‹‹Kai,
smettila di leccarmi la faccia! Mi bagni di saliva, è
disgustoso!››
Kai
leccava la faccia della giovane padrona con cura, senza tralasciare
nulla, per
svegliarla e dirle che la casa era vuota. Quando Eleonore era in casa,
Kai
doveva rimanere in cortile o al primo piano poiché non gli
era permesso salire
le scale fino alla soffitta. Sapere di essere da sola in quella villa
così
grande la svuotò di ogni energia e voglia di fare: se non
puoi condividere la
tua esistenza con qualcuno che la renda completa, perché
alzarsi e concepire
mille mirabolanti idee?
Trascorse
la mattina a girovagare per i corridoi della villa, cercando
novità nelle
stanze che sembravano essere sempre uguali e ignorando il telefono che
continuava a squillare, insistentemente e senza sosta. La persona
dall’altro
capo dell’apparecchio doveva essere molto testarda, o molto
stupida, per
continuare a chiamare. Alla fine, presa dall’esasperazione,
rispose, pregando
tutti gli angeli che conosceva che ci fosse qualcosa di davvero
importante.
‹‹Finalmente
mi rispondi razza di degenerata! Mi stavo preoccupando
seriamente!››
‹‹Pensavo,
Dakota.››
‹‹Certo,
e posso immaginare i risultati del tuo crogiolarti nelle disgrazie che
ti
accadono.››
‹‹Prima
di risponderti erano ottimi, sai?››
‹‹Sei
una pessima bugiarda! Scommetto che ti stai annoiando a morte, vestiti
e vieni
fuori, facciamo una passeggiata.››
Verity
scostò una delle tende della sala e Dakota la
salutò con la mano e con un ampio
sorriso. Scosse la testa e andò a vestirsi, conscia che
l’amica non l’avrebbe
lasciata in pace fino a quando i suoi desideri non fossero stati
esauditi.
Dakota
era entusiasta: si sarebbe portata Verity in giro per tutto il giorno,
distraendola e occupandosi di lei. C’erano molti preparativi
da fare. Era
bastata una mattinata lontana da scuola e mille novità erano
giunte. Ci sarebbe
stata una grande festa a scuola, con un ballo, e Verity era stata
invitata
direttamente dalla preside come ospite. Doveva assolutamente
partecipare ed
essere bellissima per fare invidia a Michelle che aveva sparlato di lei
per
l’intera giornata.
Girarono
per i vicoli della parte storica della città, costellati di
boutiques minuscole
ma così piene da chiedersi come si potesse entrare dentro;
si fermarono in
un’antica, piccola pasticceria dove mangiarono qualcosa per
pranzo;
attraversarono i vicoli dei fiorai, profumati e ricolmi di fiori
esotici, e
quelli delle vecchie librerie e dei negozi degli antiquari fino a
sbucare in
una via appena più larga, quella degli abiti.
‹‹Dakota
cosa facciamo qui?››
‹‹Te
l’ho detto, ci prepariamo per la festa della scuola,
no?››
Prese
Verity per una manica e la trascinò su per una ripida
scaletta scavata nella
pietra: sul pianerottolo c’era scritto “Atelier del
fuoco”.
I
manichini erano in ogni angolo, vestiti e pronti per essere ammirati,
anche se
coperti da un sottile strato di polvere grigia. Sul grande tavolo da
lavoro
erano sparsi spilli con la capocchia colorata, un metro da sarto e
alcuni
gessetti, mentre in un mobile bianco erano ammassati rotoli di varie
stoffe e
tonalità.
Dakota,
dopo aver salutato il nonno che cuciva nel laboratorio, andò
nel retrobottega,
che per qualche motivo era più grande del laboratorio
stesso. Preparò alcune
scatole e mandò l’amica nei camerini.
‹‹Dakota,
vuoi mandarmi nelle case del piacere per caso?››
L’abito
che stava indossando era corto e rosso, molto aderente nel corpetto e
fluttuante nella gonna, con uno spacco che metteva in mostra la coscia.
Dakota
rise del commento e passò a Verity un vestito diverso,
bianco e lungo, senza
maniche. Aveva il collo alto, decorato con piccole pietre luccicanti,
ed era
abbinato a dei guanti lunghi fino al gomito di stoffa leggerissima, con
un
fiocchetto azzurro sul polso. Le stava molto bene, ma Dakota non era
soddisfatta.
Per
un’ora buona scartarono modelli e colori, ma nessuno sembrava
essere quello
giusto e Dakota cominciò a disperarsi, lanciando gridolini
di rabbia e
disappunto.
‹‹Ragazze,
come state? Avete trovato qualcosa che vada
bene?››
‹‹Nonno!
Ho perso le speranze di trovare il vestito perfetto. Pensi di poterci
dare
qualcosa tu?››
Il
nonno sorrise e richiamò una delle scatole dallo scaffale
più alto con un gesto
della mano. Questa scese dolcemente e si posò tra le mani di
una Verity
estasiata da quella magia così semplice ed elegante.
L’abito era una delle
creazioni magiche di Erald, il padre di Dakota, ma le rifiniture erano
fatte a
mano: era un vestito blu notte, lungo fino a terra. Il corpetto era
ricamato a
mano con minuscole perle blu disposte in brillanti arabeschi che
scomparivano
verso la vita; le maniche in pizzo arrivavano fino al gomito e le
spalle erano coperte.
Dakota
aveva gli occhi spalancati per la meraviglia e la soddisfazione, mentre
Verity
arrossiva sulle guance e si torturava le dita delle mani. Il nonno di
Dakota si
complimentò, dicendo che era molto bella, e riprese la sua
occupazione.
Le
due ragazze mangiarono qualcosa di veloce lungo la strada e tornarono a
casa di
Verity, chiudendosi nella soffitta. Lasciata la giacca su una sedia,
Dakota
cominciò a guardarsi intorno: non era mai stata nella camera
dell’amica anzi,
non era mai nemmeno stata a casa sua pur sapendo dove abitasse. Era
incantata
dai colori e dai dipinti sulle pareti e sul soffitto inclinato,
stupefatta
dalle meraviglie che Verity era in grado di creare, e sentiva il suo
carattere
sensibile diffondersi da ogni angolo. Accarezzò uno dei muri
dipinto di blu
scuro e punteggiato di costellazioni, riconoscendone qualcuna;
osservò con
attenzione le pieghe dei vestiti di alcune ragazze in un angolo. La
maggior
parte erano disegni dal tratto infantile, ma altri, come quelli fatti
durante
le vacanze quando si era obbligati a tornare a casa, erano splendidi e
sfumati alla
perfezione. Lo sguardo indagatore di Dakota sorpassò tutte
le superfici e si
fermò sul nuovo lavoro sopra il letto: i suoi occhi
brillavano.
‹‹Quando
lo hai fatto? Credo sia il più bello in questa
stanza…››
‹‹Ieri
pomeriggio… Avevo parecchia
ispirazione.››
‹‹Non
ti infastidisce dormirci sotto? Sembra che vogliano uscire dal soffitto
tanto
paiono reali e io ne avrei una paura matta.››
‹‹E
cosa potrebbero fare? Uscire e uccidermi durante il sonno? Se sono
sicura di
qualcosa è che in questa casa nessuna magia potrà
mai mettere i miei dipinti
contro di me.››
Si
sedette sul bordo del letto, grattando con l’unghia una
gocciolina di vernice
assorbita dalle lenzuola. Non aveva mai considerato un suo dipinto
opprimente o
inadatto a una camera, né disturbatore del sonno, e non
aveva paura di
svegliarsi nel cuore della notte e spaventarsi. I due angeli si
fronteggiavano
l’un l’altro, lei era solo l’osservatrice
fuori campo di una grande, epica
battaglia.
‹‹Certo
che no… Ma non saprei, mi fanno sempre pensare a tristi
futuri le scene di
guerra, soprattutto se messe sopra un letto!››
Fece
una linguaccia a Verity e tornò a guardarsi in giro,
respirando flebilmente nel
silenzio confortevole. Uscirono per un po’ sulla terrazza ad
ammirare le
stelle, quelle vere, con una coperta sulle spalle, e ascoltarono Kai
abbaiare
loro dal basso del cortile, poi rientrarono.
All’improvviso
la madre di Verity, Eleonore, aprì la porta con la magia e
la lasciò sbattere
contro un prato verde. La
ragazza ebbe
appena il tempo di sussurrare che solo in quella casa una porta chiusa
non
esprimeva un messaggio ben chiaro. Eleonore squadrò Dakota
dalla testa ai
piedi, concentrandosi molto sulle scarpe consumate della ragazza e la
salutò,
chiedendole poi di uscire.
‹‹Aspetterò
fuori, non c’è nessun
problema.››
‹‹No,
per favore, potresti proprio andare via?››
Dakota
si stupì ma raccolse la giacca dalla sedia e se ne
andò, offesa, intercettando
prima lo sguardo di scuse che le inviava insistentemente Verity.
‹‹Cosa
faceva lei qui? Il padre non è un uomo molto intelligente
né importante direi,
preferirei che non vedessi quella ragazza.››
Per
un attimo, per un minuscolo attimo Verity desiderò di
poterla bruciare con il
fuoco: non un’ustione grave, ma che le lasciasse un segno
abbastanza duraturo
da non farle dimenticare che poteva frequentare chi preferiva e non chi
voleva
lei. Anziché dirle la verità preferì
però annuire, borbottando che era una
ragazza molto sveglia invece. La madre aggrottò la fronte e
sorrise, fingendo
di non aver udito le parole della figlia e iniziando a parlare.
Nel
frattempo Dakota si era seduta sulla vecchia sedia della veranda,
cercando di
ricordare dove avesse già visto quella donna. Era una delle
poche ragazze a
scuola, lei, che non avesse mai incontrato la famiglia di Verity,
eppure il
viso di Eleonore le era familiare, come se lo avesse visto da poco.
‹‹Dakota,
cosa stai facendo qua fuori? Non fa così
caldo…››
Il
nonno di Verity, Dante, aveva già salito le scale e inserito
la chiave nella
toppa quando si era accorto della giovane. Era strano che la nipote
lasciasse
un’amica fuori dalla porta di casa ad aspettare, non era
affatto un
comportamento che le si addicesse.
‹‹Credo
che la mamma di Verity mi abbia cacciato di
casa.››
‹‹Niente
di più probabile›› disse ridendo.
‹‹Non le stai molto simpatica. Se non sbaglio
tuo padre non è venuto a una grande sfilata organizzata da
lei per promuoverlo
perché tu avevi la febbre: non andavano già
d’accordo prima, ma quello è stato
il massimo che Eleonore ha saputo sopportare. Non ha accettato nessuna
scusa.››
Dakota
era perplessa. Ricordava molto bene quella febbre, l’unica
che avesse avuto, e
che suo padre fosse rimasto accanto a lei tutte le notti, ma se avesse
saputo
che stava rinunciando a una serata tanto importante, lo avrebbe mandato
fuori
di casa con le poche forze che possedeva.
‹‹Prendi
la scala coperta di edera nel retro… Sembri leggera,
dovrebbe reggerti.››
‹‹Come
fa a sapere che non posso volare?>>
‹‹Lo
insegnano al decimo anno e tu sei al nono con mia nipote. Se ti
avessero visto
provare a levitare te stessa, ti avrebbero ricoverato con un braccio
rotto: lo
so per esperienza personale.››
Dakota
scoppiò in una risata cristallina e quasi le venne male alla
pancia. Sfogatasi
ringraziò il nonno e girò l’angolo per
arrampicarsi il più velocemente
possibile.
Sporgendo
appena la testa poté vedere Dante entrare nella stanza e
parlare
tranquillamente con entrambe, anche se la sua espressione tradiva la
volontà di
prendere Eleonore per un braccio e portarla fuori da quel luogo.
Sghignazzò,
cercando di contenere la voce, e tirò su con il naso per non
soffiarselo,
continuando a osservare. La mamma di Verity rimaneva a distanza dalla
figlia e
sembrava quasi che, per avendola messa al mondo, avesse paura di
toccarla e di
veder scomparire tutta la sua magia. Un po’ la comprendeva,
all’inizio aveva
avuto anche lei quella paura. Però era scivolata via man
mano che aveva
conosciuto Verity durante le lezioni, i lavori di gruppo e le nottate
passate
di nascosto nella scuola a farsi spiegare da lei tutta la teoria della
magia
che non aveva mai voglia di studiare. L’aveva vista per la
ragazza semplice e
sola che era e aveva deciso di essere più aperta con lei.
Perché la madre non
era in grado di fare lo stesso?
Appena
entrambi furono usciti, tirò la finestra verso di
sé ed entrò, sedendosi poi
sul bordo del letto. Verity si era distesa subito, coprendosi gli occhi
con
l’incavo del braccio e respirando profondamente. Le molle del
letto cigolarono per
il movimento e lei sorrise all’amica. Rimasero a
chiacchierare ancora un poco e
si accordarono per vedersi il giorno successivo.
Rimasta
poi sola, Verity continuò a guardare il dipinto sopra la sua
testa, pensando a
come la sua vita non potesse peggiorare ulteriormente. Non bastava
averla tolta
dalla scuola, l’ambiente che più le era
congeniale, doveva anche starsene a
fare da balia a quei cuginetti che la prendevano sempre in giro a
Natale perché
aveva pochi regali e camminava su e giù
dall’albero per prenderli e scartarli.
Soppesò la prospettiva della punizione con i piccoli e
quella del premio che
avrebbe ricevuto nel poter partecipare alla festa della scuola e
pensò che sì,
ne valeva la pena.
La
mattina seguente si svegliò tardi, si vestì in
fretta e uscì senza aver fatto
colazione per riuscire a prendere l’unico bus volante che
l’avrebbe portata in
centro prima di pranzo. Prese alcune meringhe nella pasticceria di
fronte alla
fermata e raggiunse Dakota nell’ala dedicata alla pausa. Lei
le offrì una
meringa ed in cambio ottenne metà del pranzo: un scambio non
molto equo ma che
lasciò entrambe soddisfatte.
‹‹La
professoressa Anna ha detto che devo pubblicizzare la festa e mi
chiedevo se
potessi avere qualche idea interessante… Ah, e ho notato una
cosa strana.››
‹‹Potresti
fare dei volantini a forma di vestito, o di rosa, con la magia e farli
svolazzare per i corridoi, quando vengono toccati si dispiegano e
appare la
scritta della festa… Che cosa di
strano?››
‹‹Idea
geniale! Comunque, che il Lucifero che hai dipinto assomiglia
enormemente al
tizio che dorme contro la quercia nel cortile interno... Qualcosa da
confessare?››
‹‹Sono
inciampata su di lui. Ha cercato di aiutarmi ma l’ho
respinto… Chi è?››
‹‹Bella
domanda. Ho guardato tra i nomi degli iscritti degli ultimi anni, sai,
il registro
con le foto tenuto dal prof. di Evocazioni, e lui non esiste. Non
esiste da
nessuna parte.››
Verity
rimase in silenzio masticando, cercando di farsi tornare alla mente il
viso di
quel ragazzo, senza riuscirci, e disse che avrebbero potuto chiedere
qualcosa
agli insegnanti o a Mr.Jay.
La
bibliotecaria annunciò però che la pausa era
finita e Dakota dovette tornare in
classe. Verity decise che sarebbe passata nel cortile interno a dare
un’occhiata, magari lo avrebbe trovato lì a
dormire e si sarebbe ricordata il
suo viso senza sovrapporlo a quello di Lucifero.
Le
sue speranze non furono deluse. Appoggiato al tronco della quercia,
quello
strano ragazzo respirava profondamente. La testa era reclinata verso il
basso e
un ciuffo di capelli neri gli copriva la fronte; accanto alle ginocchia
c’erano
alcuni libri rilegati in una pelle lucida, legati da una cintura di
cuoio
chiaro che stringeva con la mano. Le ricordava i racconti di come il
nonno
portasse i libri, alla maniera antica, come diceva lui.
Pensò inizialmente di
salutarlo, ma alla fine voleva solo vederlo in faccia, e quindi si
avvicinò
senza far rumore e si sedette di fronte a lui a gambe incrociate,
ringraziando
di essersi messa un paio di pantaloni. Lui si svegliò appena
inserì una mano
nel sacchetto delle meringhe.
‹‹Ti
sei ripresa dall’altro giorno?››
Si
immobilizzò mentre tirava fuori il dolce ma,
anziché rispondergli, cercò di
sviare la domanda offrendogliene uno; il ragazzo rifiutò e
le chiese di nuovo
come stesse. Verity non voleva ripensare a quel pomeriggio e a come era
stata
cattiva verso di lui, che aveva cercato solo di aiutarla, ma dopo vari
tentativi di cambiare discorso e vedendo che non riusciva a farlo
desistere dal
ripetere sempre la stessa frase, si forzò a dire che stava
molto meglio. Appena
ottenuta la risposta il ragazzo si alzò, tirando con
sé la cintura con i libri
e facendola galleggiare a mezz’aria. Poco prima che
rientrasse, senza
salutarla, Verity gli chiese se avrebbe partecipato alla festa della
scuola.
‹‹Forse››
disse chiudendo la portafinestra.
Verity
sorrise e pensò che un “forse”
equivalesse quasi a un “sì” e molto poco
a un
“no”. Finì di mordicchiare la meringa
che teneva in mano e anche lei tornò
dentro la scuola, chiedendosi perché fosse così
contenta di quella risposta.
Angolo
dell’autrice
Ecco
a voi il secondo capitolo! Mi spiace che il primo non abbia ricevuto
recensioni, spero che questo ne riceva almeno una, almeno per sapere se
io stia
effettivamente andando nella giusta direzione e se la lunghezza dei
capitoli
sia abbastanza o vada aumentata.
In
ogni caso ringrazio tutte le persone che hanno letto, pero che abbiate
gradito
e che vi venga voglia di lasciarmi un piccolo parere!
Un
saluto a tutti,
Nemamiah.