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Autore: Nemamiah    30/10/2017    2 recensioni
Dal testo:
Verity sorrise e rispose: ‹‹Io invece credo che ci sia sempre un motivo per il modo in cui si sceglie di agire, indipendentemente dall’essere buoni o cattivi.››
‹‹È un altro modo di vedere la vita, ma penso porti alla sofferenza. Chiunque può tradirti, fingere di essere in un modo e rivelarsi l’opposto. È necessario classificare le persone e scegliere chi non far avvicinare per essere felici.››
‹‹Anche la sofferenza può condurre alla felicità, non è sempre negativa.››
[...]
‹‹Forse è solo questione di scegliere quale rischio correre quando si conosce qualcuno, se tenerlo lontano dal tuo cuore o donarglielo anche se potrebbe distruggerlo, sapendo che significa concedergli la tua fiducia, saltare nel vuoto e sperare che ti prenda prima che tocchi il suolo.››
‹‹Un po’ come l’amore.››
‹‹No. L’amore è saltare nel vuoto e sapere che non toccherai il suolo perché qualcuno ti prenderà prima.››
[...]
‹‹Il problema è questo: fare la cosa giusta non è sinonimo di rendere tutti felici.››
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Sovrannaturale
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nero come il bianco - Raccolta'
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Capitolo 2

 

 

 

‹‹Kai, smettila di leccarmi la faccia! Mi bagni di saliva, è disgustoso!››

Kai leccava la faccia della giovane padrona con cura, senza tralasciare nulla, per svegliarla e dirle che la casa era vuota. Quando Eleonore era in casa, Kai doveva rimanere in cortile o al primo piano poiché non gli era permesso salire le scale fino alla soffitta. Sapere di essere da sola in quella villa così grande la svuotò di ogni energia e voglia di fare: se non puoi condividere la tua esistenza con qualcuno che la renda completa, perché alzarsi e concepire mille mirabolanti idee?

Trascorse la mattina a girovagare per i corridoi della villa, cercando novità nelle stanze che sembravano essere sempre uguali e ignorando il telefono che continuava a squillare, insistentemente e senza sosta. La persona dall’altro capo dell’apparecchio doveva essere molto testarda, o molto stupida, per continuare a chiamare. Alla fine, presa dall’esasperazione, rispose, pregando tutti gli angeli che conosceva che ci fosse qualcosa di davvero importante.

‹‹Finalmente mi rispondi razza di degenerata! Mi stavo preoccupando seriamente!››

‹‹Pensavo, Dakota.››

‹‹Certo, e posso immaginare i risultati del tuo crogiolarti nelle disgrazie che ti accadono.››

‹‹Prima di risponderti erano ottimi, sai?››

‹‹Sei una pessima bugiarda! Scommetto che ti stai annoiando a morte, vestiti e vieni fuori, facciamo una passeggiata.››

Verity scostò una delle tende della sala e Dakota la salutò con la mano e con un ampio sorriso. Scosse la testa e andò a vestirsi, conscia che l’amica non l’avrebbe lasciata in pace fino a quando i suoi desideri non fossero stati esauditi.

Dakota era entusiasta: si sarebbe portata Verity in giro per tutto il giorno, distraendola e occupandosi di lei. C’erano molti preparativi da fare. Era bastata una mattinata lontana da scuola e mille novità erano giunte. Ci sarebbe stata una grande festa a scuola, con un ballo, e Verity era stata invitata direttamente dalla preside come ospite. Doveva assolutamente partecipare ed essere bellissima per fare invidia a Michelle che aveva sparlato di lei per l’intera giornata.

Girarono per i vicoli della parte storica della città, costellati di boutiques minuscole ma così piene da chiedersi come si potesse entrare dentro; si fermarono in un’antica, piccola pasticceria dove mangiarono qualcosa per pranzo; attraversarono i vicoli dei fiorai, profumati e ricolmi di fiori esotici, e quelli delle vecchie librerie e dei negozi degli antiquari fino a sbucare in una via appena più larga, quella degli abiti.

‹‹Dakota cosa facciamo qui?››

‹‹Te l’ho detto, ci prepariamo per la festa della scuola, no?››

Prese Verity per una manica e la trascinò su per una ripida scaletta scavata nella pietra: sul pianerottolo c’era scritto “Atelier del fuoco”.

I manichini erano in ogni angolo, vestiti e pronti per essere ammirati, anche se coperti da un sottile strato di polvere grigia. Sul grande tavolo da lavoro erano sparsi spilli con la capocchia colorata, un metro da sarto e alcuni gessetti, mentre in un mobile bianco erano ammassati rotoli di varie stoffe e tonalità.

Dakota, dopo aver salutato il nonno che cuciva nel laboratorio, andò nel retrobottega, che per qualche motivo era più grande del laboratorio stesso. Preparò alcune scatole e mandò l’amica nei camerini.

‹‹Dakota, vuoi mandarmi nelle case del piacere per caso?››

L’abito che stava indossando era corto e rosso, molto aderente nel corpetto e fluttuante nella gonna, con uno spacco che metteva in mostra la coscia. Dakota rise del commento e passò a Verity un vestito diverso, bianco e lungo, senza maniche. Aveva il collo alto, decorato con piccole pietre luccicanti, ed era abbinato a dei guanti lunghi fino al gomito di stoffa leggerissima, con un fiocchetto azzurro sul polso. Le stava molto bene, ma Dakota non era soddisfatta.

Per un’ora buona scartarono modelli e colori, ma nessuno sembrava essere quello giusto e Dakota cominciò a disperarsi, lanciando gridolini di rabbia e disappunto.

‹‹Ragazze, come state? Avete trovato qualcosa che vada bene?››

‹‹Nonno! Ho perso le speranze di trovare il vestito perfetto. Pensi di poterci dare qualcosa tu?››

Il nonno sorrise e richiamò una delle scatole dallo scaffale più alto con un gesto della mano. Questa scese dolcemente e si posò tra le mani di una Verity estasiata da quella magia così semplice ed elegante. L’abito era una delle creazioni magiche di Erald, il padre di Dakota, ma le rifiniture erano fatte a mano: era un vestito blu notte, lungo fino a terra. Il corpetto era ricamato a mano con minuscole perle blu disposte in brillanti arabeschi che scomparivano verso la vita; le maniche in pizzo arrivavano fino al gomito e le spalle erano coperte.

Dakota aveva gli occhi spalancati per la meraviglia e la soddisfazione, mentre Verity arrossiva sulle guance e si torturava le dita delle mani. Il nonno di Dakota si complimentò, dicendo che era molto bella, e riprese la sua occupazione.

Le due ragazze mangiarono qualcosa di veloce lungo la strada e tornarono a casa di Verity, chiudendosi nella soffitta. Lasciata la giacca su una sedia, Dakota cominciò a guardarsi intorno: non era mai stata nella camera dell’amica anzi, non era mai nemmeno stata a casa sua pur sapendo dove abitasse. Era incantata dai colori e dai dipinti sulle pareti e sul soffitto inclinato, stupefatta dalle meraviglie che Verity era in grado di creare, e sentiva il suo carattere sensibile diffondersi da ogni angolo. Accarezzò uno dei muri dipinto di blu scuro e punteggiato di costellazioni, riconoscendone qualcuna; osservò con attenzione le pieghe dei vestiti di alcune ragazze in un angolo. La maggior parte erano disegni dal tratto infantile, ma altri, come quelli fatti durante le vacanze quando si era obbligati a tornare a casa, erano splendidi e sfumati alla perfezione. Lo sguardo indagatore di Dakota sorpassò tutte le superfici e si fermò sul nuovo lavoro sopra il letto: i suoi occhi brillavano.

‹‹Quando lo hai fatto? Credo sia il più bello in questa stanza…››

‹‹Ieri pomeriggio… Avevo parecchia ispirazione.››

‹‹Non ti infastidisce dormirci sotto? Sembra che vogliano uscire dal soffitto tanto paiono reali e io ne avrei una paura matta.››

‹‹E cosa potrebbero fare? Uscire e uccidermi durante il sonno? Se sono sicura di qualcosa è che in questa casa nessuna magia potrà mai mettere i miei dipinti contro di me.››

Si sedette sul bordo del letto, grattando con l’unghia una gocciolina di vernice assorbita dalle lenzuola. Non aveva mai considerato un suo dipinto opprimente o inadatto a una camera, né disturbatore del sonno, e non aveva paura di svegliarsi nel cuore della notte e spaventarsi. I due angeli si fronteggiavano l’un l’altro, lei era solo l’osservatrice fuori campo di una grande, epica battaglia.

‹‹Certo che no… Ma non saprei, mi fanno sempre pensare a tristi futuri le scene di guerra, soprattutto se messe sopra un letto!››

Fece una linguaccia a Verity e tornò a guardarsi in giro, respirando flebilmente nel silenzio confortevole. Uscirono per un po’ sulla terrazza ad ammirare le stelle, quelle vere, con una coperta sulle spalle, e ascoltarono Kai abbaiare loro dal basso del cortile, poi rientrarono.

All’improvviso la madre di Verity, Eleonore, aprì la porta con la magia e la lasciò sbattere contro un prato verde.  La ragazza ebbe appena il tempo di sussurrare che solo in quella casa una porta chiusa non esprimeva un messaggio ben chiaro. Eleonore squadrò Dakota dalla testa ai piedi, concentrandosi molto sulle scarpe consumate della ragazza e la salutò, chiedendole poi di uscire.

‹‹Aspetterò fuori, non c’è nessun problema.››

‹‹No, per favore, potresti proprio andare via?››

Dakota si stupì ma raccolse la giacca dalla sedia e se ne andò, offesa, intercettando prima lo sguardo di scuse che le inviava insistentemente Verity.

‹‹Cosa faceva lei qui? Il padre non è un uomo molto intelligente né importante direi, preferirei che non vedessi quella ragazza.››

Per un attimo, per un minuscolo attimo Verity desiderò di poterla bruciare con il fuoco: non un’ustione grave, ma che le lasciasse un segno abbastanza duraturo da non farle dimenticare che poteva frequentare chi preferiva e non chi voleva lei. Anziché dirle la verità preferì però annuire, borbottando che era una ragazza molto sveglia invece. La madre aggrottò la fronte e sorrise, fingendo di non aver udito le parole della figlia e iniziando a parlare.

Nel frattempo Dakota si era seduta sulla vecchia sedia della veranda, cercando di ricordare dove avesse già visto quella donna. Era una delle poche ragazze a scuola, lei, che non avesse mai incontrato la famiglia di Verity, eppure il viso di Eleonore le era familiare, come se lo avesse visto da poco.

‹‹Dakota, cosa stai facendo qua fuori? Non fa così caldo…››

Il nonno di Verity, Dante, aveva già salito le scale e inserito la chiave nella toppa quando si era accorto della giovane. Era strano che la nipote lasciasse un’amica fuori dalla porta di casa ad aspettare, non era affatto un comportamento che le si addicesse.

‹‹Credo che la mamma di Verity mi abbia cacciato di casa.››

‹‹Niente di più probabile›› disse ridendo. ‹‹Non le stai molto simpatica. Se non sbaglio tuo padre non è venuto a una grande sfilata organizzata da lei per promuoverlo perché tu avevi la febbre: non andavano già d’accordo prima, ma quello è stato il massimo che Eleonore ha saputo sopportare. Non ha accettato nessuna scusa.››

Dakota era perplessa. Ricordava molto bene quella febbre, l’unica che avesse avuto, e che suo padre fosse rimasto accanto a lei tutte le notti, ma se avesse saputo che stava rinunciando a una serata tanto importante, lo avrebbe mandato fuori di casa con le poche forze che possedeva.

‹‹Prendi la scala coperta di edera nel retro… Sembri leggera, dovrebbe reggerti.››

‹‹Come fa a sapere che non posso volare?>>

‹‹Lo insegnano al decimo anno e tu sei al nono con mia nipote. Se ti avessero visto provare a levitare te stessa, ti avrebbero ricoverato con un braccio rotto: lo so per esperienza personale.››

Dakota scoppiò in una risata cristallina e quasi le venne male alla pancia. Sfogatasi ringraziò il nonno e girò l’angolo per arrampicarsi il più velocemente possibile.

Sporgendo appena la testa poté vedere Dante entrare nella stanza e parlare tranquillamente con entrambe, anche se la sua espressione tradiva la volontà di prendere Eleonore per un braccio e portarla fuori da quel luogo. Sghignazzò, cercando di contenere la voce, e tirò su con il naso per non soffiarselo, continuando a osservare. La mamma di Verity rimaneva a distanza dalla figlia e sembrava quasi che, per avendola messa al mondo, avesse paura di toccarla e di veder scomparire tutta la sua magia. Un po’ la comprendeva, all’inizio aveva avuto anche lei quella paura. Però era scivolata via man mano che aveva conosciuto Verity durante le lezioni, i lavori di gruppo e le nottate passate di nascosto nella scuola a farsi spiegare da lei tutta la teoria della magia che non aveva mai voglia di studiare. L’aveva vista per la ragazza semplice e sola che era e aveva deciso di essere più aperta con lei. Perché la madre non era in grado di fare lo stesso?

Appena entrambi furono usciti, tirò la finestra verso di sé ed entrò, sedendosi poi sul bordo del letto. Verity si era distesa subito, coprendosi gli occhi con l’incavo del braccio e respirando profondamente. Le molle del letto cigolarono per il movimento e lei sorrise all’amica. Rimasero a chiacchierare ancora un poco e si accordarono per vedersi il giorno successivo.

Rimasta poi sola, Verity continuò a guardare il dipinto sopra la sua testa, pensando a come la sua vita non potesse peggiorare ulteriormente. Non bastava averla tolta dalla scuola, l’ambiente che più le era congeniale, doveva anche starsene a fare da balia a quei cuginetti che la prendevano sempre in giro a Natale perché aveva pochi regali e camminava su e giù dall’albero per prenderli e scartarli. Soppesò la prospettiva della punizione con i piccoli e quella del premio che avrebbe ricevuto nel poter partecipare alla festa della scuola e pensò che sì, ne valeva la pena.

 

La mattina seguente si svegliò tardi, si vestì in fretta e uscì senza aver fatto colazione per riuscire a prendere l’unico bus volante che l’avrebbe portata in centro prima di pranzo. Prese alcune meringhe nella pasticceria di fronte alla fermata e raggiunse Dakota nell’ala dedicata alla pausa. Lei le offrì una meringa ed in cambio ottenne metà del pranzo: un scambio non molto equo ma che lasciò entrambe soddisfatte.

‹‹La professoressa Anna ha detto che devo pubblicizzare la festa e mi chiedevo se potessi avere qualche idea interessante… Ah, e ho notato una cosa strana.››

‹‹Potresti fare dei volantini a forma di vestito, o di rosa, con la magia e farli svolazzare per i corridoi, quando vengono toccati si dispiegano e appare la scritta della festa… Che cosa di strano?››

‹‹Idea geniale! Comunque, che il Lucifero che hai dipinto assomiglia enormemente al tizio che dorme contro la quercia nel cortile interno... Qualcosa da confessare?››

‹‹Sono inciampata su di lui. Ha cercato di aiutarmi ma l’ho respinto… Chi è?››

‹‹Bella domanda. Ho guardato tra i nomi degli iscritti degli ultimi anni, sai, il registro con le foto tenuto dal prof. di Evocazioni, e lui non esiste. Non esiste da nessuna parte.››

Verity rimase in silenzio masticando, cercando di farsi tornare alla mente il viso di quel ragazzo, senza riuscirci, e disse che avrebbero potuto chiedere qualcosa agli insegnanti o a Mr.Jay.

La bibliotecaria annunciò però che la pausa era finita e Dakota dovette tornare in classe. Verity decise che sarebbe passata nel cortile interno a dare un’occhiata, magari lo avrebbe trovato lì a dormire e si sarebbe ricordata il suo viso senza sovrapporlo a quello di Lucifero.

Le sue speranze non furono deluse. Appoggiato al tronco della quercia, quello strano ragazzo respirava profondamente. La testa era reclinata verso il basso e un ciuffo di capelli neri gli copriva la fronte; accanto alle ginocchia c’erano alcuni libri rilegati in una pelle lucida, legati da una cintura di cuoio chiaro che stringeva con la mano. Le ricordava i racconti di come il nonno portasse i libri, alla maniera antica, come diceva lui. Pensò inizialmente di salutarlo, ma alla fine voleva solo vederlo in faccia, e quindi si avvicinò senza far rumore e si sedette di fronte a lui a gambe incrociate, ringraziando di essersi messa un paio di pantaloni. Lui si svegliò appena inserì una mano nel sacchetto delle meringhe.

‹‹Ti sei ripresa dall’altro giorno?››

Si immobilizzò mentre tirava fuori il dolce ma, anziché rispondergli, cercò di sviare la domanda offrendogliene uno; il ragazzo rifiutò e le chiese di nuovo come stesse. Verity non voleva ripensare a quel pomeriggio e a come era stata cattiva verso di lui, che aveva cercato solo di aiutarla, ma dopo vari tentativi di cambiare discorso e vedendo che non riusciva a farlo desistere dal ripetere sempre la stessa frase, si forzò a dire che stava molto meglio. Appena ottenuta la risposta il ragazzo si alzò, tirando con sé la cintura con i libri e facendola galleggiare a mezz’aria. Poco prima che rientrasse, senza salutarla, Verity gli chiese se avrebbe partecipato alla festa della scuola.

‹‹Forse›› disse chiudendo la portafinestra.

Verity sorrise e pensò che un “forse” equivalesse quasi a un “sì” e molto poco a un “no”. Finì di mordicchiare la meringa che teneva in mano e anche lei tornò dentro la scuola, chiedendosi perché fosse così contenta di quella risposta.

 

 

 

Angolo dell’autrice

 

Ecco a voi il secondo capitolo! Mi spiace che il primo non abbia ricevuto recensioni, spero che questo ne riceva almeno una, almeno per sapere se io stia effettivamente andando nella giusta direzione e se la lunghezza dei capitoli sia abbastanza o vada aumentata.

In ogni caso ringrazio tutte le persone che hanno letto, pero che abbiate gradito e che vi venga voglia di lasciarmi un piccolo parere!

Un saluto a tutti,

Nemamiah.

 


 

 

   
 
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