Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    08/11/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Su Firenze e sulle campagna vicine, continuava a diluviare senza sosta. Pur tenendo i figli al sicuro in campagna, Lorenzo e Semiramide avevano preferito spostarsi in modo quasi stabile a Palazzo Medici, in città, per ridurre gli spostamenti con quelle strade fangose e piene di pericoli.

L'unica nota positiva, secondo certi fiorentini, di quel clima intemperante era il fatto che la pesta sarebbe rimasta lontana dalla repubblica, preferendo l'altro versante appenninico.

Anche Il Popolano sarebbe stato d'accordo con loro, se solo non avesse da poco ricevuto una lettera dal fratello, che lo informava proprio dell'arrivo del morbo a Forlì, rincarando la dose di brutte notizie aggiungendo che forse le porte della città sarebbero presto state chiuse, prima che il papa o chi per esso spiccasse un ordine ufficiale.

“Devi mangiare qualcosa, Lorenzo. È da ieri che non tocchi cibo...” disse piano Semiramide, allungando le dita verso quelle del marito.

Anche se la tavola era imbandita in modo abbastanza ricco, solo la donna stava spiluccando qualche cosa, mentre il Medici era assorto nei suoi pensieri, una mano sulla bocca e l'altra stesa accanto al piatto, immobile.

La moglie del Popolano era molto preoccupata per lui. Da quando erano tornati dalle Fiandre, Lorenzo le sembrava cambiato. Non era stata una cosa eclatante, ma un mutamento lento e forse inesorabile.

Dall'essere un uomo molto accomodante e spiritoso – quando ce n'era l'occasione – adesso suo marito si era fatto taciturno, scontroso e molto pessimista.

Anche il suo fisico stava risentendo delle sue preoccupazioni e il suo profilo, da sempre ben pasciuto, si stava pian piano riducendo, mentre nelle sua guance si formavano piccoli solchi di tormento che gli conferivano non più un'aria vagamente imbronciata, ma nettamente sofferente.

A peggiorare ulteriormente la situazione, c'era il fatto che il Popolano più vecchio pareva non più intenzionato a condividere appieno la proprie insicurezze con la moglie, e questo, Semiramide, lo stava patendo moltissimo.

“Non ho fame.” disse seccamente Lorenzo, spostando un po' il piatto da davanti a sé e facendo un piccolo sbuffo.

“È per Giovanni?” chiese finalmente Semiramide, che si stava arrovellando da giorni per capire quale fosse il vero cruccio dell'uomo che le stava accanto.

Il Medici non disse nulla, ma il modo in cui sollevò appena il sopracciglio lasciò intendere alla moglie di aver fatto centro.

“Ne abbiamo già parlato – provò a dire la donna, con calma, dopo un sorso di vino – e la Sforza è una moglie come un'altra...”

“No che non la è.” si intestardì Lorenzo, alzandosi da tavola e andando vicino al camino.

Dalle finestre che davano sulla strada si sentiva lo scrosciare incessante della pioggia e Semiramide, che aveva sempre amato quel suono, improvvisamente si trovò a detestarlo.

Asciugandosi gli angoli della bocca con la punta delle dita, come a prendere tempo, la donna sospirò e infine raggiunse il marito davanti al fuoco: “So che è pericoloso essere sposati a una donna del genere, ma Giovanni ha scelto e non possiamo fare altro che tentare di aiutare lui e la sposa che ha voluto per sé. Lo Stato della Tigre è piccolo, ma...”

“Una vedova, con... Quanti? Sei, sette figli? E poi è anche più vecchia di lui. E chissà con quanti lo sta già tradendo...” fece imperterrito Lorenzo, andando avanti con il suo pensiero, ma questa volta a voce alta: “Una belva, che cercava solo un pollo da spennare. Non è strano, che tra tutti gli amanti che ha avuto, abbia sposato proprio mio fratello? Proprio l'unico che era pieno di soldi?”

Semiramide capiva il punto di vista del marito, ma confidava troppo nel cognato per poter anche solo pensare che fosse caduto in una trappola, come invece credeva Lorenzo.

“Se parli così – gli disse, con una certa durezza – offendi tuo fratello, non quella donna.”

Il Medici si lasciò andare a un cenno di stizza e poi, prendendo l'ultima lettera di Giovanni dall'interno del farsetto, la diede alla moglie: “Leggi. Dimmi se un uomo sano di mente può ragionare a questo modo.”

Semiramide prese la missiva e mentre l'apriva, il marito si avviò verso la porta, borbottando tra sé, come un vecchio brontolone: “E ci mancava anche Piero... Con quella buffonata fuori dalla Porta Romana... Un Medici, sotto la pioggia per ore come un randagio... Come se non ci stessero già ridendo tutti dietro...”

La donna non badò alle parole farfugliate dal marito e si rimise seduta a tavola, per leggere le parole del cognato.

Giovanni spiegava dell'arrivo quasi certo della peste a Forlì e motivava il perché di una possibile chiusura delle porte. Spiegava che lui sarebbe rimasto dentro le mura per poter stare accanto a Caterina. Chiudeva assicurando che si sarebbe fatto sentire appena possibile e pregava il fratello di non stare in ansia.

'La mia salute è ottima – aveva scribacchiato in fondo, come ultima rassicurazione – non avete da stare in pensiero, nessuno di voi. L'unica cosa che potrebbe portarmi alla morte, sarebbe allontanarmi da lei.'

Semiramide ripiegò la lettera e ricominciò a mangiare in silenzio. Lorenzo doveva essere cieco, per non capire. Giovanni era solo innamorato, non uno sciocco, né un pazzo.

Con un mezzo sorriso triste, la donna si trovò a ripensare a quando suo marito le aveva chiesto la mano e ai primi tempi del loro matrimonio. Anche loro erano stati innamorati con la stessa intensità, sfidando tutto quello che si metteva sul loro cammino.

Giovanni aveva avuto loro come esempio. In pratica, era cresciuto nelle loro casa, era diventato un uomo sotto i loro occhi, e da loro aveva imparato cos'era un matrimonio stabile. Non aver potuto conoscere sua madre, e aver perso il padre molto presto, erano sicuramente stati forti vuoti per lui, ma Lorenzo e Semiramide avevano fatto del loro meglio per supplirvi.

Se Giovanni era pronto a ipotecare tutto se stesso per quella donna, doveva per forza significare che era certo di aver fatto la scelta giusta. Aveva avuto un insegnamento troppo preciso e luminoso, per fare un errore tanto grossolano.

Se solo Lorenzo si fosse fermato un momento a riflettere e ricordare...

 

Caterina guardò l'ultima porta che veniva chiusa e quando si udì il tonfo sordo finale, avvertì una piccola scossa anche dentro di sé.

Il sole stava appena sorgendo all'orizzonte e la città era come cristallizzata nel gelo del mattino, mentre gli ultimi pochi fortunati che avevano avuto l'autorizzazione a lasciare Forlì si allontanavano, voltando le spalle alla cinta muraria.

“Avanti...” fece la Contessa, non appena lo spettacolo fu concluso: “Abbiamo ancora delle case da controllare e poi bisogna cominciare a organizzare il punto di raccolta.”

Accanto a lei, oltre a Bianca, c'erano come figure sempre presenti sia il suo medico personale, sia Giovanni, che pareva intenzionato a non risparmiarsi in alcun modo.

Per tutta la mattina, infatti, aiutò la moglie in tutti i modi, collaborando con piacere anche con la giovane Riario, che fin da subito si dimostrò di buona volontà e tutt'altro che impressionabile.

“I corpi non possono essere sepolti...” spiegò a un certo punto la Tigre, mentre lei e gli altri si riposavano un istante nei pressi del quartiere militare: “Vanno bruciati.”

“Perché?” chiese Bianca, ricordandosi come i corpi dell'ultima epidemia di febbri fossero stati in parte seppelliti, anche se molto fuori le mura.

Caterina incrociò un momento gli occhi blu della figlia e in quel mentre il pensiero di entrambe corse a Livio, morto, ormai, da quasi un anno.

Con un nodo alla gola, la donna cercò di ricacciare la memoria in fondo alla coscienza e rispose senza esitazione: “Prima di tutto perché è quasi impossibile trovare qualcuno che accetti di seppellire un appestato. Nemmeno i monatti a volte lo vogliono fare. E poi perché è più sicuro.”

“Però è una cosa da pagani...” obiettò, senza troppa convinzione, la giovane Riario: “Gli antichi bruciavano i cadavere... I cristiani no...”

“Bruciare i corpi è più sicuro. Se al papa non sta bene, venga qui con una pala a fare da sé il lavoro sporco.” sibilò la Sforza, esprimendo con così tanta franchezza il suo pensiero che Bianca non osò aggiungere altro.

“Per il momento, comunque, non ci sono molti morti.” fece il medico, appoggiandosi al muro di una casa, con fare stanco: “Solo alcuni ormai anziani...”

“Per ora siamo stati fortunati – convenne Caterina, senza riuscire a condividere l'ottimismo del dottore – ma dobbiamo essere pronti a tutto. Per favore, vai a dire al Magistrato di requisire la legna in eccesso. Che ogni casa abbia lo stretto indispensabile per riscaldarsi. Tutto il resto servirà per bruciare i corpi.”

Giovanni, che era il destinatario di quell'ordine, non rispose. Sembrava immerso nei suoi pensieri e alla moglie non parve inverosimile credere che non l'avesse nemmeno sentita.

“Posso farlo io.” si propose Bianca, prima che la Contessa potesse risvegliare il Medici dal suo momento di isolamento.

La Tigre si accigliò e poi lanciò uno sguardo significativo al dottore, che, dopo essersi passato la pezza umida di olii sul naso, disse: “Lasciate che vi accompagni, madonna Bianca.”

E così la ragazzina salutò in fretta la madre e andò assieme al medico verso il centro della città, alla ricerca del Magistrato.

“Cosa c'è?” chiese piano Caterina, avvicinandosi un po' di più al marito.

Alle loro spalle, un gruppetto di soldati stava rientrando nei baraccamenti. Dopo un'attenta discussine, la Sforza aveva deciso di lasciare l'esercito in città, non potendo sperare di trovare alle truppe una sistemazione sicura e sostenibile in campagna, ma aveva rinunciato a sfruttare i soldati come aiuto nel corso dell'epidemia.

Doveva tenerli il più possibile al sicuro. Ci aveva messo mesi, anzi, anni, a creare il suo esercito e dunque non poteva permettere alla peste di decimarglielo.

Giovanni, che in effetti era più pallido del solito e da un paio d'ore s'era messo a parlare molto poco, sfuggendo in modo inusuale i compiti più faticosi, sollevò gli occhi chiari verso la moglie e poi scosse la testa: “Non è niente. Forse sono solo un po' stanco.”

“Vai alla rocca. Riposati. Ci penso io, qui.” gli disse subito la Leonessa, appoggiandogli una mano sulla spalla, sentendosi un po' in colpa per avergli permesso quello sforzo, visto il precario equilibrio della sua salute: “Ci vediamo stasera.”

Il Medici fece un lungo sospiro e poi, guardandosi appena attorno, represse l'istinto di rifiutare quella mano tesa e accettò: “Sì, ci vediamo stasera.”

Caterina rimase di sasso, nel vedere il marito accettare. Se lo faceva, significava che davvero non ce la faceva più.

“Fatti preparare qualcosa di caldo.” gli sussurrò, accarezzandogli la guancia coperta da un sottile strato di barba: “E se dovessi non star bene, mandami subito a chiamare.”

Il Popolano annuì e poi, dopo aver controllato – seppur superficialmente – che nessuno li stesse osservando, si piegò verso di lei e le diede un rapido bacio sulle labbra: “Non fare tardi.”

La Contessa sorrise e ribatté: “Pensa a rimetterti, che a quello che devo fare io ci penso io.”

Poi, dopo un ultimo veloce saluto, Giovanni si incamminò verso la rocca. La moglie lo osservò con attenzione e le parve che non zoppicasse più del solito.

Per un vago istante fu attraversata dall'idea che potesse aver preso anche lui la peste, ma abbandonò subito quell'ipotesi, bollandola come assurda. Quasi per certo la tensione di quei giorni, il mangiare in modo sregolato e la fatica fisica avevano messo alla prova il corpo del fiorentino, nulla di più.

 

Juan Lòpez appoggiò il documento davanti agli occhi di Cesare Borja. Questi, lisciandosi la barba scura che si stava lasciando crescere sul mento in quei giorni, si mise a leggere.

Se non avesse saputo che si trattava di un falso, non l'avrebbe mai capito da solo. Tutto, dalla firma in calce al tipo di foglio usato, tutto quanto era semplicemente perfetto.

“Avrete il vostro denaro.” annuì soddisfatto il figlio del papa, sorridendo al Cardinale che era in attesa della sua reazione.

“Siete soddisfatto del lavoro?” chiese Lòpez, con un inchino ossequioso.

“Molto soddisfatto.” rimarcò Cesare, battendo le mani l'una nell'altra e lasciandosi scappare una risatina eccitata: “Non ci resta che far partire la scomunica alla volta di Firenze.”

“Avete già voi un messaggero che sia di fiducia? Da quel che ho capito, non volete che il Santo Padre venga a sapere di questa vostra iniziativa...” fece il Cardinale, usando un tono volutamente molto pacato.

“So già come spedire questo documento, non abbiate paura.” fece il Borja, sorprendendosi del fare magistrale con cui Lòpez aveva appena cercato di spillargli altri soldi: “Chiudete la bolla come Dio comanda e poi consegnatemela una volta pronta. Vi darò il vostro compenso allora.”

Il Cardinale incassò con grazia il mezzo colpo, vedendo sfumare l'ipotesi di aggiungere qualche zero al suo conto, e poi riprese il documento e lasciò gli appartamenti del figlio del papa.

Rimasto solo, Cesare non sopportò a lungo la compagnia di se stesso e uscì dal palazzo.

Quella sera, come faceva quasi sempre ormai, non indossava abiti da prete, ma un giubbone di media fattura e brache di cuoio che lo proteggevano molto bene dall'umidità. Aveva sentito dire che in Toscana diluviava, mentre in Romagna la siccità improvvisa stava facendo galoppare la peste.

In Vaticano, invece, erano rimasti solo il freddo e l'aria bassa che ci si sarebbe attesi di più nelle pianure del nord, che non a tanta poca distanza dal mare.

Scegliendosi un paio di uomini come scorta, il Borja andò per Roma in cerca di compagnia e la trovò senza sforza. La notte buia e silenziosa, si animava sempre con odori e colori tutti suoi, non appena si lasciavano le lussuose abitazioni dei prelati.

Mentre, seduto su una poltrona un po' rovinata, in una delle case che stavano affacciate sul Tevere, aspettava che uno dei suoi uomini gli cercasse una donna, una di quelle più richieste di Roma, Cesare si mise a rimuginare.

Non solo pensò a Savonarola e a tutto quello che la scomunica avrebbe portato con sé, alle reazioni di suo padre e a quelle della curia intera, pensò anche a questioni molto più personali, che coprivano un territorio molto vasto, che da Pesaro arrivava a Napoli e fino in Spagna.

Con un sospiro spezzato, la sua mente tornò alla lettera che il suo amico fraterno Michelotto gli aveva fatto recapitare pochi giorni addietro. Ci aveva messo un'eternità a rispondergli, e l'unica cosa che era stato capace di scrivergli era che non poteva lasciare casa sua, non al momento, per lo meno.

'Forse tra qualche mese – aveva scritto Miguel de Corella – ma solo se mi dirai che non per te non c'è di meglio da sperare.'

Come sempre, Cesare aveva sorriso al modo assoluto di esprimersi dell'amico, ma aveva anche rivissuto il rapporto stretto che avevano instaurato sui banchi di studio. Non aveva mai capito quanto oltre andasse l'affetto di Michelotto, ma quale che fosse il motivo che lo aveva reso così leale e fedele, il Borja sapeva di aver bisogno di un uomo come lui accanto.

“Dice che è pronta a ricevervi...” fece una delle guardie che il figlio di Alessandro VI s'era portato appresso.

Cesare si alzò dalla poltrona e si diresse verso la camera dove la donna lo riceveva sempre, ma, appena prima di sparire dietro al legno scuro, guardò di traverso il suo scagnozzo.

Ora che ci pensava, era rimasto a lungo a contrattare con quella sgualdrina. E gli sembrava pure troppo accaldato, per una sera tanto fredda.

“Io non mangio piatti riscaldati.” gli sibilò, prendendolo per il collo e spingendolo contro il muro, in modo tanto repentino da abbattere le difese di quel soldato di norma così pronto nel reagire.

“Però mangiate senza problemi nel piatto degli altri...” fece la donna, uscendo dalla camera con addosso solo una leggera sottoveste.

A quella voce, il Borja parve placarsi un po', ma tenne salda la presa sul soldato: “Posso accettarlo, se gli altri hanno mangiato molto prima di me.” concesse, guardandola con la coda dell'occhio: “Un piatto tanto buono è inverosimile che sia di un solo commensale. Sono un uomo molto generoso, io... Tuttavia...” lasciò andare di scatto la guardia del corpo, che per poco non cadde in terra: “Non sopporto di mettermi a mangiare qualcosa che altri hanno appena assaggiato...”

Cesare stava per estrarre il lungo stiletto che portava al fianco dalla fodera, quando la donna gli fermò il braccio con un gesto suadente: “Quante storie... E poi il tuo soldato non mi ha neanche sfiorata.”

Il Borja non sapeva se crederle o meno, ma era così impaziente di averla, che passò anche sopra al proprio orgoglio e, dando un buffetto alla guardia – il cui volto aveva perso ogni segno di vitalità per colpa della paura – gli ordinò: “Stai fuori dai piedi, allora. Aspetta giù in strada.”

 

Dopo essere rientrato da solo a Ravaldino, Giovanni era subito andato a stendersi a letto. Seguire le norme igieniche che la moglie aveva imposto a tutti per poter accedere all'area della rocca era stata una mezza tortura, ma l'uomo aveva fatto tutto quello che doveva.

Quando finalmente era riuscito a stendersi a letto, certo di essere completamente solo, si era lasciato andare a smorfie di sofferenza e gemiti incontrollati. Non solo le ginocchia e le caviglie gli dolevano più solito, ma un dolore mai provato, urente e incoercibile, gli aveva preso la radice di entrambi gli alluci e sembrava estendersi, a tratti, per tutto il corpo, come delle ondate di calore.

In più, a sommarsi al male agli arti inferiori, erano arrivati dei dolori colici all'addome che Giovanni non ricordava di aver mai provato.

Era rimasto sveglio a contorcersi tra le lenzuola quasi fino a sera. Quando Caterina era arrivata, Giovanni si era già in parte rimesso, ma sembrava molto provato, tanto che la donna comprese subito che doveva essere stato molto male, nelle ultime ore.

“Davvero, solo un po' di dolore, niente di più...” cercò di dire il Popolano, tirandosi un po' su a sedere, benché quel semplice movimento fosse stato già sufficiente a farlo sudare freddo: “Io...”

Caterina gli si sedette accanto, sul letto, e lo scrutò attentamente in volto alla luce della candela che aveva appoggiato sulla cassapanca vicina. Lesse la paura malcelata nel suo sguardo e capì che la situazione doveva essere più grave di quanto il fiorentino volesse far credere.

“Vado a chiamare il medico di corte...” fece la donna, cercando di alzarsi.

Il marito, però, le afferrò la mano e strinse con forza: “Ti prego, no. Mi sta passando.” mentre parlava, una smorfia gli storse le labbra e una nuova fitta gli prese di traverso la pancia: “Per favore... Ha già tanto da fare e non mi dirà nulla di nuovo.”

La Sforza, però, insistette e alla fine Giovanni non poté evitare di lasciarsi ricadere sul cuscino e concederle di fare quello che voleva.

 

Agostino Barbarigo non sapeva dire che cosa lo stesse trattenendo dal mandare a quel paese Pandolfo Malatesta.

Era ormai notte e quell'insulso riminese non la smetteva di blaterare nemmeno per un momento.

Il Doge aveva accettato quell'incontro solo per dimostrare la sua buona disposizione verso il Malatesta e non compromettere l'alleanza con Rimini, ma quando era troppo era troppo.

Se non fosse stato per quello che Domenico Trevisan gli aveva detto circa Faenza, non ci avrebbe pensato un momento a dare il ben servito al Pandolfaccio.

“E dunque – stava dicendo il signore di Rimini, sporgendosi in avanti, per attirare l'attenzione di Barbarigo, ormai stravaccato sul divano rosso, troppo stanco perfino per stare composto – se voi voleste concedere una condotta per Carlo, il mio fratellastro...”

Agostino rivisitò le parole di Trevisan che qualche giorno addietro gli aveva ribadito che Niccolò Castagnino, il tutore legale e reggente di Astorre Manfredi, aveva dato chiari segni di connivenza con Ercole Este. Un avvicinamento a Ferrara equivaleva, in quel momento, a una distensione con Milano e, per associazione, a una rinnovata coesione con la Sforza di Forlì. E la Sforza di Forlì stava pendendo un po' troppo verso Firenze.

Il Doge, però, non sapeva che fare. I suoi collaboratori gli avevano consigliato il pugno duro: levare gli ottomila ducati annui che Venezia versava al Manfredi a mo' di condotta, sì da punirlo per le tendenze poco chiare di Castagnino.

Però, facendo così, Barbarigo temeva in una controreazione violenta o almeno sconsiderata e perdere Faenza era l'ultima cosa che voleva, ora che Imola e Forlì parevano impossibili da comprare.

“Mio fratello potrebbe essere un buon servo vostro e...” stava ancora enunciando il Pandolfaccio, con voce sicura, convinto che il Doge pendesse dalle sue labbra.

“State tirando troppo la corda.” lo zittì alla fine Agostino, pensando più a Castagnino che non al suo interlocutore reale: “Siete già una spesa così, senza che chiediate soldi anche per vostro fratello.”

Il Malatesta provò debolmente a ribattere, ma l'altro fu impassibile e, agitando una mano per chiamare a sé uno schiavetto che accompagnasse fuori l'ospite, disse: “Buona notte. E per favore, abbiate la compiacenza di non nominarmi più condotte e fratelli, per carità di Dio.”

 

“Sembra la malattia della pietra...” disse in un sussurro il dottore, raggiungendo Caterina che aspettava nel corridoio.

Era stato Giovanni a chiederle di uscire durante la visita e la donna aveva fatto quello che lui voleva. Aveva apprezzato fin da subito il suo essere orgoglioso, dunque non se la sentiva di forzarlo altrimenti.

“Quindi potrebbe rimettersi anche da solo.” costatò la Tigre, appoggiandosi con una mano al davanzale della finestra che dava sul cortile d'addestramento.

Il medico, su cui occhi la torcia a muro gettava un'ombra sinistra, sporse un po' in fuori il mento, guardando in terra: “Sì, da quello sì... Gli ho già detto di bere molta acqua e poi vi darò un elenco di cose da fargli prendere, però...”

“Però?” chiese la Contessa, sulle spine.

Il dottore ci mise qualche secondo, ma poi si risolse a dire: “Questa è solo una delle conseguenze del suo male, mia signora. E il fatto che vi sia già arrivato, non è certo un buon segno.”

Caterina restò immobile, la mano sulla pietra della finestra, che sembrava una lastra di ghiaccio sotto alle sue dita. Sapeva che Giovanni era pessimista, riguardo al suo futuro e più di una volta da che erano sposati – ed erano sposati davvero da poco – quando lui la credeva addormentata, lei lo aveva osservato e l'aveva visto insonne, preoccupato, a volte perfino incapace di starsene coricato a letto, tanto era teso.

La Leonessa deglutì, un po' apprezzando e un po' detestando il prolungato silenzio del medico. Se da un lato le stava dando del tempo per capire meglio le sue parole, dall'altro, il fatto che le servisse del tempo per capire, significava che la situazione era davvero grave.

“Non è detto che sia...” cominciò a dire la Contessa, con un filo di voce.

“Potrebbe riprendersi bene, per ora.” convenne subito il dottore, con sincerità: “Anzi, sono convinto che questa volta potrà farlo anche in fretta. Tenetelo a riposo, mi raccomando.”

“Però la prossima volta che si aggraverà potrebbe essere il colpo finale.” si forzò a dire Caterina.

L'uomo non comprese l'apparente rudezza con cui la sua signora aveva appena parlato, però, come in altre occasioni, fece del suo meglio per non dare a vedere la sua perplessità dinnanzi ai suoi modi e cercò di suonare pratico, ma anche ottimista: “Non dobbiamo pensare sempre al peggio. Messer Medici è giovane e ha una fibra notevole. Aiutatelo come potete, stategli vicino. È l'unica cosa che potete fare per lui, ma è una cosa importante.”

La Tigre strinse i denti. Involontariamente, come sempre aveva i nervi all'erta ed era pronta a cogliere le sfumature nelle parole di chi la circondava. Con quelle poche frasi il dottore le stava dicendo che sapeva benissimo che tipo di legame ci fosse tra lei e Giovanni. E, stranamente, Caterina provò una sensazione piacevole, nel sentirlo parlare a quel modo.

“Gli starò vicino.” promise: “Se lui me lo permetterà.”

“Ve lo permetterà, ne sono certo.” sorrise a stento il medico, chiedendosi se non stesse esagerando con quell'inciso.

Mentre lo visitava, l'ambasciatore di Firenze gli aveva fatto promettere di non dire alla Sforza quanto fosse instabile la sua condizione. Gli aveva fatto promettere di non allarmarla, di essere moderatamente ottimista. Gli aveva fatto promettere di non fare parola della morte atroce a cui probabilmente sarebbe andato incontro.

“Come mio cugino, il Magnifico...” aveva sentenziato il Popolano, mentre il medico gli tastava l'addome, facendolo sussultare dal male: “In un letto che puzza di morte, con la testa che si spegne poco a poco...”

“Vostro marito non è un caso perso – riprese il dottore, cercando di convincersi per primo che fosse davvero così – con un po' di attenzione, potrebbe vivere più del previsto.”

Caterina incrinò le labbra e, ben lungi dal sentirsela di dire al suo fidato servitore che quelle parole erano una coltellata peggiore di quelle precedenti, gli diede un colpetto sulle spalle e disse, con un tono più leggero: “Fatemi un elenco di quello che gli devo preparare per la malattia della pietra.”

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas