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Autore: Adeia Di Elferas    28/10/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Per questa volta vi perdono.” disse Caterina, guardando di traverso Ridolfi, che rideva sotto i baffi, mentre i musici prendevano posto nell'angolo del salone.

“Pensavo che un po' di musica avrebbe solo potuto fare bene a un matrimonio come questo, no?” si permise di dire il Governatore, con un sorrisetto ammiccante, mentre i suoi occhi correvano ai nodi coniugali che la Contessa e Giovanni portavano al dito.

Non trovando altre obbiezioni da sollevare, la donna si mise a sedere all'unico tavolo preparato per quella sera e permise ai servi di portare da mangiare in tavola.

Aveva dato ordine che per un paio d'ore la sala da pranzo fosse chiusa agli altri abitanti della rocca, contravvenendo al consueto uso di lasciare tutti liberi di andare a mangiare quando preferivano.

I suoi figli erano tutti presenti, e con loro a parte Simone c'erano Luffo Numai, il Capitano Mongardini e un altro paio di fidati Consiglieri.

“Certo che – continuò Ridolfi, sistemandosi sulla sedia che stava al lato estremo della tavolata – se poi si vorrà danzare, sarà bene cercare qualche dama...”

La sua considerazione cadde abbastanza nel vuoto quando arrivò il vino e subito dopo la prima portata.

Per tutto il tempo, i figli della Contessa chiacchierarono tra loro, escluso Cesare che stava in silenzio, spizzicando appena quello che gli veniva messo davanti al naso. I Consiglieri e gli altri pochi presenti gustarono la cena con grande piacere e fecero del loro meglio per fingere che non vi fosse nulla di strano in quella particolare festa di nozze.

Caterina, dal canto suo, era felice perché quando erano usciti dalla chiesa si era accorta che quasi nessuno aveva fatto caso a loro, benché stessero camminando molto vicini e fossero vestiti in modo più elegante del solito.

Se fosse stata abile con gli inganni e le mediazioni, forse avrebbe ritardato a sufficienza il dilagare della notizia delle sue nozze, riuscendo a tenerla discretamente segreta almeno fino a quando la guerra non fosse davvero iniziata.

Come aveva previsto il Governatore di Imola, dopo aver mangiato e bevuto a sazietà, gli ospiti cominciarono a reclamare qualche ballo.

Dopo aver scambiato uno sguardo d'intesa con il marito, la Contessa concesse agli uomini presenti di far entrare nel salone qualcuna delle serve, se questo era di loro gradimento e in una manciata di minuti il banchetto di nozze si trasformò in una caotica festa popolana.

“Voi due non ballate?” chiese Simone, con una giovane sguattera di cucina a braccetto.

La ragazza era così sconvolta dall'emozione, da non riuscire a smettere di ridire, troppo incredula davanti all'invito ricevuto da un uomo tanto prestante e ben vestito da non essere in grado di trattenersi nemmeno davanti alla sua padrona.

“Per ora stiamo bene qui.” rispose Caterina, senza aggiungere altro.

Giovanni fece un breve sorriso e poi un gesto con il capo al cugino, per sollecitarlo a mettersi a danzare e lasciarli in pace.

Stando tanto vicini da aver bisogno solo di un sussurro accennato per parlarsi, il fiorentino e la Tigre passarono gran parte del tempo a scambiarsi impressioni e sensazioni provate quel pomeriggio e a commentare ogni dettaglio notato negli invitati, nel prete e nella gente di Forlì che li aveva visti uscire dalla chiesa.

Oltre al desiderio di stare così, uno accanto all'altra davanti a tutti a parlare con le mani dell'uno allacciate in quelle dell'altra sul tavolo, alla vista di tutti, a far preferire a Caterina di restare al tavolo piuttosto che danzare era stata la condizione del Medici.

Aveva notato che aveva mangiato davvero pochissimo, assaggiando appena le portate di carne e, nel tornare alla rocca, il suo passo si era fatto un po' incerto e di quando in quando una smorfia di insofferenza gli aveva incurvato le labbra.

Non sembrava allarmato, quindi la donna si era abbastanza tranquillizzata, ma era chiaro che la sua malattia lo stesse infastidendo anche quel giorno, quindi mettersi a saltellare a ritmo di musica non sarebbe stata una grande idea.

“Chiama tuo cugino e digli che è tempo di congedare i musici. Anche i soldati avranno fame, ormai...” disse a un certo punto Caterina, rendendosi conto improvvisamente del tempo che era volato.

Giovanni annuì, sapendo che la donna aveva ragione e che dei malcontenti tra le guardie della rocca era l'ultima cosa che serviva loro, così fece un cenno a Simone che, dopo un'ultima giravolta, lasciò la sua dama occasionale con un galante baciamano e corse fino al tavolo.

“Che c'è?” chiese, ancora con il fiato un po' corto.

Il Popolano stava invidiando come non mai l'energia che suo cugino sprizzava da ogni poro. Se solo avesse avuto un corpo esplosivo e scattante come il suo...

“Puoi dire ai musici che hai pagato di andarsene, adesso? Dobbiamo chiudere la festa qui, perché s'è fatto tardi.” spiegò l'ambasciatore, mettendo a tacere la propria invidia con una certa difficoltà.

Ridolfi fece un mezzo inchino e tornò in pista, dirigendosi però con decisione verso i suonatori.

A musica finita, i servi, ancora esagitati per la festa improvvisata, cominciarono a uscire dal salone, chiacchierando animatamente e canticchiando ancora qualche spezzone di ballata.

Mentre Caterina si era fermata un momento a parlare con Bianca, ringraziandola per essere stata presente alle nozze, Giovanni venne avvicinato ancora dal cugino.

“Mi raccomando, eh?” fece Ridolfi, dandogli un piccolo pugno scherzoso sulla spalla: “Tieni alto il nome della famiglia, stanotte.”

Il Popolano strinse le labbra, ma evitò di riprendere Simone, che aveva parlato senza troppa malizia e stava visibilmente ancora cercando di abituarsi davvero all'idea di quell'unione così complicata.

“Vi eviterò la cerimonia della messa a letto...” riprese il Governatore di Imola, assumendo un'aria molto più leggera: “So che a Milano non si usa quasi più, e quindi, anche se non mi dispiacerebbe poterla spogliare in corridoio prima di gettartela nel letto, eviterò. E poi non vorrei mettere a disagio la tua sposa.”

Giovanni soprassedette anche sulla risata che seguì e perdonò anche lo sguardo interessato che Simone lanciò a Caterina, che stava ancora parlando con la figlia.

“Hai fatto proprio centro, Giovannino...” sospirò Ridolfi, avvicinando le labbra all'orecchio del cugino: “Ah, ringrazia che sono un signore e le donne dei parenti e degli amici non le tocco...”

“Tua moglie è una donna molto bella. Ti consolerai appena tornerai a Imola.” rispose a tono Giovanni: “Non pensi a lei, quando dici certe cose?”

“Oh, sì, le penso eccome. Le penso almeno quanto lei pensa a me.” fece il Governatore con una strana espressione in volto: “Ecco perché stanotte cercherò di consolarmi con qualche giovane disponibile a...”

“Ma non ti senti un traditore a fare così?” lo interruppe il Medici, mentre vedeva con la coda dell'occhio la moglie che scambiava qualche frase ricca di tensione con il primogenito: “Non è spregevole accompagnarsi ad altre donne, a prescindere da quello che fa lei?”

A quel punto il volto di Ridolfi si irrigidì in un'espressione molto dura: “Anche se lei mi fosse fedele, io non rinuncerei comunque ai miei passatempi. Almeno siamo pari. Sai, ci sono quelli tranquilli come te, che quando sono liberi si accontentano di una ragazza ogni tanto, e poi, quando sono accasati, si accontentano della moglie. E poi ci sono gli altri – e i suoi occhi corsero di nuovo a Caterina, che aveva appena congedato Ottaviano – che non ne hanno mai abbastanza.”

“Sarà come dici tu.” concluse Giovanni, scuotendo piano il capo e lasciando Simone al suo destino, per andare incontro alla moglie che lo stava raggiungendo.

 

Carlo Orsini passò un mestolo d'acqua al fratellastro, Gian Giordano, che bevve avidamente fino all'ultima goccia.

“Credevamo di morirci, là dentro.” disse Paolo Orsini, infilandosi il camicione pulito che gli era stato prestato.

Erano al riparo nel padiglione del figlio illegittimo di Virginio Orsini ed erano usciti da poco da Napoli. Fuori, la notte era fredda, ma limpida e non c'era traccia di nuvole nel cielo stellato, lasciando sperare per una mattina, il giorno dopo, tersa e di ottimo accompagnamento per una lunga marcia.

Nonostante avessero una certa fretta, Carlo aveva preferito attendere di essere un posto tranquillo, prima di permettere loro di rassettarsi e cambiarsi.

Anche se il riscatto e le trattative erano ormai concluse, non ci si poteva fidare della parola del papa, tanto meno di quella di re Federico.

Prima di far rotta verso Bracciano, quindi, Carlo aveva preferito fare una breve sosta, in modo tale che sia Paolo sia Gian Giordano potessero riprendersi un attimo e affrontare il viaggio con uno spirito rinfrancato.

“Abbiamo dovuto aspettare di annientarli sul campo, prima di chiedere la vostra scarcerazione al papa.” spiegò Carlo, passando da bere anche a Paolo.

Questi lasciò il mestolo a metà, grattandosi la testa, che prudeva sia per colpa delle pulci sia per il groviglio incredibile di capelli che erano cresciuti a dismisura durante la prigionia.

“Potevate pagare anche prima – disse Paolo, con acrimonia – i soldi li avevate.”

“Io ho fatto quello che andava fatto.” si difese Carlo, offrendo anche del cibo a entrambi i parenti.

“Se solo avessimo potuto uscire da lì prima che mio padre...” sussurrò Gian Giordano, con un sospiro spezzato.

La morte di Virginio aveva colpito al cuore anche Carlo che, pur essendo solo un figlio nato fuori dal matrimonio, era sempre stato legato all'idea del padre, famoso condottiero e gran combattente, tanto da volerne diventare l'erede morale sui campi di battaglia d'Italia.

Però, quando sua zia Bartolomea gli aveva fatto presente che era necessario agire con calma e lucidità, preferendo una vittoria piena a costo di qualche grave perdita, piuttosto che un vago pari e patta nella speranza di salvare 'un vecchio' – così aveva chiamato il fratello in una lettera, restando fedele al suo modo sprezzante di esprimersi anche quando era emotivamente coinvolta – Carlo aveva seguito i suoi ordini, senza fiatare.

“Io non verrò con voi a Bracciano.” disse a un certo punto Paolo, facendosi passare un paio di stivali: “Datemi un cavallo e un paio di uomini. Ve li farò riavere, ma devo andare al nord.”

“E dove?” chiese Gian Giordano, guardandolo con gli occhi sgranati.

“A Venezia.” rispose senza esitazioni Paolo, le mani, diventate scheletriche durante la reclusione, che tiravano il cuoio rovinato delle galosce per infilarle bene sulla gamba: “Ho degli affari, là.”

“Fate come vi pare.” ribatté piccato Carlo, ricordando a Paolo il modo secco in cui Virginio parlava da giovane quando qualcuno lo deludeva.

“Lo credo bene che farò come mi pare.” borbottò Paolo, guardando l'Orsini più giovane con aria di sfida: “Io non mi spezzo la schiena per chi mi stava lasciando morire divorato dai ratti.”

 

Appena usciti dalla sala dei banchetti, Caterina e Giovanni erano andati nella stanza del fiorentino, scelta di comune accordo come camera matrimoniale.

Per facciata avrebbero mantenuto anche quella della Contessa, ma dubitavano che ci sarebbe stato bisogno di usarla spesso. La donna l'avrebbe tenuta in uso soprattutto per tenervi gli abiti e la maggior parte dei propri oggetti personali, ma da quel giorno non aveva alcuna intenzione di restare lontana dal marito nemmeno per un notte.

Come se non avesse aspettato altro per tutto il giorno, appena la porta le si chiuse alla spalle, la Tigre cominciò a levare al Medici il giubbone ricamato e il camicione che portava sotto.

Sentendo le mani calde della moglie accarezzargli la pelle della schiena e poi del petto, il Popolano si accese allo stesso modo in cui aveva preso fuoco lei, anche se, mentre cominciava ad armeggiare con i lacci del suo abito, gli tornarono in mente le parole di Simone.

Il modo in cui il cugino aveva occhieggiato verso Caterina, nel parlare di come certe persone non riescano ad accontentarsi di un unico amante, aveva preso prepotentemente spazio nella mente di Giovanni che, colto da un improvviso panico, fermò un momento la moglie, per indurla a guardarlo negli occhi.

In piedi in mezzo alla stanza, con solo le braci del camino a far loro da sole, la Leonessa e il Popolano si fissarono per un lungo istante.

Appena prima che la donna aprisse bocca per chiedere quale fosse il problema, il fiorentino disse, con un tono un po' impacciato: “Io non ti faccio una colpa, né te la farò mai, di essere stata di tutti quegli uomini.” prese fiato, mentre la Tigre sembrava indecisa se commentare o meno la scelta delle sue parole: “Però da adesso in poi ci sono solo io. Va bene?”

Caterina fece mezzo passo indietro, sciogliendo le proprie dita dalla stretta di quelle di Giovanni e parve adombrarsi. Il sospetto che l'uomo aveva espresso con quella richiesta la ferì, ma poi, ritrovando in fretta la lucidità di pensiero, la Contessa si rese conto che l'incertezza del marito era comprensibile, vista la fama che la permeava.

Vedendo la paura nascosta nelle iridi chiarissime del Medici, la Sforza lo riavvicinò a sé con impeto e, dopo averlo baciato, gli assicurò: “Sì, da adesso ci sei solo tu.”

 

Ludovico Sforza stava aspettando che la 'Contessa Bergamini', così ormai la chiamavano tutti, si degnasse di riceverlo.

Le aveva fatto recapitare giusto il giorno prima una tela del domine magister, che raffigurava una meravigliosa Madonna con il bambinello che benediceva una rosa e aveva scelto un messaggio d'accompagnamento che secondo lui avrebbe riscaldato un po' il cuore della sua Cecilia.

Così come aveva cercato di riparare gli errori che Beatrice aveva commesso con Isabella d'Aragona, così il Moro voleva fare altrettanto con la Gallerani.

Il modo in cui l'aveva dovuta cacciare dal palazzo di Porta Giovia poco dopo aver dato alla luce un figlio, maschio per giunta, era stata una grande fonte di dolore per lui.

Non credeva che fosse stato giusto, soprattutto perché il motivo scatenante era stato un dono scelto da lui, dunque la povera Cecilia non aveva avuto alcuna colpa. Era stata solo una stupidità sua, che non aveva avuto la mente abbastanza brillante per capire che Beatrice avrebbe notato due abiti identici.

Nella lettera che aveva pomposamente scortato il quadro fino alla splendida dimora dei coniugi Bergamini – quell'espressione, 'coniugi Bergamini', era sufficiente a far venire la nausea al Duca di Milano – diceva: 'Per Cecilia qual te orna, laude e adora, el tuo unico fiolo, o Beata Vergine, exora.'

“La Contessa può ricevervi.” annunciò il servo, aprendo la porta che portava dalla sala d'attesa a quella di rappresentanza.

Ludovico si alzò di scatto dalla seggiola e quasi si mise a correre. Una volta varcato l'uscio, si trovò un momento senza fiato.

Non vedeva Cecilia da molto tempo, eppure sembrava identica all'ultima volta in cui si erano incontrati.

“Grazie infinite per l'opera d'arte che mi hai donato – disse la donna, con una voce molto più calma di quanto non fosse qualche anno addietro – l'ho apprezzato molto. Ma mi ha anche messo molta malinconia.”

Il Moro deglutì a fatica, guardando gli occhi tiepidi e accoglienti della donna che aveva amato disperatamente e che poi aveva dovuto allontanare da sé in modo tanto brutale.

“Malinconia..?” chiese l'uomo, con un filo di sorpresa.

“Quel bambino dipinto dal tuo maestro Leonardo...” sospirò Cecilia, camminando verso di lui con un fruscio di sete e broccato: “Mi ricorda tanto nostro figlio. Quando me lo lascerai portare qui per qualche ora? Non puoi sapere quanto mi manca.”

Lo Sforza guardò altrove, temendo che il colletto tutt'altro che accollato della Gallerani lo distraesse tanto da fargli perdere il filo del discorso: “Sai che il nostro Cesare sta avendo un'ottima educazione a palazzo...”

“Che sciocca che sono.” sorrisa amaramente Cecilia, continuando a parlare con un'inclinazione affettata e un po' retorica, molto più raffinata e falsa di quella che il Moro ricordava di aver udito dalle sue labbra: “Adesso hai una nuova amante che ti consola, non è vero? Adesso che hai perso la tua adorata Beatrice, c'è la bella Crivelli che ti scalda le lenzuola nelle notti di solitudine...”

“Perché mi parli così?” chiese il Moro, guardandola, finalmente.

La donna era a pochi centimetri da lui e, ora che la osservava meglio, nei suoi occhi c'era rancore, più che tristezza.

“Mi hai usata e poi mi hai messa a tacere con un marito che non vale nulla e una casa rubata a un morto.” disse Cecilia, implacabile, indicando la stanza con un gesto della mano, quasi a evocare lo spetto di Pietro Dal Verme: “E ora perché sei qui?”

Ludovico ormai non capiva più nulla. Quel fare aggressivo aveva dato colore alla Gallerani, rendendola più viva e attraente che mai.

Prima che potesse trovare un modo pacifico per continuare la discussione, il Duca si gettò su di lei e la baciò con violenza.

Cecilia, che nel momento stesso in cui se l'era ritrovato davanti aveva sentito vacillare la sua fermezza, sentiva che la sua recita sarebbe miseramente fallita. Aveva cercato di parlargli con determinazione e freddezza, ma ora che sentiva le grandi mani dell'uomo che aveva amato stringerle la vita con desiderio, tutto il resto non contava più nulla.

Senza avere la forza di rifiutarlo, la donna si lasciò prendere senza opporre nessuna resistenza, con l'unica speranza che né suo marito, né alcun servo, l'andasse a cercare nella saletta di rappresentanza proprio in quel momento.

 

I due sposi si erano svegliati molto tardi, quando il sole già arrivava verso il mezzogiorno.

La Contessa era uscita solo un momento, per andare nelle cucine a prendere qualcosa e avvisare il castellano Feo del fatto che quel giorno non sarebbe stata disponibile se non nel tardo pomeriggio, e poi era tornata da Giovanni.

Aveva appoggiato il vassoio sul letto, aveva ravvivato la fiamma nel camino e poi si era sistemata accanto a lui, che ogni tanto ancora sbadigliava.

“Prima di conoscere te – disse il Popolano, circondandole le spalle con un braccio e allungando la mano libera sul vassoio – io mi sentivo come il pane della mia terra.”

“Cioè?” domandò la moglie, curiosa, mentre prendeva un pezzo di carne di cervo con la punta del coltello.

“Cioè sciocco, senza sale, sciapo.. Insipido.” spiegò il Popolano, afferrando poi un pezzo di pagnotta che stava sul bordo del vassoio: “E così era la mia vita.”

Addentò il bordo di crosta e masticò un po', deglutì e concluse: “Mentre ora, finalmente, la mia esistenza ha sapore.”

“Voi fiorentini ci sapete fare, con le parole...” sospirò Caterina, mangiando ancora un po' di cervo.

“La mia una terra di poeti.” confermò il Medici, con un sorriso tranquillo, prendendo ancora un po' di pane: “Una volta mi piacerebbe portarti con me a Firenze.”

La Sforza non disse nulla e le parole di Giovanni aleggiarono un momento nell'aria calda e immobile della loro camera.

Anche a lei sarebbe piaciuto andare con lui a Firenze. Ogni volta che suo marito ne parlava, doveva confessare di provare il desiderio bruciante di vedere di nuovo quella città, ma questa volta di vederla davvero.

Quando c'era stata da bambina, era stata troppo concentrata su suo padre, per accorgersi del resto.

Aveva apprezzato la magnificenza dei palazzi e l'aveva colpita la casa dei fratelli Medici, senza torri né camminamenti. Era così strana ai suoi occhi di bambina cresciuta in una rocca militare chiamata pretenziosamente 'palazzo' solo per motivi di etichetta.

“Una volta potrebbe capitare...” provò a dire Giovanni, quasi a convincersi da solo: “Non sappiamo che cosa ci aspetta in futuro, no?”

“No, infatti. Un giorno potremmo anche essere costretti a scappare da qui e rintanarci nella tua bella Firenze.” fece la Tigre, con una volontaria spina di ironia e una bella dose di realismo.

“Spero di non doverci andare per un motivo tanto brutto.” sospirò il Medici, che aveva già finito la sua parva colazione.

La Contessa prese ancora qualche pezzo di carne e poi raccolse il sugo rimasto con il pane, e infine si alzò per mettere il vassoio sulla scrivania.

“Comunque andrà, l'importante è che restiamo uniti.” disse ancora Giovanni, facendole segno di tornare al suo fianco.

Caterina non si fece pregare e quando fu di nuovo stesa accanto al marito, gli prese la mano sinistra e cominciò a guardare l'anello che portava all'anulare: “Come hai detto tu, adesso, anche quando saremo lontani, avremo sempre qualcosa dell'altro con noi.”

Il Popolano annuì e si piegò in avanti per baciare le mani della moglie, una per una, soffermandosi poi sulla fede.

“Adesso non ci può dividere più nessuno.” confermò e poi, incoraggiato dalla Tigre, le sfilò di nuovo il sottile abito che aveva indossato per scendere nelle cucine si abbandonò di nuovo a lei.

 

Lorenzo si teneva una mano premuta sulla fronte. Gli sembrava che la testa gli stesse scoppiando.

La villa di Cafaggiolo era immersa nel silenzio della campagna, eppure le sue orecchie rimbombavano ancora della confusione della Signoria e il suo cuore era in tumulto per quello che aveva appena letto.

“Se l'ha fatto – disse con lentezza Semiramide, che malgrado l'apparente quiete era tesa quanto il marito – vuol dire che sapeva quel che faceva.”

“Ma cosa vuoi che sapesse...” sbuffò il Popolano, così abbattuto da non riuscire più nemmeno ad arrabbiarsi.

Non appena si era convinto che la storia tra Giovanni e la Tigre di Forlì fosse un qualcosa di passeggero, suo fratello gli aveva scritto per dire che si sarebbero sposati un paio di giorni dopo Pasqua.

“Ormai sono già marito e moglie – proseguì Lorenzo, abbandonandosi sconfitto sulla poltrona imbottita – e lui qui non tornerà più. Si farà rovinare la vita da una donna che...”

“Smettila di parlare così di lei. Ormai è nostra cognata.” lo redarguì Semiramide, rimettendosi in piedi: “Anche se abbiamo delle riserve verso di lei, ormai è una Medici tanto quanto la sono diventata io il giorno in cui ti ho detto di sì.”

L'uomo la guardò un momento e poi dovette ammettere, controvoglia: “Lo so, ma...”

“Niente ma. Ormai quel che è fatto è fatto e sono convinta che Giovanni abbia fatto la sua scelta con cognizione di causa.” più parlava, più la voce della donna si faceva bassa: “Dunque ora possiamo solo cercare di arginare i danni, volgendo a favore della famiglia questa unione.”

Lorenzo fece per dire qualcosa, probabilmente obiettare dicendo che non potevano fare poi molto, finché Savonarola continuava a dettar legge e il papa a tacere.

Semiramide, però, aveva già l'idea giusta: “Giovanni ti ha chiesto di vedere se c'è possibilità di una condotta fiorentina per il figlio più grande della Tigre, no? Ecco, domani, alla Signoria, proponi un incarico per questo Riario. Fai in modo che tutti si convincano che per vincere a Pisa ci serve l'esperienza di questo romagnolo. Che diamine, è figlio di sua madre, no?”

Il Medici sospirò e quasi subito disse: “Hai ragione. È meglio di niente. E poi, magari, potrebbe essere un buon pretesto per fare tornare per un po' a Firenze anche io fratello. Non lo vedo da più di un anno, ormai...”

La donna lo guardò un momento, pensierosa, e poi aggiunse: “E se riuscirai a far avere la condotta a questo ragazzo, tira su il prezzo il più possibile, mi raccomando. A conti fatti, i soldi dell'ingaggio saranno soldi che entreranno nelle casse di famiglia.”

 

 
   
 
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