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Autore: Luxanne A Blackheart    27/10/2017    1 recensioni
Nella Londra vittoriana un affascinante uomo proveniente dall'India, un benestante e facoltoso Lord imparentato con la regina, si trasferisce in uno dei quartieri più ricchi e alla moda dell'epoca.
Lui e la sua famiglia si adatteranno alla vita sociale inglese, partecipando a balli reali e alla vita mondana dell'epoca.
Da lontano sembrano perfetti con i loro vestiti costosi, i bei sorrisi affascinanti e i modi di fare garbati. Ammalianti come un serpente prima di attaccare.
Ma sotto quella apparenza di perfezione c'è di più...
Il loro aspetto cela qualcosa di raccapricciante e orribile.
Grida e strani versi si odono nella buia e fredda notte; sangue, sospiri, affari di malcostume e morte incombono sulla loro bella casa e su chiunque osi avvicinarli.
In una Londra sporca, popolata dalla volgarità, dal malaffare, dal sangue e dalla morte la famiglia Nottern saprà trovarvi la dimora ideale.
E voi, saprete farvi conquistare dalla Famiglia del Diavolo?
Genere: Dark, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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CAPITOLO QUINDICI.
Pesci fuor d'acqua.


“Voi che per amare contrattate domande e risposte. Da dove vieni, cosa fai, chi sei, cosa ti piace, cosa non ti piace? Parole, questo lo chiamate amore? Amore e morte hanno solo due lettere di differenza, soltanto due, per questo Frattaglia lo amò subito. A prima vista. Senza chiedere – non poteva rispondere. Senza domandare – non poteva udire. Si amavano: uno da vivo e l'altro da morto. La loro unione era perfetta.”
- Vodka&Inferno: la morte fidanzata. (Penelope Delle Colonne.)











Il bisogno è qualcosa a cui tutti ci affidiamo e abbandoniamo prima o poi. Ma ci sono due tipi di bisogni: quelli di cui non possiamo fare a meno per la nostra salute fisica e quelli di cui necessitiamo per quella mentale.
La mattina abbiamo bisogno di un caffè, di una sigaretta; a mezzogiorno di un pasto caldo per continuare al meglio; la sera di una tisana per spegnere il cervello e cercare di dormire sonni tranquilli e profondi. Viviamo in un asfissiante, noiosa e subdola routine e il sonno è importante.
Ce ne sono altri, di desideri, di bisogni, più profondi, cupi e oscuri senza i quali l'uomo non viene differenziato da un oggetto. Non possono essere strettamente collegati l'uno con l'altro, ma hanno qualcosa che li accomuna e li rende importanti.
L'amore è quello più importante, più oscuro, più pauroso di cui si parla sempre perché necessario anche solo produrne il suono con la lingua. Senza di esso l'uomo sarebbe perduto, ma con esso è pazzo e cattivo.
L'amore rende schiavi e gli uomini necessitano la libertà.
L'uomo ha bisogno di farsi del male, poiché è l'unico essere tremendamente, tragicamente e felicemente masochista. Si fa del male, scegliendo l'amore; si fa del male, fumando; si fa del male, pensando.
L'uomo ha bisogno di farsi del male, poiché il dolore è la cosa che conosce meglio, prima dell'amore. Gli uomini soffrivano prima di scoprirlo l'amore, e i neonati, esseri più saggi del mondo, questo lo sanno, ecco perché quando vengono al mondo, piangono.
L'uomo soffre quando nasce, soffre quando vive, soffre quando ama, soffre fino all'attimo prima della Morte.
La Morte è l'unica libertà reale che l'uomo riesce a sperimentare. Essa è l'unica amica.
Il bisogno più grande.






Lucille quando era piccola amava andare a pesca con suo padre. Sostava per ore su una piccola barchetta in legno che traballava ad ogni piccolo movimento. Amava la calma, la pace, il silenzio che circondava il piccolo laghetto, ma ricco di pesci, del suo piccolo paesino natio.
Suo padre indossava sempre un cappellino di paglia, che lei aveva realizzato a tre anni con la sua defunta madre e tutte le volte rischiava di cadergli in acqua, quando i pesci abboccavano all'amo.
Lei aiutava suo padre a buttarli sulla barchetta e li osservava, mentre si contorcevano come pazzi nel loro stesso sangue, il terrore e la consapevolezza di star per morire. Annaspavano, soffocavano, soffrivano e infine morivano tra atroci sofferenze. Lucille li osservava e sperava, tutte le volte, di non morire in quel modo. Privata della cosa più essenziale, della sua acqua, del suo ossigeno. Il terrore nei loro occhi e la vita che li abbandonava, poco alla volta, mentre loro si contorcevano, contorcevano, contorcevano...
Ma adesso si sentiva esattamente come un pesce fuor d'acqua. Il pescatore l'aveva catturata
e lei si contorceva come una pazza alla ricerca del suo ossigeno, si appigliava con tutte le forze a qualcosa che non c'era più e che non avrebbe mai più rivisto.
Will, il suo amato Will, il suo cuore, la sua anima, la sua parte malata.
Aveva perso il senno, poteva sentirlo abbandonarla poco alla volta. Infondo, non sarebbe stata la prima a impazzire in seguito la morte di un amato; era molto poetica la cosa, anzi.
Era tornata a casa sua, da suo marito, dopo due giorni nel quale aveva quasi interamente distrutto la tenuta dei Nottern. Dorian era venuta a prenderla, dopo che Roman e Jean gli avevano scritto una lettera.
E adesso era chiusa in camera sua, nell'enorme letto matrimoniale, a piangere. Non pensava che il suo corpo avesse così tante lacrime, eppure per quanto ne versasse, non finivano. La camera era diventata un cimitero con corpi sventrati, senza testa, arti, occhi. Sangue e orrore ovunque.
Lo vedeva ovunque, nei suoi sogni e negli angoli bui della camera. Lo sentiva sulla sua pelle, nelle sue orecchie, nella vista, nel sangue. William era dappertutto, era parte di tutto il mondo, ma allo stesso tempo ne era svanito.
L'aveva sempre avuto accanto, anche nei momenti nei quali si erano odiati. Non c'era secolo in cui, lei e lui, non si fossero incontrati anche solo per cinque minuti. I loro destini erano incrociati e il filo che li univa, quello che adesso le aveva lacerato il cuore spezzandosi, una volta tirato troppo a lungo, li riportava uno fra le braccia dell'altra.
“Devi smetterla, Lucille.”
“Di fare cosa?”, la ragazza alzò il capo con i lunghi capelli che le solleticavano le braccia nude. La camicia da notte che si era incastrata fra le gambe in un groviglio confuso e stropicciato. Sorrise, notandolo steso al suo fianco sul letto. Era vestito di bianco e emanava una strana luce bianca. I capelli biondi scintillavano e la invitavano a venire toccati e gli occhi chiari la guardavano come a rimproverarla. Poggiava la testa sulla mano e la osservava, mentre le dita, straordinariamente calde, le accarezzavano il viso.
“Di fare la cretina. Non diventare come me, non ne hai motivo.”
“Tu non ci sei più.”
“Hai un marito.”
“Amo te, non lui.”
“Provaci. Dimenticami. Vivi.”
“Solo se ritorni da me.”
“Non posso ritornare da te. Sono morto.”
“Ti vendicherò. Ammazzerò tutti loro, ogni abitante di Londra e verserò tutto il loro sangue sulla tua tomba.”
“Non farti consumare dal dolore. Non deve essere tuo amico, ma tuo nemico. La morte non è la soluzione ai tuoi problemi, non lo è mai.”
“Per i tuoi lo è stata. L'hai desiderata così a lungo, amore mio, che Lei ti è venuta a prendere. Come stai adesso? Sei felice?”
“Eternamente lo sarò, ma non voglio che a te capiti lo stesso.”, Will le accarezzò l'incavo del collo, sorridendole. “Io ero spacciato, per te c'è ancora una piccola speranza.”
“La speranza è la prima a morire.”
William rise, alzandosi dal letto e guardandola un'ultima volta. “Non credo fosse così il detto, sai.”
Lucille si alzò, gattonando sul letto e afferrando un lembo di maglietta di William, che si fermò dall'andarsene.
“Ho bisogno di te, ti prego con mi abbandonare.”
“L'unica persona di cui hai bisogno è te stessa. Arrivederci, Lucille. Ci vederemo prima o poi.”
William scomparve all'improvviso e la mano di Lucille ricadde sul letto. Dalla gola della ragazza fuoriuscì un urlo disumano e la sua vera essenza venne fuori. Con i capelli arruffati, la camicia da notte sporca di sangue e gli occhi da demone, scese dal letto e uscì dalla camera. Urlò il nome di una delle serve, che accorse subito da lei. La guardò, terrorizzata e indietreggiò, impaurita.
“Rebekkah cara, ti andrebbe di giocare al gatto e al topo?”, Lucille rise, leccandosi i denti appuntiti. “Io faccio il gatto e tu il topo, ovviamente.”
“No, signora, ve ne prego, ho un figlio da crescere! Non ha un padre!”
“Io avevo un'anima, ma me l'hanno portata via, me l'hanno strappata dal petto e sanguinerà per sempre. Ci tolgono sempre il nostro più grande desiderio, il nostro più grande bisogno. Tu sei quello di tuo figlio, William era il mio.”, una lacrima scese sulla sua guancia, andandosi a mischiare con il resto. “Adesso corri, topino, che il gatto ti sta per mangiare.”






Dorian entrò in casa, dopo la riunione con la Confraternita. L'anello brillava ancora sul suo dito, splendente e minaccioso, mentre un pugnale in frassino affilato e letale, era stretto nella sua mano.
La prima cosa che sentì, non appena varcò la soglia della porta di casa, fu il tanfo di morte che vi regnava. Poi li vide: sangue sui muri, arti staccati malamente giacevano per terra, cadaveri, morte nella sua distruzione più totale.
Lucille, la sua odiata moglie, sedeva su una pila di cadaveri e guardava fisso davanti a sé, come una di quelle vecchie imperatrici, padrona del mondo e della morte.
Il suo sguardo era come spiritato, pazzo, vuoto. Un essere senza anima e senza volontà, schiava della fame, dei capricci e del diavolo.
Dorian si fece il segno della croce, avanzando lentamente verso la ragazza. Le scarpe di fattura pregiata, italiane, facevano rumore. Il pavimento era appiccicoso per tutto quel materiale umano e man mano che ci si avvicinava, lo scempio era peggiore. Cercò di evitare una mano, sulla quale era rimasta ben poca carne e pestò un bulbo oculare.
“Bentornato, marito caro, com'era Londra quest'oggi?”, Lucille gli sorrise, buttando alle sue spalle uno dei servitori, come se fosse stato un oggetto senza vita, un niente. Sedeva nella penombra del corridoio d'entrata, tutta sporca di sangue, mezza nuda, con i capelli slegati e sporchi, nella sua essenza naturale, come il mostro che era.
“Ipocrita, mia cara.”, Dorian le sorrise, facendo cenno, subito dopo, a tutto quello schifo. “Vedo che ti sei divertita parecchio, questa mattina, Lucille.”
“E tu anche tu.”, la upir fece cenno al pugnale che aveva cercato di nascondere nella manica della giacca, non appena l'aveva vista. Dorian scrollò le spalle, facendoselo scivolare in mano.
“Non vorrei diventare il tuo prossimo spuntino.”
“Mi dispiace, Dorian, ma non mi piacciono gli stronzi narcisisti.”, Lucille scese dal suo trono, pestando con i suoi piccoli e bianchissimi piedi tutte le sue vittime e raggiungendo il marito. Talmente tanta era la grazia che accomunava gli esseri come lei, che quando camminavano, sembravano vibrarsi nell'aria. Non producevano rumore. “Che cosa vorresti fare, uccidermi?”
“Quando lo sai, perché chiedere?”
“Per fare un po' di conversazione. Siamo sposati da poco tempo, mio caro, stai già cercando di ammazzarmi?”
“Non sarebbe un matrimonio come si deve, se non lo facessi.”, Lucille sorrise, riacquistando il suo aspetto da povera ed indifesa donzella. Persino in tutto quel peccato, risplendeva come la più bella delle stelle. Poggiò le mani sul petto dell'uomo, alzando il capo e sorridendogli, raggiante. Dorian le cinse la vita, accarezzandole la schiena ghiacciata. Le passò la punta del pugnale sul viso, delicatamente, mentre lei gli accarezzava il viso con le dita.
“Adesso stai cominciando ad essere più interessante, mi dispiacerebbe doverti lasciare.”
“Quasi dimenticavo il tuo amore per gli psicopatici, Lucille.”
“Mhh, vuoi dire di esserlo?”
“Forse sì o forse no, questo non lo scoprirai mai.”
“Sai che ti uccideranno, quando avrai finito con me? Non c'è posto per le persone come noi, in questo mondo. Ce n'è a malapena per gli umani.”
“Non mi importa.”
“Allora uccidimi, non ti impedirò di farlo. Voglio andare da lui.”
“Non prenderla sul personale.”
Lucille scrollò le spalle, chiudendo gli occhi e alzandosi sulla punta dei piedi per baciare il marito sulla guancia liscia e perfetta, le mani poggiate sulle spalle.
In un attimo la testa di Dorian fu staccata dal corpo e il suo sangue caldo le macchiò il viso e tutto l'ambiente circostante. Il suo corpo, che spruzzava ancora il liquido caldo, cadde per terra in un tonfo. L'anello e il pugnale ancora sulla mano.
Lucille rise, pettinando i capelli della testa del suo ormai ex marito. Aveva ancora un espressione felice e vittoriosa in volto.
La signora Gray cominciò a ballare con la testa del marito, volteggiando leggiadramente, mentre canticchiava un motivetto allegro. Afferrò uno dei candelabri e vi infilzò la testa, poggiandola sul suo trono fatto di cadaveri, disperazione, morte e sogni perduti.
Dopodiché, andò al piano di sopra per sistemarsi ed uscire; doveva andare da James.






Fu una settimana di inferno, quella, tra piani per vendicare la morte del loro fratello e Vladmir e Camille che sembravano risucchiati dal nulla assoluto. Roman aveva portato Esmeralda e Theresa al sicuro, in Scozia, nella loro piccola tenuta. Lucille era tornata, ma sembrava la versione femminile di Will e peggiore, se si poteva. Aveva sempre lo sguardo perso nel vuoto, parlava da sola o non parlava mai e sembrava che a stento ti capisse, quando le parlavi. L'avevano trovata assieme a James a vagare per le strade di Londra, come due vecchi amici, tranquilli e in pace col mondo.
James, invece, si era chiuso in se stesso e non parlava con nessuno. Aveva incendiato tutti i quadri che aveva realizzato di Will, buttato tutte le sue Bibbie e i crocifissi. Si chiudeva nella sua camera e consumava droghe.
William era morto, ma era come se non se ne fosse mai andato. Dietro di sé aveva lasciato due fantasmi, due specchi di sé.
Jean aveva mollato per un giorno, un soleggiato sabato, uno dei pochi nei quali Londra era completamente esposta al sole e non al suo clima bipolare.
Sapeva di trovarlo lì, in quel parco, da solo, alle dieci e mezza. Era uno dei pochi momenti nei quali poteva passare del tempo da solo e riflettere. Charles camminava, con le braccia dietro la schiena, vestito di bianco, bello come il sole, mentre osservava i bambini giocare e rincorrere le farfalle.
Decise di raggiungerlo e parlargli. Aveva bisogno di sentire la sua voce, di sapere come stava, se l'aveva dimenticato, se mai pensava a lui, di notte, la mattina, la sera... Aveva bisogno di sapere se gli mancava come l'aria, come il sangue, come il cuore, come la vita.
Prima che potesse fermarsi e cambiare, l'aveva raggiunto. Le sue gambe avevano deciso per lui. L'aveva raggiunto alle spalle, quando si era fermato davanti ad un laghetto, sul quale le anatre nuotavano indisturbate.
“Ciao.”
Charles sussultò, girandosi verso Jean e guardandolo con gli occhi lucidi. “Pensavo di aver avuto una allucinazione. Sei veramente tu, allora.”
“Sì, sono io.”
“E' successo qualcosa?”, Jean vedeva che stava cercando in tutti i modi di trattenere le lacrime e che vederlo gli causava dolore. Era felice, in un certo senso, di sapere che ciò che provava lui, era ricambiato. Charles lo amava, non aveva mentito e stargli lontano era come ricevere tante pugnalate al petto. Il cuore, nel non stargli vicino, gli faceva male ed era un sentimento tanto doloroso e orribile che nessuno doveva mai sopportare.
Avevano bisogno l'uno nella vita dell'altro, così come Lucille e James avevano bisogno di William.
Nascere, crescere, amare, scegliere, annaspare e morire tra atroci dolori e sofferenze, questa era la vita?
“No, niente. Il solito. Mi manchi.”, disse Jean talmente velocemente da non riuscirsi a fermare.
“Sei tu che l'hai voluto.”
“Ho fatto il meglio per te, ho cercato di proteggerti.”
Charles annuì, distogliendo lo sguardo da quello dell'amore della sua vita, dal suo ragazzo.
“Lo so, ma questo fa ugualmente male.”
“Non voglio finire come Lucille, Charles. Voglio te, voglio la mia famiglia e la mia vendetta. Non voglio impazzire, ma voglio farlo amandoti e standoti accanto, perché tu sarai anche un dannato licantropo, ma sei il mio Charles, l'uomo che mi ha fatto scoprire chi sono dopo secoli di bugie.”, Jean lo guardò, non riuscendosi a fermare. Parlava talmente veloce che a stento riusciva a capirsi. Charles piangeva. “Credevo di venire da te, chiederti come stavi e andarmene. Ma sono debole, sono egoista e ti voglio nella mia vita. Voglio tutto, tutto te, tutta la vita che potremmo vivere assieme. Fanculo la società, fanculo tutto perché io ti amo, anche se sei americano.”








SPAZIO AUTRICE!
Eccoci qui, mancano pochi capitoli alla fine, precisamente due, compreso l'epilogo. Preparatevi perché finalmente nel prossimo tutti i nodi si scioglieranno!
Lasciatemi un parere e alla prossima!




 
   
 
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