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Autore: istherelifeonmars    05/11/2017    1 recensioni
Travis, Eean, Constance, Francis e Thomas: annoiati eroi di una generazione che potrebbe avere tutto ma non vuole avere niente, volti senza nome in una Londra inondata da turisti e uomini con ventiquattrore. Cercano la poesia e la felicità nell'alcool, nella droga, nel sesso, nella musica degli anni in cui tutto si doveva ancora costruire e c'era ancora speranza per un futuro migliore; bazzicano per la capitale alla ricerca di se stessi - perché perdersi è facile, ritrovarsi lo è decisamente meno.
Smaniosi di crescere e trovare il loro posto nel mondo, si ritrovano però spaventati da un futuro che non li vuole più insieme.
O che, addirittura, non li vuole affatto.
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"Il problema è che non m’è rimasto proprio più niente, di questi vent’anni di vita, come se li avessi passati in una bolla fuori da questo formicaio che chiamano mondo. Uno potrebbe anche chiedersi quando tutto è iniziato ad andare a rotoli, quando le crepe sono diventati divari invalicabili, quando le chiacchiere sono diventate bugie.(...)
 Ci siamo tutti, ma di quelli che eravamo non c’è più nessuno."
AL MOMENTO SOSPESA
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Mi sono dimenticata di questa storia? No. Interessa a qualcuno? Probabilmente no. Potrei andare avanti con una serie di scuse quali lo studio et similia, davvero, ma la realtà è che non sono riuscita a scrivere piùdi una parola di questa storia in due mesi, nonostante questo capitolo e parte del prossimo fossero pronti. Ma a questa storia ci tengo e volevo continuare a pubblicarla, so here we are, con Cry Baby, perché ormai si sa, Constance è l'incarnazione della discografia della Joplin. 
 

 
Cry Baby


 
Londra, Settembre 2009

Passano i giorni e passano le settimane, passa questa vita che spendo a lavorare come commessa in un negozio di alimentari, passano anche Harvey e Len, che tanto lo sapevo, non avrebbero richiamato.
Il vuoto non passa mai, però.
Certe volte mi dico che non è solo un problema mio – non può esserlo, conosco troppe persone come me che cercano di riempire gli involucri vuoti che sono – ma che è qualcosa di generazionale: un’orda di giovani zombie che non sanno che farne della propria vita. I miei nonni hanno vissuto la fame e la guerra, i miei genitori i disordini degli anni Sessanta e Settanta, io me ne sto qui, invece, coricata sul parquet della sala prove, pensando che non ho niente per cui combattere. Travis dice sempre che per essere uno deve avere uno scopo, ma più passa il tempo più mi rendo conto che io non ce l’ho, non ho niente. A meno che rincorrere le persone per dimenticare se stessi non sia un obiettivo. Allora sì, allora ho tutto.
Guardo il riflesso del mio corpo sul vetro che abbiamo appiccicato al soffitto, mi guardo i fianchi stretti da ragazzino avvolti in una gonna troppo corta e i capelli a caschetto con tanto di ricrescita che formano una corona biondo platino. Mi fisso, scandagliando ogni minimo difetto: l’unica guerra che vivo è quella contro me stessa.
«Sei viva?»
Mi alzo di scatto, come colpita da una scarica elettrica, alzo lo sguardo verso Francis, che è entrato di soppiatto e ora mi guarda dall’alto, gli occhi chiari e inquisitori che mi fissano. Chissà quanti difetti sta vedendo.
Gli sorrido cordiale e in un attimo torno ad essere la Constance di sempre, scordandomi di divagazioni filosofiche troppo fini per una come me: «Se non lo fossi ti interesserebbe?» lo rimbecco ironica.
Lui alza le spalle, grattandosi il ponte del naso adunco come il becco di un corvo.
«Sarebbe un po’difficile suonare con un cadavere qui in mezzo, quindi sì.»
«E pensavo che un po’ di bene me lo volessi.» borbotto mettendomi in piedi e aggiustandomi i vestiti. Non so da dove sia uscita questa stronzata. E infatti lui non risponde e io ci rimango male e alle fine non dovrei – storia della mia vita. Mi da le spalle e posa la custodia della chitarra a terra.
Punto in meno per me.
«Comunque guarda.» riprendo, lanciandogli il volantino che ho trovato a Piccadilly e che ho portato fin qui. Francis lo ferma poco prima che cada e mi lancia un’occhiata seccata, ma io faccio finta di niente.
«Quindici gennaio duemila dieci» recita lui annoiato, gli occhi fissi sulla carta stampata «Roundhouse, Londra. È la vostra occasione per essere notati dalla casa Neon Signs Records nella seconda edizione del nostro concorso, quest’anno il primo premio vincerà la registrazione di un singolo presso la Neon Signs.» più va avanti a parlare più abbassa la voce e stringe gli occhi come se dovesse leggere qualcosa tra le righe.
«Dovremmo partecipare.» gli dico, alzando le spalle «Altrimenti non andremo mai più avanti e continueremo ad esibirci al Clover’s per il resto della nostra vita. È un’ottima occasione.»
Lo guardo di sottecchi, la realtà è che ho una paura fottuta di esibirmi così, in mezzo a tutte le persone che ci saranno – perché ce ne saranno, quella casa è famosa per un motivo. Lui continua a leggere, questa volta nella sua mente, e vedo gli occhi piccoli muoversi a una velocità inaudita. Alza lo sguardo, dice: dovremmo.
Comunque già sapevo che avrebbe detto sì, lui è una di quelle persone competitive, capace di dilaniarti con i canini aguzzi se gli intralci il passaggio: ha una teoria tutta sua a riguardo, un giorno me l’ha riassunta per sommi capi, ma è passato troppo tempo perché la possa ricordare.
Stringo i pugni, odio dimenticarmi certe cose.
«C’è bisogno di portare una demo.» mormora con voce nasale.
Ecco, questa cosa io me l’ero persa «Quella che abbiamo è troppo vecchia, eh?» rispondo, alzandomi per andare a vedere dove diavolo abbia letto questa cosa. Lui indica distrattamente le tre righe scritte in caratteri minuscoli al fondo del volantino.
«Fa’ conto che quando l’abbiamo registrata Thomas non c’era ancora.»
Be’, merda.
«Possiamo farne un’altra.» suggerisco – anche se so che non ci sia molto altro da fare «Ho ancora il numero di quel tecnico del suono, Mark. Ci conosce, magari ci fa uno sconto.»
Mark è uno dei tanti con cui cerco di tappare il vuoto. Le cose sono andate malissimo tra noi, contando che è sposato e ha due bambini, eppure mi piace pensare che vada ancora tutto bene, che possa chiamarlo da un momento all’altro.
Questo ovviamente Frank non lo sa. Non lo sa nessuno.
«Perché dovrebbe?»
Serro la mascella: quando mi mettono così sotto torchio finisco solo per alterarmi. «Non sono affari tuoi, io lo conosco, tu no.»
Lo vedo che vorrebbe replicare, vedo anche quella specie di fulmine nei suoi occhi, come se d’un tratto avesse capito tutto, lo vedo rabbuiarsi e prego davvero che non risponda perché sono stanca, troppo stanca per poter discutere di nuovo con lui.
E poi la porta si apre, e poi entra Trav sorridente, i capelli neri bagnati da questa pioggia inglese che gli sono rimasti appiccicati alla fronte. Si toglie in fretta la giacca di jeans fradicia e la posa sull’unico termosifone che abbiamo.
«Com’è?» chiede.
C’è questo momento di tensione in cui Frank continua a fissarmi con lo sguardo affilato, e sento davvero che vorrebbe continuare a parlare, ma cerco di ignorarlo e mi avvicino a Trav, cercando di cambiare discorso.
«Ho visto che faranno un concorso, a gennaio. Dev’essere interessante. Dagli il volantino, Francis.»

Quando abbiamo finito di suonare i ragazzi cercano di spostare la batteria in un angolo, in modo che ci sia più posto per sederci in cerchio nel centro della stanza. Siamo una stella a cinque punte il cui centro è formato da un posacenere di ceramica che Liz ha regalato a Travis l’anno scorso – l’ho aiutata a dipingere i fiori celesti, quello lo ricordo perfettamente – al suo interno due cicche già spente.
A parte Eean, che sta suonando un motivetto con il basso, tutti gli occhi sono fissi su di me. Mi piace quand’è così: mi piace avere l’attenzione degli altri. È una forma di potere sottovalutata, questa: in qualsiasi momento potrei dire qualcosa, anche la più minuscola, e rimarrebbe impressa nel cervello dei ragazzi per sempre. Io rimarrei impressa nel cervello dei ragazzi per sempre.
«Insomma,» riassumo con studiata noncuranza «vale la pena pagare qualche soldo per quella demo. Anche perché se non ne presentiamo una non ci fanno entrare per niente, è il regolamento.»
«Un pomeriggio in uno studio qualsiasi costa un sacco, però, Connie.» obietta Thomas. Ha le sopracciglia corrugate perché lui, tra tutti, è quello messo peggio – anche se non lo dice mai sappiamo tutti che una famiglia di immigrati con cinque figli non se la può passare tanto bene.
«Ho detto che ci farebbero uno sconto.» riprendo, per l’ennesima volta «Conosco il tecnico del suono, è un amico.»
«Be’,» interviene Eean, finendo bruscamente di suonare «a me non sembra una cosa stupida. Sono soldi ben investiti.»
«Ha parlato l’economista!» lo riprende Travis divertito. Scoppiano a ridere. Eean e Travis insieme sono due bambini, non puoi fare nemmeno un discorso serio; sospiro, rendendomi conto che il centro dell’attenzione non sono più io. Però sorrido, almeno un po’.
«Io direi che innanzitutto mettiamo i soldi che abbiamo fatto al Clover’s due settimane fa.» fa Trav quando smette di ridere, ha ancora gli occhi lucidi e si vede che fa fatica a non scoppiare «E il resto lo dividiamo tra noi. E poi tu lo conosci questo che ci fa fare lo sconto, no, Connie?»
Annuisco.
«Gli vado a parlare oggi.» rispondo.
La discussione finisce lì e passiamo la restante mezz’ora a parlare di tutto e di niente, di Andy, che a quanto pare è rosso come lo zenzero e forte come un qualche supereroe di cui non so il nome. Poi il telefono di Tommy suona, lui si allontana un attimo e quando torna dice che è urgente e deve scappare, la magia si rompe e uno a uno ce ne andiamo via tutti, ognuno per la propria strada. Quando sono andata via ho fatto finta di incamminarmi verso la metropolitana, ma quando mi sono accertata che tutti gli altri se ne fossero andati sono tornata indietro, nell’edificio dove facciamo le prove. È abbastanza disgustoso, con le sue pareti scrostate e gli scarafaggi che si annidano sotto le piastrelle saltate, ma non sapevo dove altro andare.
E ora che sono qui, seduta sulle scale dell’atrio umido, l’unica cosa che riesco a fare è giocherellare assente con il vecchio cellulare che ho in mano.
Mark s’incazzerà sicuramente. Penso. Penso anche che se abbiamo smesso di vederci c’era un motivo, penso che ora potrebbe odiarmi. Però è anche vero che se mi ha cercato – perché l’ha fatto – voleva dire che c’era qualcosa che non andava. In lui, in sua moglie, cosa ne so, della sua vita privata non mi ha mai detto nulla.
Male che vada non mi risponde.
Compongo il numero.
Male che vada mi risponde e mi manda affanculo.
Il telefono squilla.
Male che vada mi dice che gli faccio schifo e che sono opportunista.
«Pronto?»
Ha quest’accento cockney davvero marcatissimo, e persino io fatico a capire che cosa stia dicendo otto volte su dieci. Ha la voce bassa, rauca come quella di un vecchio fumatore, quando è nervoso gli si alza di un’ottava, quando è felice è ancora più profonda del solito. Qualche volta pizzica le erre.
Ci scommetto tutto che di queste cose sua moglie nemmeno se ne accorge – io sì – però lui ha comunque scelto lei.
«Hey, sono Constance, la ragazza—» che ti scopavi qualche mese fa «sì, insomma. Quella del gruppo, ti ricordi?»
Lo sento gelare dall’altra parte della linea, poi qualche rumore, quando riprende a parlare il suo è un solo bisbiglio: «Perché mi hai chiamato, non ti avevo detto che—»
«Sì, scusa, è che avrei bisogno di un favore.» mi mordo il labbro, lo sento esitare: lo mordo ancora più forte finché non sento un sapore ferreo nella bocca.
«Ti ho detto che avevamo chiuso.»
«Ho bisogno di un favore.» insisto «O di un consiglio, io non me ne intendo di queste cose, tu invece sì.» 
Fargli complimenti così sembra funzionare, perché dopo un sospiro abbassa ancora di più la voce: «Cosa c’è?»
Sorrido appena un poco, mentre guardo le piastrelle di finto marmo sotto i miei piedi e vi traccio col dito motivi geometrici: «Io e i miei vorremmo registrare una demo. Giusto un paio di canzoni. Avremmo solo bisogno di uno sconto, sai, e non sapevamo a chi rivolgerci.» 
«Constance. Ti ho detto che avevamo chiuso.»
Stronzo, penso, certo che lo sapevo. È che ne ho bisogno – ne abbiamo tutti bisogno. Vorrei colpire il muro, ma sto zitta e cerco di portare avanti la conversazione con un tono rilassato, quasi da bambina.
«L’ultima volta.»
Sbuffa: si sta incazzando. Mi appoggio al muro e torno a mordermi il labbro anche se questa volta la ferita aperta fa più male.
«Cosa ne ricavo, io? Vi faccio cinquanta di sterline di sconto in cambio di una scopata? Con te?» lui continua a parlare, ma io ho già smesso di ascoltarlo. Chiudo gli occhi e sento il battito del cuore che accelera, accelera, accelera, e sento un singhiozzo salirmi dal petto. Non so nemmeno perché me la sto prendendo così tanto.
Come se non ti fosse piaciuto. Con quella merda della tua Nancy ti divertirai tantissimo, immagino, mentre i tuoi figli piangono nella stanza accanto. Li hai cambiati, Mark? Hanno fatto un brutto sogno? Dovresti essere grato che io ti stia chiedendo una cosa del genere, figlio di puttana.
Non dovrei reagire così, dovrei essere accomodante.
«Farò tutto quello che vuoi, ti prego.»
Devo vomitare.
Esita, sto appesa a questo dannato filo per cinque, dieci secondi che a me sembrano anni, poi la sua vita monotona e triste prende il sopravvento, dice sì: dice. Dice: vediamoci questa sera davanti al Clover’s, vedrò cosa posso fare.
«Grazie mille, Mark.»
Lui non risponde, chiude la comunicazione e io rimetto il telefono nella borsa con le mani che tremano. Solo ora mi accorgo che sto piangendo.

L’incontro è una sterile trattativa sullo sconto che ci può fare – circa settanta sterline, come aveva già detto – e su quando lo faremo. Ci siamo accordati per il prossimo mese, spero che agli altri vada bene – non che abbiano qualcosa da fare comunque, se non girovagare per la città. Poi mi ha portato in auto e abbiamo concluso la seconda parte dell’accordo. I sedili della sua Chevy erano così piccoli e scomodi che credo avrò mal di schiena per i prossimi due o tre giorni. Però lui era lì: mi voleva, aveva bisogno di me. Non di sua moglie, Nancy, di me.
Il sesso è una forma di potere più potente ancora dell’attenzione, forse è la più potente di tutte. I ruoli si sono capovolti: non ero più io quella a chiedere un favore a lui, ma viceversa, era lui a pregare di avere me ancora una volta.
Io sono per gli uomini la droga più potente.
Il loro amore sarebbe la mia, ma quello non lo ricevo mai.
Quando finiamo mi guarda di sottecchi mentre mi rimetto comoda sul sedile passeggero e infilo le scarpe che avevo lasciato da qualche parte sotto di esso.
«Tutto bene?»
«Sì.»
«Allora il prossimo mese ci vediamo allo studio.»
«Sì.»
«Potremmo vederci prima.» azzarda lui «Mi sei mancata.»
Sento un’ondata di vomito salirmi dallo stomaco e devo aspettare prima di rispondergli. La realtà è che non lo so più, se me lo avesse chiesto prima gli avrei detto subito di sì, ma con quello che ho fatto ora non credo di sapere cosa fare. Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per i miei amici, per il nostro futuro, sì, ma mi sento di merda comunque.
Dovrei dirgli di no. Tanto ormai l’appuntamento per la registrazione ce l’abbiamo.
Eppure è stato così gentile, mi ha detto che gli sono mancata, almeno un po’ mi vuole bene. E anche lui mi manca, mi manca stare con qualcuno.
Mi torturo le mani: «Sì. Tanto io non ho niente da fare. Quando vuoi.»
«La prossima volta possiamo andare in un ristorante, ne conosco uno carino a Soho.»
E chi l’avrebbe detto che gli ci sarebbe voluto così poco per riprendere a tradire.
«Sembra carino.» rispondo, e questa volta cerco di essere un po’ più calorosa.
«Perfetto.» lui sorride, è soddisfatto di sé stesso. Io non so se esserlo di me, in realtà mi vergogno solo, a questo punto. «Ti riaccompagno a casa?»
«Sì, grazie mille.»
Come una prostituta, Mark mi lascia qualche centinaia di metri prima di casa mia. Facevamo così anche prima, più che altro perché qualcuno a casa potrebbe preoccuparsi – chi era quell’uomo che ti ha riaccompagnato qua, Connie? –. 
È buio quando esco dall’auto e poso i piedi sull’asfalto umido della strada, la via è illuminata irregolarmente dalla luce arancione dei lampione, non ci sono stelle, dalla maggior parte delle finestre delle altre case non esce nemmeno una luce. Nessun rumore, se non il ronzio indistinto dei televisori. Londra è morta, da questa prospettiva. Saluto Mark dal finestrino e mi incammino per casa mia cercando di non pensare a quanto sia stato stupido quello che ho fatto – non avrei dovuto. Allungo il passo, vorrei solo addormentarmi nel mio letto e smettere, per un momento, di questionare le mie azioni: vorrei essere nel giusto, una volta tanto.
Passo di fronte alla villetta di Eean, che per la cronaca è una delle poche a sembrare viva, ma tanto so che lui non c’è: questo pomeriggio se n’è andato con Trav, è probabile che siano ancora insieme adesso, coricati al freddo sul balcone di casa sua – di Trav, intendo – a guardare il cielo e a parlare di cose che io non capirò mai. 
Attraverso l’ultima zona illuminata dai lampioni, i prossimi tre non funzionano affatto da due settimane e non è ancora arrivato nessuno a ripararli. La cosa non va a mio favore perché un piede mi finisce direttamente in una pozzanghera e vorrei dire fanculo, vorrei dire; ma so che non è appropriato.
Anche se non c’è nessuno ad ascoltarmi.
È interessante, faccio – o non faccio – certe cose per un qualcuno che non esiste, mi immagino come sarebbe se un esterno mi vedesse e allora in qualche modo mi censuro. Nemmeno la solitudine è più mia.
Intanto però fanculo non lo dico, lo penso solo. Una, due, tre volte, giusto per poter scaricare lontano tutto quello che è successo oggi. Poi mi metto a cantare sottovoce, senza metterci nemmeno impegno, strascico le vocali e dondolo le braccia avanti e indietro, come quando ero piccola.
«Cry baby, cry baby, cry baby. Honey, welcome back home. I know she told you, I know she told you that she loved you much more than I did.»
Alzo la voce sempre di più e nonostante sappia di farlo, non riesco a smettere.
Cantare così stupidamente è l’unica cosa che mi prevenga dall’urlare in questo momento.
Te lo ricordi, Harvey? Te lo ricordi come ti ha guardato prima di andarsene? Che puttana.
E te lo ricordi lo sguardo di compassione di Evan quando ti ha trovato su quel cesso? Non siete amici, gli fai solo pena.
E Len? Oh, lui non te lo ricordi. Come faresti, in mezzo a tutti gli altri?
«Constance
È una voce ben conosciuta a strapparmi da questo stato di autocommiserazione. Nel mezzo della strada, al buio completo, mi volto verso la veranda dei Doyle, quella dove so che è seduto Francis. Non posso esserne certa per il buio, ma la voce era sua. Me ne sto ferma e immagino che lui mi stia guardando in questo momento, mi mordo il labbro. Come oggi, sento l’elettricità della tensione scorrermi sulle punte delle dita, soltanto che oggi non spunterà Travis a salvarmi il culo.
Dio se non voglio che mi veda così. Mi volto, continuo a camminare, accelero il passo e lo sento che mi chiama una seconda volta: «Connie?» dice ancora.
Non ho idea di che cosa voglia o dell’esatto motivo per cui mi ha chiamato, ma non voglio dover reggere anche lui in questo momento, così quando svolto verso sinistra, per casa mia, son ben contenta di lasciarmelo alle spalle.
Domani quest’incontro mi sembrerà solo un brutto sogno.

 

Londra, il giorno seguente,  Settembre 2009
 
Quello che sta succedendo oggi non è un brutto sogno.
Lo sto vivendo davvero, penso, mentre guardo il livido che via via si sta formando.





 

   
 
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