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Autore: Adeia Di Elferas    31/10/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Achille lasciò il salone sentendosi tutta la schiena sudata e il volto paonazzo. Si allargava continuamente il laccio del mantello contro la gola, ma gli sembrava lo stesso di stare per soffocare.

Quando suo fratello Polidoro l'aveva chiamato, si era molto sorpreso, visto che nemmeno sapeva che fosse tornato nel cesenate.

Tuttavia, aveva accettato subito di vederlo, anche per discutere dello stato di salute di Palmerio. La sua ferita al volto era migliorata molto, anche se l'aveva lasciato sfigurato, mentre quella alla gamba gli stava dando molti problemi.

Il cerusico, che lo visitava regolarmente a Forlimpopoli, dove Achille gli aveva trovato una sistemazione temporanea, sosteneva che l'osso stesse facendo fatica a guarire per la costituzione fragile di Palmerio.

In più, malgrado gli avesse dato da seguire una dieta precisa e delle pratiche igieniche e di riabilitazione molto specifiche, il fratello Tiberti più scostante non stava seguendo né l'una né l'altra.

E invece, quando si era trovato davanti Polidoro, l'uomo della Tigre si era dovuto ricredere su tutto.

“Sto radunando i miei – gli aveva detto, battendogli con forza le mani sulle spalle e alitandogli addosso con il suo fiato pestilenziale – e vorrei che tu fossi tra loro.”

“Ma che cosa intendi fare?” aveva allora chiesto Achille, non riuscendo a immaginare in che razza di guerra si stesse cacciando il fratello, visto che per il momento i confini erano abbastanza tranquilli.

“Venezia mi pagherà bene – aveva risposto subito Polidoro, gli occhi un po' scentrati che fissavano quelli dell'altro con decisione – e se radunerò abbastanza uomini, mi pagherà anche di più.”

“Stai andando contro Firenze?” aveva indagato Achille, cominciando a sentire un crampo allo stomaco.

Sapeva bene, come ormai sapevano tutti, che la Tigre stava pendendo sempre più verso la fazione dei fiorentini. Oltre alla paura che Venezia incuteva a tutti i signori di Romagna, esclusi solo quelli già soggiogati a lei da lei, pesava per lei la consapevolezza che il papa non avrebbe perdonato un'alleanza con il Doge.

“Al momento opportuno, si intende.” aveva specificato Polidoro, per poi riprovare: “Allora, fratello, starai con me?”

Achille ci aveva dovuto pensare su, ma poi, con le mani che tremavano e la fronte imperlata di sudore, aveva declinato: “Non posso, ho una condotta che me lo impedisce.”

Il fratello aveva subodorato la mezza menzogna e aveva concluso cacciandolo dal salone con un rigido: “E allora stattene con quella vacca della tua padrona e sappi che se ti prendo in mezzo al campo di battaglia ti levo la testa dal collo! Traditore del tuo sangue che non sei altro!”

E così il fratello Tiberti che aveva preferito la fedeltà giurata alla sua signora rispetto a quella dovuta al proprio sangue, era scappato veloce come il fulmine ed era corso a prendere un cavallo per rientrare al sicuro nei confini dello Stato della Tigre, ben deciso a scriverle subito per farle sapere quella pesante novità.

 

Andrea Bernardi andò ad aprire alla porta con un certo timore. Ormai era già buio e la bottega era chiusa da un po'.

A quell'ora, chi poteva bussare con tanta insistenza alla sua porta?

Anche se aveva una mezza idea, restò comunque abbastanza stupito nel vedere la Contessa in attesa sull'uscio.

Era ormai da un po' che non gli faceva visita, tanto meno a quell'ora, e dunque il barbiere si domandò cosa mai l'avesse portata lì quella sera.

“Prego entrate...” la invitò, lasciandola passare e richiudendole poi la porta alle spalle, per chiudere fuori il vento gelido che spirava fin dal primo pomeriggio.

La fece accomodare in casa e le offrì qualcosa da mangiare, che però la Tigre rifiutò, contravvenendo a quella che ormai tra loro era diventata quasi una tradizione.

“Posso chiedervi cosa vi porta qui?” chiese il Novacula, mettendosi a sedere di fronte a lei, spostandosi da davanti il piatto fumante, in segno di rispetto.

“Voi vedete tanti viaggiatori e anche dei mercanti...” disse Caterina, togliendosi i guanti di pelle imbottita e abbandonandosi a un sospiro pesante: “Ditemi, che cosa si racconta sulla peste?”

Bernardi finalmente si tranquillizzò un po'. Anche se l'argomento era tutt'altro che allegro, almeno spiegava molto bene il viso tirato e l'espressione tesa della sua signora.

Aveva già temuto di vedersi riversare addosso qualche ennesima tragedia o confidare qualche catastrofe familiare che avrebbe ritrascinato Forlì nel caos, e invece la Leonessa voleva solo sapere se era vero che la peste si stesse avvicinando.

“Al sud ci sono state delle città molto colpite, dove il clima è più secco – rispose prontamente il barbiere, mettendo in fretta insieme tutte le informazioni raccolte in quelle ultime settimane – e si dice che anche Roma ne sia stata sfiorata, ma è una città grande e quando la peste tocca la periferia, a volte risparmi il centro...”

“Peccato. Sarebbe stato bello vedere il papa Borja spazzato via della mano nera del diavolo.” si prese la briga di commentare la Sforza, allungando le gambe sotto al tavolo.

Bernardi fece un mezzo sorriso e proseguì: “Con un po' di fortuna, la peste risalirà verso Firenze e da lì in Liguria e ci lascerà salvi.”

Il Novacula fu certo di aver intravisto una strana contrazione nei muscoli mimici della sua signora, quando aveva nominato Firenze e a quel punto gli tornò in mente il tarlo che lo aveva consumato negli ultimi giorni.

Aveva sentito dire da certi che la Contessa e l'ambasciatore fiorentino si erano sposati e che alla rocca c'era anche stata una specie di festa, a cui avevano partecipato solo alcuni abitanti della rocca, senza quasi nessun notabile della città presente.

Bernardi aveva riso dietro a tutti quelli che ne avevano parlato, perfino a un ragazzetto che lavorava come servo a Ravaldino e sosteneva di aver visto tutto coi propri occhi.

Lo storico era certo che se fosse stato così, la sua signora glielo avrebbe detto per tempo, spiegandogli quali voci mettere a tacere e quali alimentare. Lui le aveva salvato la vita più di una volta e tra loro vigeva un rapporto di mutuo rispetto e affetto. O almeno, così gli piaceva pensare...

“Appena avrete notizie di focolai vicino a noi, fossero anche solo chiacchiere, voglio che mi facciate avvertire.” concluse la Tigre, incrociando le braccia sul petto e mordendosi l'interno della guancia, sempre più preoccupata: “Non dobbiamo permettere a un'epidemia di metterci di nuovo in ginocchio. Ci siamo rialzati troppo faticosamente. Bisogna difendere la stabilità che abbiamo ricostruito.”

Il barbiere si disse subito d'accordo con lei e promise che sarebbe corso subito alla rocca a riferirle ogni cosa non appena avesse avuto novità.

Mentre diceva così, i suoi occhi corsero alle mani della Contessa. Erano curatissime come sempre, come lo erano state anche nei momenti peggiori, però avevano qualcosa di molto diverso.

Da un po' tutti avevano notato come la signora di Imola e Forlì avesse ripreso a indossare gioielli, dunque il fatto che portasse alle dita qualche anello non sconcertò il barbiere più di tanto.

Tuttavia, all'anulare sinistro, assieme a un piccolo cerchi tempestato di pietre preziose, c'era un altro monile, molto più enigmatico.

Caterina, che fino a quel momento era stata indecisa se parlarne o meno, intercettò gli occhi del Novacula e si sentì scoperta.

Era andata da lui sì per parlare della peste, ma anche, anzi, forse soprattutto, per parlargli di Giovanni.

Eppure adesso, che vedeva lo sguardo indagatore e vagamente ostile del suo amico, si chiedeva se fosse una mossa saggia parlarne con lui. Ma, dopotutto, come avrebbe potuto non farlo, visto che era dalla sua barberia che passava l'opinione pubblica?

“Mi sono risposata.” disse allora Caterina, senza troppi giri di parole.

“Risposata in modo legale?” chiese il barbiere, che ormai non si aspettava più quella confidenza e non sapeva come mandare avanti il discorso.

“Sì, con un prete, l'incenso, gli anelli e tutto quanto.” confermò la donna, con un breve colpo di tosse.

“Posso sapere con chi?” domandò il Novacula, che pur era certo di conoscere già benissimo la risposta.

“Con Giovanni Medici.” la voce della Contessa era bassa, con un tono strano che l'animava, come se stesse chiedendo comprensione e non giudizi facili.

“L'ambasciatore di Firenze.” parafrasò Bernardi, tanto per non stare zitto: “Di certo è un uomo di valore e di grandi sostanze. È stata una scelta più assennata di altre.”

L'ultimo inciso gli era scivolato dalle labbra prima che potesse accorgersene, ma, a differenza del solito, la donna parve non accorgersene neanche.

“So bene che da molti verrebbe visto come un matrimonio di interesse. Il mio Stato ha bisogno di soldi e lui li ha. Cos'altro potrebbero pensare, se non che l'ho convinto a sposarmi solo per rimpolpare le casse del mio Stato?” disse piano la Sforza, cominciando a passare assorta un paio di dita sul tavolo che le stava davanti: “E forse faranno bene a pensarla tutti così, non credete? Lo vedranno come la mia fonte di denaro, ma almeno non cercheranno di usarlo per ferire me.”

Al barbiere non servirono spiegazioni più chiare per capire che la donna, in fondo, aveva il terrore che qualcuno, sapendola innamorata del suo nuovo marito, avrebbe potuto ucciderlo per distruggerla ancora una volta.

“Dunque, se scoppierà una guerra tra Firenze e Venezia, allora staremo dalla parte della repubblica fiorentina?” chiese Andrea, riportandosi il piatto davanti al naso e cominciando a bere un po' di brodo.

“La guerra ci sarà.” assicurò Caterina, sistemandosi un po' sulla sedia, che cigolò appena, facendo un piccolo concerto con il suono brodoso che faceva il Bernardi mangiando la sua cena: “E noi staremo con Firenze. Sperando che Firenze stia con noi.” precisò.

L'uomo non commentò più a riguardo e chiese, con un distacco che suonò spiacevole alla sua signora: “Volete che metta a tacere le voci che girano sul vostro matrimonio?”

“Girano già, vero?” si informò la Tigre.

“Parlano anche di un banchetto alla rocca e di una festa.” confermò un po' piccato il barbiere.

“Potevo immaginarlo.” borbottò la donna, senza cogliere l'insofferenza nemmeno molto celata nelle parole dell'amico.

“Dunque, le devo mettere a tacere?” rispose lo storico, versandosi un sorso di vino e poi bevendolo di colpo, sempre meno conciliante.

“No... Non alimentatele, ma nemmeno smentitele. Prima o poi lo sapranno tutti, ma per ora preferisco che ci sia confusione nell'aria. Gli stranieri che tenderanno l'orecchio sui nostri pettegolezzi devono essere nel dubbio.” rispose la Contessa: “Ogni certezza gioca a loro favore, mentre i sospetti fine a se stessi li paralizzeranno. E noi guadagneremo tempo.”

“Tempo per cosa?” fece il Novacula, tuffando ancora una volta il cucchiaio nella minestra.

“Passate una santa notte, Bernardi.” disse Caterina, interrompendo bruscamente la conversazione e alzandosi: “S'è fatto tardi. Mi aspettano.”

“Certo...” soffiò l'uomo, senza lasciare la tavola: “Conoscete la strada.”

 

“Credi che sia davvero mal francese?” chiese Isabella d'Este, guardando pensierosa fuori dalla finestra.

Francesco ripensò ancora una volta alle piaghe che aveva visto addosso al cognato a Ferrara e si sentì in dovere di confermare: “Credo proprio di sì. Visto una volta, lo riconoscerebbe chiunque.”

“Però hai detto che sta abbastanza bene, no?” riprese la Marchesa, tornando a concentrarsi sul marito, che ancora non si era tolto il mantello da viaggio e restava impalato in mezzo alla loro camera.

Appena era arrivato a palazzo, la moglie lo aveva pregato di seguirla e da lì era cominciato un serrato interrogatorio su tutto quello che l'uomo aveva visto e sentito prima a Venezia e poi a Ferrara.

Isabella aveva bisogno di sapere con precisione tutti quei dettagli per essere certa di aver condotto bene le trattative diplomatiche sia con il Doge sia con le altre corti con cui era sempre in contatto.

Anche se molti la credevano interessata solo ai bei vestiti e alle composizioni virtuose di poeti e cantori, gran parte della sua anima era dedicata sempre e solo agli affari di Stato e dunque per lei il sapere era linfa vitale.

“Sta discretamente bene, sì.” confermò Francesco, passandosi la berretta da una mano all'altra: “Ci sono giorni che esce a caccia e va alla fonderia e sta fuori anche fino a sera senza problemi, però mi ha confidato che in certi momenti si sente avvampare di febbre e di dolore per le sue piaghe e deve stare a letto anche per una settimana...”

Isabella strinse le labbra e cominciò a pensare, per poi chiedere: “E sua moglie? Ancora non gli ha dato un figlio... Credi che sia sterile?”

Il Marchese sollevò le sopracciglia, indeciso se essere franco o meno circa quello che aveva scoperto su Anna Maria Sforza. Siccome la moglie lo fissava imperterrita, decise di dire apertamente quel che pensava. In fondo la sua Isabella non era una donna che si scandalizzava facilmente.

“Anna Maria Sforza si accompagna quasi ogni notte con una schiava.” disse: “E credo che non abbia alcun interesse in tuo fratello.”

“Ma allora perché mio padre non...” cominciò a dire la donna, ma il marito la fermò, scuotendo il capo.

“Ci stanno provando, anche se non sta bene a nessuno dei due.” spiegò: “E forse, quando sono partito, dicevano che lei potrebbe avere concepito, ma era troppo presto per dirlo.”

“Speriamo che sia così. Ferrara ha bisogno di un erede.” disse la Marchesa, chiudendo il pugno e battendolo piano contro il davanzale della finestra.

Seguirono ancora alcune domande su Venezia, con sempre più insistenza riguardo all'ospitalità data dal Doge. Anche se quello che le premeva di più sapere all'inizio era stato a che punto fossero la corte di Ferrara e la Serenissima, adesso che aveva ricevuto i ragguagli che voleva, Isabella cominciava a concentrarsi su altri aspetti della spedizione del marito.

“Barbarigo è davvero ospitale come dicono tutti?” gli chiese, andandogli appresso e osservandolo con attenzione, per cogliere ogni sua reazione.

Il volto sformato del Marchese fu attraversato da una breve smorfia e i suoi occhi tondi indugiarono anche troppo in quelli della moglie, mentre diceva: “Sì, è un Doge molto accogliente.”

“So della schiava, Francesco.” buttò lì Isabella, senza riuscire più a trattenersi: “E non parlo di quella che Anna Maria si porta in camera, ma quella che tenevi sotto chiave tu quando eri a Venezia.”

“Ma come... Io non...” farfugliò l'uomo, facendo un passo indietro: “Come fai a sapere che...”

“Siamo sposati da sette anni e ancora non mi conosci? Io ho occhi e orecchie ovunque.” ribatté la donna, con un sorriso amaro.

“Non è la prima volta che sto con un'altra quando sono lontano.” fece allora Francesco, gonfiando il petto e cercando di imporsi su di lei con l'autorità che arrivava dal suo lignaggio e dal suo piglio militare: “Non vedo che differenza ci sia questa volta.”

“Lo sai quali sono i patti tra noi, no?” lo incalzò Isabella, puntandogli contro l'indice: “Finché sei in guerra, io posso chiudere un occhio. Stai rischiando la vita, non me la sento di privarti di una delle cose che ti piace di più. Ma a Venezia tu stavi facendo vita da salotto. Non avevi scuse.”

“Era un dono del Doge.” insistette Gonzaga, senza retrocedere più.

“Era più brava di me?” gli chiese Isabella, afferrandolo per la fibbia del mantello, inducendolo a piegarsi verso di lei, in modo da specchiarsi nei suoi occhi e sentire addosso il suo respiro.

“Era solo una schiava.” rispose il Marchese, che come sempre, non appena si trovava vicino alla moglie, si rendeva conto di quanto tutte le altre non valessero nulla.

“Questa notte non venire a cercarmi.” concluse la donna, lasciandolo andare di colpo: “Quando ne avrò voglia, ti cercherò io.”

 

La mappa dell'Italia era aperta sulle scrivania e attorno, come avvoltoi Cesare Feo, Luffo Numai e un paio di Capitani stavano osservando in silenzio la Contessa che posizionava uno dopo l'altro i segnalini di legno.

Quel giorno, appena dopo la riunione del Consiglio durante la quale si erano comunicate la nascita della Compagnia della Pietà e la ricostituzione dei Battuti Bianchi, la Tigre aveva ricevuto una lettera firmata da Achille Tiberti.

Mentre ancora Ottaviano – presente a un Consiglio per la prima volta da due anni a quella parte – si intratteneva con alcuni membri che volevano congratularsi con lui per la nomina a capo dei Battuti Bianchi, la madre aveva letto in fretta il messaggio e poi aveva chiesto a Numai di raggiungerla entro un'ora alla rocca.

“Scusate il ritardo – fece Giovanni, entrando nella sala e richiudendosi subito la porta alle spalle – i miei segretari mi hanno trattenuto...”

Caterina lo salutò con un breve cenno del capo, continuando a riempire la cartina con le pedine che rappresentavano tutti i signori confinanti con loro.

Aveva chiesto lei al marito di presentarsi a quella riunione straordinaria, perché ormai quelli erano anche affari suoi. Non aveva pensato all'eventuale reazione degli altri presenti, ma ora che vedeva i loro sguardi curiosi correre verso il Popolano, pensò che avrebbe sedato ogni domanda sostenendo di essere in trattative con Firenze per un'alleanza e che dunque l'ambasciatore in quel frangente avrebbe fatto le veci della repubblica nel discutere la situazione.

“Venezia si sta muovendo.” disse la Tigre, sistemando il segnalino con il leone di San Marco nel cesenate: “Hanno contattato Polidoro Tiberti e gli hanno chiesto di prepararsi ad attaccare appena sarà necessario.”

“Figlio d'un cane...” commentò a denti stretti il Capitano Alberto Rossetti, che era abbastanza in amicizia con Achille da vedere quella mossa come un tradimento anche ai danni del Tiberti che militava per Forlì.

“A questo punto, con Rimini dalla loro, Faenza del tutto in balia del Doge e ora anche un cesenate pronto a prendere in mano le armi – proseguì la Contessa, indicando a uno a uno gli Stati che stava nominando – è chiaro che Venezia vuole arrivare a Firenze passando da qui.”

Giovanni, intanto, si era avvicinato alla mappa e stava osservando i confini impressi sulla pergamena: “Di certo per loro è la via più rapida.” confermò, appoggiando una delle sue belle mani accanto al nome della sua città: “E magari prima cercheranno di prendere Forlì o Imola con le buone. Conoscendo i metodi del Doge, potrebbe cercare di comprare anche voi.”

“E allora resterà molto deluso.” fece subito Bernardino Donati, incontrando il favore del Capitano Rossetti.

Il fiorentino guardò i due soldati e poi la moglie, che con un breve cenno gli fece capire di non aggiungere altro.

“Dobbiamo prepararci a qualunque cosa.” decretò Caterina: “Quindi, Numai, appena Mongardini sarà tornato dalla ronda nelle campagne, ditegli di ricominciare gli arruolamenti a tappeto. Lo stipendio per le reclute sarà tanto quanto quello degli effettivi che abbiamo già, e quello dei veterani va raddoppiato.”

Luffo prese coscienziosamente nota di tutto, annuendo, ormai del tutto succube della politica della sua signora, tanto da non provare nemmeno più a obbiettare circa i costi di quelle decisioni tanto repentine.

“Dopodiché, piazzeremo degli squadroni sui confini e anche nelle zone poco abitate. Dobbiamo difendere i campi, prima ancora che le città. Se fermeremo il nemico appena si avvicinerà, daremo più respiro ai centri abitati e avremo tempo di organizzare una ritirata strategica nelle rocche.” disse la Tigre, puntando il dito su tutte le rocchette disegnate sulla mappa.

“Non basterebbero a nascondervi tutta la popolazione, però.” obiettò Cesare Feo, spostando un po' Giovanni in modo da poter essere in prima fila davanti alla Contessa.

“Spero di non dover arrivare al punto da nascondere l'intero Stato in una rocca.” controbatté Caterina, senza la minima ironia.

Gli uomini della Sforza restarono nella sala ancora qualche tempo a discutere e si decise che oltre le misure di sicurezza decise dalla donna per il momento si sarebbe rimasti tutti in attesa, pronti a cogliere ogni minimo cambiamento d'aria.

“Mio fratello mi ha scritto per dirmi che proporrà una condotta per Ottaviano nella campagna contro Pisa.” disse Giovanni, una volta che lui e la moglie furono soli: “Se dovessero concedergliela, allora potremo imporre un'alleanza alla Signoria e Imola e Forlì potrebbero avvalersi della protezione di Firenze.”

La Tigre non diceva nulla, continuando a guardare la mappa stesa sul grande tavolo che campeggiava in mezzo alla sala. Più ragionava sulla situazione in cui vertevano, più le sembrava che tutto le scivolasse via dalle dita.

Il fiorentino le si mise dietro la schiena e, appoggiando la testa sulla sua spalla, osservò con lei l'Italia stesa davanti a loro.

“Se solo i signori di tutti questi Staterelli la smettessero di farsi guerra e si unissero...” sospirò: “Si potrebbe davvero essere una potenza capace di far paura alla Francia, alla Spagna e perfino all'Impero.”

“Lo so.” sussurrò la Sforza, con un sospiro, mentre la presenza di Giovani alle sue spalle cominciava a distrarla: “Lo penso anche io. Però temo che potrebbe non accadere mai. Per lo meno, non adesso.”

Lentamente, Giovanni la fece voltare verso di sé: “Pensa a come sarebbe bello – le disse, dandole un bacio – se potessimo essere alla guida di uno Stato capace di unire tutti questi piccoli paesi in un unica nazione...”

“Tu fantastichi sempre troppo.” lo riprese la Tigre, sorridendo.

Il Popolano ricambiò il sorriso e poi, vinto dal desiderio che l'incertezza di quel momento gli aveva messo addosso, riprese a baciare la moglie, sempre con più ardire. Pensare che presto una guerra sarebbe arrivata a bussare alla sua porta gli aveva messo addosso l'urgenza di chi teme di aver finito il proprio tempo. Ancor più del solito, come se alla paura di esser portato via dal suo male, adesso sentisse alle calcagna anche il cozzare delle armi nemiche.

Per quanto lui per primo si stesse sorprendendo della sua incapacità di trattenersi, Giovanni spense per un attimo la mente e la propria coscienza e si permise la libertà di fare quel che voleva.

Lasciandosi cadere sulla cartina di quell'Italia che solo nei suoi sogni si sarebbe unita contro il nemico, Caterina si sentì travolgere da una passione che nemmeno Giacomo le aveva fatto vivere e si lasciò prendere dal marito, senza curarsi dei segnalini di legno che cadevano in terra, né del pericolo che qualcuno potesse scoprirli.

 

Il palazzo del signore di Pesaro era immerso nel silenzio. Giovanni Sforza camminava di gran passo lungo il corridoio. Portava ancora nella tasca del giubbone la lettera che il Duca di Milano gli aveva fatto recapitare il giorno prima e alla quale aveva risposto subito, pentendosi poi delle proprie ardite parole.

Il Moro gli aveva chiesto il perché della sua fuga dalla corte del suocero, e lui, invece che inventarsi qualche scusa, aveva preso tempo in malo modo, scrivendogli che prima di dare spiegazioni avrebbe dovuto attendere 'una certa risposta da Roma'.

'Solo a quel punto – aveva aggiunto, per evitare altre scoccianti missive – vi invierò un messo di fiducia a discorrere sul perché del gesto mio'.

“Mio signore – lo raggiunse con il fiato corto uno dei suoi domestici più fidati – venite, presto! È arrivato or ora un messo da Roma e vi attende nella sala di rappresentanza!”

Giovanni, sentendo il cuore pompare come una furia, corse subito alla saletta, sicuro come non mai che Lucrecia, finalmente, avesse sciolto le sue perplessità e gli avesse scritto per dirgli che l'avrebbe presto raggiunto a Pesaro per restare con lui.

“Tenete. Direttamente da Sua Santità il papa.” disse Lelio Capodiferro, messo speciale del Santo Padre.

Come sgonfiato da tutta l'emozione che l'aveva sospinto fino lì come un vento di maestrale, lo Sforza prese la missiva, spezzò il sigillo pontificio e lesse la data: 20 marzo 1497. Ci aveva messo parecchi giorni, per arrivare...

'Quanto ci siamo doluti dell'inopinata tua partenza dall'Urbe, può considerarlo la tua prudenza, e poiché ad un fatto di tal sorta – aveva scritto Rodrigo Borja – ci pare che nessun altro rimedio possa far riparo, ti esortiamo quanto più possibile, se brami di essere sollecito del tuo onore, che tu voglia ritornare subito qui.'

Giovanni finì di leggere e poi congedò Lelio Capodiferro, ma solo momentaneamente: “Sarete così gentile – gli disse – da attendere la mia risposta da inviare al Santo Padre.”

Chiusosi nel suo studio, il signore di Pesaro si lasciò andare a un attimo di sconforto che lo portò alle lacrime. Era certo di aver passato il limite. Finché restava a casa sua, però, almeno rischiava meno la vita che non se fosse stato a Roma.

“Se rimetto piede in Vaticano – sussurrò da solo – sono un uomo morto...”

Quello era il momento di farsi vedere risoluti. Sapeva che anche Lucrecia provava schifo e ribrezzo per quello che suo padre e i suoi fratelli facevano nel segreto dei loro appartamenti di lusso a Roma.

Se non gli aveva ancora dato risposta, era solo perché aveva paura.

'Vostra figlia, madonna Lucrecia – scrisse Giovanni, stringendosi una mano al petto per contrastare la paura che minacciava di non lasciargli finire la missiva – è mia legittima moglie agli occhi di Dio e voi stesso lo sapete ben quanto me. Com'è giusto che sia, la moglie ha da seguir lo marito ovunque egli decida e dunque io vi chiedo di rendermi la moglie e di farla partire subito per Pesaro, dove l'attendo con ansia.'

Chiuse in fretta la lettera e poi impresse il proprio sigillo. Lasciò passare qualche minuto per dare tempo ai suoi occhi di asciugarsi e poi, sentendosi dentro un calore che gli ricordava molto da vicino ciò che provava in battaglia quando capitanava una carica, tornò da Capodiferro e gli consegnò il messaggio.

“Correte a Roma in fretta – gli disse, congedandolo – e dite al papa che non sopporterò ancora a lungo di passare le notti disgiunto da mia moglie. Mia moglie. Non sua, ne di nessun altro.”

 
   
 
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