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Autore: Nemamiah    07/11/2017    2 recensioni
Dal testo:
Verity sorrise e rispose: ‹‹Io invece credo che ci sia sempre un motivo per il modo in cui si sceglie di agire, indipendentemente dall’essere buoni o cattivi.››
‹‹È un altro modo di vedere la vita, ma penso porti alla sofferenza. Chiunque può tradirti, fingere di essere in un modo e rivelarsi l’opposto. È necessario classificare le persone e scegliere chi non far avvicinare per essere felici.››
‹‹Anche la sofferenza può condurre alla felicità, non è sempre negativa.››
[...]
‹‹Forse è solo questione di scegliere quale rischio correre quando si conosce qualcuno, se tenerlo lontano dal tuo cuore o donarglielo anche se potrebbe distruggerlo, sapendo che significa concedergli la tua fiducia, saltare nel vuoto e sperare che ti prenda prima che tocchi il suolo.››
‹‹Un po’ come l’amore.››
‹‹No. L’amore è saltare nel vuoto e sapere che non toccherai il suolo perché qualcuno ti prenderà prima.››
[...]
‹‹Il problema è questo: fare la cosa giusta non è sinonimo di rendere tutti felici.››
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Sovrannaturale
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nero come il bianco - Raccolta'
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Capitolo 3
   Per qualche tempo trascorse le mattine a scuola e i pomeriggi nel parco cittadino pur di non rimanere troppo tempo a casa in compagnia di sua madre. Certo, là avrebbe potuto incontrare suo nonno e forse una sera avrebbe anche rivisto suo padre, che sembrava essersi chiuso nel suo laboratorio, ma alla fine non le dispiaceva rimanere all’aria aperta e tra la gente. Il pomeriggio della festa lo trascorse da Dakota.
La casa della ragazza si trovava vicino alla scuola, nella parte antica della città, ed era l’opposto della villa di Verity: alla larghezza e ai grandi spazi, si sostituivano infatti stanze dai soffitti alti ma molto strette e scale a chiocciola ripidissime che salivano in due angoli dell’abitazione, incastrata tra due palazzi molto più grandi. Lì ogni oggetto sembrava avere una specifica collocazione, ogni stanza sembrava che potesse solo trovarsi lì e non in un altro punto: due per il primo piano e tre per il secondo più una cantina oscura e un giardinetto minuscolo con una vecchia altalena cigolante. Le due scale a chiocciola erano disseminate di souvenir e ricordi portati dal padre di Dakota durante i suoi viaggi della sua giovinezza, i gradini erano incisi con frasi e discorsi tratti dai molti libri letti da entrambi.
   Quella casa era stata comprata con i risparmi dei nonni dai genitori di Dakota, subito dopo il matrimonio, quando erano ancora troppo innamorati per capire che un luogo simile sarebbe stato pericoloso per una bambina. Erald ed Emily si erano sposati giovanissimi, appena ventenni, ma erano bastati pochi anni di vita insieme perché nascessero le prime difficoltà: avevano due idee di vita diverse, che collidevano e si scontravano in ogni decisione da prendere, e l’incapacità di scegliere insieme, di ascoltarsi, si era riflessa sulla piccola che aveva imparato a convivere con se stessa e a cavarsela per quanto riuscisse. Con il tempo la situazione era peggiorata e la bambina li aveva visti spesso litigare nella cucina, nascosta sull’ultimo gradino della scala a chiocciola della stanza a fianco. La volta che avevano combattuto con la magia si era intromessa, spaventata da quei lampi di luce che diventavano sempre più brillanti e continui. Si era procurata una ferita grave alla spalla, ustionata dal vapore incandescente che la madre aveva creato, e non era mai guarita completamente. La pelle era ancora increspata come un’onda e nessuna magia dei medici era riuscita a distenderla.
   Eppure Dakota era cresciuta allegra, forte ed eccentrica. I vicini la vedevano sempre passeggiare per le vie del centro con gli abiti di Erald mentre mangiava enormi coni gelato o si fermava su un marciapiede mentre una penna le scriveva i compiti che avrebbe dovuto fare di suo pugno; quando tornava a casa, guardava le facce stanche dei genitori e si prometteva che sua figlia non l’avrebbe mai sentita urlare, lanciare fatture volanti o male parole al marito che un giorno avrebbe avuto.
   Quando, durante il terzo anno di istituto, si era nascosta nella stanza di Verity per due mesi interi, i genitori avevano deciso che non potevano andare avanti a litigare ogni volta che si rivolgevano uno sguardo e si erano separati definitivamente: lei si era trasferita in un'altra città, mentre Erald, dopo molti fallimenti, aveva convinto la figlia a tornare a vivere con lui.
   ‹‹Papà, siamo a casa!››
   Non rispose nessuno e così le due amiche salirono subito nella stanza di Dakota.
   ‹‹Ma dov’è tuo padre?››
   ‹‹Adesso in è in atelier, ma lo saluto ugualmente perché ha fatto una magia speciale e mi sente quando lo faccio. Sta lavorando su degli abiti cuciti interamente a mano e su alcuni modelli fatti di sola magia per una stilista. Dovrebbe guadagnare molti soldi questa volta: forse così riusciamo a pagare per intero il carico di stoffe che deve arrivare a giorni…››
   Dakota sospirò: ‹‹Non credo che riusciremo mai ad essere in ordine con i conti in quel posto, ma va bene, è anche questo che lo rende meraviglioso così com’è›› sorrise e fece sedere Verity sulla sedia di fronte allo specchio. Le raccolse i capelli in una treccia complicata, fermando le ciocche con delle perline bianche e creando due rose dietro la testa, facendo scendere la lunghezza sulla spalla destra. Si scambiarono i ruoli e, con l’aiuto di Verity che le divideva le ciocche, trasformò i suoi capelli lisci in boccoli color del pane, lasciandoli sciolti sulla schiena.
   Quando Erald, tornato dal lavoro, entrò nella stanza, bussando appena, scoppiò a ridere per la scena: sua figlia stava pregando l’amica di uscire dal bagno e farsi vedere.
   ‹‹Lascia perdere, angelo mio, la vedrò quando vi accompagnerò.››
   Dakota grugnì una specie di “va bene, papà” e lo lasciò andare via mentre anche lei si vestiva. Continuò a parlottare a bassa voce, commentando la timidezza dell’amica con parole poco amichevoli e spronandola a farsi ammirare durante la serata perché nessuna avrebbe potuto confrontarsi con lei, non quella volta. Mentre erano sulla macchina volante, Dakota sussurrò a Verity che il suo ragazzo si sarebbe imbucato alla festa e che glielo avrebbe fatto conoscere. La ragazza sospirò poco entusiasta, ricordando che l’ultima presentazione a cui aveva partecipato era stata un fiasco, varcò il portone della Sala della Rivoluzione, sperando che tutto filasse liscio per l’intera serata.
   La Sala della Rivoluzione era una delle stanze del piano nobile dell’istituto scolastico, l’unica in grado di accogliere insieme tutti gli studenti dei dieci anni di corso. Per l’occasione era stata decorata con fiori di ogni forma e colore, ma in particolare rose, basandosi sulla leggenda per cui il nobile che ne aveva commissionato la creazione, avesse cosparso il pavimento di petali di rosa una volta venuto a conoscenza della Presa della Bastiglia. Con il passare del tempo la tradizione era cambiata e quella data non rappresentava più il simbolo di una delle più grandi imprese rivoluzionarie della storia, era diventata solo un giorno di festa per la scuola. L’unica particolarità era che i ragazzi regalavano alle ragazze una rosa in base al significato o, se non lo conoscevano, a quale colore si abbinasse meglio al vestito per invitarle a trascorrere la serata con loro. Le più viste erano rose rosse, bianche o gialle, ma alcuni audaci donavano quelle blu o nere. Era un’usanza che Verity aveva sempre apprezzato, anche se non aveva mai ricevuto un fiore in nessuna delle feste. Sorpassarono un gruppo di ragazzi che cercavano di scegliere a chi donare il fiore che tenevano in mano e si fermarono in un angolo, proprio sotto al piano dell’orchestra che si stava preparando per suonare. Accennò le prime note di una melodia dolce e le due si spostarono, pensando di fare un giro: partirono dal colonnato a destra dell’ingresso e passarono di fronte a diverse salette dove ci si poteva sedere e rilassare sui divanetti o sulle poltroncine. Sotto le volte c’erano tavoli colmi di cibi e bevande provenienti da ogni parte del mondo: quattro erano dedicati solo ai dolci ed altrettanti alle bevande, alcoliche e non; i restanti erano per i piatti salati comuni e particolari come la parte indiana, africana e orientale. Le quantità esorbitanti sarebbero bastate per un esercito molto più numeroso della popolazione dell’istituto e l’avrebbero sfamato per almeno un mese, garantendo un pasto completo due volte al giorno, ma il bello della festa era anche quello, sapere di poter mangiare tutto quello che si voleva senza limiti. Passarono così un po’ di tempo e mentre Dakota sgranocchiava dei crackers in uno dei salottini, lei guardava le facce di tutti in cerca del suo “forse ma quasi si”: era certa che sarebbe riuscita a riconoscerlo anche nella calca, ma sembrava proprio sbagliarsi. Michelle si avvicinò a loro con le ragazze del suo seguito.
   ‹‹Guarda un po’ chi si è imbucato alla nostra festa. Cosa fai qui, senza-poteri?››
   ‹‹Mi godo quello a cui sono stata invitata.››
   ‹‹Accidenti allora temo di non poterti proprio dire nulla…››
   Voltandosi colpì con il gomito il bicchiere di aranciata che Verity teneva in mano e lo rovesciò sul vestito; in quel momento la rossa vide anche il ragazzo che cercava avvicinarsi.
   ‹‹Non posso ballare così, puoi provare a… No, vai a goderti il tuo cavaliere imbucato, io andrò in bagno.››
   Spinse piano Dakota sulla schiena incitandola ad andare, mentre questa inveiva contro Michelle promettendo una vendetta lunga e dolorosa. Allora la prese per mano e la portò al centro della sala, vicino ad alcune sue ex-compagne di classe che le erano simpatiche e poi tornò indietro, prendendo anche un pezzetto di torta di zucca. Si assicurò una buona visuale fermandosi nel lato opposto. Riusciva a vedere in tutta la stanza il turbinio delle gonne e del tulle, dei nastrini e dei fiocchi; sentiva i tacchi picchiettare sul pavimento e respirava un piacevole profumo di lavanda proveniente da dietro le sue spalle. Le coppie appena formatesi, o già consolidate, si abbracciavano o dondolavano fingendo di ballare. Guardò il suo vestito macchiato: non era possibile che quella ragazza fosse tanto infantile da doverle versare addosso del succo per rovinarle la festa, il solo fatto che nessuno la invitasse a ballare era di per sé una disfatta di cui Michelle avrebbe dovuto essere felice…
   ‹‹Hai intenzione di piangere per una macchia di aranciata?››
   Il ragazzo della quercia le tolse il piattino di mano, lasciandolo al primo passante, e fece scomparire la macchia con una piccola magia. Poi la portò in mezzo alla sala, vicino a una delle finestre, proprio nel momento in cui l’orchestra iniziava a suonare la musica di un lento. Le cinse la vita e lei portò le braccia intorno al suo collo, fissandolo negli occhi: erano stranamente viola, molto calmi ma animati da qualcosa che oscillava tra la rabbia contenuta e il rancore nascosto. Mai aveva visto simili occhi e continuò a specchiarvisi per l’intera danza, ipnotizzata dal loro magnetismo. Volteggiò tra le sue braccia e non si rese conto che la stesse portando fuori fino a che non sentì l’aria fredda sulle braccia.
   ‹‹Oggi è il tuo compleanno vero?››
   ‹‹Nessuno lo sa, in tutta la scuola.››
   ‹‹Uccellino… Verity.››
   ‹‹Come… Suppongo un uccelletto anche in questo caso, vero?››
   Lo vide sorridere e sentì la musica all’interno giungere al termine e gli studenti applaudire all’orchestra. Molti uscirono sul balcone, ma non in quello dove si trovavano loro due.
   ‹‹Sarebbe bello sapere il tuo nome adesso.››
   Poggiò i gomiti sul parapetto, cercando di distinguere qualche costellazione in cielo; lui sembrò esitare ma alla fine rispose lo stesso.
   ‹‹Scar.››
   ‹‹Significa “cicatrice”, sai? Ho sempre pensato che i nomi che abbiamo debbano rispecchiare una nostra caratteristica… Quindi qual è la tua cicatrice?››
   Si sporse leggermente con le mani e guardò il parco: era immenso e illuminato quasi a giorno, probabilmente lo avrebbe visto anche dalla terrazza. I vialetti pavimentati avevano lampioni da entrambi i lati e nascoste tra le piante c’erano molte luci. Sfortunatamente tutta quella luminosità impediva di vedere bene le stelle, eppure guardava avida, sperando di ritrovare quella scia che tanto l’aveva impressionata. Non sapeva cosa fosse, né se ne era fatta un’idea, ma desiderava rivederla. Un lacrima tonda le sfuggì dalle ciglia e rotolò dalla guancia, cadendo sul marmo.
   Era di tristezza o di commozione? La domanda nasceva spontanea in Scar: quali pensieri si aggiravano sotto quella chioma rossa finemente acconciata? Negli occhi verdi si erano susseguiti sorpresa, ammirazione, speranza, desiderio e poi quella lacrima. Quante emozioni poteva provare un umano tanto minuto quanto lei? Tante… E in fondo ne aveva causate altrettante.
   La vide rabbrividire e le posò la sua giacca sulle spalle. Aveva visto altri ragazzi farlo, poteva essere una buona idea.
   ‹‹Rischi di ammalarti se stai fuori al freddo.››
   ‹‹Forse, ma mi piace stare all’aperto, molto di più che rimanere dentro.››
   ‹‹Allora ho un dono per te… Sono i fiori preferiti di mio fratello, non sapevo quali scegliere.››
   Scar fece apparire dal nulla, nel palmo di una mano, una rosa appena sbocciata e senza spine, ancora con i petali setosi. La pose nella treccia, in modo che spuntasse alla base del collo e fosse bene visibile. Verity la sfiorò con le dita, cercando di capire solo grazie al tatto di che colore fosse.
   ‹‹È nera, come la notte.››
   ‹‹Significa “bellezza inconsapevole” … È la mia preferita, anche se non è così adatta a me.››
   ‹‹Forse non te ne rendi conto, ma sei molto bella.››
   C’era qualcosa nello sguardo di Scar, qualcosa che in quel momento sembrava tutto tranne che umano e Verity ne ebbe timore. Nessuno era su quella terrazza e non seppe decidere abbastanza in fretta se fosse il caso di chiedergli di rientrare che Scar sussurrò: ‹‹Ci sono così tante cose che dovresti sapere…››
   Lo vide volgersi completamente verso il parapetto, a fissare il cielo. Trascorse molto tempo, ma Scar non diede segno di volersi girare e il silenzio si fece sempre più pesante e meno confortevole. Si stava trasformando in quel tipo di silenzio in cui saresti disposto a donare una parte del tuo corpo pur di trovare una frase qualsiasi da dire per iniziare una conversazione, ma invece rimani a fissare l’interlocutore, sperando che sia lui a cominciare. Verity stava per parlare quando all’improvviso il cicaleccio delle cicale si fermò e il vento leggero smise di spirare e accarezzarle il viso. Non si sarebbe preoccupata se non si fossero interrotte anche la musica e le risate dei ragazzi: era come se una bolla insonorizzata li avesse avvolti, isolandoli da tutti.
   ‹‹Scar… Cosa sta succedendo?››
   Lo scosse per una spalla, aspettando una risposta che capì non sarebbe mai arrivata ed ebbe paura. Temette che stesse male o che avesse magari qualche problema a controllare la sua magia, anche se sarebbe stato strano, ma dopo pochi secondi tutto svanì e Scar si voltò verso di lei.
   ‹‹È freddo qua… Potremmo rientrare, che ne dici?››
   Verity lo guardò incerta, la fronte appena imperlata di sudore, le sarebbe piaciuto tornare dentro, magari ballare un’altra volta, ma poteva fidarsi? Era uno strano ragazzo, scostante: prima dolce, poi freddo e indifferente, poi ancora gentile… Non c’erano spiegazioni razionali per un comportamento del genere, a meno che non fosse bipolare, ma nemmeno magiche: chi perdeva il controllo distruggeva tutto quello che gli capitasse sotto mano; chi soffriva di disturbi da personalità provocava terremoti o temporali, o influenzava l’umore delle persone con effluvi di pura magia. Accettò la proposta per non insospettirlo e continuò a controllare tutte le nozioni che aveva imparato, cercando una risposta. Alla fine però smise di pensare, lasciandosi guidare in una danza che la distolse da tutti i suoi pensieri. Finita, Scar se ne andò, senza salutarla. Verity rimase seduta per un po’ in uno dei salottini e quando fu stufa uscì nel cortile, sedendosi su una delle panchine. Osservava la natura illuminata dalle luci: era bella, con il suo contrasto tra verdi di varie tonalità e neri e grigi. Era quasi completamente assorta, ma intravide con la coda dell’occhio due ombre che le si avvicinavano lente.
   ‹‹Verity, ti ho trovata! Non vedendoti dentro mi sono preoccupata un sacco! Lui è il mio cavaliere.››
   Al suo fianco c’era una ragazzo altissimo con i capelli lunghi e biondi, raccolti in una coda. Le strinse la mano e lei gli rivolse un sorriso imbarazzato.
   ‹‹Sono Liam! Dakota mi parla spesso di te… È un piacere conoscerti!››
   Dakota sorrise e poi lo spinse via, dicendogli che la serata era terminata e che dovevano tutti andare a casa. Rimase poi con Verity a guardare il giardino per un po’, camminando sui sentieri tra le piante e, alla fine, andarono via davvero dalla festa.
   Trascorsero il resto della notte a ridere e scherzare insieme, raccontandosi le reciproche serate, arrossendo e imbarazzandosi spesso. Verity non disse nulla delle stranezze di Scar, né tantomeno era così certa di quella che aveva visto: se fosse stato solo una sua allucinazione o un’illusione? Era davvero stato reale? Non voleva pensarci in quel momento e scelse di tenere per se stessa ogni pensiero sull’accaduto.



   Angolo dell’autrice:

   Bene, terza settimana e terzo capitolo. È un po’ triste non ricevere nessun parere su questa storia, ma ringrazio le persone che hanno letto i precedenti capitoli e che leggeranno questo. Spero che vi venga voglia di farmi sapere cosa ne pensate!
   Un saluto a tutti quanti e grazie per aver letto!





   
 
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