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Autore: Roriam    27/10/2017    0 recensioni
“Così mi disse il diavolo: -Anche Dio ha il suo inferno: è il suo amore per gli uomini.", Fredrich Nietzche.
ATTENZIONE: la mia storia si differenzia molto dall'originale: il personaggio di Yuki è sostituito, quello di Kanata non è presente, Luze viene fatto partecipare di più e Takashiro non ha alcun compito legato alla reincarnazione degli Zweilt.
N.B.: non intendo urtare la sensibilità di nessuno (e se proprio così deve accadere me ne scuso): a parte delle frasi prese dal film The Tree of Life (che non ho potuto fare a meno di riprendere perché mi hanno profondamente toccato), la storia tratta, secondo quello che ho imparato e su cui ho riflettuto a livello personale, il tema del confronto tra Dio e il demonio, con i protagonisti che si schierano i favore della fede cattolica.
*Non ne sapevo niente ma a quanto apre anche in Giappone è praticata la religione cattolica.
NOTA: tutto quello che scrivo ha il solo scopo di contribuire alla storia: non intendo criticare, bacchettare né fare la morale a nessuno.
Per il resto spero che vi piaccia. Godetevela!
Attendo le vostre recensioni. :)
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luze, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Zess/Luka Crosszeria
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Mentre ripassava gli appunti di inglese per il giorno dopo Yori sorseggiava una tisana bollente di miele, limone e zenzero. Sua madre la raggiunse in salotto, posò sul divano accanto alle sue ginocchia un vassoio di biscotti alla cannella e la invitò a mangiarli con lei.
Per un po’ chiacchierarono di come avevano trascorso la giornata, sgranocchiando biscotti e ridacchiando come vecchie amiche.
Yori le disse di aver letto ai bambini dell’orfanitrofio la favola della rana e del bue e lei le raccontò della riunione di quattro ore e mezzo a cui aveva dovuto partecipare al lavoro.
Sua madre si chiamava Fumie, aveva la sua stessa forma del viso, così come le linee delle labbra e del naso. Era una donna premurosa, a cui piaceva parlare, ed era capace di non urtare mai né la pazienza né la sensibilità dei suoi interlocutori. Yori era grata di aver ereditato da lei anche quest’ultima caratteristica.
-Dimmi, sono curiosa: che cos’hanno pensato i bambini della favola della rana e del bue?- le domandò Fumie mentre si aggiustava la montatura degli occhiali sul naso.
-Hanno detto tutti di non voler fare la fine della rana.- ridacchiò Yori, intingendo un biscotto nella sua tazza.
-Beh, mi pare logico. E in quanto alla morale?
-Devono rifletterci bene, ma ci sono andati vicini.
-E quale sarà la prossima che gli leggerai?
-Quella dei due passerotti litigiosi.
Yori morse il biscotto e chiuse definitivamente il quaderno.
Il libro che stava leggendo ai suoi piccoli amici aveva titolo “Storie per bambini e per adoloscenti (e non solo...) a sfondo cristiano evangelico”. Lo avevano regalato i suoi nonni a suo padre in occasione della comunione. E poi lui l’aveva passato a lei in seguito alla sua.
In effetti era bislacco come la sua famiglia praticasse il cristianesimo in un paese in cui il panorama religioso era così variegato, in cui prevalevano il buddhismo e lo shintoismo, e a tratti anche l’ateismo. Ma la storia dietro la fede di Yori e dei suoi genitori era molto interessante.
Una caratteristica che non la faceva mai passare inosservata agli occhi delle persone era il fatto che Yori fosse affetta da albinismo totale. La sua pelle e i suoi capelli avevano il colore vellutato della panna, e i suoi occhi erano di un azzurro inconsueto per una giapponese. E tutto ciò lo doveva a suo padre, Filippo, che soffriva di una lieve forma di albinismo oculare. Infatti anche i suoi occhi avevano delle pagliuzze dello stesso azzurro.
Solo che a sua figlia aveva trasmesso anche tutto il resto...
D’altra parte era più che ovvio: Filippo era nato in Italia, dove patologie di questo tipo erano senza dubbio più frequenti che in Giappone. Ed era stato in Italia, all’epoca dell’università, che aveva conosciuto Fumie, la quale fin dai tre anni era stata divisa tra l’Italia (in cui sua madre si era trasferita) e il Giappone (dove suo padre era rimasto a lavorare in seguito al divorzio dalla moglie). Continuando a frequentarsi anche Fumie aveva finito per avvicinarsi alla dottrina cristiana. Poi, quando entrambi avevano deciso di trasferirsi in Giappone, dove avevano trovato lavoro, si erano sposati nella cattedrale di Tokyo ed avevano trasmesso la propria religione anche alla figlia.
A Yori non piaceva imporre le cose. In qualunque contesto e a qualunque persona. Per questo non pretendeva che leggendo quel tipo di favole ai bambini essi sviluppassero il senso del dovere di condividere la sua stessa religione. Voleva solo che imparassero, che riflettessero, che capissero l’importanza di fare del bene al prossimo anziché il suo male.
Sostanzialmente era questo che i racconti che suo padre le leggeva da piccola insegnavano.
Non le importava essere un’inquisitrice, tantomeno desiderava ricadere nel bigottismo.
La fede c’è. Semplicemente c’è. Ed è forte. Tanto forte da salvare un’anima, ma non abbastanza da impedire agli altri di tradirla o di disconoscerla.
D’altra parte l’essere umano resta libero di agire come meglio crede, e finché le sue azioni non assumono caratteristiche maligne non c’è motivo di intralciarlo.
Yori finì di bere la sua tisana e poi si diresse in cucina per aiutare sua madre a preparare la cena, tra meno di un’ora avrebbe fatto ritorno a casa anche Filippo.
 
I suoi genitori avevano visto la fasciatura.
Era successo quando era tornata a casa in tarda mattinata, dopo aver passato la notte in bianco con i suoi amici a casa di Chiaki. Si erano portati i sacchi a pelo da stendere sul pavimento, davanti alla TV in salotto, avevano effettivamente visto film horror su film horror mentre si ingozzavano di snack da 100 yen e bevevano birra, poi avevano giocato a “Never have I ever...”, seduti a terra in cerchio con una bottiglia di Umeshu in mezzo a loro, e verso le 07:30 del mattino avevano finito per addormentarsi l’uno sulle gambe, sulla pancia, sulla schiena o sulla spalla dell’altro.
Poi, verso le 12:07, si erano svegliati con le teste che ancora un po’ giravano, avevano messo a posto tutto, si erano salutati e avevano fatto ritorno a casa traballanti.
Ovviamente anche quella notte le era successo.
Sul tardi aveva chiuso gli occhi per la stanchezza un solo istante, all’inizio del terzo film, ed era accaduto tutto come al solito.
Per pura fortuna nell’addormentarsi Yori aveva abbandonato la mano vicino all’interno coscia, e quando si era svegliata di soprassalto e Miyoshi le aveva chiesto spiegazioni aveva addossato la causa del sangue alle mestruazioni.
Così era corsa in bagno, si era fatta una doccia veloce e si era messa un cambio di vestiti prestatole da Chiaki e un assorbente per autenticare la storia del ciclo, aveva messo i suoi vestiti in una busta e aveva appallottolato tutto dentro al suo zaino, aveva usufruito del kit di medicazione che i genitori di Chiaki tenevano nell’armadietto ed era tornata in salotto, tirandosi giù le maniche, per ripulire le piccole gocce scure finite sul pavimento.
Aveva messo in conto che dovesse accadere.
E grazie al cielo i ragazzi non le avevano fatto troppe domande. Akihito le aveva dato un bicchiere d’acqua con cui prendere un analgesico contro i dolori mestruali che Miyoshi (che era nella sua stessa situazione) le aveva dato.
Era accaduto tutto così in fretta che quasi Yori non se ne era resa conto.
Ma quando era tornata a casa, con la vista appannata e la testa che le girava per il troppo alcol, non aveva fatto caso alla manica sinistra della felpa. Che era risalita.
E quando Filippo le aveva preso con delizatezza il polso e Fumie le aveva chiesto come fosse successo Yori aveva cominciato a sudare freddo, si era ritratta senza fretta ed aveva farfugliato qualcosa su come Kanade avesse messo erroreamente il ginocchio nell’incavo tra il suo avambraccio e la mano. Li rassicurò del fatto che non era nulla di grave ma che era meglio tenere la fasciatura per far sparire il gonfiore. La sola cosa che occupava i suoi pensieri era la busta di plastica nello zaino piena del sangue colato dai suoi vestiti.
Doveva farla sparire.
Dopo che sua madre le aveva preparato un impacco di ghiaccio se ne era occupata.
Non era la prima volta che se ne accorgevano. Glielo teneva nascosto da quasi dieci anni ma gli incidenti capitavano, e ogni volta si ritrovava a giustificare le bende con una scusa diversa.
A volte si chiedeva se i suoi genitori non pensassero che lei praticasse l’autolesionismo. Senza contare il polso, con il sangue che perdeva spesso si sentiva debole e diventava sempre più magra, al punto da lasciar pensare che soffrisse di disturbi alimentari. Ma finché non glielo avessero chiesto personalmente non avrebbe detto nulla a riguardo.
Yori tirò fuori da sotto il letto la tinozza dalla forma ellittica, poi controllò le condizioni della sua piaga. Come al solito i segni erano sul punto di rimarginarsi, non erano più rossi ma rosa. Ma ancora per poco.
Yori gettò le bende nel cestino e  si infilò sotto le coperte.
Se doveva accadere, meglio che accadesse alla svelta. Era pronta ad incontrare le ombre, e a sentire le loro voci ormai familiari.
 
-Sono bellissimi come sempre, non trovi?
- Sì, è proprio vero. Ora sono uniti nello stesso corpo, giusto? Non capisco a chi dei due somigli di più.
Toko osservò la ragazza candida e sottile ritratta in quella foto di medie dimensioni. In effetti adesso era quasi irriconoscibile, aveva un po’ sia dell’uno che dell’altro. Era entrambi.
E aveva dei lineamenti molto particolari, come quelli di un elfo.
-Lo sai, adesso si chiama Yori.- disse.
-Yori. Che carino. Scommetto che è il risultato della fusione dei due nomi.
-Sì, infatti. Però io la trovo bella anche così, come due che diventano uno.
-È un bel concetto.
-Pare che ora non abbia alcun ricordo del passato. E Takashiro pensa che non sia il caso, almeno per il momento, di raccontarle tutta la storia.
Tsukumo accarezzò gentilmente la fronte piumosa del passerotto appollaiato sulla sua spalla, e provò ad offrirgli un cioccolatino. L’animale beccò il dolcetto un paio di volte staccandone delle scaglie, poi cinguettò in segno di ringraziamento.
-Lo preoccupa il fatto che stavolta non siano rinati in corpi distinti?- chiese, masticando a sua volta un cioccolatino. –Posso capirlo, questo episodio ha sconvolto tutti noi.
-Più che altro vorrebbe riuscire a capirne il perché. Crede che possa significare qualcosa. Che possa essere un segno di qualcosa che sta per accadere.
-Ah sì? Qualcosa di buono per noi?
-Chissà ... È quello che si augura.
All’improvviso, al suono di una fila di nocche che troppo velocemente si scontra con un osso zigomatico, l’uccellino volò via dalla spalla del ragazzo e andò a rifugiarsi sul ramo di un albero vicino.
Toko e Tsukumo si voltarono e videro, dall’altro lato della strada, un quartetto di studenti del liceo e un uomo molto in là con gli anni. Non c’era bisogno di chiarire nulla, il solo fatto che l’uomo fosse riverso a terra lasciava intuire tutto. Poi uno dei ragazzi lo colpì alla tempia con un calcio, e un’altro gli sottrasse il bastone da passeggio e glielo piantò nel fianco, mentre gli altri due ridevano in maniera diabolica.
Toko pigiò la foto nella tasca della gonna e si alzò furente.
-Ora vado e li metto a posto io!- escamò.
Tsukumo la trattenne per un braccio. –Fermati, ci vado io. Se si trovano davanti una ragazza di sicuro non la prenderanno sul serio.
-Smettetela di picchiarlo! Allontanatevi!
I due ragazzi si voltarono e videro che i quattro delinquenti avevano smesso di dare addosso al vecchio signore, che si teneva la testa dolorante. Guardavano la ragazza dai lunghi capelli bianchi che era sopraggiunta.
-Siete un branco di codardi. Prendersela con chi non riesce a difendersi ... – continuò lei.
Uno dei ragazzi rise. –E tu chi diavolo pensi di essere, la paladina della giustizia?
-Non ti permettere di chiamarci codardi, sei tu che sei un’arrogante presuntuosa.
-E che cavolo hai fatto ai capelli? Sono orribili!
-Somigliano alla bava di ragno. Non avrai mica fatto il bagno in una vasca piena di candegina.
-Secondo me questa qui è il risultato di qualche folle esperimento di laboratorio.
-Sei stata colpita da un fulmine?
Lei non assunse alcuna espressione. –È a voialtri che un fulmine deve aver distrutto il cervello. Ci vuole una bella faccia tosta per dare addosso ad una persona anziana. Vergognatevi!
-Chiudi il becco! Vuoi essere la prossima?
-Sei una ragazzina, non incolpare noi se poi ti fai male.
Uno dopo l’altro i ragazzi fecero per avvicinarsi a lei con i pugni serrati, pronti a piantarli nel suo stomaco. E lei, colta da uno sprazzo di timore, arretrò di un passo.
Il tipo più vicino le era quasi di fronte, quando un oggetto lo colpì alla testa e lo costrinse ad allontanarsi. Al ragazzo subito dopo di lui accadde la stessa cosa. Tutti rivolsero lo sguardo a quelle palline scure grandi quanto una biglia che rotolavano a terra. Sembravano dei cioccolatini fondenti.
-Sapete, voi quattro cominciate a darmi sui nervi. Che ne dite di piantarla, ora?
L’attenzione di tutti i presenti fu attirata dai due nuovi arrivati, che si erano avvicinati dall’altro lato della strada. Anche loro avevano addosso l’uniforme della scuola superiore. Il ragazzo non faceva niente per nascondere il cioccolatino sferico che roteava nel palmo della sua mano, e la ragazza aveva in mano un cellulare che squillava.
-Ho chiamato la polizia.- spiegò.
Bastarono quelle parole per mettere in fuga i quattro teppisti, che si ricomposero e corsero via tenendosi le teste con una mano. Così i tre aiutarono il vecchio a rialzarsi e a ricomporsi, e dopo essersi accertati che stesse bene (a parte quel bernoccolo che gli stava spuntando lì, dove la punta della scarpa aveva colpito la sua fronte) lo salutarono e lo guardarono allontanarsi.
-Hai davvero chiamato la polizia?
-Certo che no: ho mentito!-. Lei ammiccò al ragazzo. –L’ho fatto solo per farli andare via.
Yori si voltò verso di loro e chinò un poco la testa in segno di ringraziamento. I due la guardarono sorpresi, e per un attimo rimasero abbagliati dal bianco catarifrangente dei suoi capelli.
-Grazie mille dell’aiuto. Scusate se ho agito in maniera tanto sconsiderata, ma nessuno li avrebbe fermati altrimenti.
Tsukumo le offrì uno dei pochi cioccolatini che ancora gli restavano. -Figurati, non devi ringraziarci.
Lei lo accettò.
-Solo, cerca di fare più attenzione. La gentilezza non deve sfociare nell’ottusità. Va bene essere disposti ad aiutare gli altri, ma quelli erano quattro e tu eri da sola, sarebbe potuta finire molto male. Non credi?- la ammonì Toko, ma poi strinse le sue spalle con le braccia. –Però preferisco le persone che aiutano gli altri, anche senza avere riguardo per sé stesse, a quelle che li ignorano.
Yori non rispose all’abbraccio, la sorpresa l’aveva un po’ irrigidita, ma neanche si ritrasse. Notò solo come fosse bello il colore ramato dei capelli della sconosciuta, che alla luce del sole aveva dei riflessi dorati.
-Sono sicura che andremo molto d’accordo. Piacere di averti conosciuto.
-Ci vediamo, Yori.
-Ehi! Come fate a ....? – tentò di dire lei.
Ma i due erano stati così veloci a svoltare l’angolo che già non si vedevano più.
 
-Arrivederci, sorellona! Ci vediamo domani.
-Grazie, era bello il racconto di oggi.
-Buonanotte, sorellona, passa una bella serata.
Yori accarezzò i capelli arruffati di tutti i bambini, e si issò la cartella della scuola in spalla.
-Buonanotte a voi, fate sogni d’oro.
Poi si avviò verso casa, mentre con la mano rispondeva ai loro saluti da lontano.
Era una bella sera di ottobre, e anche se l’aria era fredda al punto da condensare il respiro non c’era il rischio di neve. Non ancora. A Yori piaceva l’inverno, e non solo per la neve. Le piaceva la possibilità di potersi riscaldare quando la temperatura scendeva, le piaceva il fatto di poter preservare il proprio calore corporeo quando all’esterno infuriava una tempesta gelida.
In un certo senso l’inverno era sempre stato accostato, in letteratura, arte, musica e poesia, all’immagine della morte. E nonostante questo anche durante l’inverno le persone sopravvivevano, resistevano alle avversità per preservarela propria esistenza.
Anche nella morte si consumava un inno alla vita. Un canto di vittoria destinato a non avere mai fine.
Per quanto un pensiero del genere conservasse un lato lugubre, non era comunque sprovvisto di fascino.
Yori trasse un lungo respiro e il gelo le entrò nei polmoni, poi buttò fuori l’aria che aveva ispirato. La “morte” entrò ed uscì dal suo corpo con una facilità incredibile. Sarebbe stato bello se fosse stato altrettanto facile nella vita reale.
Purtroppo però non tutto è facile.
Soprattutto nella vita reale.
-Ehi sorellona!
Yori aveva appena attraversato un incrocio pedonale quando si voltò, sentendo quella frase.
-Aspetta, sorellona. Non mi hai dato un abbraccio prima di andare via. Lo hai dato a tutti, lo voglio anch’io.
Il nome di quella bambina dal sorriso dolce era Moe, viveva nell’orfanotrofio Asahi da quasi quattro anni. Evidentemente doveva averla seguita fin lì. Solo che era strano. Lei non riservava mai abbracci ai bambini quando arrivava o quando se ne andava, solo quando giocava con loro, e non tralasciava mai nessuno.
-Dai, sorellona, voglio il mio abbraccio. Non mi far aspettare.
Yori guardò con orrore il dondolio dei suoi codini castani mentre saltellava a piccoli passi sulle strisce bianche, proprio mentre il semaforo diventava rosso. La borsa le cadde di mano e la sua voce esplose in un urlo che scosse le sue stesse orecchie.
-Moe, ferma!
Si lanciò verso di lei più in fretta che poteva. Con la coda dell’occhio riusciva a cogliere il baluginio dei fanali delle macchine. Si stavano avvicinando, ne era sicura. C’era quasi. Mancavano pochi passi e l’avrebbe raggiunta.
Come aveva fatto a uscire, perché nessuno se ne era accorto? Perché non l’avevano fermata?
Era sul punto di afferrarla e trascinarla via. Quando la sua mano passò attraverso la spalla della bambina, e la piccola Moe si dissolse in una nuvola di pulviscolo luminoso.
Le ginocchia di Yori urtarono l’asfalto e lei, ancora scioccata da quello che era accaduto davanti ai suoi occhi, si riscosse solo quando sentì il suono altisonante di un clacson trapassarle il cervello. Si voltò e vide un grande camion con le luci alte dirigersi a tutta velocità verso di lei.
Yori restò immobile a guardarlo senza realmente metterlo a fuoco.
Di colpo sentì il polso bruciarle e inumidirsi, ma la cosa più terribile di tutta quella situazione così surreale era che non riusciva ad alzarsi. Nonostante tentasse di fare forza sulle punte dei piedi per tirarsi su non riusciva a tendere le gambe, erano come pietrificate, erano pesanti, non si spostavano di un centimetro.
La luce dei fari aveva inglobato qualunque cosa nel suo campo visivo, era diventata accecante. E il suolo del clacson si era fatto ancora più assordante.
Ormai non c’era più niente da fare: era prossima alla fine.
Tutto ciò aveva dell’assurdo.
Aveva soltanto avuto l’alllucinazione di Moe che le veniva incontro? Forse il troppo sangue perso a causa del suo continuo incidente notturno aveva influito a tali livelli sulla sua lucidità? E perché era un maledettissimo tir quello che le veniva incontro? C’era sempre un grande viavai di macchine in quella zona. Perché l’universo aveva fatto sì che un camion passasse di lì proprio quella sera, e in quel momento, e all’assurda velocità di 150 km/h?
Yori distolse lo sguardo. Non voleva vedere, non voleva accettarlo. Si era rassegnata al fatto che un giorno sarebbe accaduto. Un giorno. Ma non quel giorno, era troppo presto. Non era il momento giusto.
Non sono pronta. Dio, Ti prego! Non adesso.
Ormai davanti a lei c’era solo il bianco, la nemesi del suo sogno. In quel momento lo trovò un colore ancora più spaventoso del nero.
   
 
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