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Autore: Adeia Di Elferas    28/10/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Ti trovo bene...” disse Ridolfi, dando una pacca sulla spalla a Giovanni, senza metterci troppa forza come se, malgrado le sue parole, in fondo non confidasse troppo nella solidità del fisico del cugino.

Il Popolano lo ringraziò e si assicurò ancora una volta che la porta della stanza fosse chiusa. Si erano messi nella camera delle letture, sfruttando il fatto che nessuno dei figli della Contessa in quel momento vi sarebbe arrivato.

Cesare era in Duomo, Ottaviano in città, Bianca con Sforzino nella sala dei giochi e Galeazzo e Bernardino, malgrado fosse una festa comandata, erano nel cortile d'addestramento assieme ai soldati e alla madre.

“Come mai non mi ha voluto incontrare prima lei?” chiese Simone, mettendosi su una delle poltrone in favore di camino e guardando interrogativo l'altro.

Il Medici sospirò e gli si sedette accanto, puntellandosi un po' sulla poltroncina che aveva scelto, indeciso su come cominciare il suo discorso.

“Credevo che quello che doveva dirmi fosse urgente, no? Insomma... Farmi viaggiare a ridosso della Pasqua...” continuò Ridolfi, strofinandosi in modo allusivo le brache, che ancora recavano i segni della nebbia gelata che aveva dovuto attraversare quella mattina: “Mi rendo conto che la Contessa è molto esigente con quelli che sono alle sue dipendenze, ma non vedo perché non fosse possibile attendere la prossima settimana... Se ci si pensa, io...”

“Stai zitto un attimo!” lo fermò Giovanni, che già aveva la lingua impastata e trovava difficile parlare apertamente, anche senza le chiacchiere inutili di Simone a riempirgli le orecchie.

Il Governatore di Imola che, malgrado l'apparenza era tutt'altro che uno sciocco, sentì subito la nota di nervosismo nel tono del Medici. Il cugino spesso si rivolgeva a lui con quelle brevi frasi perentorie, ma quella volta la sua voce aveva una sfumatura che Simone non riconosceva.

“Caterina mi ha chiesto di parlare con te perché pensa che, visto che ti conosco da tanto tempo, io sia più indicato per farti capire la delicatezza della situazione.” disse Giovanni, con la cadenza di qualcuno che si è imparato il discorso a memoria.

'Caterina? Adesso la chiamiamo proprio per nome?' pensò Ridolfi, mascherando il suo mezzo sorriso con la mano, fingendo di sistemarsi la barba rossiccia.

Il Popolano, preso dall'agitazione, si alzò in piedi. Per quanto fino a quel momento avesse cercato di stare calmo, l'ultima lettera arrivata da Roma lo aveva indotto a pensare in modo dettagliato a tutte le possibili ripercussioni di un'unione ufficiale tra lui e la Sforza.

Fino a quel momento aveva ragionato quasi esclusivamente come un uomo innamorato, ma ora cominciava anche a sentire il politico che era in lui riemergere e poteva valutare lucidamente i pro e i contro della loro decisione.

Nel vedere il cugino scattare in piedi e mettersi a ciondolare per la stanza, appoggiandosi ora contro il davanzale della finestra ora contro il bordo del camino, Simone iniziò a preoccuparsi.

“Io e Caterina ci sposiamo.” disse alla fine Giovanni, come se gli stessero cavando un dente.

Si era aspettato di sentirsi dare dello stupido e per un attimo l'espressione stolida di Ridolfi lo convinse che sarebbe stato così. Invece, poi, il mastodontico cugino si alzò dalla sua seduta e con una risata fragorosa gli andò incontro e lo abbracciò.

“Oh caspita, Giovanni! Qui ci son volute le binde!” continuò a ridere Simone, tenendo stretto a sé l'ambasciatore: “So quel che si dice, che il matrimonio è un male, ma è un male necessario! Che bello sapere che anche tu ti sposi..!”

Dopo qualche secondo ancora, il Governatore di Imola lasciò libero l'altro e lui guardò in volto, tenendolo ancora per le spalle: “Complimenti, Giovannino. E io che credevo che alla fine lei non avrebbe...” scosse il capo e con un sospiro soddisfatto lasciò definitivamente la presa sul cugino.

In tutto questo, il Popolano non aveva avuto pressoché alcuna reazione e questo impensierì non poco Ridolfi, che, accorato, si fece scuro in volto e chiese: “Cosa ti preoccupa?”

“Lo puoi capire anche da solo.” rispose Giovanni, rimettendosi a sedere.

Simone lo imitò e restò in silenzio a pensare. L'euforia del primo momento era ormai svanita e anche lui poteva finalmente vedere i limiti di quella scelta.

“Lorenzo lo sa già?” chiese, accavallando le gambe e appoggiandosi allo schienale con un respiro tronco.

“No.” rivelò l'ambasciatore, passandosi la punta delle dita sulle tempie.

“Devi scriverglielo subito.” fece Simone, con una certa durezza, la sopracciglia così calate sugli occhi da renderli quasi minacciosi: “Deve saperlo, così come adesso lo so io e come immagino lo sappia anche qualcun altro qui dentro. Non puoi permettere che lo venga a sapere per caso. Sia perché sarebbe un rischio, sia perché è tuo fratello, che diamine! Quel povero cristo ti ha tirato su come un figlio, anche se aveva solo pochi anni più di te. Almeno questo glielo devi.”

Sentirsi accusare di essere un ingrato irritò molto il Popolano che si mise sulla difensiva: “Sa già che la amo. Se deve prendere delle decisioni che riguardano anche lei, sa bene che...”

“Ma cosa vuoi che sappia?” l'attaccò Ridolfi, guardandolo fisso, quasi incredulo: “Devi scrivergli e devi farlo subito. Deve sapere che ormai la nostra famiglia è legata alla Tigre. Pensa se dovesse trovarsi alla Signoria a votare se usare questo Stato come barriera difensiva contro Venezia o se invaderlo direttamente per strapparlo al Doge. Non vorresti che premesse per far votare la condizione migliore per la tua donna?”

“La politica non...” cominciò a dire Giovanni.

“La politica c'entra eccome e lo sai anche tu, anche se non lo vuoi ammettere.” lo interruppe il Governatore: “Con questa unione, a ben pensarci, tuo fratello potrebbe anche guadagnare consensi, alla Signoria. Un'alleanza matrimoniale con la Leonessa di Romagna... Tirare Imola e Forlì e magari con il tempo anche Faenza dalla nostra ci permetterebbe di strappare la via Emilia a Venezia.”

“Io da oggi voglio pensare solo come suo marito. Non voglio cercare il maggior beneficio per Firenze e basta, ma anche quello per lei. Per noi.” disse piano il Medici, correggendosi sul finale.

L'altro fiorentino non commentò immediatamente, ma si prese ancora del tempo per ragionarci sopra.

Quando aveva accettato la carica di Governatore – e lo aveva fatto con molto convinzione – aveva anche accettato di riversare tutta la sua lealtà alla Contessa Sforza Riario. 'A breve Sforza Medici' si trovò a pensare Simone, mentre un angolo della bocca si sollevava appena.

“Hai ragione, Giovannino. Dobbiamo tutti e due pensare al bene di questo Stato, prima ancora che a quello di Firenze.” disse alla fine: “Anche se, sarai d'accordo con me, quando possibile, sarà da uomini intelligenti far coincidere il bene dell'uno e dell'altro Stato.”

“Quando possibile.” rimarcò il Medici, serio.

“Ormai anche io mi considero un uomo della Sforza.” lo rassicurò ulteriormente Ridolfi: “Anche se amo ancora molto Firenze, quasi non riconosco più la mia famiglia. Niccolò e Giambattista, poi, stanno navigando in brutte acque e quando li ho visti qualche tempo fa non hanno quasi voluto parlarmi...”

“E dunque a maggior ragione tu starai dalla nostra parte.” fece Giovanni, riacquistando un po' di certezza nel parlare.

“Però...” riprese Simone, gli occhi di norma accesi di esuberanza improvvisamente ombreggiati dalla paura: “Se per caso arrivassimo a un punto in cui si debba scegliere realmente tra la salvezza di Firenze e quella della Tigre... Cosa si dovrà fare?”

“Io...” soffiò il Medici, un po' smarrito: “Spero che non si arrivi a tanto, ma in quel caso, credo che sceglierei lei.”

“Sei proprio cotto come un pezzo d'arrosto.” sorrise stancamente Ridolfi, appoggiando una mano alla spalla del cugino con fare paterno: “Comunque – riprese, con tono più pratico – per il momento quale pensi che sarà il suo atteggiamento per quanto riguarda le tensioni con Venezia?”

“Non lo so di preciso e credo che stia aspettando, come stiamo facendo tutti.” rispose il Popolano, ben sapendo quanto Caterina si stesse arrovellando sul da farsi.

“Quando avrete preso una decisione, fatemelo sapere.” lo pregò il Governatore: “In fondo ho anche io una città da difendere.”

Il Medici promise che sarebbe stato così e poi sentì il battere pesante delle campane che si spandeva nell'aria immobile che circondava la rocca.

“Meglio che corri a cambiarti – disse al cugino – tra un'ora comincia la Messa di Pasqua e immagino che anche la mia futura sposa ti voglia in chiesa con noi.”

“La tua futura sposa...” rise Ridolfi, tornando del tutto in sé e distorcendo la voce in una tonalità canzonatoria: “Ma sentilo come si vanta, questo...”

Il Popolano sospirò, gettando gli occhi al cielo e indicando la porta al cugino. Questi scosse il capo divertito e seguì il silenzioso invito, tuttavia, quando aveva già una mano sulla maniglia, si fermò.

Voltandosi verso il Medici, strinse gli occhi e grattandosi perplesso la barba domandò: “Pensi che tu e la tua signora avrete figli?”

“Solo Dio può saperlo.” rispose laconico Giovanni.

“Allora ci proverete?” chiese Simone, imperterrito, aizzato come un cane affamato davanti a un pezzo di carne fresca: “Ci state già provando? Dai, dimmelo...”

“Quando fai così, mi fai venire i brividi.” lo liquidò l'ambasciatore, dandogli un colpetto sulla schiena per invogliarlo ad andarsene una volta per tutte.

Così il Governatore di Imola, seppur a malincuore, lasciò perdere e con un'ultima fragorosa risata uscì dalla sala delle letture per fare quello che il cugino gli aveva suggerito.

 

Quando la voce di Pietro Bembo si spense e così la musica dei liuti che l'avevano accompagnata, Isabella d'Este batté le mani con grande entusiasmo.

“Una volta – disse la Marchesa, plaudendo ancora alla bravura del poeta ventisettenne – dovreste cantare una delle vostre composizioni accompagnato da me.”

Pietro, da poche settimane alla corte dei Gonzaga, apprezzava già moltissimo la moglie del Marchese e l'aveva anche sentita suonare, un paio di volte, perciò quasi si strozzò per l'emozione nel dire, dopo un inchino: “Sarebbe un onore immenso per un misero cantore come me.”

Isabella, sistemandosi le ampie pieghe della sottana decoratissima che portava quel giorno, agitò la mano come a dire che non c'era bisogno di tutte quelle cerimonie: “Vedrete che anche mio marito sarà entusiasta di voi, quando vi incontrerà. Sono felice che siate arrivato a Mantova. Il vostro contributo alla cultura di questa città sarà fondamentale.”

L'uomo, sentendosi adulato, si passò impacciato una mano tra i radissimi capelli e raccolse i suoi fogli, ancora sparsi sul leggio: “Siete troppo gentile, mia signora.”

“Adesso siete libero.” riprese l'Este, vedendo uno dei servi avvicinarsi con una lettera su un piccolo vassoio: “Avremo modo di conoscerci meglio nei prossimi giorni. E la prossima volta, voglio sentire una nuova poesia, mi raccomando.”

Il Bembo fece un profondo inchino e, ancora eccitato per il successo riscosso, lasciò il salone, salutando distrattamente anche le dame di compagnia della Marchesa, che le stavano tutte attorno.

Isabella, intanto, aveva preso il messaggio che il servo le aveva porto. Era di Francesco. Diceva che sarebbe tornato all'inizio di aprile, se le stava bene.

Seguivano un paio di frasi criptiche sulla condizione di Ferrara e di Alfonso, ma all'Este bastarono per capire che doveva esserci sotto qualcosa di grosso.

“Mi ritiro per un po'.” concluse la Marchesa, che ancora doveva agghindarsi a dovere per la Messa di Pasqua: “Venite nelle mie stanze un'ora prima della Messa per aiutarmi a vestirmi.”

Detto ciò andò da sola fino alla sua camera e, chiusa con attenzione la porta, si mise alla scrivania, per rispondere al marito.

Non solo gli diede il permesso di tornare subito, ma lo pregò anche di non dare risposta scritta, ma di attendere di rivedersi di persona, in modo da poter discutere più apertamente 'delle cose della famiglia e di quanto ancora c'è da dirsi'.

 

La chiesa era ancora intiepidita dalla gran quantità di gente che l'aveva affollata durante la Messa finita da poco.

Quell'anno, la Pasqua pareva aver portato con sé una scia di fede rinnovata che aveva riportato molti a cercare Dio nelle parole dei preti.

Era difficile dire se fosse per via della morsa del freddo, che prometteva già un raccolto non soddisfacente – che sarebbe stato tamponato solo grazie all'ingente quantità di grano comprato dalla Tigre – o se fosse per la peste che sembrava farsi sempre più vicina.

Le voci sul castigo divino per eccellenza erano molte e contraddittorie e anche se la Contessa sapeva che il rischio c'era, era anche al corrente del fatto che si stava trattando di un'epidemia meno virulenta e letale rispetto ad altre del passato. Con un po' di fortuna, forse le sue città ne sarebbero rimaste addirittura indenni.

Il risultato della paura della fame e della morte, quindi, era stato che le navate di tutte le chiese dello Stato della Sforza si riempivano a ogni Messa, ogni giorno.

Il prete scelto da Giovanni stava già procedendo con i suoi riti, parlando a voce bassa, come se stesse facendo un discorso con se stesso. Teneva gli occhi bassi, senza osare mai guardare la Leonessa in volto, tanto meno l'ambasciatore di Firenze.

Bianca, una delle pochissime persone presenti nella cappella, osservava la scena senza sapere cosa provare. A tratti, le sembrava la cosa più bella del mondo, a tratti quella più assurda.

Sua madre indossava l'abito bianco a rosso, quello che per via dei colori milanesi veniva sfoggiato spesso nelle occasioni importanti. L'ampia scollatura sulla schiena era coperta da uno scialle, che la riparava anche dal freddo, e la testa era velata, da una stoffa non preziosa né abbellita da ricami o broccato, come si confaceva più a una donna comune andata in chiesa per caso, che non a una sposa del suo rango. A bilanciare questa carenza, però, c'erano i pesanti gioielli che portava al collo e alle mani.

Giovanni, invece, aveva scelto le calzabrache coi colori dei Medici, e un giubbone color oro spento, con le sei palle medicee ricamate in seta rossa sulle maniche. Sul petto, poi, sfoggiava una grossa collana d'oro massiccio, simbolo per un fiorentino tanto di potere economico, quanto di status di capofamiglia.

Alla giovane Riario, entrambi gli sposi parevano uno sfoggio delle rispettive provenienze, più che della devozione verso Dio che quel giorno li univa in matrimonio.

Nonostante ciò, quando dalle parole borbottate dal prete capì che si stava per arrivare allo scambio degli anelli e delle promesse, sentì un fremito nel petto che per poco non la fece commuovere.

Accanto a lei, le spalle dritte e un elegante giubbone scuro, stava il Governatore di Imola e anche lui, malgrado l'atteggiamento distaccato che aveva cercato di tenere fin dall'inizio, arrivò al punto di avere gli occhi lucidi, immerso in chissà quali ricordi e pensieri.

Dopo che i due sposi si furono scambiati i nodi nuziali, il prete si voltò un'ultima volta verso l'altare per sciorinare ancora delle formule del rito e questo breve intermezzo permise a Giovanni di guardare la moglie in modo più attento.

“Tutto bene?” sussurrò il Medici, la mano stretta in quella di Caterina.

La donna dovette leggere la domanda dal labiale del marito, visto che Giovanni aveva usato appena un filo di voce, in modo da non farsi sentire da nessun altro.

Il volto del fiorentino le parve ancor più gradevole del solito, con i riccioli castani che tendevano al rosso pettinati con cura, in modo che nemmeno una ciocca finisse davanti agli occhi.

Prima di rispondergli, la sua mente corse a quello che aveva fatto nemmeno un'ora prima di correre in quella cappella per sposarlo.

Era stata alla chiesa di San Girolamo, per andare davanti alla tomba di Giacomo. Era rimasta immobile davanti al lastrone per un po', cercando di pregare o anche solo di ricordare in modo lucido il suo secondo marito.

Per parecchi minuti, la sua memoria era rimasta muta, poi le aveva scatenato contro una tempesta di ricordi belli e brutti mescolati tutti assieme con la forza di un fortunale.

Quando era riuscita, a fatica e solo parzialmente, a scendere a patti con se stessa e con quello che ancora le si agitava nel petto come una belva feroce in cerca di una preda da sbranare, la Tigre aveva finito per appoggiare una mano alla pietra fredda e poi baciare con lentezza il nome del grande amore della sua vita, incisovi sopra.

Quando aveva ripreso le distanze dalla tacita lapide di Giacomo, aveva fissato ancora per un po' le lettere che lo scalpellino aveva vergato con attenzione e si era trovata a pensare a come quell'amore, alla fine, avesse tirato fuori solo il peggio, da lei. L'aveva resa un'assassina.

Trattenendo un brivido e ricacciando nel fondo del suo cuore quella sensazione intollerabile, Caterina annuì a Giovanni in modo impercettibile e poi, senza che la voce le uscisse davvero dal petto, sussurrò di rimando: “Tutto bene.”

Il prete si voltò di nuovo verso di loro, spezzò l'unica ostia che avrebbero diviso e riempì il calice di vino rosso.

Mentre i due sposi si comunicavano, Bianca cercò di ricordare il matrimonio per procura che l'aveva unita ad Astorre Manfredi, ma si rese conto di aver dimenticato praticamente tutto. Forse alla corte di Faenza erano stati più attenti nel seguire il rituale. Sperava di no, illudendosi che qualche pecca nel rito potesse darle un motivo in più per sciogliere quel contratto.

Immersa nei suoi pensieri, quasi non badò allo sguardo che sua madre e il Medici si scambiarono, dopo aver bevuto dallo stesso calice. Era stata un'occhiata così particolare che perfino il prete, che pure era stato ben attento per tutto il tempo a non far troppo caso ai loro eventuali cenni di intimità, si trovò ad arrossire.

Simone fece un sospiro pesante e si guardò la punta dei piedi, chiedendosi dove quel matrimonio avrebbe portato tutti loro.

Risollevò gli occhi giusto in tempo per guardare suo cugino e la sua fresca sposa accendere insieme un piccolo cero alla Madonna in segno di riconoscenza e devozione. Il modo in cui diedero fuoco al corto stoppino, che si animò subito in una fiammella alta e vigorosa, diede una strana impressione a Ridolfi.

Ascoltando solo con un orecchio le ultime pedanti preghiere del prete, Ridolfi cercò di scrollarsi di dosso il presentimento che quell'immagine gli aveva messo in corpo: anche se la fiamma era forte e chiara, il candelotto sembrava destinato a durare così poco...

 
   
 
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