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Autore: Alchimista    01/11/2017    2 recensioni
Shirabu non lo aveva mai detto a nessuno, ma gli spogliatoi avevano in qualche modo il potere di rilassarlo. Tutto pareva restare sigillato al di fuori di essi: la folla che li acclamava, la frenesia del campo, l’agitazione e l’adrenalina della sfida, ogni cosa entrava in pausa per tutto il tempo in cui lui restava negli spogliatoi e il giovane alzatore poteva prendersi qualche istante per pensare in maniera rilassata, senza la pressione del gioco, senza il costante pensiero di dover essere perfetto.
«È ora, Shirabu», si sentì chiamare dal capitano.
No. Aveva bisogno ancora di qualche istante, solo un paio, il tempo necessario a pensare ancora una volta, magari da solo…
«Solo un secondo, vi raggiungo subito».
Quarta soulmate della raccolta | Ushishira | Semiten | IwaOi
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eita Semi, Kenjiro Shirabu, Tendo Satori, Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fate don't know you like I do'
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Pairing: Ushishira | TenSemi |IwaOi

Parte: 4/9.

Avvertimenti: Soulmates!AU in cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno. | Angst | Malattia | Non odiatemi troppo | Essendo coinvolti gli IwaOi in questa parte (e nella prossima almeno) è necessario leggere la prima soulmate della raccolta, che trovate qui.

Alla mia parabatai Luna.

 

Don’t let me be gone.

 

Parte quarta.

 

 

 

 

 

La melodia risuonava nel silenzio di quella mattina quasi come un miracolo. Nella confusione dell’ospedale, tra i volti più o meno stanchi di chi lavorava o chi semplicemente vi trascorreva la vita, le note si susseguivano con triste eleganza, memento di un tempo passato, di sensazioni mai vissute eppure condivisibili per istinto.

Shirabu l’aveva sentita per la prima volta qualche pomeriggio prima, mentre stava semplicemente a letto, contro il petto di Ushijima che riposava accanto a lui – il Clair de Lune di Debussy era delicatamente entrato nella loro quiete, accompagnandola con un’intimità così appropriata che i due avrebbero voluto non finisse mai. S’era reso facilmente conto che la melodia non proveniva da una qualche cassa o amplificatore: il suono era chiaro e potente e doveva per forza essere quello di un violino che suonava dal vivo – per loro.

Così, nelle mattine che erano seguite, appena aveva un momento di solitudine e le note suonavano di nuovo, Shirabu aveva deciso di cercarne la fonte – a breve sarebbe cominciato il suo secondo ciclo di chemio e non avrebbe avuto la forza di camminare così a lungo almeno per un po’.

Quel giorno, finalmente, aveva individuato l’ala del palazzo da cui proveniva: spesso la musica era finita troppo presto ed orientarsi, pur aver trovato il piano, era tanto difficile che Shirabu aveva dovuto arrendersi all’evidenza e tornare sui suoi passi. Stavolta, invece, il musicista pareva essere particolarmente ispirato e continuava a suonare l’Estate con energia e trasporto – l’alzatore poteva quasi immaginare l’archetto correre sulle corde tese con impeto.

Si lasciò trasportare dal vigore del suono, sempre più vicino, sempre più rapito, senza avere la forza di fermarsi o la consapevolezza di essere tanto preso, finché non s’accorse di essere arrivato. Davanti a lui c’era una delle anonime stanze dell’ospedale e dentro, di profilo, un ragazzo che, in piedi, suonava con tutta la passione che quello strumento, quella musica chiedevano. I capelli scuri e ribelli erano scossi dall’energia che il ragazzo metteva nei suoi gesti e si muovevano nell’aria quasi con violenza, per poi tornare al proprio posto quando la melodia rallentava e si faceva più malinconica; il viso del giovane era pallido e Shirabu avrebbe potuto definirlo bellissimo se non fosse stato per le bende che gli coprivano gli occhi, rendendolo cieco.

Nuovo impeto ed ecco che il corpo del violinista prese a muoversi ancora al suono che lo strumento generava: un insieme di curve e scatti, di alti e bassi nella scala delle note e nell’espressione del ragazzo, serio e rilassato un momento e concentrato quello dopo. Quando la melodia si interruppe d’improvviso, dove non avrebbe dovuto interrompersi, Shirabu si accorse di aver trattenuto il fiato quasi per tutto il tempo.

«Posso sentirti, sai?» gli rivolse la parola il ragazzo – era più grande di lui, la voce pareva seria, quella di un adulto, eppure allo stesso tempo era delicata.

«Non volevo interromperti», si scusò Kenjirou del tutto impreparato a quella conversazione – una parte di lui si sentì in colpa per aver invaso la privacy di quello sconosciuto: a pensarci, se qualcuno che non aveva mai visto prima fosse entrato nella sua stanza gli avrebbe dato enormemente fastidio.

«Ti ha attirato il mio violino?» proseguì quello – non era arrabbiato, gli pareva solo serio, di una serietà che somigliava a quella di Wakatoshi, che andava semplicemente conosciuta meglio.

Shirabu annuì d’istinto, poi ricordò che il ragazzo non poteva vederlo e aggiunse una breve parola di assenso. Il violinista annuì di rimando, poi si fermò, senza dire nulla, come a soppesare delle ipotesi che esistevano solo nella sua mente, e sistemò nuovamente il violino sulla sua spalla, poggiando il mento sull’incavo scuro ad esso destinato. Riprese a suonare come se non si fosse mai interrotto e concluse il pezzo di Vivaldi con la stessa eleganza e lo stesso trasporto con cui laveva cominciato.

«Hai intenzione di continuare a parlarmi da fuori la stanza?» gli chiese, quando ebbe raggiunto nuovamente il suo letto, un po’ a tentoni, ed ebbe posato lo strumento nella sua custodia. «E senza presentarti?»

Shirabu era in qualche modo intimorito da quella strana presenza: il rispetto per l’età non gli permetteva di rispondere a tono a quelle che erano evidenti piccole provocazioni; allo stesso tempo, però, era incuriosito dal modo in cui il ragazzo non sembrasse per nulla disturbato dal fatto che lui lo stesse osservando in un momento di difficoltà come poteva essere il suo andare a tentoni nella stanza.

«Sono Shirabu Kenjirou», riuscì solo a dire e avrebbe voluto prendersi a schiaffi per quanto era sembrato infantile il suo tono di voce.

«Hayashi Yotaro. Piacere». Gli sorrise – era strano vedere quel gesto sapendo che l’altro non poteva farlo; Shirabu si sentiva stranamente a disagio pur non avendo fatto nulla di male. Era così che ci si sentiva davanti ai malati? Era così che si sentivano gli altri ragazzi quando erano con lui?

«Sai, neanche tu puoi vederti sorridere o camminare verso il letto».

«Sei come i supereroi americani che perdono un senso e ne acquistano un altro?», sbottò in risposta il pallavolista, colto in fallo ed irritato – ricordava che Tendou gli aveva raccontato di un personaggio del genere, nel periodo in cui era stato ossessionato dai fumetti americani.

Yotaro rise di gusto, prima di sistemarsi nel letto e fare cenno a Shirabu di entrare, perché il ragazzo era ancora sulla soglia della porta.

«Sarebbe divertente. Ma il realtà è solo che ho imparato a riconoscere quel genere di silenzio. Sai, il silenzio da “poveretto non vede neanche quello che fa” – lo ricevo spesso».

«Non volevo offenderti», si scusò ancora Kenjirou – doveva ammettere che quel ragazzo sapeva il fatto suo se era stato in grado di farlo scusare così tante volte in così poco tempo. «Che ti è successo?»

«E a te?» Il violinista sorrise, stavolta in maniera più maliziosa ed inclinò appena il capo – Shirabu stava cominciando a dimenticare la sua cecità e a considerarlo piuttosto per il suo caratteraccio. In più, il non sentirsi altrettanto tranquillo nel rivelare perché si trovava in ospedale lo innervosiva più di quanto avrebbe voluto ammettere.

«Chi ti dice che non sia qui per far visita ad un amico?».

«Il tuo respiro pesante, ad esempio. O più semplicemente il carrellino con la flebo che ti porti dietro – se ti scoprono qui ti faranno una ramanzina?» Shirabu immaginò che il ragazzo avesse intuito anche la sua età o che ne avesse quanto meno un’idea abbastanza precisa da poterlo prendere in giro.

«Sono libero di andare dove mi pare e piace», si difese, guardando per qualche istante il braccio a cui aveva fissato l’ago della flebo. Vide poi Yotaro rabbuiarsi e si chiese se avesse capito anche il resto. Si arrese all’evidenza della situazione e rispose perché non farlo sarebbe stato immaturo.

«Sono qui perché devo sottopormi a dei cicli di chemioterapia», confessò, portandosi fino ad una sedia posta accanto alla finestra – quella stanza somigliava molto alla sua e la cosa lo metteva a suo agio. Hayashi annuì e Shirabu lo vide appena, con la coda dell’occhio, mentre guardava fuori un panorama completamente diverso da suo per via della posizione e dell’altezza a cui si trovavano.

«Io sto facendo alcuni accertamenti. Forse riescono a farmi vedere di nuovo».

Kenjirou si voltò di scatto. Era possibile? Forse lo stava prendendo di nuovo in giro – però Yotaro sorrideva e quel sorriso non poteva essere falso.

«Come è successo?» chiese di nuovo, ma aveva un tono completamente diverso: era come parlare ad un vecchio conoscente e in qualche modo Shirabu sentiva di tenere già a quella persona, che non era altro che uno sconosciuto, quasi fosse stato invece un suo amico d’infanzia.

«In modo stupido. Un incidente stradale: ero in macchina con mio padre e… un tir ci è venuto addosso. Il trauma cranico ha danneggiato entrambi i nervi ottici». Alzò le spalle, come a dire che il resto poteva capirlo da sé. «Ma nelle scorse settimane mi è parso di vedere delle ombre, bagliori più chiari rispetto al buio di sempre e allora siamo venuti subito qui. C’è da capire se si può far qualcosa per riparare il danno subìto dai nervi, dal momento che sembrano ancora recettivi». Di nuovo quel sorriso, il sorriso di chi si sta aggrappando ad una speranza inaspettata con tutto se stesso.

Shirabu avrebbe voluto dirgli di non farlo, di non mettere tutto se stesso in qualcosa di tanto insicuro, perché il contraccolpo sarebbe potuto essere terribile, ma tacque e non distrusse quei sogni. Non ne aveva alcun diritto.

«Riesci comunque a…?»

«A suonare? I pezzi che ho studiato prima dell’incidente sono incastrati nel violino ormai; posso farli risuonare quando voglio, non ho mai avuto bisogno degli occhi».

Shirabu annuì di nuovo per un riflesso incondizionato e pensò che nella sua sfortuna Yotaro era stato fortunato – non aveva perso qualcosa di essenziale per portare avanti la sua passione. A lui, invece, il polmone impediva di giocare a pallavolo, di far parte della squadra e continuare a lottare con i suoi compagni. S’era impegnato tanto per essere a livello di Ushijima e perché lui fosse fiero e consapevole di lasciare la squadra in mani sicure una volta diplomatosi e invece…

Rifletterci fece stranamente male. Non era la prima volta che gli capitava di soffermarsi su quel punto e, anche quando non c’era Wakatoshi a rassicurarlo che le cose sarebbero tornate a posto una volta guarito, non aveva mai sentito il proprio cuore sprofondare così tanto nella disperazione. Se il cancro gli avesse strappato per sempre la pallavolo, Shirabu non sapeva come avrebbe fatto ad andare avanti – lo realizzava solo in quel momento.

«E la tua storia? Non mi sembra giusto che a parlare sia solo io qui». Il tono falsamente seccato di Yotaro gli fece acquistare di nuovo contatto con la realtà che lo ricordava; Kenjirou si mosse un po’ a disagio sulla poltrona e prese a guardarlo – il fatto che lo sguardo del violinista non poteva ricambiare il suo lo rassicurava in modo egoistico perché così non si sentiva troppo esposto.

«Sono al secondo anno di liceo, all’Accademia Shiratorizawa. E gioco a pallavolo».

«Essenziale», rise Yotaro «Mi piaci».

Shirabu davvero non avrebbe saputo dire da dove fosse saltato fuori quel ragazzo tanto estroverso e allo stesso tempo così affine a lui, ma rise senza sapere di preciso per cosa e stette a parlargli per ore quella mattina. Parlarono di violini e pallavolo, di scuola e università, delle speranze che ancora segretamente nutrivano e delle delusioni che la vita aveva già portato loro. Parlare era facile perché, da sconosciuti, non avevano bisogno di giudicarsi ma come pazienti accomunati da una malattia potevano capirsi.

 

«Oh, Ushijima! È un piacere vederti!»

Hayashi Yotaro non era la persona più semplice con cui avere a che fare e di questo Wakatoshi si era reso conto sin dalla prima volta che lo aveva conosciuto, quando Shirabu lo aveva portato in camera con sé per presentarglielo. Era irriverente ed estremamente aperto – probabilmente una di quelle persone che non conoscevano gli spazi personali, se non fosse stato per l’handicap della vista – e soprattutto adorava fare ironia su qualunque cosa. Per questo, nonostante fosse quasi una settimana che il capitano della Shiratorizawa lo conosceva, ancora non era riuscito ad abituarsi alla quantità di battute sulla propria vista che il violinista continuava a fare.

Non era mai di cattivo gusto, però, questo gli andava riconosciuto e si beava soltanto del suono strozzato che chi gli stava intorno emetteva quando qualcuno dei suoi scherzi aveva successo. Con Wakatoshi era stato fin troppo facile e Yotaro ormai aveva preso a cercare delle frasi ad effetto con cui entrare in scena solo per stuzzicarlo. Ushijima non riusciva a non sorprendersi ogni volta, ma non se la prendeva mai: dopotutto, anche quello poteva essere un modo per esorcizzare il male.

«Non dovevi per forza venire», lo rassicurò Shirabu, steso da qualche minuto sul lettino, in una delle stanze preposte alla chemio, ed evidentemente a disagio «Non sarà piacevole come spettacolo».

«Beh, allora meglio per me che non posso vederlo», rise di gusto Hayashi, sedendosi accanto al ragazzo dal lato opposto a quello del suo compagno. Voleva esserci, perché Shirabu gli aveva parlato di quel secondo ciclo e anche se non l’aveva detto a parole, lui aveva capito che ne aveva paura.

Kenjirou adorava vederlo tanto allegro – non sapeva precisamente come fosse successo, ma s’era legato molto a lui ed era genuinamente felice di saperlo rilassato e tranquillo, soprattutto dal momento che a breve avrebbe dovuto sottoporsi ad un intervento delicato, per provare a salvare parte del nervo ottico del suo occhio destro. Quello era il suo secondo giorno di chemio e sperava che averlo accanto potesse in qualche modo aiutare sia lui che Wakatoshi a sopportare gli effetti collaterali che sarebbero sicuramente arrivati presto.

«Fa tanto male?» chiese il violinista, tornando serio e sfiorandogli il braccio libero dalla flebo.

«Non è… non è un dolore netto. Ma mi stanca molto e spesso mi fa venire da vomitare. Non è una bella sensazione», confessò Shirabu. Ad Ushijima si chiuse lo stomaco e l’aria quasi gli mancò: perché faceva più male se lo diceva a qualcun altro? Non si trattava di avere un’altra persona con cui parlare, non era di certo geloso del rapporto che i due ragazzi avevano instaurato tanto velocemente – eppure, sentirlo parlare in quel modo rendeva la loro situazione più vera e più seria e faceva sentire lui più impotente. Sospirò debolmente, ma non abbastanza perché passasse inosservato.

«Stai bene, Ushiwaka

La domanda di Yotaro richiamò anche l’attenzione di Shirabu che si voltò preoccupato verso il compagno tentando di alzarsi per poter vedere meglio il suo viso.

«Ti senti male? Che succede?» Cercò la sua mano e la strinse forte – quando si trattava di Wakatoshi, Kenjirou aveva l’impressione che qualunque suo dolore non avesse più importanza e sparisse per far spazio alla sola cosa che contava davvero.

«No, non è niente, va tutto bene».

Ushijima tirò su la testa e sorrise, un sorriso un po’ tirato che, però, calmò Kenjirou abbastanza da farlo nuovamente stendere sul lettino – a Yotaro invece non sfuggì, dall’esterno, l’incertezza delle sue parole ed il loro tono stranamente debole, che non aveva mai sentito in Ushijima; tuttavia, non disse nulla.

«Solo brutti pensieri, ma non dovrei farmi prendere tanto, mi spiace», continuò il capitano della Shiratorizawa, accarezzando i capelli del suo compagno «Sono qua con te, ora».

«Sai che devi parlarmene quando succede, come io parlo con te…» gli ricordò il più piccolo, socchiudendo gli occhi a quelle carezze.

Ushijima annuì: lo sapeva, lo sapeva bene che la cosa giusta da fare era parlarne, che Kenjirou si sarebbe arrabbiato se lo avesse scoperto dopo, per vie traverse, piuttosto che adesso, eppure qualcosa in lui lo frenava – non era giusto parlarne, poteva essere solo una sensazione sbagliata, una preoccupazione inutile aggiunta ai problemi che già avevano e che erano reali… Dopotutto, la stanchezza e il leggero dolore che sentiva all’altezza del petto potevano essere dovuti anche solo al ritmo intenso che stava sostenendo da più di un mese ormai e non un riflesso inaspettato della malattia di Shirabu che lui avvertiva per via del legame.

Quindi tacque e sorrise di nuovo. Ignorò il problema e passò oltre.

«Quasi dimenticavo!» riprese a parlare Yotaro, frugando nella tasca della tuta che indossava quella mattina «Ho la playlist che ti avevo promesso, Shirabu».

Tirò fuori un lettore mp3 ed un paio di cuffiette, passandolo all’amico.

«Ho inserito diverse composizioni suonate al violino e al pianoforte e poi mi sono divertito ad aggiungere qualche brano di lirica classica, soprattutto dalla Bohème e dalla Turandot – ma se non ti piacciono, ne cercherò delle altre!»

«La Turandot è ambientata a Pechino se non sbaglio…», cercò di ricordare Shirabu, mentre Ushijima accendeva il lettore mp3 e cercava i brani relativi a quel dramma.

«Tratta di un principe spodestato che cerca di conquistare l’amore di una fredda principessa. È rimasta incompiuta e sebbene la ragione ufficiale sia quella per cui la malattia di Puccini non gli permise di completarla, in molti pensano sia stato in realtà un motivo molto più intimo: forse Puccini non riusciva a mettere per iscritto una passione amorosa tanto travolgente e profonda da trasformare l’algida donna in sposa innamorata e quindi ha semplicemente smesso».

«Non esattamente la più gioiosa delle situazioni, insomma», commentò Kenjirou, mentre Wakatoshi gli passava una delle cuffie sorridendo.

«Non credo fosse quello lo scopo di Puccini, sebbene debba essere stato tentato dall’idea di un finale lieto. La lirica tratta di emozioni e scava nelle passioni umane, in profondità, dove la gioia è mista al dolore e alla forza e al tormento – tra le note e tra le parole puoi scorgere tutto in una sola volta. La lirica turba perché parla al nostro io più nascosto con un linguaggio primordiale: ciò che non ti sembra allegro adesso potrebbe farti commuovere dalla gioia poi».

Shirabu doveva ammettere che adorava sentire Yotaro parlare di musica o di opere liriche: c’era un’energia nel modo in cui ne discuteva, nelle frasi che usava, che lui forse gli invidiava – era così che appariva quando giocava a pallavolo? All’improvviso si chiese se avrebbe mai più visto un campo di gioco, se avrebbe sentito ancora lo sfregare della palla contro le sue mani, mentre calcolava l’altezza e la parabola dell’alzata.

La musica cominciò a risuonare all’orecchio sia di Shirabu che di Ushijima ed era abbastanza alta perché anche Yotaro ne percepisse le fievoli note e riconoscesse il Nessun dorma.

«Il momento di maggior pathos per Calaf – tu pure, o principessa, nella sua fredda stanza – lei non conosce il suo nome e non può in questo modo vincerlo – guardi le stelle che tremano d’amore e di speranza -  e allo stesso tempo è già rapita da una passione che non vuole, mentre lui sa di aver vinto e che all’alba il suo amore trionferà sulla freddezza di lei – no, no, sulle tue labbra lo dirò, quando la luce splenderà – Si può percepire, nello stesso momento, la forza di una passione ineluttabile e la gioia dirompente di chi sta per conquistare ciò che più ambisce, la meta di ogni suo pensiero, l’esito di tutti i suoi sogni dal momento in cui l’ha vista per la prima volta, colei per cui ha messo in gioco la sua stessa vita – all’alba vincerò, vincerò, vincerò – E la possanza dell’orchestra alle spalle del tenore Calaf sostiene il suo impeto e dà sfogo ai suoi sentimenti di vittoria, può accompagnarlo perché comprende ciò che gli scuote l’animo e lo festeggia con trionfi degni dei conquistatori classici».

Shirabu fu scosso dai primi brividi e fu felice che, per una volta, non fossero dovuti al cocktail di medicinali della chemio – la musica andava scemando eppure rimbombava ancora in maniera potente nelle sue orecchie, nel suo cuore. C’era qualcosa nella storia di quel principe che lo aveva colpito: anche se lui non era esattamente la persona più romantica del mondo, poteva comprendere il modo in cui Calaf s’era innamorato – dal primo istante in cui aveva posato gli occhi sulla donna e poi per sempre – e il suo trionfo, sebbene non scritto dall’autore, gli dava in qualche modo una blanda speranza che vi fosse un lieto fine anche per lui, per lui e Wakatoshi.

«È impossibile non chiedere un bacio al termine di questo pezzo», sussurrò Ushijima, mentre ad occhi chiusi ascoltava le ultime note, rapito da tutte le sensazioni che gli si erano incastrate tra le costole.

Yotaro fu contento di averli conosciuti, fu contento di aver fatto quella playlist, di aver preso a parlare di opere liriche e di avere accanto persone che, pur non avendo mai ascoltato qualcosa del genere, parevano comprendere quel linguaggio meglio di molti altri.

 

«Cosa non gli stai dicendo?»

Shirabu aveva finito il trattamento da qualche ora e stava riposando – Ushijima aveva sperato che il secondo giorno potessere reggere ancora bene i medicinali, invece Kenjirou aveva dato di stomaco per quasi tutto il tempo e alla fine si era stancato a tal punto da essersi addormentato sulla sedia a rotelle mentre tornavano in camera. Non s’era accorto di nulla quando Ushijima lo aveva sollevato per metterlo a letto ed aveva continuato a dormire rapito dalla spossatezza. A Wakatoshi s’era stretto il petto e di nuovo lo strano dolore aveva spezzato il suo respiro.

Nonostante questo, aveva voluto accompagnare Hayashi in camera: era stato tanto gentile da restare con loro per tutto il tempo e averlo accanto era stato utile, oltre che piacevole, perché nei momenti in cui Kenjirou era stato male e anche Ushijima aveva rischiato di vacillare, la sua voce aveva fatto da guida ad entrambi. Aveva parlato di tutto, di lirica, di violino, del conservatorio in cui s’era diplomato, dell’ultimo concerto che aveva tenuto prima che l’incidente fermasse la sua vita. Più la situazione era sembrata aggravarsi più Yotaro aveva parlato e la sua voce aveva riempito la stanza scacciando il dolore.

Il capitano della Shiratorizawa si voltò verso il ragazzo, sorpreso da una domanda tanto specifica.

«Di cosa parli?» chiese – per una volta, in realtà, aveva una vaga idea di ciò a cui Yotaro si riferiva e la sua reticenza a parlarne si scontrava con la sua buona educazione.

«C’è qualcosa che non stai dicendo a Shirabu – me ne sono accorto dal modo in cui gli parli. Forse lui non l’ha ancora notato, ma nelle tue parole c’è una sorta di apologia non richiesta, come se ti stessi continuamente e debolmente scusando e difendendo da un’accusa che nessuno ti ha mosso. Stai male?»

Qualcosa, nel modo in cui l’intuito aveva preso a sopperire alla vista del violinista riusciva ad inquietare Wakatoshi: si conoscevano da pochissimo eppure era stato tanto bravo da leggergli dentro senza poterlo guardare.

«Credo che il legame stia riflettendo il malessere di Shirabu su di me. Non era ancora successo, quindi avevo pensato che, in qualche modo, fossimo stati fortunati… I medici mi avevano avvisato: la nostra connessione è estremamente forte, il nostro è un legame perfetto ed era praticamente impossibile che non reagisse a questa cosa, eppure… eppure un po’ ci avevo sperato, avevo voluto illudermi che, almeno questa volta, non saremmo stati così connessi…».

Chi non avesse conosciuto Ushijima Wakatoshi, a sentire quelle parole avrebbe pensato che fosse un discorso puramente egoistico, di chi non vuole essere connesso al proprio compagno per non soffrire a sua volta, ma Yotaro poteva sentire dal tono di voce che si trattava di tutt’altro e si rendeva conto che se Ushijima era preoccupato perché fosse stato male, apertamente male, Shirabu non se lo sarebbe mai perdonato. La cosa avrebbe aggiunto nuovo dolore e nuove preoccupazioni e Wakatoshi voleva semplicemente evitarlo.

«Capisco perché tu non gliel’abbia ancora detto, Ushiwaka… Ma Shirabu ha davanti ancora diversi cicli di chemio e tu stai già abbastanza male oggi che ha appena cominciato il secondo. Lo verrà a sapere prima o poi e sarà meglio che venga da te, così che tu possa calmarlo e rassicurarlo, piuttosto che da qualcun altro, quando starai davvero male».

Ushijima annuì: sapeva che quella era la cosa giusta da fare eppure, nelle volte in cui aveva provato ad immaginare la conversazione che ne sarebbe venuta fuori, non era mai stato capace di vedere se stesso nell’atto di confessare tutto a Kenjirou – faceva troppo male.

«Alle volte mi chiedo come sia avere un compagno», sorrise Yotaro, ormai davanti alla propria stanza. «Insomma, è particolare il fatto che, per riconoscerlo, tu debba vederlo, non trovi? In amore, la vista non è per forza fondamentale – ci si può innamorare di qualcuno senza averlo mai visto e si possono amare cose di una persona invisibili agli occhi… invece il legame porta i colori e i colori, per definizione, vanno visti. Mi chiedo se qualcuno li abbia visti a causa mia ed io non sia, invece, in grado di farlo. Mi chiedo se non riesca a vederli perché il legame non è scattato o se perché i miei occhi non vedono più nulla... Se ci pensi, è triste».

Rise e Wakatoshi più che vederla poté sentirla quella tristezza: pensò che aveva ragione, pensò che dopotutto, anche in quella condizione, anche con il dolore che aveva in petto, era fortunato ad essere legato a qualcuno che amava – e che poteva vedere.

«Ah, non sono così bravo a consolare, vero? E poi, tra poco i dottori mi rimetteranno in sesto e allora sarò tutto colori e legami!» scherzò ancora Yotaro, ma solo per qualche istante – poi la voce tornò seria «Tu però non farti frenare dalle paure, non commettere un errore tanto piccolo che potrebbe portare a risvolti così seri».

Ushijima annuì: aveva già fatto una volta quell’errore e non voleva assolutamente ripetersi.

 

***

 

Shirabu sospirò – era sveglio solo da un paio di ore eppure si sentiva già completamente privo di forze. Il corpo, spossato, quasi tremava e stare sulla sedia a rotelle stava diventando stancante quasi quanto stare in piedi, cosa che aveva preso ad irritarlo già da qualche giorno. Non era ancora arrivato il momento, per il suo corpo, di tradirlo in quel modo, soprattutto perché a breve avrebbe cominciato il suo terzo ciclo di medicinali e sperava di essere un po’ più in forze per allora.

Quella mattina Ushijima era arrivato presto: ormai passava molto più tempo in ospedale che a casa – o a scuola, nonostante le lezioni autunnali fossero riprese – e farlo andar via anche solo per una notte era una cosa che riusciva sempre più difficile a Shirabu. Avrebbe voluto che si ritagliasse del tempo per se stesso invece di continuare ad essere la sua ombra. Non perché la sua presenza gli dispiacesse, ma anzi proprio perché si sentiva un egoista a rubare tutto il tempo di Ushijima per sé, annullando ogni altra cosa.

Wakatoshi aveva preso a stare male già da un po’. Non era qualcosa di localizzato né un tipo di dolore che poteva essere contrastato dalle medicine: semplicemente, soffriva. Shirabu ricordava con precisione il pomeriggio in cui Ushijima glielo aveva confessato, lo sguardo serio che gli aveva rivolto, le labbra tese in una linea sottile e il volto un po’ pallido. Lo aveva guardato negli occhi e gli aveva detto che stava male, che sentiva la sua malattia e soffriva. Aveva fatto apparire quasi banale qualcosa che davvero non lo era, qualcosa che Shirabu non avrebbe mai voluto che succedesse.

«Questo non cambia nulla», aveva aggiunto poi, quando il ragazzo aveva stretto i pugni dalla rabbia «Questo non cambia nulla, Kenjirou. Volevo solo che lo sapessi».

Ma cambiava, cambiava così tante cose che la testa di Shirabu aveva preso a girare ed aveva dovuto stendersi per bene per non dare nuovamente di stomaco. Da allora, Ushijima era peggiorato: spesso era scosso da brividi freddi, altre volte aveva attacchi di ansia che gli accorciavano il fiato o lo facevano andare in apnea; alle volte, semplicemente, era stanco e la testa gli pesava tanto da non permettergli di camminare dritto. Mai una volta s’era lamentato, mai una volta aveva chiesto di restare a casa, di restare a letto o lontano da lui per provare magari a vedere se i sintomi del legame si affievolissero.

La notte precedente era tornato a casa solo perché Kenjirou aveva insistito fino ad urlare, dopo che Wakatoshi aveva rischiato di perdere i sensi crollando su se stesso. Aveva sperato che una notte lontano lo avrebbe fatto riposare un po’ meglio, ma quando s’era svegliato lo aveva trovato già lì con lui e non era sembrato meno stanco del solito, tanto che s’era in breve appisolato sulla poltrona che, da qualche settimana, avevano in camera.

Shirabu lo aveva guardato con uno strano misto di tenerezza, amore e tristezza e gli aveva messo sulle gambe una coperta sottile: non avrebbe mai creduto fosse possibile, ma aveva pensato che Ushijima sembrasse estremamente fragile in quella posizione, mentre respirava profondamente ed una smorfia appena corrucciata marcava i lineamenti del suo viso.

Lo aveva lasciato così ed era sceso con la sedia a rotelle al piano terra, per ritirare i risultati delle proprie analisi del sangue: non aveva avvisato nessuno né aveva voluto farsi portare da qualche infermiere – per una volta poteva farcela da solo e dimostrare a tutti di non essere solo un peso. Una volta fatta la fila e ritirata la cartella, tuttavia, l’idea di tornare in stanza lo aveva fatto sta male; per questo s’era ritrovato a girare per i corridoi del primo piano, senza sapere dove andare di preciso.

«Voglio rivederti già la prossima settimana, Tooru, per accertarmi che non sia nulla di grave, ci siamo capiti?»

Shirabu non seppe per quale motivo proprio quella frase attirò la sua attenzione. Proveniva da una stanza poco più avanti lungo il corridoio che stava percorrendo, dove sapeva esserci una delle palestre preposte alla riabilitazione: c’era stato per i primi tempi, quando aveva provato a tenersi in allenamento, prima che la terapia lo facesse rinunciare.

Dalla stanza uscì l’ultima persona che Shirabu si sarebbe aspettato di vedere – sebbene, a pensarci, il fisioterapista aveva pronunciato il suo nome. Oikawa pareva scosso perché dovette fare qualche passo nella sua direzione prima di riconoscere Kenjirou e quando i loro sguardi si incontrarono entrambi si sentirono a disagio, come se l’altro stesse involontariamente invadendo la rispettiva privacy.

Il capitano della Aobajohsai sospirò continuando a camminare finché non gli fu davvero davanti: dopo le pessime notizie del suo medico, incontrare l’alzatore della Shiratorizawa era davvero l’ultima cosa di cui aveva bisogno, ma in una situazione del genere non aveva scampo, non poteva fare finta di non averlo visto e tirare avanti.

«Ciao», gli disse con una certa vaghezza – che cosa si diceva ad un ragazzo malato di cancro? Ovviamente, lui sapeva che Shirabu era ricoverato da mesi per via della malattia: pur non volendo, era stato impossibile non venirne a conoscenza quando la notizia s’era diffusa – dopotutto, la Shiratorizawa restava una delle squadre più forti della prefettura e i suoi membri erano ben conosciuti.

«Ciao», ricambiò Kenjirou, senza sapere bene come o aver davvero voglia di cominciare una conversazione con il ragazzo. C’era stato un tempo in cui aveva genuinamente ammirato Oikawa Tooru. Quando alle medie lo aveva visto giocare, gli era parso un mostro, un genio della pallavolo, ineguagliabile; aveva ardentemente desiderato diventare bravo quanto lui, prima di capire che il suo stile di gioco sarebbe stato completamente diverso. La prima volta che aveva sentito dire ad Ushijima che era davvero un peccato che Oikawa non si fosse iscritto alla Shiratorizawa, s’era sentito offeso – era del tutto illogica come reazione e davvero non aveva motivo per sentirsi in quel modo, ma da allora aveva preso a guardare quel giocatore come un rivale, sebbene non avessero davvero nulla in comune se non il ruolo che ricoprivano in squadre diverse. Oikawa era fin troppo estroverso per i suoi gusti, fin troppo pieno di sé, fin troppo egocentrico senza alcun motivo; era davvero molto bravo, ma Shirabu mal sopportava la sua spavalderia e doveva ammettere di essere stato contento quando aveva saputo che l’Aoba era stata sconfitta.

Tuttavia, l’ospedale sembrava cambiare completamente la sua prospettiva. Oikawa usava un tutore per il ginocchio da diverso tempo – questo Shirabu lo sapeva. E aveva facilmente intuito che fosse quello il motivo per cui era in ospedale. Nonostante tutto – ed avrebbe giurato che fosse solo colpa della sua malattia, perché in condizioni normali non lo avrebbe mai pensato – non poteva fare a meno di chiedersi se stesse bene. Fare la domanda direttamente ad Oikawa era tutt’altra questione e Kenjirou sarebbe morto prima di abbassarsi ad un simile livello.

Tooru non aveva più aperto bocca dopo il saluto iniziale. Fissava il ragazzo sulla sedia a rotelle con evidente disagio: non sapeva come fingere e portare avanti una normale conversazione di circostanza – in quella situazione neanche la sua abituale faccia di bronzo poteva salvarlo.

«Vado verso l’ascensore...», accennò – in modo patetico, si appuntò mentalmente, perché stava scappando senza neanche preoccuparsi di quanto fosse evidente.

«Anche io ero diretto da quella parte». Kenjirou non voleva allungare la tortura, davvero, voleva solo tornare in camera sua.

I due ragazzi presero a muoversi in silenzio: entrambi guardavano in avanti perché i rispettivi occhi non si incrociassero, ma allo stesso tempo tenevano sotto controllo l’altro, che appariva appena al limitare del campo visivo, come una presenza vaga. Il disagio fra di loro era palpabile quasi entrambi si aspettassero che da un momento all’altro chi avevano accanto si sarebbe sentito male o sarebbe crollato al suolo. E davvero non volevano essere i primi a prestare soccorso.

La parte peggiore fu chiudersi in ascensore: Kenjirou pensò che se il mondo lo odiava abbastanza da farlo ammalare di cancro, allora avrebbe potuto tranquillamente far sì che restasse bloccato lì dentro con Oikawa fino all’arrivo dei vigili del fuoco e allora davvero avrebbe dato di matto. Oikawa non pensava, si limitava a sperare che l’ascensore coprisse la distanza di un piano nel minor tempo possibile. Le porte non s’erano ancora aperte quando il cellulare dell’alzatore della Shiratorizawa vibrò.

«Wakatoshi?», rispose Kenjirou – probabilmente il compagno s’era svegliato e non vedendolo s’era allarmato «Sono solo sceso a ritirare le analisi, sto venendo su adesso».

Oikawa lo vide restare in silenzio per qualche istante, poi annuire di istinto e riattaccare. Pensò che nonostante la brutta situazione in cui si trovava, Shirabu dovesse essere davvero fortunato ad avere un compagno che gli stesse accanto e dividesse con lui ogni istante di quel tormento, senza fargli mai perdere la speranza che le cose sarebbero andate bene alla fine. Se pensava ad Iwaizumi, l’assenza del legame gli toglieva il fiato: lui da solo, in quella stessa situazione, probabilmente si sarebbe arreso già da tempo.

«Il tuo ragazzo si preoccupa per te? Ti sei allontanato senza permesso?» Non voleva… non voleva essere cattivo: Shirabu non lo meritava e non era davvero sua intenzione… eppure le parole erano uscite senza che potesse fermarle o che fosse davvero pentito.

L’occhiata truce che l’alzatore gli rivolse quasi lo gelò. Shirabu era sul punto di mettergli le mani addosso: che diavolo poteva saperne lui di quello che stava passando Ushijima?

«Dimmelo tu, randagio», rispose d’istinto e con l’intenzione di ferire.

Il cuore di Tooru perse un colpo perché aveva capito precisamente che cosa significasse quel termine – perché è randagio chi non la legami, come lui. Per quel che lo riguardava, Shirabu sapeva fin troppo della sua vita privata. Ancora una volta qualcuno sa più di quanto non dovrebbe, si ritrovò a pensare e gli venne da vomitare.

Quando le porte dell’ascensore si aprirono e Oikawa poté respirare qualcosa che non fosse l’aria stagnante dello spazio ristretto in cui era stato chiuso con Shirabu, la testa parve girargli quasi avesse ricevuto troppo ossigeno in una sola volta. O forse erano state le parole del ragazzo, i ricordi che aveva innescato e portato a galla: Tooru voleva andare via, sentiva l’improvviso ed urgente bisogno di scappare e trovare un luogo sicuro in cui stare, lontano da tutti, da chiunque potesse ferirlo e soprattutto dai propri pensieri. Sentì l’attacco di panico montargli nel petto e pregò che si fermasse.

«Deve essere facile parlare, quando hai un compagno attaccato addosso praticamente in ogni istante della tua vita», disse a fatica – perché non ci stava a farsi aggredire in quel modo; perché Shirabu non poteva permettersi di parlargli in quella maniera, quando non aveva mai saputo che cosa volesse dire amare qualcuno che non poteva ricambiare il legame.

E Shirabu avrebbe davvero voluto lasciar perdere, far cadere la questione e vederlo andare via mentre le porte dell’ascensore si chiudevano e lo portavano di nuovo su, al sicuro. Ma non sarebbe stato Shirabu. Per questo, invece, mosse anche la sua sedia a rotelle, uscendo e seguendo l’alzatore – sentiva la rabbia bruciargli in petto, sentiva il disprezzo per Tooru che parlava senza sapere nulla.

«Certamente! Prova a ripeterlo sapendo che un legame può essere tanto forte da far ammalare il proprio compagno per il solo fatto di essere connesso a lui!» gridò, sporgendosi in avanti, quasi sbilanciandosi sulla sedia.

«Tu almeno sei connesso a lui!» Oikawa s’era voltato, gli occhi lucidi, il fiato corto, lo stomaco che ormai faceva male «Tu sei connesso ad Ushijima e puoi dire che è solo tuo! Per avere questa possibilità, io… farei di tutto, accetterei anche di stare male quanto te!».

Non appena le parole saturarono l’aria che separava i due ragazzi, Oikawa seppe di aver parlato troppo, di aver esagerato. Lo vide chiaramente negli occhi di Shirabu, nella folle rabbia e nello sconcerto che li riempirono – ma non se ne pentì, una parte di lui lo pensava davvero.

«Io ringrazio il Cielo che Iwaizumi non sia legato a te come Ushijima è legato a me, Oikawa Toru, perché se pensi una cosa del genere davvero non meriti di avere un compagno. Accetteresti che la persona che più ami al mondo si consumi in un dolore che è causa tua? Ho sempre pensato che tu fossi egoista, ma non avrei mai creduto che potessi arrivare fino a questo punto».

Shirabu tremava. Le mani, pallide, erano sigillate intorno ai braccioli di plastica della sedia e la schiena, dritta e rigida, lo rendeva più imponente di quanto sarebbe mai sembrato da seduto. Oikawa lo fissava dall’alto ma non s’era mai sentito tanto debole e sottomesso, tanto giudicato da uno sguardo – e tuttavia continua a non pentirsi: non aveva detto quelle cose in un momento di leggerezza, avrebbe davvero dato via la sua salute per avere un legame corrisposto con Iwaizumi. Ma quella di Hajime? La salute di Hajime valeva una cosa del genere?

Andò via, Tooru, senza più dire nulla, semplicemente perché reggere lo sguardo di Shirabu era troppo per lui, perché sentiva di meritare a malapena i respiri che ancora il suo corpo gli consentiva di prendere. E Shirabu fu sadicamente felice di vedere la distruzione negli occhi di Oikawa perché facevano da balsamo al dolore che provava in petto, il dolore che risuonava con quello di Ushijima. Il dolore della realizzazione. In quell’istante, davanti all’ultima persona che avrebbe voluto incontrare, Shirabu Kenjirou s’era reso conto che stava lentamente uccidendo il suo compagno.

Quando riuscì finalmente a tornare in camera, fu Wakatoshi a fargli notare che stava tremando come una foglia – lui non aveva la più vaga concezione di ciò che gli stava accadendo intorno: c’era solo il miscuglio di sensazioni che stava gonfiando il suo petto. La rabbia per le parole di Oikawa, per il modo in cui aveva parlato senza conoscere non tanto la sua malattia ma ciò che stava significando per Ushijima non faceva altro che alimentare la disperazione in cui Shirabu s’era reso conto d’essere ormai sprofondato: dare voce alla condizione in cui, per colpa sua, Wakatoshi ora si trovava aveva reso ogni cosa tremendamente reale e aveva costretto Kenjirou a confrontarsi con essa per davvero per la prima volta. E quel pensiero lo annientava.

«Kenjirou, che cosa è successo?», gli aveva chiesto, intanto, il ragazzo.

Shirabu gli si avvicinò senza parlare, per poi scoppiare in lacrime e stringerlo a sé, con tutta la forza che quel corpo malato gli concedeva.

«Va tutto bene, qualunque cosa sia successa è tutto a posto ora», gli sussurrò allora Ushijima, ricambiando l’abbraccio e baciandogli i capelli - avrebbe voluto che i suoi baci portassero via tutto il dolore di Shirabu.

«Sono un mostro», mormorò il più piccolo, contro il suo petto «Sono un mostro che non sa lasciarti andare».

 

***

 

Oikawa non aveva idea di cosa stesse facendo. Non aveva idea di dove fosse, non aveva idea di se fosse pomeriggio o già sera. Sentiva solo dolore. Aveva preso a sentirlo mentre era ancora in ospedale, subito dopo aver discusso con l’alzatore della Shiratorizawa; lo aveva sentito nascere nel momento in cui quello sconosciuto gli aveva detto di non meritare un compagno, che era meglio per Iwaizumi non essere legato a lui. L’aria gli era mancata, quasi gli avessero stretto una morsa intorno al petto – sapeva che non avrebbe dovuto dare tanto peso a quelle parole, che quel tizio non poteva di certo sapere che cosa stesse provando lui, eppure non era riuscito a rimanere indifferente.

Perché, dopotutto, Shirabu Kenjirou aveva ragione. Lui un compagno non lo meritava. E non lo meritava per un’infinità di motivi, primo fra tutto perché pensava davvero ciò che aveva detto: per essere legato ad Hajime avrebbe sacrificato la sua stessa salute, senza pensare alle conseguenze, senza considerare che a soffrire non sarebbe stato solo lui. Non aveva mai avuto un simile pensiero in tutta la sua vita, eppure ora che lo aveva formulato non riusciva a mandarlo via: non poteva mentire a se stesso e dire che era stata solo la disperazione del momento, perché più la mente tornava su quello scenario meno Oikawa riusciva a dimenticarlo.

Era un mostro, un mostro che per egoismo avrebbe visto Hajime soffrire.

Aveva preso a correre. Subito dopo essere uscito dall’ospedale, Tooru aveva preso a correre, per allontanarsi da ogni cosa e soprattutto per farsi del male. Sentire il propri muscoli tirare, gli arti cedere, i polmoni bruciare gli dava sollievo e sadica soddisfazione perché annebbiava l’altro dolore che sentiva, quello al petto che minacciava di divorarlo vivo.

Non era la prima volta che aveva un comportamento simile: il suo ginocchio malandato era in parte dovuto al troppo allenamento che Oikawa si era imposto – era il suo modo di reagire alle difficoltà, la sua valvola di sfogo: sforzarsi fino a crollare del tutto. Lo aveva fatto anche nelle scorse settimane, quando le cose con Iwaizumi erano diventate difficili. S’era allontanato ed aveva preso ad allenarsi fino a tardi, a sforzarsi e sudare e farsi male anche se la Seijou aveva ormai concluso le partite della stagione, anche se ormai le consegne erano quasi del tutto passate ai ragazzi del secondo anno. Lui aveva insistito perché la pallavolo gli permetteva di non pensare, perché gli sforzi fisici superavano qualunque difficoltà avesse e per un momento, solo un momento, Oikawa non stava male.

Si fermò per riprendere fiato. Il ginocchio s’era aggravato abbastanza negli ultimi giorni e quella mattina il terapista gli aveva detto che avrebbe dovuto stare a riposo almeno per una settimana, ma riposo voleva dire pensare e pensare voleva dire soffrire. Qualcosa che, ancora di più in quel momento, Tooru non poteva permettersi.

«Vuoi deciderti a dirmi che cosa c’è che non va?!»

«Tobio l’ha sentito».

«Kageyama…? Ci ha… sentiti?»

Oikawa inspirò con violenza, perché era entrato in apnea senza essersene accorto. Un nuovo attacco di ansia minacciò di farlo crollare, quindi riprese a correre – per correre doveva respirare e concentrarsi, non aveva tempo di pensare e se non pensava non stava male.

Quando prese a piovere – un temporale di inizio autunno che fece arrivare prima la sera – non se ne accorse. La pioggia prese a bagnarlo, a lavare via le sue colpe e nascondere le sue lacrime mentre ancora correva, senza preoccuparsi di trovare un riparo. Era quello che voleva: lasciarsi consumare da ciò che lo circondava, senza più preoccuparsi di nulla. Annientarsi.

«Io ringrazio il Cielo che Iwaizumi non sia legato a te come Ushijima è legato a me, Oikawa Toru, perché se pensi una cosa del genere davvero non meriti di avere un compagno».

Cadde a terra. Il ginocchio cedette del tutto e Oikawa si ritrovò steso a terra, solo le mani a proteggere il volto dall’impatto improvviso. Gridò con tutto il fiato che aveva in gola, gridò e pianse senza alcun pudore – era ormai lontano dalle strade principali della città e nessuno lo avrebbe visto così distrutto e patetico, così finito.

Provò a rimettersi in piedi, ma camminare era quasi impossibile: la gamba cedeva non appena provava a poggiarci il peso sopra ed il dolore era insopportabile. Oikawa si sedette sul ciglio della strada, cercando una posizione che non gli strappasse grida di dolore; poi si coprì il viso con le mani e pensò di morire. Come era arrivato a quella situazione? Come aveva fatto a cadere tanto in basso, a perdere così tanto di se stesso? Era stato l’amore? L’amore che provava per Hajime, l’amore che non gli aveva lasciato scelta, nonostante non fosse perfetto, lo aveva ridotto in quello stato? O era stata colpa sua? Colpa di come era fatto, colpa dell’egoismo che tutti gli attribuivano, nel narcisismo che consapevolmente coltivava perché senza di esso era poca roba? Era stata colpa di Tobio? Del modo subdolo in cui s’era insinuato nella sua felicità senza riuscire a farsi odiare? O colpa di Hajime, troppo perfetto per lui, troppo grande e sempre ad un passo lontano dalla punta delle sue dita?

 

 

 

 

 

 

 

 

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Non sono solita farlo, ma questo è il secondo OC che inserito da che scrivo questa raccolta e ormai mi sono davvero affezionata a Yotaro, quindi sarà una presenza più o meno fissa da ora in avanti! Spero che possa entusiasmare anche a voi e che in generale la storia vi stia piacendo ^^

Alla prossima parte!

   
 
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