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Autore: Adeia Di Elferas    04/11/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Agostino Barbarigo guardò Pandolfo Malatesta con sguardo tagliente e poi, accarezzandosi mellifluo la lunga barba bianca constatò: “Nessuno vi ha detto di venire fino a Venezia con novanta persone al seguito.”

Il signore di Rimini fece una smorfia e si guardò la punta dei piedi. La sala delle udienze era gremita e non sopportava di essere messo così in ridicolo davanti a tutti.

Aveva cercato di convincere sua moglie Violante ad andare al posto suo, o almeno a strappare al Doge il permesso di un incontro privato, così come sua madre Elisabetta era riuscita a ottenere durante il suo ultimo viaggio nella Serenissima.

E invece Violante aveva finto di essere indisposta e quando il Pandolfaccio aveva provato a tergiversare, il portavoce dei suoi servi gli aveva fatto capire che se la paga non fosse arrivata, se ne sarebbero tornati tutti in Romagna anche senza di lui.

“Conosco gente molto più importante di voi che gira mezza Italia con appena un servo o due al seguito.” riprese Barbarigo, con un sospiro che sapeva di amara derisione, mentre i suoi occhi brillanti cercavano consensi tra i veneziani presenti.

Il Malatesta abbassò ancora di più il capo e disse, con voce scontrosa e molto bassa: “Vi chiedo solo un indennizzo, in favore di quello che sto facendo per voi.”

Il Doge aveva sentito, malgrado il tono dimesso usato da Pandolfo, ma nulla gli tolse il piacere di chiedergli di ripetere a voce più alta: “Non fate il ragazzino spaventato! Date aria a quei polmoni!”

Così il signore di Rimini, umiliato e furente, ripeté la sua richiesta e infine Barbarigo decise di cedere alla richiesta.

Con un altro profondo sospiro e con un sopracciglio sollevato, decretò: “Avete ragione, concedere che Venezia venisse da voi a Rimini a sedare una rivolta dovuta al vostro sconsiderato crimine ai danni di una povera giovane è stato molto magnanimo, da parte vostra.”

Il pubblico rise di gusto e il Malatesta poté solo incassare il colpo, le mani dietro la schiena e i lunghi capelli neri che gli coprivano il viso infiammato di vergogna.

“Vi daremo una provvigione giornaliera di dodici ducati per provvedere alle vostre ingenti e inutili spese.” concluse il Doge, battendo una mano contro l'altra, a indicare che la questione era chiusa, salvo poi soggiungere: “Ma dovrete tornarvene a Rimini il prima possibile.”

“Appena la peste avrà lasciato le mie terre – assicurò Pandolfo, che in realtà aveva sentito dire che il morbo per ora era più a sud del suo confine, ma era certo che prima o poi avrebbe preso anche Rimini – tornerò a reggere a voi il governo.”

“Bravo, bravo...” soffiò il Doge, stufo di vederselo davanti, quasi rimpiangendo i modi strambi eppure accattivanti di Elisabetta Aldovrandini: “Adesso siete libero di andare... Ho altre udienze da fare oggi...”

Caterina si chinò ancora un attimo sul giovane uomo che stava steso sul giaciglio di paglia e poi si ritrasse, tenendo lo straccio intriso di profumi davanti al naso e alla bocca, come il medico l'aveva obbligata a fare.

“Da quanti giorni è così?” chiese, scostando un attimo il riparo dalle labbra, per poter parlare meglio.

La madre del ragazzo scosse piano la testa e provò a ricordare: “Un paio.”

La Contessa occhieggiò verso la donna e poi verso il dottore, che l'aveva seguita senza indugio appena aveva saputo che stava andando a vedere i primi malati, e infine verso Giovanni, che le stava accanto, anche lui con una pezza davanti al volto.

“Dovevate dirlo subito.” fu il rimprovero della Tigre, mentre faceva segno ai due servi che si era portata appresso per aiutarla.

Non aveva ancora preso a stipendio dei monatti, perché prima voleva essere certa che si trattasse di peste, e così aveva offerto una paga in più ai domestici che avessero voluto seguirla in paese a controllare i malati. Avevano accettato solo in due.

“Avevo paura...” si difese la madre dell'appestato, cominciando a piagnucolare: “Temevo che ci cacciaste dalla città... Abbiamo solo questa casa...”

Caterina posò un momento gli occhi verdi in quelli scuri e cerchiati della forlivese, che lasciavano trasparire tutto il patimento che doveva aver vissuto in quei due giorni, ma si forzò a non provare pietà.

“Controllate anche lei.” disse al medico: “E poi fate spostare quest'uomo fuori dalle mura, dove il Magistrato sta organizzando il punto di raccolta.”

Ignorando le lamentele – deboli e afflitte – della donna, la Sforza uscì dalla casa senza dire altro.

Una volta in strada, si tolse lo straccio dal viso e prese aria. Nella piccola abitazione dell'appestato non si riusciva a fiatare, per via dell'odore mefitico che già aveva preso le carni del poveretto.

“Chiuderai le porte della città?” chiese Giovanni, arrivandole accanto dopo un paio di minuti.

La Contessa non rispose subito. Guardò le finestre delle case vicine, già tutte sprangate, benché fosse pieno giorno. Per la via non c'era quasi nessuno, se non qualche mercante e qualche ratto.

“Cercherò di ritardare il più possibile la chiusura – spiegò Caterina, lasciando che il marito la sostenesse con un braccio attorno alla schiena – ma se non riuscirò a isolare i primi casi, finiremo per doverle chiudere, sì.”

Al Medici bastò poco per immaginarsi il danno che il commercio avrebbe subito con quell'epidemia. Chiudere le porte, in quel momento, equivaleva a un ammanco che le casse esauste dello Stato difficilmente avrebbero colmato.

Soffiando nell'aria tersa e ancora fredda di quell'aprile, il Popolano disse: “Se dovremo chiudere le porte, potremmo usare il grano che ho comprato per distribuire pane gratuito ai cittadini. Sarà sempre meglio di niente.”

Caterina annuì. Non ci aveva pensato, ma era una bella idea.

La realtà era che faceva fatica a pensare a qualunque cosa, in quel momento. La sua testa era ancora ferma agli occhi della madre dell'appestato, che l'avevano fissata con attonita disperazione, quasi con la certezza che da lei non avrebbe ricevuto altro se non una dura condanna.

Ma che altro avrebbe potuto fare? Era necessario fare il cuore duro, se si voleva cercare di salvare il grosso della città.

“Anche la donna ha una pustola, sotto l'ascella.” confermò il dottore, uscendo dalla casa e chiudendosi la porta alle spalle, non abbastanza in fretta da lasciarvi chiuse dentro le urla di paura della malata, che implorava di non portarla via: “Ho detto hai vostri servi di far sistemare anche lei fuori dalle mura.”

La Tigre annuì e poi cercò lo sguardo del marito, in cerca di sostegno. Giovanni interpretò bene la sua richiesta d'aiuto e fu lui a dire al medico che andava bene quello che aveva deciso e lo pregò di continuare il giro delle case senza di loro, almeno per un po'.

“Torniamo alla rocca...” sussurrò a quel punto la Sforza, mentre il dottore tornava nella casa per confermare l'ordine ai due servi: “Ho bisogno di un momento...”

Il Medici annuì e l'accompagnò senza dire nulla fino a Ravaldino.

Lungo la strada, incrociando molti topi che correvano come impazziti nelle vie quasi deserte, Caterina cercò di ripensare alle misure di sicurezza che aveva messo in atto l'ultima volta che la città era stata colpita da un'epidemia di peste di grande importanza.

“Vai a dire al castellano che dica al Consiglio di assumere gente che vada a caccia di ratti – disse a Giovanni, mentre, nella loro stanza si levava gli abiti e li chiudeva in un baule, per isolarli – e poi scrivi a Simone. Che tenga d'occhio la situazione a Imola e che chiuda le porte al primo bubbone che vede.”

Ludovico si insospettì, quando vide fuori da Santa Maria delle Grazie due soldati, ma poi, quando fu loro più vicino, li riconobbe come quelli che aveva messo alle calcagna di Isabella d'Aragona, affinché la seguissero ovunque andasse, impedendole di prendere contatto con chicchessia.

Dopo averli salutati in fretta, ed essersi visto fare un mezzo inchino in risposta, il Duca entrò nella chiesa e si guardò attorno in cerca della donna.

Un po' si stupì nel trovarla davanti alla tomba di Beatrice.

Teneva la bambina più piccola in braccio, benché il suo fisico diventato esile durante la lunga prigionia non sembrasse in grado di reggere nemmeno quei pochi chili, mentre quella più grande, di quattro anni, era accanto a lei, mano nella mano.

Il Moro si avvicinò con passo silenzioso, curioso di capire il vero motivo che aveva portato l'Aragona lì. In uno slancio di ottimismo, sperò che la donna fosse arrivata alla conclusione più logica, ovvero al perdonare Beatrice, accettando il fatto che la cugina l'aveva voluta allontanare da Milano solo per motivi di sicurezza, per ragioni di Stato, non per cattiveria.

“Vi ho sentito, non fate finta di non esserci...” bisbigliò Isabella, senza voltarsi, quando ormai Ludovico le era alle spalle.

“Non volevo disturbarvi... In un luogo di raccoglimento come questo...” fece l'uomo, camminando, però, con maggior sicurezza.

“Certo... Non volevate disturbarmi...” fece eco la donna.

La sua voce era incrinata, come se stesse piangendo o avesse appena finito di farlo. Le sue bambine sembravano fatte di ceramica, ferme, silenziose. L'unica cosa che le distingueva da due bambole erano gli occhi, che passavano la chiesa al setaccio, attenti e vivi.

Quando le iridi della più grande si piantarono sul Duca, poi, Ludovico si sentì quasi messo a nudo, incapace di sostenere quello sguardo muto e penetrante. Se non fosse stato certo che quella piccola aveva appena quattro anni, basandosi solo sull'intensità del suo sguardo avrebbe potuto giurare che fosse molto, molto più vecchia.

“Quando potrò rivedere Francesco?” chiese Isabella, quando il Moro si mise accanto a lei, le mani sul grembo prominente e il viso rivolto alla lapide provvisoria di Beatrice.

“Voi chiedete sempre troppo, mia signora.” rispose lo Sforza, appena meno conciliante.

Siccome l'Aragona non diede mostra di voler ribattere, Ludovico provò a lanciarle un'occhiata. Le sue guance erano davvero rigate di lacrime, ma la sua espressione era tutt'altro che affranta. Pareva solo furente.

“Siete venuta a piangere sulla tomba di vostra cugina?” chiese il Duca, cercando di darsi un contegno e di mettere in bocca la risposta a Isabella, in modo da rendere il tutto più semplice per entrambi.

“Sono venuta a cercare una risposta.” disse invece lei, stringendo con più forza la bambina che portava in braccio: “Sono venuta a chiederle perché mi ha fatto tutto quello che mi ha fatto.”

Ludovico restò un momento in silenzio, sporgendo il mento in fuori e scuotendo piano il capo, in segno di disapprovazione.

Poi, dopo aver pensato bene a cosa dire, controbatté: “Nemmeno voi le avete reso le cose facili, Isabella. Ricordate tutto quello che...”

“Ancora la difendete?” chiese la vedova di Gian Galeazzo, trattenendo a stento la furia che le stava rimontando in corpo.

“Io la difenderò sempre, mi spiace che possiate pensare il contrario.” la freddò Ludovico, gonfiando il petto e imponendosi su di lei, incurante finalmente degli occhi quasi disumani delle due bambine: “E se volete davvero riavere vostro figlio, vi conviene imparare a moderare il linguaggio. Speravo che stare a Pavia vi avesse insegnato qualcosa, ma evidentemente non è così.”

L'Aragona si morse la lingua, ben sapendo di star giocando con il fuoco. Prese fiato un paio di volte, quasi mettendosi a tossire per il tanfo di incenso, e poi con una riverenza, si congedò dallo Duca di Milano.

“Vi lascio alle vostre preghiere.” disse, piegando a stento le ginocchia: “Vostra moglie ne ha davvero bisogno.” concluse, senza potersi frenare.

Il Moro finse di non aver colto l'astio che sottostava all'ultima frase e ricambiò abbassando un attimo la testa, per poi tornare a concentrarsi sulla tomba di Beatrice.

Per quanto non volesse ammetterlo davanti a Isabella, sapeva che la donna aveva ragione. C'era bisogno di pregare molto e molto intensamente.

“Per quello vengo qui ogni giorno...” sussurrò il Duca, allungandosi per sfiorare la lapide con la mano: “Per fare tutto quello che posso...”

 

I giorni stavano passando lenti e cupi, con un'aria d'attesa che non piaceva a nessuno e ormai la decisione di chiudere le porte della città sembrava inevitabile.

Imola, aveva fatto sapere Ridolfi, aveva già dovuto provvedere e, a rischio di parere troppo prudente, il Governatore aveva consigliato caldamente alla sua signora di fare altrettanto.

Caterina, che dopo un primo momento di forte scoramento che l'aveva portata vicina a un accesso di febbre molto simile a quelli che in passato avevano imputato alla malaria, aveva ripreso in mano le redini della situazione, lasciandosi coadiuvare in modo molto efficace da Giovanni, che ogni giorno dimostrava sempre di più la sua validità sia come amministratore sia come uomo.

Nonostante questo, però, quasi ogni mattina la città si svegliava con un nuovo appestato e i monatti avevano cominciato a girare per le strade a recuperare i primi cadaveri.

“Dobbiamo chiudere le porte, non c'è tempo per aspettare ancora – disse Luffo Numai, prendendo la parola dopo Rossetti – non possiamo sperare che mettere fuori dalle mura i malati basti. Troppe famiglie li stanno nascondendo per paura di vedersi sbattere fuori da Forlì...”

“E chiuderli tutti dentro potrebbe invece indurli a dichiarare di avere in casa degli appestati?” fece la Contessa, scettica, ma dando intimamente ragione al Consigliere.

“L'ultima volta che la peste ci ha colpiti – fece notare Luffo, tra i pochissimi presenti a poter dire di aver preso posto in Consiglio anche tanti anni addietro – abbiamo chiuso le porte, ma grazie ai vostri rimedi, la peste ha fatto meno morti di quelli che avrebbe potuto.”

La donna attese di vedere se qualcun altro fosse in grado di farsi venire qualche idea alternativa, anche se sapeva benissimo che non poteva essere.

Anche Ottaviano era nella sala del Consiglio. Si guardava attorno un po' intimidito, chiaramente non più abituato a quel genere di impegni, ma tutto sommato pareva abbastanza calmo.

“Resteremo in fretta senza provviste.” fece notare la Contessa, dopo un po', guardando un Consigliere dopo l'altro, cercando di capire quanto fossero consci di quello che sarebbe successo, una volta chiuse le porte.

“Lasciate andare in campagna le famiglie che dimostreranno di non avere nemmeno un malato.” si fece avanti allora Golfarelli, incontrando subito l'entusiasmo di alcuni concittadini: “Così ci saranno meno bocche da sfamare.”

Caterina cercò lo sguardo di Giovanni, ma l'uomo era immerso nei suoi pensieri e stava scrutando il Consigliere che aveva appena parlato, come cercando di valutare se stesse facendo quella proposta con cognizione di causa o solo per proprio interesse.

Probabilmente non per caso, infatti, la peste stava come sempre colpendo prima i meno abbienti e quasi tutte le famiglie nobili di Forlì erano per il momento pressoché rimaste indenni.

Per di più, i capifamiglia che avrebbero dovuto fare la loro parte come Battuti Bianchi o come sostenitori della Compagnia della Pietà, stavano facendo orecchie da mercante, ben felici di sborsare qualche moneta per la causa, ma decisi a non toccare un appestato nemmeno con la punta dell'indice.

Alla fine la Contessa si fece due conti e trovò che Golfarelli, malgrado l'evidente conflitto di interessi, stesse facendo una buona proposta.

“E sia – concluse – per ora che si proceda con l'uscita dei sani verso le campagne e l'ingresso in città dei malati. Quando avremo finito, chiuderemo le porte.”

“Ma i poveri che non hanno dove andare?” chiese a quel punto Giuliano Rossetti, accigliandosi.

Caterina non lo riprese per quell'intervento, anzi, ne approfittò per sistemare anche quella controversa faccenda: “Il Magistrato provvederà ad assegnare i poveri a ciascuna famiglia con proprietà fuori le mura. In questo modo nessuno resterà senza tetto.”

“Ma..!” cominciò a dire il Consigliere Rossetti, prendendo colore.

La Sforza aveva sentito Giovanni muoversi appena, accanto a lei, forse indeciso se prendere parte o meno al discorso. Tuttavia fu un altro uomo a prendere la parola al suo posto.

Prima che il Medici, infatti, riuscisse a mettere a tacere il Consigliere, il Capitano Alberto Rossetti che non era un membro del Consiglio – a differenza del suo parente Giuliano – ma era comunque presente come libero auditore, mise a tacere il consanguineo: “Avanti! Che ti costa? E se non ti sta bene, puoi restare in città a fare la tua parte! Sei anche tu un Battuto Bianco, no?”

“E poi quest'epidemia non sarà certo infinita... Alla fine le porte saranno riaperte.” si aggiunse la Tigre, appena più calma del soldato.

A quel punto Rossetti non disse più nulla e in breve la seduta venne tolta, con una frenesia notevole da parte di quelli che volevano levare le tende prima che il Magistrato potesse assegnare loro ospiti scomodi.

“Non speriate mai più di rivederla – riportò testualmente il messo pontificio – a meno che non vi restituiate a Roma.”

Giovanni Sforza guardò l'uomo appena arrivato dall'Urbe come se avesse davanti un fantasma.

Valevano per lui più quelle parole che il papa aveva affidato alla viva voce di un suo uomo, che non le mille lettere che avrebbe potuto spedirgli.

“Ebbene...” cominciò a dire il signore di Pesaro, trovando improvvisamente il salone del suo palazzo freddo e inospitale: “Dite a Sua Santità... Ditegli...” cominciò a balbettare, tanto che l'inviato dovette chiedergli di parlare più chiaramente.

“Ditegli che... Che i miei parenti, il Duca di Milano e anche... Anche il Cardinale Ascanio Sforza, ditegli che loro sanno il perché del mio gesto e...” farfugliò Giovanni, il corto collo che si impregnava di sudore gelato.

“A questo proposito – intervenne glaciale il messo pontificio – Sua Santità mi ha detto di dirvi, se aveste provato a menzionare il Duca Sforza o il Cardinale Sforza, che Sua Santità in persona vi ammonisce di non provare a resistergli, perché sia il il Cardinale Ascanio, sia il Duca Ludovico si sono già intesi con lui.”

Sentendosi perso, Giovanni Sforza si fece il segno della croce e poi cercò di darsi un tono nel congedare il messo papale con un semplice: “Se è così, riferitegli solo che io a Roma non ho intenzione di tornare.”

 

“Hai fatto sapere a tuo fratello che la peste ci sta colpendo?” chiese Caterina appena lei e Giovanni furono di nuovo alla rocca, a riunione finita.

L'uomo annuì appena e aggiunse: “Gli ho anche detto che se non dovesse avere mie notizie per un po', potrebbe essere che si è arrivati a chiudere le porte.”

La donna lo guardò un momento e si rese conto di quanto alla luce smorta del primo pomeriggio suo marito apparisse stanco e smagrito, molto più del solito.

“Forse dovresti approfittarne per tornare per un po' a Firenze.” gli suggerì, mentre raggiungevano l'interno della rocca, lasciandosi alle spalle il freddo del cortile d'ingresso: “Non è prudente per te stare qui.”

“Non lo è per nessuno.” sorrise il Medici, con un'alzata di spalle.

La Tigre stava per ribattere in qualche modo, con riluttanza, ma abbastanza decisa a fare qualcosa per mettere al sicuro Giovanni, che in quel momento le sembrava così debole e indifeso, quando il castellano le diede una voce, inducendola a fermarsi appena prima di salire le scale.

“Mia signora...” boccheggiò Cesare Feo, dopo una corsetta che lo stremò tanto da rendere palese la sua età non più verde: “Mentre eravate in città è arrivata una staffetta con questo messaggio per voi.”

Caterina prese la lettera e guardò il sigillo degli Sforza che vi campeggiava sopra. Tentata di aprirlo subito, preferì farlo in un ambiente protetto.

Qualsiasi cosa suo zio le avesse scritto, di certo sapeva che non ne sarebbe rimasta indifferente e quindi preferiva non avere testimoni: “Grazie.” disse al castellano e poi gli ordinò di tornare ai suoi compiti.

Andò dritta e filata alla sala delle letture. Idealmente, come aveva fatto tempo addietro, anche se in forma un po' diversa, al palazzo dei Riario, aveva diviso la rocca in due porzioni, nella speranza di evitare eventuali contagi.

Secondo la sua strategia, nell'ala diurna ci si poteva recare abbastanza liberamente, salvo contatti diretti con gli appestati. In tal caso era necessario almeno cambiarsi d'abito nel vestibolo.

Comunque, quella zona era del tutto preclusa ai suoi figli, esclusi i tre più grandi che, ognuno per i suoi motivi, le avevano strappato il permesso di libera circolazione almeno all'interno di Ravaldino e nelle immediate vicinanze della rocca.

Nell'ala notturna, invece, dove stavano le camere per il riposo della famiglia e anche un paio di ambienti per i soldati e i servi, non ci si poteva recare se non dopo essersi lavati a fondo con una mistura di acqua – che grazie al cielo alla rocca non mancava, per merito del pozzo e della ghiacciaia, che quell'anno per via della neve era molto generosa – olii profumati e altri unguenti da lei messi a punto.

Chiusa la porta della sala delle letture, che stava nella parte diurna e quindi potenzialmente contaminata della rocca, la Contessa si lasciò cadere su una poltrona ancora prima di levarsi il mantello pesante che quella fredda giornata d'aprile l'aveva convinta a indossare.

Giovanni restò in piedi accanto a lei e, quando la moglie spezzò il sigillo con la biscia sforzesca e l'aquila imperiale, l'uomo tentò di leggere assieme a lei il contenuto della lettera da sopra la sua spalla.

Mentre i due cominciavano a passare in rassegna le prime noiosissime frasi che il cancelliere Calco aveva vergato a beneficio della prammatica, la porta si aprì e ne entrò Bianca, con un librone sotto al braccio.

Caterina la guardò appena e quando la ragazzina chiese se doveva andarsene, il Popolano chiese tacita conferma alla moglie e poi disse alla giovane: “No, non è necessario.”

La Tigre leggeva in silenzio e Bianca poteva capire dal modo in cui la madre spalancava di quando in quando gli occhi che la questione doveva essere abbastanza seria.

“Vi ricordo – lesse a un certo punto la Sforza, ad alta voce – che la legge imperiale prevede per voi la potestà sui figli vostri tutti e la requisizione immediata d'ogni vostra terra, se prenderete un nuovo marito.”

Il Medici sembrava molto teso e, benché conoscesse bene la risposta, chiese alla Leonessa: “È vero, quello che dice?”

La donna si passò la lingua sulle labbra secche e poi guardò verso Bianca, che ricambiò l'occhiata con una sorta di paura mista a incertezza.

“Ovvio che è vero...” soffiò alla fine Caterina, prendendo la lettera dello zio saldamente tra le mani e facendola in mille pezzi: “Ma a Ludovico sfugge un piccolo dettaglio: mi sono già risposata una volta, dopo che è morto il mio primo marito, eppure, anche quando ho reso la cosa notoria...”

Fece una breve pausa per alzarsi dalla poltrona e gettare i frammenti della missiva nel fuoco del camino, per poi cavarsi con rabbia il mantello e rimettersi a sedere.

“Anche quando tutti ormai lo sapevano – riprese – e ho reso la cosa ufficiale, nessun Imperatore è arrivato a strapparmi di mano nemmeno un ciuffo d'erba, tanto meno un misero campo di grano, figuriamoci l'intero Stato!”

Dopo quell'esternazione, che a Giovanni sapeva più di traballante difesa che non di sicurezza di sé, la Tigre fece un profondo sospiro e, sprofondando nella poltrona disse al marito: “Vai dal cancelliere Cardella. Lo dovresti trovare nello studiolo del castellano, da quello che so dovevano parlarsi... Digli di dare ordine che le porte vengano chiuse domani all'alba. Non c'è tempo per organizzare nessun esodo. Chi è dentro, è dentro chi è fuori è fuori. E da domani nessuna lettera entrerà o uscirà più da questa città, almeno fino a epidemia finita.”

Il fiorentino annuì, stringendo appena le labbra carnose e poi passandosi una mano tra i corti riccioli. Avrebbe voluto chiedere alla moglie di non essere tanto impulsiva, ma in fondo le dava ragione. E poi, lui stesso credeva che le porte andassero chiuse, anzi, lui le avrebbe chiuse già giorni addietro.

Mentre il Medici usciva, lasciandosi dietro comunque una vaga scia di perplessità, la Tigre guardò la figlia, che stava fingendo di volersi mettere a leggere, apparentemente nemmeno sfiorata dal discorso appena fatto dalla Contessa.

Sentendo gli occhi verdi della madre puntati addosso, la ragazzina sentì il bisogno di dire qualcosa e così sussurrò: “Domani posso uscire con voi per andare dai malati?”

Caterina non si sarebbe mai aspettata quel genere di proposta. Da nessuno dei suoi figli, tanto meno da Bianca che, pur essendosi sempre dimostrata abbastanza coscienziosa e anche di buon cuore, non aveva mai dato mostra di volersi mettere in primo piano in qualche modo.

Ottaviano, che come capo dei Battuti Bianchi avrebbe dovuto starle accanto in quel genere di cose, si defilava sempre, adducendo importanti impegni, quando invece passava le sue giornate rintanato in qualche saletta della rocca, uscendone solo per fare discorsi inutili con i capifamiglia che erano nella confraternita e si presentavano sotto alla statua di bronzo raffigurante Giacomo Feo per offrire il loro obolo alla causa, evitando in tal maniera di sporcarsi le mani in modi più impegnativi e rischiosi.

Cesare, invece, passava le notti e gran parti delle giornate in Duomo o nelle altre chiese a pregare assieme ai chierici e ai penitenti. Aveva perfino avuto l'ardire di suggerire alla madre di provare a seguirlo, almeno una volta.

“Chissà mai – le aveva detto, serio – che possiate finalmente ritrovare la retta via ed espiare le vostre colpe.”

La Contessa aveva rifiutato, cercando di farlo in modo disteso, seppur sempre coi suoi modi spigolosi: “Quando avrò fatto quello che serve ai forlivesi per guarire dalla peste, allora troverò il tempo di venire a pregare con te.”

Bianca stava ancora aspettando una risposta da Caterina e alla fine la donna si disse che non ci sarebbe stato nulla di male. Se sua figlia aveva il suo stesso sangue, poi, non si sarebbe nemmeno ammalata.

“Va bene.” le disse, senza però riuscire a sorriderle: “Ma non si tratta di una cosa piacevole. Certi appestati sono sfigurati dal male, certi morti portano con loro un tanfo insopportabile... Ci vuole lo stomaco forte per stare in mezzo a loro.”

“Lo so.” confermò la ragazzina, sollevando il mento e puntando le iridi blu, tanto scure da apparire nere alla luce del camino e delle candele: “Io sono vostra figlia. Ho vissuto al vostro fianco da che sono nata. Se anche non l'avessi avuto, lo stomaco forte mi sarebbe venuto col tempo.”

La Tigre non controbatté in nessun modo, soprattutto perché non riuscì a capire quanto ci fosse in quelle frasi di aggressività e quanto di determinazione.

Solo quando il fiorentino ritornò per dire che il cancelliere avrebbe provveduto entro sera a diramare le nuove disposizioni, Caterina si alzò dalla poltrona e si avvicinò alla figlia, chinandosi su di lei per dirle: “Sei figlia mia, hai ragione, e so che me lo dimostrerai.”

Bianca deglutì a stento, riuscendo a sostenere a mala pena lo sguardo della madre, che, dopo quel breve momento di connessione con lei, si voltò verso Giovanni per dirgli: “Sono stanca. Penso che mi ritirerò presto oggi... Vado a chiedere a un servo di prepararmi il bagno.”

Poi, mentre Giovanni le apriva la porta, dicendo che avrebbe fatto come lei, la Tigre lanciò un ultimo sguardo alla figlia: “Domattina all'alba, mi raccomando. Fatti trovare pronta. Per prima cosa, verrai con me quando chiuderanno le porte, e poi mi seguirai. Sarà una giornata impegnativa: dobbiamo redistribuire le risorse e isolare i malati il più lontano possibile dal quartiere militare.”

La ragazzina confermò: “All'alba, non mancherò.”

Il Popolano salutò con un cenno la figlia della moglie e poi seguì Caterina verso l'ala protetta della rocca.

“Trovi sia saggio, lasciarla avvicinarsi così tanto agli appestati? Non hai paura che si ammali anche lei?” chiese il Medici, fermandosi accanto a Caterina, dopo che questa ebbe dato ordine a due servi di scaldarle l'acqua per la tinozza: “Non è prudente, per lei, restare a contatto coi malati...”

“Non lo è per nessuno.” fece la Contessa, ripetendo alla perfezione le parole che il marito le aveva rivolto appena erano tornati a Ravaldino.

Con un sospiro, Giovanni mise a tacere le proprie rimostranze, dicendosi che con le decisioni che la Leonessa prendeva per i figli, lui c'entrava solo in parte.

Appena l'acqua per il bagno fu pronta, Caterina congedò i due servi e poi lasciò che il marito la seguisse nella stanza – prima un piccolo archivio per i documenti del castellano e ora rigenerata in fretta in improvvisata sala da bagno – e l'aiutasse a svestirsi.

Quando i suoi abiti furono ammonticchiati in un angolo, l'uomo prese dalla cassapanca quelli puliti e li sistemò, in attesa che la sua donna fosse pronta per indossarli.

Dopo essere entrata nell'acqua tiepida, la Sforza vi si immerse fino alla punta della testa, ben attenta a far sì di detergersi al meglio, per evitare di portarsi appresso il morbo del demonio, come lo chiamava suo figlio Cesare.

Forse non sarebbe servito, ma a lei piaceva crederlo. Si lavò con attenzione usando gli olii e gli unguenti e poi uscì dalla tinozza e prese il telo che usava sempre per asciugarsi.

“Ti aspetto in camera nostra.” sussurrò a Giovanni, mentre l'uomo cominciava a spogliarsi per fare le stesse cose che aveva fatto lei.

L'uomo non le si avvicinò, per non vanificare gli effetti di quel bagno decontaminante, ma le promise: “Sarò da te in un lampo.”

Caterina, prima di ritirarsi, però, andò dai suoi figli più piccoli e si dedicò a loro per qualche tempo. In particolare a Bernardino, che stava soffrendo molto quel forzato isolamento e la lontananza dagli altri bambini della rocca e delle botteghe vicine alla rocca.

Quando finalmente tornò nella stanza che condivideva con il marito, trovò Giovanni steso a letto, che dormiva. Non si era sbagliata, quando l'aveva visto stanco.

Lentamente, approfittando del fatto che fuori stesse già cominciando a far buio, la Contessa si stese accanto a lui, le narici invase dall'odore pungente e al contempo rassicurante degli olii usati per il bagno, e lo seguì in fretta nel mondo dei sogni.

 
   
 
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