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Autore: Adeia Di Elferas    02/11/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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I quattrocento fanti e i seicento cavalieri che Bartolomeo d'Alviano era riuscito a mettere insieme a Siena stavano solo aspettando un suo ordine.

Teoricamente, essendo colui che sborsava l'ingaggio, sarebbe stato compito di Piero Medici dare le direttive a riguardo di quella strana campagna militare, ma il signore di Bracciano aveva capito subito che quell'uomo non ne sarebbe mai stato capace.

Inanellato, vestito di seta e velluto, sconvolto nel vedere la pioggia battente infradiciargli i capelli, il Fatuo non aveva più parole per esprimersi e pareva infinitamente pentito di aver lasciato il suo rifugio.

Il piano non era malvagio, in fondo. Erano partiti da Siena all'imbrunire e, con il favore della notte, avrebbero potuto benissimo arrivare fino a Firenze e metterla a sacco prima che qualcuno potesse bloccarli. A quel punto, il Fatuo sarebbe entrato alla Signoria e avrebbe imposto il suo rientro e la cancellazione del suo esilio, proponendo prontamente quello per i cugini Popolani.

Però, poco dopo essersi messi in marcia, la campagna toscana era stata sommersa da un nubifragio infernale, così violento e generoso di pioggia che Bartolomeo non ricordava di averne visto uno uguale in tutta la sua vita.

I cavalli, ma anche gli uomini in mezza armatura, arrancavano nella terra resa molle dall'acqua e il signore di Bracciano pareva uno dei pochi a resistere stoicamente a quella condizione estrema.

Tutti quanti tremavano di freddo e il Medici aveva anche provato a proporre di tornare subito indietro, salvo poi ricordarsi dei soldi sborsati per tutti quei mercenari.

“In città ormai è arrivato Paolo Vitelli con i suoi.” disse Bartolomeo, stringendo gli occhi sotto la pioggia ancora fitta, ma molto meno invadente di poche ore prima.

Le porte di Firenze erano lì a poche centinaia di metri da loro e, se solo fosse già sorto il sole, forse avrebbero perfino potuto vedere la cupola del Brunelleschi fare capolino all'orizzonte.

“Ma noi abbiamo mille uomini...” provò a balbettare Piero, scosso dal freddo che i panni bagnati gli impedivano di combattere.

“E loro hanno le mura della città e le guardie, oltre ai soldati di Vitelli.” rimarcò Bartolomeo, facendosi appena più loquace del solito solo perché trovava il Fatuo estremamente stupido e duro di comprendonio: “Se anche entrassimo in città, non si arrenderebbero.”

A guidare la valutazione di d'Alviano, però, non erano tanto i suoi meticolosi calcoli di probabilità di riuscita, quanto le parole che gli aveva detto la moglie prima di partire da Bracciano.

Gli aveva raccomandato di farsi onore, ma di non rischiare troppo. I soldi li aveva già incassati, dunque, quale cosa migliore che scrollarsi di dosso quel pericolo senza dover nemmeno alzare un dito?

La camminata sotto la pioggia se l'era fatta. Non erano stati abbastanza rapidi, ma la colpa era stata del Medici, che prima aveva ritardato la partenza per ansie sue, e poi del clima, che aveva reso quasi impossibile marciare.

Dunque, agli occhi di tutti, Bartolomeo non avrebbe mai avuto colpe per quella ritirata.

In altri momenti, soprattutto se si fosse trattato di una guerra per la sua famiglia o dalla grande importanza per lui o la moglie, il signore di Bracciano avrebbe attaccato comunque. Confidava molto nelle proprie capacità ed era certo di aver scelto ottimi mercenari, a Siena. Con un briciolo di buona sorte, la città sarebbe stata sua in meno di un giorno.

“Siamo davanti a questa porta da quasi quattro ore.” concluse il condottiero, impassibile sotto l'acqua che batteva sulla sua corazza: “Gli uomini cominciano a essere irrequieti. Decidete voi che fare.”

Piero il Fatuo diede uno sguardo accigliato alla Porta Romana e tremò con ancor più forza. Erano davvero lì da così tanto?

Si appoggiò una mano sull'elsa della spada che portava al fianco. Era indeciso e disperato in egual misura.

Non voleva una ritirata, ma nemmeno una disfatta. Non voleva che gli ridessero dietro in tutta Italia per essersene stato quattro ora davanti a Firenze senza avere il coraggio di forzare l'ingresso in città. Però non voleva nemmeno morire in mezzo al fango, sotto la pioggia fredda di quell'aprile...

“Andiamocene.” decretò alla fine, sentendosi un vile, ma sollevato di non dover più affrontare una cosa che lo spaventava tanto come la guerra.

“Come comandate.” fece Bartolomeo, trattenendo a stento un sorriso.

 

Caterina si rigirò nel letto, agitata, senza svegliarsi. Giovanni, che aveva un sonno abbastanza leggero, si destò subito e cercò di capire se la moglie stesse avendo uno dei soliti incubi e se fosse il caso di svegliarla.

Se di solito la Tigre finiva per fare il nome di Ludovico Marcobelli, quella notte iniziò a borbottare qualcosa che aveva a che fare con il figlio Livio.

La stanza era immersa nel tiepido sentore delle braci che si arrossavano nel camino, ma il Medici sentì un brivido freddo lungo la schiena, nel pensare a che tipo di immagini vi fossero in quel momento nella mente della sua donna.

Con delicatezza, la scosse un po', fino a chiamarla con decisione, fino a svegliarla una volta per tutte.

La Contessa farfugliò ancora qualcosa e poi, appena spalancò gli occhi e si trovò davanti Giovanni, si lasciò andare a un sospiro di sollievo, seguito però subito da un'espressione addolorata e abbattuta.

“Perdonami.” disse solo, asciugandosi il sudore dal volto e cercando di risistemarsi sul fianco senza infastidire più il marito.

Di contro, il Popolano l'abbraccio stretta a sé, sussurrando: “Mi spiace che tu abbia sempre degli incubi tanto brutti...”

Caterina apprezzò il gesto d'affetto di Giovanni e anche le sue parole, tuttavia si sentiva in difficoltà, soprattutto perché rivedere in sogno la morte di suo figlio le aveva messo addosso una strana agitazione: “Forse dovrei dormire nell'altra stanza...” disse, accennando a muoversi, come se si volesse alzare.

“Non ci provare nemmeno...” la fermò l'uomo, trattenendola a sé con decisione.

“Non posso finire per svegliarti così tutte le notti.” disse lei, senza insistere troppo con il tentativo di fuga: “Hai bisogno anche tu di riposare...”

“A me va benissimo così.” la mise a tacere il fiorentino, affondando il viso nei suoi capelli e chiudendo gli occhi, ben deciso a riprendere sonno il prima possibile.

Fin dalla prima notte che avevano trascorso insieme, l'ambasciatore aveva capito che Caterina conviveva con fantasmi che di notte si ingigantivano, togliendole la benedizione di un sonno sereno.

Aveva sentito alcuni abitanti della rocca dire che appena dopo la morte di Giacomo Feo, presumibilmente, aveva ricostruito Giovanni, dopo anche la morte di Ludovico Marcobelli, sentire la Leonessa gridare e lamentarsi nel sonno era normale.

Certi, addirittura, l'avevano paragonato al lamento di uno spettro e qualcuno aveva osato suggerire che forse le urla non venivano da lei, ma dall'anima dei morti per mano sua.

Giovanni era un pochino più obiettivo e aveva capito subito che il sonno agitato della Tigre era solo la manifestazione del suo tormento interiore, e aveva deciso fin da subito che vi avrebbe convissuto senza problemi.

Mentre stavano entrambi per riprendere sonno, rompendo il silenzio assoluto di quella notte, qualcuno bussò con insistenza alla porta.

Caterina si mise subito a sedere sul letto, coprendosi istintivamente con il lenzuolo, ma, prima di alzarsi e andare a vedere chi fosse o anche solo chiederlo a voce, si voltò verso Giovanni e gli disse in fretta: “Vai tu...”

In fondo, si era detta, quella per tutti era la camera dell'ambasciatore di Firenze. Probabilmente, chiunque fosse alla porta stava cercando lui.

Così il Popolano si alzò dal letto e si infilò le brache appese alla sedia della scrivania. Andò alla porta e, facendo ben attenzione a non aprirla troppo, guardò fuori dallo spiraglio che aveva creato.

La luce di una torcia portata a mano illuminò il viso del fiorentino che dovette strizzare un momento gli occhi per non restarne abbagliato, mentre chiedeva: “Che volete?”

“La Contessa è qui?” domandò con urgenza la voce del castellano.

Nel sentire Cesare Feo chiedere di lei, Caterina lasciò perdere la prudenza e, avvoltasi nella coperta, scese dal letto e andò accanto a Giovanni, che aprì di più la porta per permettere anche a lei di vedere in viso il castellano.

“Perdonatemi se mi sono permesso di venirvi a cercare a quest'ora – cominciò a dire lo zio di Giacomo, tenendo lo sguardo basso – ma credevo che avreste voluto sapere subito...”

“Parlate allora...” lo incoraggiò la Tigre, molto tesa.

Cesare deglutì e poi la guardò un momento, prima di annunciare: “Ci sono dei casi di peste, appena fuori le mura. E secondo il barbiere Bernardi, potrebbero esserci già un paio di malati anche in città.”

Se l'era aspettato. Prima o poi doveva capitare. Non aveva mai creduto al fatto che le sue terre sarebbero state risparmiate.

“Datemi un momento e sarò subito da voi. Dobbiamo decidere subito cosa fare.” fece la Sforza, senza doverci nemmeno pensare: “Nel frattempo, convocate il mio cancelliere e ditegli di ordinare un Consiglio d'urgenza.”

Il castellano fece un mezzo inchino e sparì subito, quasi di corsa, alla ricerca di un servo da mandare in città a richiamare Cardella.

“Dannazione!” sbottò Caterina, non appena la porta fu richiusa.

Lasciando cadere in terra la coperta che portava sulla spalle, cominciò a cercare i vestiti tolti la sera prima prima e a infilarli uno strato dopo l'altro.

Giovanni, intanto, si stava mettendo la camicia e il giubbone pesante, per poi passarsi una mano sul viso, benché non sentisse il bisogno di svegliarsi ancora di più. Quella notizia improvvisa gli aveva completamente tolto ogni sonnolenza.

“Che stai facendo?” chiese la Contessa, guardando il marito che finiva di abbottonarsi alla luce rossa e bassa del camino.

“Vengo con te.” rispose all'istante il Medici, aiutandola a chiudere l'abito sulle schiena: “Voglio essere d'aiuto.”

Per una frazione di secondo, Caterina fu tentata di dirgli di stare al suo posto, di rimettersi a dormire, magari, come avrebbe fatto con Giacomo.

Quando però sentì le mani aggraziate, ma decise di Giovanni che le annodavano l'ultimo laccio, sentì che la cosa giusta da fare era accettarlo, perché lui avrebbe davvero potuto fare la sua parte, a differenza del suo secondo marito: “Va bene.” gli concesse.

 

“E ricordiamole – continuò stancamente Ludovico Sforza, indicando con il grosso indice la missiva che Calco stava stilando per lui – che l'Imperatore non la perdonerà una seconda volta, se dovesse decidere di sposarsi.”

Il cancelliere tradusse in frasi un po' meno dirette quello che il suo signore aveva appena detto e poi sollevò gli occhi dal foglio: “Volete che si faccia cenno al fatto che Milano non vedrebbe di buon occhio un matrimonio con un fiorentino?”

Il Moro sporse in fuori le labbra sottili e poi allacciò le mani dietro la schiena, pensieroso.

In realtà non aveva alcuna voglia di pensare a sua nipote Caterina e ai suoi intrallazzi privati, ma il suo oratore a Forlì lo aveva tempestato di odiosissime lettere che lo esortavano a richiamare pubblicamente la Tigre e così doveva fare.

Perfino l'oratore bolognese e quello ferrarese gli avevano scritto per metterlo a parte delle 'grandi amorevolezze' che quell'insulso Giovanni Medici stava facendo alla Contessa Sforza Riario.

A quel punto, anche se la sua testa era altrove, il Duca aveva sentito il bisogno di prendere una posizione e metterla formalmente in guardia, prima che commettesse qualche sciocchezza.

“No, no... Lasciamo che lo spauracchio resti l'Imperatore...” decise infine Ludovico, andando malinconicamente alla finestra: “Tanto non credo che quella peste di mia nipote intenda sposarsi davvero un'altra volta. L'ultimo marito le è bastato, secondo me. Al massimo farà del Medici il suo amante, niente che non possa essere facilmente disfatto con un litigio tra innamorati...”

Calco non era molto convinto di quello che il Moro stava dicendo, ma si limitò a stare agli ordini e non aggiunse nulla di troppo nella lettera.

Il cancelliere sapeva molto bene che il suo signore quel giorno aveva la mente concentrata solo sulla pietra tombale che aveva deciso di commissionare per sé e per Beatrice.

Anche il maestro Leonardo – che era stato ben felice di non essere stato scelto come autore di quel monumento – aveva detto di trovare l'idea tanto macabra quanto deprimente.

Il Duca, però, era andato dritto per la sua strada ed era andato nella bottega dove lavorava Cristoforo Solari e gli aveva spiegato come voleva che fosse la lapide.

“Ritrarrete me e mia moglie, l'uno accanto all'altra, e voglio che i volti siano somiglianti al vero, badate bene. Così sembrerà che stiamo dormendo in pace l'uno accanto all'altra...” aveva detto il Moro, quando Solari aveva chiesto le prime delucidazioni.

“Io ho concluso. Manca la vostra firma.” fece Calco, chiudendo con uno svolazzo l'ultima frase.

“Bene, bene...” soffiò Ludovico, imbronciato, mentre guardava la nebbia gelida che ancora si allargava oltre il vetro della finestra.

Benché fosse già aprile, l'inverno non mollava la presa su Milano, proprio come i primi tempi in cui lui e Beatrice erano sposati.

Dopo essersi congedato dal cancelliere con un cenno del capo, il Duca andò nelle stanze di Lucrezia Crivelli e si lasciò cadere in un delle poltrone imbottite fino a che la donna non fu tornata dalla Messa.

“Non sapevo che mi stessi aspettando qui...” disse lei, togliendosi il velo e rabbrividendo, le mani che cercavano il calore del camino acceso.

Ludovico fece un suono gutturale e restò a guardarla, mentre si levava anche lo scialle pesante e la reticella che teneva ferma i suoi lunghi capelli.

“Hai visto nostro figlio, oggi?” chiese Lucrezia, non sapendo come interpretare l'apatia del Duca.

Sempre più spesso il Moro si chiudeva in lunghi silenzi, rotti solo da qualche sospiro, ma quel giorno più di altri sembrava distante, come in un altro mondo.

Nel momento in cui l'aveva visto nella sua stanza, la Crivelli aveva dapprima pensato di affrontare subito la questione che l'aveva irritata quella mattina di buon'ora, ma poi, vedendolo in quello stato, parte della sua bellicosità s'era spenta.

“No, non l'ho visto...” sussurrò lo Sforza, gli occhi tristi e una mano sul doppio mento.

“Sta crescendo bene...” provò a dire Lucrezia, tanto per rompere il velo di cupezza che stava scendendo anche su di lei.

“È quello che fanno i bambini.” commentò piatto Ludovico, pensando che di quell'epoca il figlio che era morto con Beatrice avrebbe avuto già più di quattro mesi.

“Ho saputo del palazzo Carmagnola.” disse allora la Crivelli, senza altri giri di parole.

A quel punto, finalmente, il Moro diede un segno di vita. I suoi occhi scuri ed esigenti si posarono sulla donna e la fissarono per qualche tempo.

“Perché glielo hai regalato?” chiese Lucrezia, mettendosi a sedere sul divanetto, ben lontana dal Duca.

“Perché non avrei dovuto?” chiese il Moro, alzando le spalle.

“Alle donne, tu fai regali solo se ti danno qualcosa in cambio, mi pare.” constatò con acidità la Crivelli, le labbra strette e le mani chiuse a pugno in grembo: “Che cosa ha fatto adesso la Contessa Bergamini – sottolineò il titolo con una smorfia – per ricevere in cambio un palazzo come quello?”

“Non sono affari tuoi.” ribatté con astio Ludovico che, nel recarsi in quelle stanze, aveva creduto di trovare conforto e non l'inquisizione.

“Ho appena partorito tuo figlio. Direi che sapere se sei tornato da lei è affar mio...” disse Lucrezia, senza dar mostra di aver timore di parlare apertamente.

“No che non lo è.” la contraddisse il Duca, alzandosi.

“Invece io dico che...” cominciò la donna, ma lo Sforza l'anticipò, mettendosi a gridare.

“Tu non sei mia moglie! Non hai alcun diritto di dirmi cosa devo o non devo fare! Tanto meno di dirmi con chi mi devo o no accompagnare!” e senza aggiungere altro o lasciarle il tempo di replicare, Ludovico andò alla porta e uscì, sbattendosela alle spalle con furia.

 

Prima di presentarsi alla riunione straordinaria del Consiglio, Caterina era andata nel suo laboratorio per controllare di avere ancora con sé le ricette di alcuni unguenti che aveva messo a punto durante la brutta epidemia di peste che aveva colpito il suo Stato quando ancora c'era Girolamo.

Ne trovò solo alcuni e, per non perdere altro tempo, si disse che avrebbe cercato quelli mancanti dopo aver parlato con i suoi Consiglieri.

Per tutta la discussione, Giovanni restò al suo fianco, facendo di quando in quando qualche intervento, motivando i suoi suggerimenti con l'esperienza avuta in prima persona durante passate epidemia di peste a Firenze.

Alla fine della consultazione, il Magistrato – che era stato straordinariamente investito di molti poteri in merito al controllo dell'espansione del morbo – tornò subito in città per rendere effettivi gli ordini dati dalla Contessa, mentre gli altri, molti dei quali ormai facenti parte dei Battuti Bianchi, tornarono nelle rispettive case per prepararsi ai difficili giorni a venire.

“Se riusciremo ad arginare il contagio, isolando subito i primi casi – aveva detto Caterina, lasciando la sala assieme al marito – forse potremo evitare di subire grossi danni...”

“Che cosa è successo?” la voce di Ottaviano, resa un po' più acuta del solito dal nervosismo, arrivò alle orecchie di Caterina come la punta di uno spillo.

“La peste è arrivata anche qui.” gli disse, rendendosi conto solo in quel momento che anche lui avrebbe dovuto essere presente alla riunione, se non altro come capo dei Battuti Bianchi.

Il ragazzo, a quella rivelazione, restò al suo posto, la torcia in mano che disperdeva in aria qualche briciola di cenere ancora rossa.

Giovanni, avvertendo la freddezza e la tensione che correva tra madre e figlio, provò a mettersi in mezzo: “Ve l'avremmo detto domani mattina. Adesso è meglio che riposiate. Dall'alba ci sarà del lavoro per tutti.”

Il figlio della Tigre, nel sentirsi rivolgere la parola dal fiorentino in modo tanto diretto, restò sconcertato. Tuttavia, quando incontrò il sorriso incoraggiante del Medici, che non aveva niente di aggressivo né di derisorio – come invece avrebbe di certo avuto quello dello stalliere – si calmò all'istante.

I tre stavano per congedarsi di mutuo accordo, quando Caterina venne colta da un'improvvisa consapevolezza e sentì il dovere di fermarsi e dire al figlio: “Ascolta, da adesso siamo tutti in pericolo.”

Ottaviano la guardava da sotto la luce aggressiva della torcia e il suo viso, così simile a quello del padre, venne attraversato da un lampo di comprensione, tanto che prima che la madre potesse concludere il suo discorso, fu lui a parlare per primo: “Non andrò in giro per bordelli, se è questo di cui avete paura. E dirò anche a Cesare di restare alla rocca.”

La Contessa annuì, sollevata nel vedere, forse per la prima volta in vita sua, il figlio tanto collaborante.

Il ragazzo chinò appena il capo verso di lei e poi verso il Medici e prese una strada opposta alla loro, tornando verso le sue stanze.

Mettendole un braccio attorno alle spalle, Giovanni convinse la moglie a rimettersi a camminare e così in breve anche loro tornarono nel tepore della loro camera.

“Se solo ricordassi dove le ho lasciate...” stava borbottando tra sé Caterina, sfogliando le sue carte appoggiate sulle scrivania.

“Cosa?” le chiese il marito, intento a cercare nella cassapanca tutti gli abiti più in disordine che aveva.

Siccome aveva deciso subito che avrebbe preso anche lui parte attiva nella difesa della città dal morbo, aveva ben pensato di trovarsi vestiti che poi avrebbe potuto bruciare senza problemi, così come la moglie gli aveva consigliato.

“Avevo delle ricette per mitigare gli effetti della peste e anche qualcuno per sanificare gli ambienti, dopo...” disse quasi tra sé la donna, rimettendo in ordine le pagine, sicura ormai che non fossero tra quelle: “Però non ricordo dove...”

All'improvviso le tornò in mente dove potessero essere e si rese conto di sapere di preciso dove trovarle. Di sicuro erano assieme ad alcune lettere, mai recuperate, di certi alchimisti, nel cassetto segreto del suo vecchio scrittoio.

“Li cercheremo solo se sarà strettamente necessario – concluse, rifiutandosi perfino col pensiero di entrare nel Paradiso per prendere quei fogli – fino ad allora, ci faremo bastare queste ricette.”

Senza chiedere nulla alla moglie, il Popolano annuì e continuò nella sua ricerca, buttando per aria giacconi e calzabrache.

Dopo qualche minuto di silenzio, Caterina lasciò la scrivania e gli chiese di smetterla di fare confusione con tutti quei vestiti: “Adesso cerchiamo un momento di distrarci, ti prego.” gli disse, prendendolo per i polsi, in modo da indurlo a stare fermo: “Non sappiamo quanto durerà questa epidemia, né se sopravvivremo. Almeno fino all'alba, facciamo finta che non sia successo nulla.”

Giovanni capì benissimo che doveva esserci qualcosa di più, a turbare la moglie, però avvertì il suo bisogno disperato di essere consolata in qualche modo e, anche se non la trovava una soluzione adeguata, anche lui pensò che forse conveniva a entrambi cercare di vuotare un po' la mente.

Non potevano sapere cosa li attendeva nei giorni seguenti, né se ne sarebbero usciti. Come cantavano i poeti latini che entrambi amavano, era il momento di vivere, senza pensare troppo al futuro. Per quello avrebbero avuto tempo la mattina seguente.

Facendo spazio sul letto, gettando in terra alcun dei giubboni che vi aveva lanciato sopra, il fiorentino fece stendere la moglie e poi, dopo averla guardata per un lungo momento, si mise sopra di lei e le sussurrò nell'orecchio, mentre cominciava a toglierle l'abito che poco prima l'aveva aiutata a indossare: “Soles occidere et redire possunt...”

Ma, per quella volta, Caterina non trovò né la prontezza né la forza di completare le sue parole, così vinta dal desiderio di farlo suo, da interromperlo subito premendo le labbra sulle sue, spegnendo la poesia con un bacio quasi feroce.

 
   
 
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