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Autore: BabaYagaIsBack    07/11/2017    1 recensioni
Re Salomone: colto, magnanimo, bello, curioso, umano.
Alchimista.
In una fredda notte, in quella che ora chiameremmo Gerusalemme, stringe tra le braccia il corpo di Levi, come se fosse il tesoro più grande che potesse mai avere. Lo stringe e giura che non lascerà alla morte, il privilegio di portarsi via l'unico e vero amico che ha. Chiama a raccolta il coraggio e tutto ciò che ha imparato sulle leggi che governano quel mondo sporcato dal sangue ed una sorta di magia e, per la prima volta, riporta in vita un uomo. Il primo di sette. Il primo tra le chimere.
Muovendosi lungo la linea del tempo, Salomone diventa padrone di quell'arte, abbandona un corpo per infilarsi in un altro e restare vivo, in eterno. E continuare a proteggere le sue fedeli creature; finchè un giorno, una delle sue morti, sembra essere l'ultima. Le chimere restano sole in un mondo di ombre che dà loro la caccia e tutto quello che possono fare, è fingersi umani, ancora. Ma se Salomone non fosse realmente morto?
Genere: Avventura, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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capitolo quattordicesimo

Ti ho visto morire

 

  "All my tears won't drown my pain,
Free me from your sorrow, 
I can't grieve you again.
I watched you let yourself die,
Now it's too late to save you this time."

- Bury me Alive, We are the fallen 

 

Non avrebbe saputo affermare con certezza per quale ragione il suo corpo si fosse mosso, a dire il vero lo aveva fatto a dispetto della volontà, e così ogni passo si era fatto più veloce, ogni falcata più ampia. Senza nemmeno rendersene conto si era scoperto a correre a perdifiato per i corridoi dell'ateneo, il cuore a mille e una soffocante preoccupazione a schiacciargli il petto.
Aveva abbandonato ogni cosa per colpa di quel tizio, del suo viso, delle parole che aveva pronunciato con un'inspiegabile naturalezza, quasi fosse certo che l'avrebbe compreso - e in effetti era successo veramente. Quello sconosciuto lo aveva chiamato akh, fratello, e Noah non riusciva a capacitarsi di come la sua mente avesse tradotto quelle tre lettere, men che meno di come una parte di lui fosse certa di essere stata appellata in quel modo decine di centinaia di volte prima. Un senso d'inspiegabile appartenenza lo aveva travolto, spingendolo a rinunciare a tutti i programmi della giornata perché l'unica cosa davvero importante, d'improvviso, era diventata quel ragazzo. 

Ma per quale motivo? Chi era in realtà?  
Se lo era domandato dall'istante esatto in cui i suoi piedi avevano iniziato a muoversi e nei pochi minuti impiegati per raggiungerlo non aveva fatto altro che ripetersi quelle domande sperando di trovare una risposta e, ora, al suo cospetto, si accorse di non saper più cosa dire.
La gola gli si era inaspettatamente seccata e la lingua aveva deciso di incollarsi al palato impedendogli di pronunciare anche solo una sillaba - era pietrificato, eppure riusciva a percepire dentro di sé una moltitudine indefinita di sensazioni che si agitava senza sosta.
C'era paura, ma anche nostalgia; avvertiva la gioia e persino l'eccitazione e doveva capirne il motivo a qualsiasi costo. Non si trattava di semplice curiosità, il suo era un bisogno viscerale, una necessità d'importanza vitale - quindi si costrinse a stringere i pugni e ripetere la domanda.

«Chi sei?» 

Il cuore prese a battergli sempre più forte. Noah lo percepiva palpitare prepotentemente sotto alla maglia e alla carne e per un istante credette essere sul punto d'esplodere. Avrebbe voluto afferrarsi lo sterno per provare a calmarlo, eppure ogni azione in quel momento gli sembrò impossibile: tutto ciò che riuscì a fare fu spostare gli occhi dall'energumeno con i dreadlock a colui che aveva inseguito.
Erano finalmente uno di fronte all'altro e a separarli non c'erano più di una manciata di metri. A quella distanza poteva vedere tutto di lui, dalla postura al modo in cui i capelli gli incorniciavano il viso, dalla montatura degli occhiali sino alla cicatrice che gli solcava in orizzontale lo zigomo destro. Ad ogni secondo la figura dello sconosciuto parve diventare più familiare, rassicurante - eppure nella testa del ragazzo quell'individuo continuava a non avere un nome, anche se sentiva di averlo sulla punta della lingua.

Il tizio tese un sorriso, un ghigno a dire il vero, e infilandosi le mani nelle tasche dei jeans gli chiese: «Chi credi io sia?» 

Se non fosse apparsa come la più ridicola delle risposte, Noah avrebbe detto "un fantasma". In quel frangente non trovò altre parole con cui descriverlo, dopotutto lo aveva visto morto tra le proprie braccia in una moltitudine di allucinazioni; e se all'inizio erano stati solo piccoli frammenti di sogno, con l'andare del tempo il corpo dello sconosciuto si era andato definendo fino a quelle ultime settimane, quando era riuscito a scorgere ogni dettaglio e avvertire ogni sensazione quasi avesse realmente vissuto quel momento. Eppure, come aveva potuto constatare poco prima, non si trattava di un'entità eterea. La persona che aveva davanti era fatta di carne e ossa, era viva e vegeta e l'avevano vista tutti all'interno dell'auditorium, quindi chi o cosa era, in realtà?

D'improvviso l'omone accanto allo sconosciuto gli tirò una gomitata, spezzando il flusso dei suoi pensieri. 
«Akh, per favore, sii serio.»
Quella richiesta fu una sorta di fulmine a ciel sereno e Noah, sorpreso, si ritrovò a sussultare. Aveva sentito bene? Sbagliava o anche lui aveva appena usato la parola fratello? Si trattava di un termine così inusuale che faticò a credere alle proprie orecchie, arrivando a dubitare della sua lucidità.  Nonostante ciò, quando l'altro scosse piano la testa, senza però smettere di guardarlo dritto in viso, si rese conto di aver capito bene. 

«Lo sono, cosa credi? Voglio solo sentire la sua risposta.» 

Ma in quel momento, a dire il vero, non c'era. Tutto ciò che gli riempiva la mente era il numero sempre maggiore domande, di lacune. Bastava che loro, quel gruppo di estranei aprisse bocca e lui andava in tilt, come sovraccaricato di informazioni - peccato che in realtà non gli avessero ancora detto nulla. I suoi erano vuoti da colmare, fame da saziare, non pieni da liberare.

Ridestandosi, notò come i due se ne stessero lì in attesa, fermi come statue. Pendevano dalle sue labbra quasi dovesse rivelare il più sensazionale dei segreti, eppure si rese conto di non aver nulla di concreto da dire. 
Chi era? Non lo sapeva. Più si sforzava meno gli sembrava di avvicinarsi a una qualsiasi risposta, peccato che fosse proprio sulla punta della sua lingua, la sentiva in bilico tra il dentro e il fuori della sua bocca - così strinse i denti. 

Chi diavolo era quel ragazzo!? 

Le tempie sembrarono gonfiarsi prendendo a fargli male e Noah avvertì la pressione diventare sempre più insostenibile. Aveva le parole bloccate in gola, ancorate nella trachea come uncini che non riusciva a tirare fuori. Gli sarebbe bastato uno sputo per riversarle al di là dei denti, per farle ruzzolare giù dalla lingua, peccato che più si sforzasse più queste sembrarono andare a fondo finché, infine, sbottò.
«Non ne ho idea!» E ammetterlo, per qualche strana ragione, gli diede fastidio. Vedere come gli sguardi di quei due si fossero rabbuiati mentre comprendevano il senso della sua frase gli sembrò un'ammissione di colpa, una prova inconfutabile di quanto fosse stupido - ma infondo per quale ragione avrebbe dovuto conoscerlo?

Vide il ragazzo passarsi una mano sulla fronte, scostare i capelli e gonfiarsi il petto con un sospiro. La sua delusione era evidente nonostante gli occhiali scuri a schermargli lo sguardo, la vedeva in ogni suo gesto, percependola con una chiarezza disarmante. 
«Beh... non è certo la risposta che-»
«Però ti ho sognato» disse in fretta, interrompendolo quasi temesse di poterlo in qualche modo allontanare da sé - e, senza alcuna logica, Noah si trovò nuovamente a corto di fiato, con il battito accelerato e la premura a pizzicargli le caviglie. Aveva paura di aver detto qualcosa di sbagliato, di aver dato a quello sconosciuto un motivo per andare via - ma perché? Cosa gli importava di lui? Stranamente, tutto.

Così strinse i pugni con più forza, umettandosi le labbra prima di aggiungere: «T-tu eri... eri morto.» 

Il silenzio che ne seguì fu totale. Non importava se Vienna intorno a loro stesse continuando a vivere e muoversi, non c'era alcun suono, a parte quello della propria ansia, in grado di arrivare sino alle sue orecchie.
Era solo di fronte alle conseguenze di quella confessione e la reazione che vide da parte dei due sconosciuti lo fece vacillare. Forse aveva detto troppo stavolta. 
Le figure innanzi a lui si irrigidirono dentro ai cappotti; vide le loro mascelle contrarsi e le espressioni farsi serie e per un attimo, uno soltanto, gli sembrò di aver toccato un nervo scoperto - peccato che non potesse essere vero. Forse li stava semplicemente spaventando, oppure gli stava dando prova di essere uscito di senno.

«Che intendi con "eri morto"?»

La domanda risuonò ovunque, sovrastando persino il battito sincopato del suo cuore. Non doveva essere stato più che un sussurro, eppure Noah lo percepì al pari di un boato. Ogni lettera gli arrivò addosso come se fosse stata lanciata, palle indirizzate dritte al suo stomaco.
Incerto se proseguire o lasciar perdere, si concesse il lusso di scostare lo sguardo, facendolo passare sulle mura pallide dell'edificio universitario. Chissà se, se qualcuno in quel momento lo avesse sentito, lo avrebbe considerato un povero pazzo o lo schiavo di qualche strana droga. Hans certamente sarebbe stato il primo a sospettare qualcosa di simile, seguito con una certa titubanza anche da Gretchen. Entrambi lo avevano visto cambiare nel corso di quei mesi, quindi cosa li avrebbe frenati dal pensare che il motivo potesse essere uno di quelli?
Eppure, se da un lato sentiva di star per fare un'enorme cavolata, dall'altro non poteva negarsi di desiderarla. Voleva conoscerne le conseguenze, mettere fine a tutte quelle stranezze e capire: cosa diamine gli stava succedendo? 

Si morse la lingua.
«Che ti ho visto, io... ti ho visto inerme tra le mie braccia. Eri fermo, freddo e... lo so che può sembrare una follia, magari lo è, però... eri tu» si affrettò a dire. «Avevi addosso una tunica, dei gioielli e-» Noah si toccò il pettorale, concedendosi d'improvviso una breve esitazione. Quello che stava per dire era forse il dettaglio più macabro di tutte le sue allucinazioni, ma era anche il più importante. Non poteva tacerlo, non in quel momento, così stringendo la presa sulla maglia aggiunse: «e avevi una ferita enorme, uno squarcio mal suturato qui.» D'un tratto, concludendo la frase, si rese conto di aver involontariamente mosso qualche passo nella direzione del ragazzo. La necessità di sapere se tutto ciò avesse senso o meno sembrò annullargli il raziocinio e spingerlo sempre più vicino a lui.
«Quindi te lo chiedo ancora, chi sei?»

Lo vide voltarsi verso il compare, il "fratello", quasi stesse cercando in lui una sorta di approvazione. Non si dissero nulla, le loro labbra rimasero sigillate per un lasso di tempo che a Noah parve lunghissimo. Lo stomaco gli si torse nella pancia, si raggomitolò su se stesso ad ogni istante in più d'attesa, arrivando a nausearlo.
Perché si stavano comportando a quel modo? Perché semplicemente non gli davano una risposta? Stavano forse valutando come e quanto prendersi gioco di lui?

«Il mio nome è Levi Nakhaš, un tempo figlio di Yoel,» lo sconosciuto più giovane tornò a rivolgersi a lui: «Generale al servizio dell'esercito d'Israele e del suo Sovrano, il mio melekĕ, akh sheli, sheett» e con un'eleganza d'altri tempi, Levi compì un inchino profondo, una riverenza così estranea a quei tempi d'apparire magica. 

Nonostante quella sorta di malia però, Noah non riuscì a trattenersi. Irrefrenabile una risata gli risalì lungo la gola, scappandogli fuori dalle labbra. L'ilarità lo travolse come un fiume in piena, piegandolo su se stesso e costringendolo a portarsi una mano alla bocca, in modo da non attirare troppo l'attenzione. 
 Aveva capito bene? Quel tizio si era veramente definito un generale israeliano al servizio del Re? 

«Divertente, amico! Davvero! Cazzo, io sembrerò matto da legare, ma tu... tu non sei da meno!» 
Levi alzò il capo: «Come, scusa?» Sembrava seriamente confuso da quella reazione.
«Davvero pensi che qualcuno possa credere a questa stronzata?» gli domandò a quel punto, cercando di frenare le risa e racimolare un po' di contegno - eppure, sui volti di quei due stralunati Noah non riuscì a scorgere nemmeno un accenno d'ironia. 


«Ehi» lo additò l'omaccione: «ti ricordo che sei stato tu a dire di aver sognato Levi. Ti consiglio di valutar bene quale tra le affermazioni fatte sia più simile a una "stronzata".»

E d'improvviso il buonumore di Noah sparì.
In effetti, ad orecchie esterne, le sue parole sarebbero forse potute apparire come quelle più ridicole - in fin dei conti non era cosa da tutti i giorni sognarsi gente morta vestita al pari di una ricostruzione storica -, mentre lui, quel Levi, poteva semplicemente aver cavalcato l'onda delle sue blaterazioni. 

Aprì bocca per controbattere, però non trovò nulla da dire. Non aveva alcuna idea di come difendersi da quell'appunto, così, semplicemente, strinse i denti.

L'uomo davanti a lui scosse la testa: «Ascoltami, Noah. E' così che ti chiami, giusto? So che tutto questo può sembrare uno scherzo di pessimo gusto, fidati, anche io ero estremamente scettico nel venire a cercati, ma... mio fratello qui presente» con un gesto particolarmente teatrale della mano indicò il ragazzo che aveva accanto, poi un punto indefinito alle sue spalle: «e mia sorella» - che probabilmente doveva essere la ragazza che con Levi aveva fatto irruzione nell'auditorium - «sono convinti che tu abbia a che fare con una persona che credevamo essere morta molto tempo fa. Lo abbiamo dato quasi per scontato dopo anni di silenzio. E... vedi, il fatto che tu abbia sognato la vera morte di Levi e conosca la nostra ninna nanna non fa altro che rendere queste supposizioni più reali., per questo abbiamo bisogno di te, di conoscerti... meglio.»
Noah corrugò le sopracciglia: «Continuo a non comprendere il nesso con la storia del Generale d'Israele, i miei sogni e... se non sono io la persona che state cercando, chi è, esattamente? Avete un nome, una foto o -»

Levi mosse un passo verso di lui, interrompendolo. Gli si avvicinò così velocemente da smuovere l'aria intorno al suo corpo, da riempirgli le narici con un profumo che gli fece pensare a qualcosa di familiare e al contempo perduto, di caro. In un moto di spontaneità avrebbe osato dire che gli ricordava casa, ma non quella in cui era cresciuto, bensì un posto che sapeva di aver conosciuto e poi abbandonato.
«Nessun altro» sibilò - e a quella distanza, separati solo una spanna,  il ragazzo riuscì nuovamente a scorgere qualcosa dietro alle lenti scure. Per quanto quelle pupille a spicchio, quelle iridi color dell'oro sembrassero l'ennesimo scherzo della sua mente, Noah ne fu certo, si trattava della realtà. Ebbe come l'impressione di aver sempre avuto quello sguardo addosso, di averlo amato e odiato in un eterno circolo vizioso e, involontariamente, sentì il cuore stringersi.
«Però» le palpebre di Levi si chiusero, allentando la morsa che stava avendo su di lui, poi fece un passo indietro: «a quanto pare tu non ti ricordi.» Con un'inspiegabile naturalezza infilò le mani in tasca e piegò la testa da un lato, retrocedendo ancora: «E posso capire la tua confusione. L'ho provata, credimi. Quindi penso sia il caso di darti tempo, di... permetterti di valutare cosa sia meglio fare. Infondo, per quanto ci riguarda, non abbiamo alcuna fretta» le sue labbra si tesero in un sorriso, mettendo in risalto la tonalità violacea.
Aveva un aspetto particolarmente intrigante, era innegabile; un connubio di bellezza e minacciosità capace di affascinare anche il soggetto più scettico - e Noah, in quel momento, si sentì terribilmente succube della sua presenza, tanto da non accorgersi di aver schiuso la bocca e lasciato uscire delle parole. 
«Cosa dovrei valutare?»

Il sorriso si fece più grande: «Tutto.»
«In particolare se fidarti di noi, permettendoci di conoscerti e mettere a tacere le domande che ti e ci frullano nella testa» aggiunse l'altro affiancando il fratello. Lo superava di una spanna, eppure nonostante la stazza dava l'idea di essere molto più bonario.


Li osservò in silenzio, la gola improvvisamente secca. Cosa c'era da valutare? Per quale motivo avrebbe dovuto dargli retta? Non era ovvio che ciò che avevano detto sino a quel momento non avesse alcun senso, che si stessero semplicemente prendendo gioco di lui?
Eppure...
«E se non volessi?»
Levi scrollò le spalle, quasi in realtà g'importasse gran poco.
«Ce ne andremo, esattamente come siamo arrivati. Non siamo qui per obbligarti a far nulla.»

Una proposta allettante, non poté negarlo. Se se ne fossero andati forse avrebbe potuto conservare quel minimo di dignità rimastagli, la lucidità necessaria per resistere ancora qualche mese prima di toccare il fondo. Dopotutto dar modo a degli estranei di minare la sua già labile stabilità mentale non era certo il più ambizioso dei desideri che aveva al momento, però... però c'era qualcosa, in lui, che sembrava anelare la loro presenza nella propria vita più di qualsiasi altra cosa al mondo.

Nuovamente alzò lo sguardo su Levi: «Chi sei, tu?» 

 

Melekĕ : Re
 Akh sheli, sheett: mio fratello, tu


 
   
 
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