlato.

“Quindi ti sposo lo stesso – concluse lei sbrigativa – però dobbiamo stare più attenti di quel che abbiamo pensato all'inizio. Faremo in modo che la notizia non arrivi in modo ufficiale né a Roma, né altrove. Finché saranno solo chiacchiere di paese, il Borja non avrà nulla di concreto da usare contro di me.”

Il Medici sospirò e annuì. Caterina gli dedicò un breve sorriso e poi gli chiese se Ridolfi avesse già risposto al loro messaggio.

Gli avevano scritto per chiedergli di andare a Forlì per Pasqua, o anche prima, se fosse riuscito, in modo da discutere di alcuni progetti per la città di Imola.

In realtà la Contessa voleva metterlo a parte della novità maggiore, quella del matrimonio tra lei e Giovanni, così come aveva fatto con suo fratello Piero Landriani.

Era convinta sempre di più che almeno le figure chiave del suo Stato e quindi della sua difesa, dovessero sapere esattamente la verità, per non restare impreparati in caso di bisogno.

“Sì, la risposta è arrivata poco fa – disse il Medici – te ne avrei parlato subito, ma poi sei arrivata con quella del Cardinale e...”

Mentre lasciava sfumare la voce, andò alla scrivania e prese una lettera già aperta, porgendola alla Tigre, che la lesse in fretta.

Simone assicurava che sarebbe arrivato o la sera del Sabato Santo o direttamente a Pasqua, ma non faceva cenno a un'eventuale presenza anche della moglie.

“Va bene – fece Caterina, rendendo la lettera a Giovanni – ma quando arriverà, per favore, parlaci tu. Lo conosci meglio e saprai come gestirlo...”

“Non hai paura che io e lui si parli di qualcosa di cui non si dovrebbe?” chiese il Popolano, con un mezzo sorriso ironico.

La questione, in realtà, era molto meno comica di quanto l'espressione del fiorentino lasciasse trapelare. La Contessa si fidava ciecamente di lui, però doveva confessare con se stessa che in un primo momento aveva scartato l'ipotesi di lasciargli quel compito.

In fondo sia lui sia Ridolfi erano fiorentini. Chi poteva assicurarle che non avrebbero fatto discorsi strani, approfittando della sua assenza, su come sfruttare quel matrimonio in favore di Firenze?

Poi, però, si era ricordata che uomo fosse Giovanni e la sua paura era svanita.

Così fu con cuore leggero che rise alle parole del Medici e soggiunse: “Una paura folle. Ma sono una donna coraggiosa. Sopporterò di vivere nel dubbio.”

 

Lucrecia aveva appena mandato via anche l'ultima delle sue dame e finalmente era rimasta sola.

Pur temendo che si trattasse di un messaggio importante e urgente, la giovane non aveva osato aprire davanti a chicchessia il foglietto che suo marito le aveva lasciato prima di andarsene il giorno prima.

Quello era il primo momento in cui riusciva a stare completamente sola. La notte prima, sconvolto dalla novità, suo padre non le aveva lasciato prendere sonno, travolgendola con domande di ogni sorta, interrogandola sul perché e sul per come Giovanni Sforza se ne fosse andato.

“Ha visto qualcosa che non doveva?” continuava a chiederle: “Ha sentito delle cose che non doveva?”

Lucrecia aveva sempre risposto di no, dicendo che il signore di Pesaro era un uomo ingenuo, che probabilmente aveva solo paura di alcuni tumulti – che si era inventata di sana pianta – avvenuti in casa sua.

“Dovrei farlo inseguire...” aveva decretato, quasi all'alba, il papa, grattandosi il grosso naso e sgranando gli occhi, stremato dalla notte insonne e dal tormento.

“No, padre – l'aveva implorato allora lei – così fareste solo peggio. Lasciatelo andare. Quando avrà sistemato i suoi affari, vedrete che tornerà.”

Rodrigo non era stato molto dell'idea di seguire la preghiera della figlia, ma infine aveva ceduto, convinto anche dai suoi consiglieri e blandito dalle promesse di Ascanio Sforza e dell'ambasciatore milanese, che nel corso di quel Sabato Santo avevano fatto il sentiero a furia di andare da lui a invocare pazienza e perdono per un simile sconsiderato comportamento.

Addirittura, Taverna era arrivato a dire, pur in presenza di Ascanio: “Sapete come sono gli Sforza, no? Agiscono prima di pensare, e se anche pensano, lo fanno per il verso sbagliato. Bisogna saperli perdonare, perché fanno prima a mettersi a cavallo che non a contare quanto fa due più due!”

Con il cuore che batteva forte, Lucrecia si sistemò sotto la luce delle candele e aprì finalmente il biglietto di suo marito.

'Se vorrete, v'attendo la settimana dopo la Pasqua, a Pesaro che è anche casa vostra. Non mi interessa di quello che è stato. Non è tutto perduto. Vi ringrazio di cuore.' era il solo messaggio lasciato dallo Sforza.

La Borja lo rilesse fino a impararlo a memoria e poi, con una lacrima che scendeva lungo la guancia, lo fece in mille pezzi e lo bruciò dentro una terrina già annerita.

Mentre si stava ancora asciugando le poche e salatissime lacrime che le parole dello Sforza le avevano strappato, Lucrecia sussultò nel sentire battere alla porta.

“Chi è?” chiese, con voce un po' incerta.

“Sono io.” rispose suo fratello Cesare, dall'altro lato della porta.

Dopo avergli permesso di entrare, la giovane attese che il fratello le dicesse qualcosa, ma le uniche parole che uscirono dalla sua bocca furono: “Non avere paura. Ti libereremo di lui, in un modo o nell'altro.”

Lucrecia non riuscì a dire nulla, né per contraddire Cesare, né per ringraziarlo. Il ventunenne, che quella sera era vestito in modo molto sobrio, probabilmente in rispetto a quel giorno così sacro, le asciugò quel che restava del suo silenzioso pianto, convinto che quelle fossero state lacrime di paura e ansia per il futuro.

“Io non permetterò mai a nessuno di farti piangere ancora.” promise il Borja, stringendo una delle piccole mani della sorella.

Lucrecia deglutì a fatica, avvertendo l'alone di pericolo e morte che quelle parole emanavano.

Non era certa di quanto oltre si potesse spingere Cesare, ma la sua immaginazione le suggeriva che il limite di quell'aitante uomo, confinato in un abito talare che gli stava stretto, fosse a un livello molto alto.

Riuscendo a non cedere a un nuovo pianto, che questa volta sarebbe davvero stato di paura e ansia per il futuro, Lucrecia si lasciò abbracciare e lasciò che i mormorii di Cesare, che parlavano di vendette, amore, tradimento e affetto, tutti mescolati assieme nella confusione che albergava da sempre nell'anima di entrambi, la cullassero come una bella favola, tanto che, alla fine, finì per crederci anche lei.

 
   
 
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