Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
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Autore: whitecoffee    31/10/2017    3 recensioni
❝«Yah, Jack, questa è la tua ragazza?» Chiese uno, facendomi un sorrisetto malizioso. TaeHyung schioccò la lingua.
«Vuole gareggiare» disse solo, e i presenti scoppiarono tutti in un’unica, fragorosa risata.
[...]
«Ascolta bene, Million Dollar Baby» riprese il tipo che aveva chiesto al loro capobranco se fossi la sua ragazza. «Devi battere Lock, Shock e me. Dopodiché, potrai sfidare Jack. Tutto chiaro?» Chiese, passando la spugnetta sulla punta di una stecca, per poi porgermela. L'afferrai, guardandolo con diffidenza. Perché avevano tutti nomi presi da Nightmare Before Christmas? Era una sorta di “cosa da gang”?❞
- Dove JungKook è un timido fantasma con un conto in sospeso, TaeHyung un imbattibile giocatore di biliardo nascosto dietro una maschera e Mavis una sfortunata studentessa di scambio, con una vista particolare e un innato talento per cacciarsi nei guai.
halloween!AU | ghost!JungKook | rebel!TaeHyung | TaeKook!bromance | boyxgirl
-
» Halloween special
» Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=ZXkmsH82tjc&feature=youtu.be
Genere: Comico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Just because I cannot see it, doesn't mean I can't believe it!”
 
 
 
 

Aprii gli occhi, e mi ci volle qualche istante per rendermi conto di dove fossi. Il bianco soffitto che le mie pupille fissavano non era certo quello di casa mia. Per di più, il continuo cicaleccio coreano che si riversava nelle mie orecchie, non aveva nulla a che spartire con l’inglese. Poi, la consapevolezza m’investì. E scattai a sedere. Ero arrivata in Corea del Sud da qualche ora, ed avevo preso residenza nell’appartamento che avevo affittato insieme ai miei genitori. Perché ero svenuta? Lanciai un’occhiata circolare all’ambiente circostante e focalizzai il libro in terra, fuori posto. Ed ebbi una sorta di flash dinanzi agli occhi. Quel giovane, dagli occhi spaventati e le movenze maldestre. Il corpo senza sostanza. Il testo che gli era passato attraverso.
«Oh mio Dio» sussurrai, rialzandomi piano, combattendo con gli strascichi di vertigini che ancora si arrampicavano alla mia vista. Possibile che avessi visto un fantasma? No. Nella maniera più assoluta. Non credevo in quelle idiozie da film horror e letteratura gotica. Soltanto Henry James poteva darmela a bere sugli ectoplasmi, nessun altro.
M’incamminai verso il tomo riverso a terra, e lo raccolsi con il cuore che mi martellava nelle orecchie. Lo esaminai, e fui felice di non riscontrare alcun cambiamento, in quell’oggetto. Era semplicemente caduto. Alzai la testa per individuare il vuoto all’interno dello scaffale, e notai quello che pareva un foglio, sporgere oltre la superficie piatta della mensolina. Lo presi, e mi resi conto di aver trovato una fotografia. Quale non fu il mio orrore, nel notare che uno dei due soggetti inquadrati era proprio il ragazzo scomparso lì, poco tempo prima. Sorrideva, felice. Sembrava più piccolo di qualche anno, seppur ancora eccezionalmente bello. Aveva il capo poggiato sulla spalla di un altro giovane, visibilmente più grande di lui. Anch’egli sembrava ridere spensierato, i capelli color noce moscata che ricadevano sui suoi occhi. La pelle, di un caldo color ambrato, contrastava magnificamente con l’incarnato pallido dell’altro ragazzo. Erano sotto un albero di ciliegio in una bella giornata di primavera, ed indossavano la stessa divisa. Intuii dovesse trattarsi di uno scatto risalente all’epoca delle scuole superiori. Girai la foto, e lessi poche righe vergate in pennarello nero, con una calligrafia piuttosto ordinata.
“I momenti più belli della vita-
...Ti sarò sempre accanto, amico mio!
 TaeHyung e JungKook”
Rimasi qualche minuto ad osservare quelle scritte, in silenzio. Sembrava una dedica fatta da un migliore amico, lasciando intuire il forte legame che potesse unire entrambi. Quanto vecchia poteva essere, quella foto? Tre, quattro anni? E perché quel ragazzo era stato lì, poco prima? Forse stava cercando proprio lo scatto che io stavo tenendo fra le dita? Rigirai l’immagine, scrutando i due soggetti. Sì, quello sulla destra era senza dubbio il giovane incontrato prima. L’altro sulla sinistra, non l’avevo mai visto. Non potei fare a meno di chiedermi che fine avesse fatto, che età avesse, quale fosse il suo nome. JungKook e TaeHyung. Chissà chi fosse chi. Quali avvenimenti avessero condiviso insieme. Improvvisamente, mi chiesi se uno dei due non avesse uno stretto legame con quell’appartamento. La foto era lì, incastrata fra i vecchi libri. L’arredamento già presente era stato coperto da un telo e lasciato lì per anni. Come se il vecchio inquilino non fosse mai più tornato a visitare la casa. E c’era quel ragazzo, così simile al tipo della foto. Avvertii un brivido corrermi lungo la spina dorsale. L’idea di trascorrere la notte lì dentro, da sola, cominciò a piacermi sempre meno. Sospirai, scuotendo la testa. Che idiozia. I fantasmi non esistevano. Probabilmente dovevo essermi immaginata tutto.
Riposi il libro al proprio posto e appoggiai la foto contro la sua costa, in bella vista. I due giovani ivi raffigurati sembravano così felici e bene assortiti insieme, che rimasi ancora qualche istante a contemplarli. Provavo una divorante curiosità, nel sapere di più sulle loro vite. Impulso insensato, poiché malsano e privo di buon senso. Erano due perfetti sconosciuti, per me. Per quale motivo avrei dovuto interessarmene? Un nuovo e poderoso gorgoglio mi ricordò che avevo una fame divorante. Spensi la tv, agguantai chiavi e borsa e mi richiusi la porta alle spalle. M’avviai giù per le scale, uscendo dal condominio in poco tempo, alla ricerca di fortuna alimentare.

 
  


Una mezz’oretta più tardi, contemplavo il senso della vita dinanzi ad un cheeseburger, seduta a mangiare da sola nell’unico fast food che avessi trovato aperto a quell’ora in zona. Erano le undici e mezza di domenica sera, e il quartiere in cui avrei dovuto abitare da lì in avanti, era piuttosto spoglio e privo di giovani. Da lì, la quasi assente necessità di aprire attività commerciali che avrebbero potuto fungere da ritrovi per loro, come cinema, pizzerie, coffee shops. In compenso, c’era un grande centro commerciale a dieci minuti di cammino dal condominio, e un supermercato aperto ventiquattr’ore proprio infondo all’isolato. Il locale in cui stavo consumando la mia pessima e parca cena, distava un quarto d’ora a piedi dall’appartamento.
Mi guardai attorno. Non era molto affollato. Potevo vedere un paio di coppiette condividere un milkshake, altri giovani mangiare e chiacchierare rumorosamente qui e là. La radio del fast food era sintonizzata su un canale di kpop. Unico risvolto positivo, che m’indusse ad ondeggiare il capo più volte a ritmo della musica, e a sentirmi un po’ meno sola. La mia attenzione venne però catturata da un altro ragazzo che desinava senza compagnia, ad un paio di tavoli di distanza. Indossava una larga felpa nera con il cappuccio sollevato. Una pesante frangia biondo platino gli nascondeva parte del volto, chino com’era a scribacchiare s’un blocco appunti. Riflettei che non era usuale, nella popolazione giovane locale, possedere un colore di capelli così particolare. E gli unici che tendevano a tingersi erano i soggetti particolarmente attenti all’aspetto estetico, o gli idols. Intinsi una patatina nel vasetto di salsa non identificata di cui mi avevano rifornita gratuitamente, mentre continuavo ad osservarlo. Sollevò il capo e morse il cappuccio della penna nera, lasciando vagare lo sguardo di fronte a sé. Da ciò che potevo vedere, aveva delle vistose occhiaie violacee sotto le palpebre, le quali facevano sembrare i suoi occhi scuri ancor più piccoli. Naso perfetto e labbro superiore meno carnoso di quello inferiore, aveva un incarnato pallido quasi quanto il mio, le dita guarnite da numerosi anelli d’acciaio. Al collo, pendeva qualche catenina, che tintinnavano seguendo i suoi movimenti. Mi domandai se davvero non facesse parte di qualche gruppo, o se non fosse un artista individuale.
Improvvisamente, dovette accorgersi del mio sguardo, perché focalizzò il mio volto. Sollevò un sopracciglio, impudentemente. Imbarazzatissima, finsi di concentrarmi estremamente sul mio cibo. Ci mancava solo che uno degli autoctoni venisse spaventato dalla straniera dai capelli viola nel fast food all’angolo. Spezzettai con estrema cura ciò che restava del panino, quasi come se ne andasse della mia vita. E stava andando tutto bene. Finché non vidi il posto dinanzi al mio venire occupato da un corpo longilineo, fasciato di nero e catene. Che si sedette sul divanetto, in modo piuttosto sgangherato. Non osai alzare lo sguardo.
«Hey» disse il ragazzo. Deglutii, a disagio, costringendomi ad includerlo nella mia visuale. Aveva ancora lo stesso sguardo incuriosito di prima. E se fosse stato uno di quei teppistelli da strada? Infondo, io ero una ragazza sola, visibilmente non coreana. Era risaputo che gli stranieri non venissero visti di buon occhio, sebbene le industrie musicali osannassero l’europeo ed americano. Non eravamo mica alla SM Entertainment, bensì solamente in un quartierino sconosciuto a Seoul. E quello sconosciuto aveva una magnifica aria intimidatoria che avrebbe spaventato chiunque.
«Non sei di qui, vero?» Chiese, forse con più aggressività di quanta ne sarebbe servita. Mi limitai ad annuire, cominciando a contemplare un modo per passare lì la notte, visto che sarei stata troppo impaurita per uscire da quel fast food. Forse avrei potuto nascondermi nei bagni finché non avrebbero chiuso. Poi, avrei potuto uscire e distendermi su uno di quei divanetti sui quali ero seduta in quel momento. Me li sarei fatti andar bene. D’altronde, chissà che altro avrei trovato in quella casa, ad attendermi.
«E parli inglese?» Seguitò. Altro cenno d’assenso.
«Potresti dirmi se sono riuscito a tradurre bene questa frase? È almeno mezz’ora che ci sbatto la testa, ma continua a suonarmi male» disse, tendendomi il suo blocco appunti piuttosto vissuto. Battei le palpebre, senza capire.
«Come, scusa?» Domandai, nella sua stessa lingua. Allora lui si riprese il quadernino, e tracciò un ovale con una matita, per poi sporgerlo nuovamente verso di me.
«La frase. L’ho anche cerchiata. Mi aiuteresti a correggerla?» Ripeté, sforzandosi di essere più gentile. Presi ciò che mi tendeva, fissando senza parole la linea in questione. Che strano ragazzo. Ed io che pensavo volesse trascinarmi in un vicoletto buio e lasciarmi un occhio nero come souvenir di benvenuto. La frase era pressoché giusta, ad eccezione della coniugazione verbale. La corressi e gli resi il quaderno, ancora sconvolta. Lo vidi occhieggiare la barra nuova di zecca, e sorridere.
«Ti ringrazio. Adesso ha più senso» commentò, piegando il capo in avanti come segno di riconoscenza. Lo imitai, sforzandomi di sorridere.
«In genere non parlo con gli sconosciuti» riprese, rigirandosi la matita fra le dita. «È solo che… quella maledetta frase mi stava dando troppo filo da torcere. Osservando il tuo volto, mi sono accorto che non avresti potuto essere coreana. C’era una minima possibilità che comprendessi l’inglese, e così sono venuto qui», si giustificò.
«Non hai pensato di usare un traduttore online?» Mi arrischiai a chiedere. Lo vidi sorridere, mentre scuoteva la testa. Le ciocche ossigenate seguirono i suoi movimenti, ondeggiando come grano al vento.
«Non mi fido delle macchine» rispose, laconico. Annuii. Poi, vidi un’esile mano eburnea protendersi verso di me.
«Mi chiamo Min YoonGi» si presentò. Gliela strinsi, sobbalzando lievemente al contatto con il gelo delle sue dita.
«Mavis Black» dissi, sentendomi fuori luogo come un pesce rosso ad una grigliata. Il mio nome era così poco coreano, che era difficile perfino pronunciarlo, secondo le regole linguistiche del posto. Appena mi sentì scandirlo, gli s’illuminarono gli occhi.
«Americana?» S’interessò. Annuii.
«Michigan» precisai.
«E come mai sei qui?»
«Ho vinto una borsa di studio alla Seoul University. Rimarrò per diciotto mesi».
«Accidenti. Devi avere una bella testa, sotto questi lunghi capelli viola».
Scoppiai a ridere, mentre Min YoonGi sorrideva divertito. Forse aveva soltanto l’aspetto del teppista. Magari sarei riuscita a tornare a casa con le mie gambe.
«Scommetto che non conosci ancora nessuno» riprese lui, rilassandosi sulla sedia, intrecciando le dita dietro la testa. Deglutii. Ripensai a quel ragazzo nel mio appartamento. E poi mi diedi mentalmente dell’idiota, per aver creduto che fosse stato reale. Certo che non lo era. Cincischiai con le patatine rimaste nel contenitore, cercando di recuperare quel poco di buon senso che mi era rimasto.
«Ho un amico di penna, che frequenta l’università a cui andrò. Si chiama Kim SeokJin» dissi. Lo vidi annuire.
«Intendevo qualcuno in carne ed ossa».
«Hey, SeokJin è vero! Domani ci vedremo per la prima volta in tre anni» ribattei, incrociando le braccia. Azione che scatenò un verso di divertito sarcasmo in YoonGi.
«Buona fortuna. La Seoul University è immensa. Sarà dura trovare qualcuno in mezzo a quella massa di pupazzi lobotomizzati dal sistema» commentò. Sollevai un sopracciglio. Parole forti per un giovane i cui coetanei si toglievano perfino la vita, a causa dello stress che il sistema scolastico gl’induceva. Mi chiesi quanti anni potesse avere.
«Non essere così duro, con loro. C’è chi ha sacrificato la propria vita, per arrivare fin lì».
«Benissimo. Quando saranno vecchi abbastanza, e si ritroveranno con una bella famigliola sulle spalle, e dei nipotini a giocare insieme a loro, non avranno altro che i libri a cui potersi aggrappare. Quando quei bambini gli chiederanno di raccontare loro qualcosa sulla giovinezza, rimarranno in silenzio, con lo sguardo vacuo e un retrogusto amaro in bocca».
Spalancai gli occhi. Non mi sarei mai aspettata un discorso del genere da uno sconosciuto con i capelli ossigenati, all’interno di un fast food. Che personaggio interessante. Una voce fuori dal coro. Tuttavia, dovette accorgersi di aver detto troppo, e scosse nuovamente la testa.
«Scusami, non volevo riversarti quella pioggia di parole addosso» disse. «Ti auguro buona fortuna per il tuo percorso di studi, Mavis» aggiunse, sollevandosi in piedi e facendo un profondo inchino. Ricambiai, senza parole, e lo vidi uscire dal locale. Testa bassa e mani sprofondate nelle tasche dell’ampia felpa scura come la notte. Un’anima tormentata restituita al suo ambiente naturale. Min YoonGi. Mi domandai se ci saremmo mai rivisti, prima o poi.
Sospirai, decidendo di alzarmi e gettare gli avanzi della cena nella pattumiera. Uscii anch’io nella notte, dirigendomi verso il supermercato, mentre le parole di quel ragazzo continuavano ad inseguirsi una dietro l’altra, nel mio cervello. In un loop senza fine, dello stesso colore degli occhi del giovane nel mio appartamento.
 

 
 

 
Rientrai in casa chiedendomi con quali forze. Avevo accumulato più borse della spesa in quel momento, che in tutti i miei ventun anni di età. Entrai nell’ingresso emettendo un verso di stanchezza, il quale sembrava più un lamento. Richiusi la porta con un calcio, al culmine della noncuranza. Quando mi voltai, m’immobilizzai per la seconda volta. Perché il ragazzo di qualche ora prima era tornato. Giaceva contro il muro, dinanzi a me. Le braccia incrociate, uno sguardo di curiosità ad animargli i begli occhi, il consueto pallore tipico e gli stessi abiti di prima. Mi ripromisi di mantenere la calma. Non potevo permettermi di svenire un’altra volta. Ci studiammo per qualche istante, diffidenti. Eppure, infondo al suo sguardo, potevo leggere chiaramente un fondo di paura. Lui era spaventato da me. La persona più innocua del pianeta. Alla quale bastava anche solo il ronzio di un’ape per filare via a gambe levate. Non potevo incutere timore. Era semplicemente senza senso. Sollevai piano le mani, e quel gesto lo fece ritrarre immediatamente. Lo vidi sprofondare nel muro, lasciandone fuori solo una parte di volto e un braccio. Come se si stesse nascondendo. Avvertii nuovamente le vertigini farsi strada lungo i miei occhi, ma decisi di combatterle. Quella storia non poteva andare avanti all’infinito.
«A-ascolta» gli dissi, con voce tremante. «Io sono la nuova inquilina di questo appartamento. Mi chiamo Mavis, vengo dal Michigan. I-in America», seguitai. «Ho ventun anni e da domani comincerò a frequentare la Seoul University».
Il mio discorso non parve sortire alcun effetto sul giovane, che continuò ad osservarmi, incassato nel muro. Non si era mai visto un fantasma che avesse paura degli esseri umani. Da nessuna parte. Un attimo. Avevo proprio pensato “fantasma”. Sospirai, affranta.
«Dovrò vivere qui per diciotto mesi. Quindi, sarebbe consigliabile che tu ed io collaborassimo. Posso assicurarti che sono l’ultima persona di cui dovresti avere paura. E poi parliamone, il fantasma sei tu. Dei due, sarei dovuta essere io, quella a scappare via urlando» commentai, strappandogli un timido sorriso. «Ragion per cui, potresti anche uscire da lì», conclusi. Sentendomi stupida oltre ogni dire. Forse avrei dovuto prenotare una seduta dallo psichiatra. Oppure era colpa del jet lag. Ad ogni modo, lo vidi riemergere dalla parete, ancora incerto. Si passò una mano fra gli scuri capelli lisci, mordendosi il labbro inferiore. Era visibilmente a disagio e non sapeva cosa fare. Provai ad aiutarlo.
«Come ti chiami?» Chiesi. Lo vidi annuire.
«Jeon JungKook» scandì. Improvvisamente, visualizzai la foto che avevo trovato poco prima. Dove lui e un altro ragazzo sorridevano all’obiettivo. Quindi TaeHyung doveva essere il nome del suo amico.
«Da quanto tempo sei qui?» Seguitai. Lasciò vagare lo sguardo attorno a sé per qualche istante, come se stesse facendo un rapido calcolo.
«Quattro anni».
«Questa casa era tua?»
Egli annuì.
«Cosa è successo, quattro anni fa?»
Un’altra pausa. Un fantasma timido. Incredibile.
«Mi sono ammalato…» disse. E parve non voler più proseguire. Sul suo sguardo passò un velo di tristezza così doloroso, da farmi desiderare di poterlo abbracciare. Parve rievocare ricordi ovviamente poco piacevoli, i quali dovevano avergli ipoteticamente fatto compagnia in tutto quel tempo. E tutto per causa mia. Inspiegabilmente, non volevo che soffrisse. Sebbene fosse un impulso del tutto sciocco.
«Va bene così, non importa» gli dissi, cercando di distrarlo. Mi riservò un’occhiata di sofferenza pura, che mi strinse il cuore. Senza sapere cosa fare, mossi un passo nella sua direzione. Ma ciò ebbe il potere di farlo voltare e sparire oltre la parete. Era andato via di nuovo. Ed io ero stata capace solo di farlo nuovamente soffrire. Ma che mi prendeva? Prima mi mettevo a parlare con i fantasmi e poi mi dispiacevo anche per loro? Quando ero convinta che non potessero né dovessero esistere in primo luogo? Stavo impazzendo. Per forza.
Mi costrinsi a sistemare la spesa. Avevo bisogno di un po’ di normalità, prima di andare a letto. Accesi nuovamente la tv, non sopportando di dover rimanere da sola in quell’appartamento. E notai la foto con TaeHyung e JungKook. Quattro anni fa. Il sorriso sbilenco di TaeHyung m’indusse nuovamente a chiedermi dove fosse, in quel momento. Se ancora soffrisse per la perdita del suo migliore amico. E JungKook, quel giovane che sorrideva spensierato nella foto. Era difficile credere che il triste fantasma timido fosse la stessa persona di quello scatto. Scossi la testa. Dovevo darci un taglio con tutte quelle riflessioni. Era solo il primo giorno e già sarei voluta saltare sul primo aereo e tornare in America.


 

 
 

   
 
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