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Autore: matmatt98    10/11/2017    0 recensioni
‘Fin dalla nascita ti educano al rispetto, all’audacia e all’amore. Ti raccontano di essere speciale e ti raccomandano di essere forte, di non arrenderti mai. Ti dicono di non preoccuparti, che dopo una sconfitta ci si rialza sempre, che dopo la tempesta il sole spunta inevitabilmente ad asciugare i fiori.
Poi maturi e scopri che sei cresciuto nell’ipocrisia. Perché la pioggia non cessa praticamente mai – almeno non dentro –, perché tutti in fondo cercano di vivere al meglio delle proprie possibilità e non c’è nulla di speciale nel sopravvivere. Perché le persone che dovrebbero dare un esempio ed esserlo, quelle che hanno il compito di elevare l’amore e donarlo al prossimo senza risparmio, quelle che dovrebbero difenderti dalle brutture dell’universo, sono proprio quelle che il loro prossimo lo calpestano e additano perché umano ed, in quanto tale, incapace di rifiutare i propri sentimenti.
Ti è sempre stato detto d’amare, fino a svuotarti di ogni cosa, ma poi, quando improvvisamente spalanchi la mente e con le braccia ti apri le costole per donare il tuo cuore decidendo di guardare al di là di una futile distinzione di sesso, cultura ed età, all’improvviso qualcosa cambia. ‘
M/M
Genere: Comico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Scared Of Happy

Quella mattina all’intervallo perse di vista Lorenzo per colpa di una tizia che continuava a chiedergli il numero di telefono.
Alla fine Francesco dovette dargli quello di Vito e fare finta che fosse il suo per potersene sbarazzare. Cambiò corridoio e ricominciò a cercare l’altro.
Stava per chiamareVito e chiedergli dove cazzo fossero finiti, quando gli arrivò un messaggio da Mikel, un altro compare della loro stupida banda.
“Siamo col frocio”.
Si sentì ribollire dentro. Era quasi deciso a lasciar perdere, ma non ce la fece. Di solito lasciava stare, rimaneva fuori dal bagno e poi se ne tornava in classe al suono della campanella. Ma dopo aver condiviso quello come avrebbe potuto?
Provò a pensare a cosa fare, alla fine prese a correre senza ragione. Sapeva già dove andare.
Entrò nel bagno spalancando la porta mentre Carlo se ne stava disteso in un angolo e Lorenzo incombeva su di lui con un pugno alzato.
«Stanno facendo dei controlli» buttò lì, con voce tesa.
I ragazzi presero quell’intonazione come paura reale e sloggiarono in meno di un minuto. Lorenzo gli diede addirittura due pacche di ringraziamento sulla spalla prima di superarlo.
Carlo si mise seduto e si schiacciò contro alle piastrelle, alzando in alto la testa. Gli sanguinava il naso e si teneva stretto una mano contro al torace.
«Dove ti hanno colpito?» si rese conto della stronzata che aveva appena chiesto e rimediò: «a parte la faccia».
Il biondo prese un respiro profondo. «Lo stomaco, credo».
«Riesci a levarti la maglietta?»
Con una noncuranza che non sembrò naturale si sfilò la t-shirt e sotto scoprì una distesa di pelle bianca come la neve, violacea e gialla (in alcuni punti). «Adesso ti interessa? I crediti ti servono sul serio allora» commentò ironico Carlo.
«Riesci a stare in piedi?» ribatté semplicemente lui.
Il più piccolo strisciò con la schiena sul muro e si alzò. Sembrava instabile, ma almeno non gli avevano rotto niente. «Direi di sì».
«Okay, allora ci vediamo» salutò Francesco, andando alla porta. La campanella doveva essere suonata svariati minuti prima. Prima di aprirla si voltò e fissò il labbro rotto del biondo con insistenza. «Come fanno i tuoi a non rendersene conto?»
Lo sguardo di Carlo si affilò come lame di acciaio. «Fatti i cazzi tuoi» sbottò, come non aveva mai fatto neanche con Lorenzo.
Il moro sentì la rabbia riversarsi su di lui come liquido caldo. Lasciò andare la maniglia e si avventò contro l’altro, premendolo contro la parete. «Io cerco di essere gentile e tu fai lo stronzo, mi spieghi che cazzo vuoi da me?»
«Sinceramente?»
Restò in silenzio ad aspettare la risposta. Ovvio che diceva seriamente.
«Mi fai un po’ pena».  
Era confuso, Francesco era confuso. Strinse la presa sulle spalle del ragazzo, bloccandolo. «Ti faccio pena?»
«Non sei né come loro pensano che tu sia, né come tu vorresti essere, quindi mi dispiace. Mi dispiace perché la tua vita deve essere davvero penosa se nemmeno tu riesci a sapere chi sia il vero te stesso».  
Il silenzio calato nel momento in cui le sue dita si chiusero intorno al collo del veneto gli fece percepire tutta l’assurdità del momento. Non lo stava stringendo, era quasi uno sfiorarsi tra pelle e pelle. Fu come se all'improvviso la sua giugulare calda, il suo respiro affannato e il suo profumo dolce prendessero tutto un altro significato, obbligandolo a pensare a se stesso e a lui in un altro modo.
La cosa lo fece piegare e fu Carlo a non lasciarlo cadere, afferrandogli i fianchi asciutti.
«I miei genitori sono morti sei anni fa, mio fratello non credo neanche si ricordi che faccia ho» mormorò il biondo. «Credo che peggio di non essere accettati ci sia il non poterci nemmeno provare, ad essere accettati».
Francesco cercò il suo sguardo, ma l’altro era assorto a fissare lo specchio al loro fianco. Il contatto mancato delle sue iridi fredde gli fece stringere lo stomaco. Gli piaceva il modo in cui lo guardava, il modo in cui gli parlava e lo vedeva. E non era solo vanità la sua, era bello perché finalmente poteva provare il piacere di essere visto per ciò che era davvero. E non visto solo dagli occhi amorevoli di sua madre, o da quelli disgustati di suo padre.
«Francè, spostati, devo tornare a casa. Non posso venire a lezione conciato così».
I suoi lineamenti delicati, ancora piuttosto bambineschi, i suoi occhi grandi, le sue labbra rosse, il suo profumo inebriante lo bloccarono lì. A qualche centimetro dal suo viso.
«Non baciarmi» ordinò Carlo. Si spostò delicatamente e scivolò con estrema facilità dalla sua presa. «Ci vediamo».
Il moro serrò le palpebre finché non fu sicuro di essere completamente da solo. Le rialzò e incontrò le sue iridi liquide attraverso lo specchio.
«Chi sei?» domandò a nessuno, mentre l’altro se stesso seguiva col labiale la frase.
Qualcosa dentro la sua testa rispose con l’accento veneto.
“Francesco”.


Quella sera il cielo era di un fantastico blu scuro, naturalmente senza un accenno di stelle a causa della città luminosa ed inquinata, ma comunque bello. La luna piena appariva come unico diversivo, risplendendo su tutto e tutti. Qualche volta da bambino pensando alla luna gli era capitato di paragonarla ad una madre protettiva e romantica, che si prende cura di illuminare la notte dei propri figli per non farla sembrare troppo oscura e spenta, che si prende cura del sonno dei bambini e dei grandi senza pregiudizi, che bagna tutti con la sua luce e rivanga il passato ed i bei ricordi. La luna è un po’ come la madre di tutti, che ogni notte arriva e fa breccia nel buio, se perdi un momento ad ammirarla scaccia via le tue paure.
Mentre se ne stava fuori casa di Carlo provò a fissarla a lungo, ma si sentì comunque pervaso da uno strano senso di inettitudine che gli stava facendo salire la nausea.
Solo il freddo di quella sera primaverile lo spinse a suonare il campanello.
«Hey» sussurrò il biondo, attaccato allo stipite. Indossava solo dei boxer, i lividi erano scomparsi quasi del tutto.
«Volevo» indugiò. Spostò il peso del corpo da un piede all’altro e ci ripensò di nuovo. «Sai, per le prove.. nelle ultime due settimane sono andate bene, ma ho dei dubbi e così mi chiede-»
Sorrise. «Entra» disse, spostandosi dall’uscio.
Dopo aver rifiutato qualsiasi cosa da bere o da mangiare e aver notato che Marley non era da nessuna parte, Francesco si rilassò sul divano della sala deserta. La televisione era spenta. «Stavi facendo qualcosa?»
«No» tagliò corto il veneto . Si accomodò al suo fianco e sospirò. «Cosa vuoi Frà?»
Era quello. Il modo in cui Carlo pronunciava il suo nome. Senza menzogna o paura, come se nel dirlo stesse scavandosi una stradina dritta verso il suo cuore.
«Non lo so» non riuscì a guardarlo, si stava spogliando della sua corazza e proprio non ce la faceva. «Non voglio che si sappia che sono gay, voglio solo fare questo stupido spettacolo e finire le superiori. Magari cambiare città, non so, rifarmi una vita».
«Bene, è un buon punto di partenza» lo sorprese quel suo modo sereno di rispondere, senza un accenno di ilarità. «E nella tua nuova vita sarai gay?»
Francesco si fece coraggio e lo guardò. Carlo ricambiava curioso, sorridente. «Perché mi hai baciato?»
«Lo sai».
Rimasero qualche istante in silenzio, contemplando il suono lontano delle macchine di passaggio.
«Non avresti dovuto».
L’altro annuì. «Lo so».
Sorprendendo se stesso si issò sui gomiti e si sporse sul biondo. Non riuscì più ad accantonare la certezza del suo corpo senza vestiti a qualche centimetro dal suo ed un caldo asfissiante lo pervase.
Si abbassò sempre più sul suo volto, fino a sfiorare la punta del naso contro la sua.
Quando Carlo piegò la testa il moro azzerò ogni distanza e lo baciò. Erano giorni che non pensava ad altro che a quel loro primo bacio rubato ed era stata un’attesa estenuante.
Quando le loro lingue si sfiorarono, mentre i denti cozzarono, tutto divenne Carlo. I suoi capelli biondissimi sotto le dita, la sua pelle candida sotto la bocca, il suo sapore sulle labbra, il suo profumo nelle narici, il suo petto addosso al suo, la sua voce soffocata nella sua gola.
Tutto ciò che respirava e voleva era un ragazzo, quello che lui non aveva mai avuto il coraggio di avvicinare, di essere, di amare. 
Le dita del biondo scesero, arrivarono all’orlo dei jeans e lui lo lasciò fare, portando a sua volta le mani a levare l’intimo all’altro.
Carlo nudo sopra di lui era un sogno così reale da fare male agli occhi.
Una volta che entrambi furono senza vestiti si fermarono un istante, fronte contro fronte. Afferrarono più aria possibile, racchiudendola nei polmoni gonfi quanto le loro bocche. Cercavano di sopravvivere a quell’esplosione di emozioni ignari che quello era semplicemente lo scoppio della vita.  
«Francè» soffiò il più piccolo, strusciandosi su di lui.

«Tornerai a casa stanotte» non era una domanda quella di Carlo, eppure l’intonazione e la supplica nella sua voce ci andavano molto vicine. Strofinò il naso sulla sua clavicola tatuata e si spostò dal suo corpo, sedendosi nel mezzo delle sue cosce.
«Sì».
Il biondo rise, niente di allegro o felice. Si alzò e si infilò i boxer. «Vuoi salutare Marley?»
«No, ora no». Oh
  
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