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Autore: Tati_Pols    13/11/2017    0 recensioni
Destiny è una ragazza di 17 anni, impegnata con i comuni problemi dell'adolescenza. Questo è ciò che pensa suo fratello David, che l'ha portata a vivere con se quando lei aveva appena 10 anni, portando un po' di sollievo e conforto nella vita di Destiny. Ma fin da piccola combatte una guerra interiore che è cresciuta con lei, che l'ha spinta a chiudersi in sé stessa, con la sensazione di star sempre per crollare. Una maschera di acidità e indifferenza, che nasconde tutte le sue fragilità.
Quando incontra Jason non si fa ingannare dai suoi occhi profondi e dai suoi modi carismatici, riconosce però in lui uno sguardo perso, lo stesso che, a volte, ha lei stessa e questo la attrae e la allontana al tempo stesso.
Jason è tutto ciò da cui lei dovrebbe stare alla larga. Ma è anche tutto ciò che, in un modo o nell'altro, la attira sempre più pericolosamente vicino a lui.
Genere: Comico, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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180gr di biscotti al cioccolato (X) •100 gr di burro •500gr di Philadelphia Classica(X •120gr di zucchero a velo (X) •200ml di panna (X) •1 bacello di vaniglia •200 gr di lamponi (X) •200 gr di frutti di bosco misti (X) <> dissi, avvicinandomi al banco frigo e prendendone una confezione. <> borbottai tra me e me. Avevo ricopiato quella ricetta in fretta e furia quella mattina ma non mi ero accorta di non sapere cosa diamine fosse un bacello di vaniglia. Mi venne l'impulso di stropicciare quella lista e lanciarla il più lontano possibile, l'unica cosa che me lo impediva era l'idea allettante di una bella cheescake fatta in casa. <>. Mi girai verso il signore che aveva parlato, riconoscendolo come il responsabile del reparto, che gentilmente mi stava indicando lo scaffale degli aromi. <> risposi, con un sorriso tirato, avvicinandomi a prendere quella specie di stecca lunga e nera confezionata. Pagai ed uscii in fretta dal supermercato. Avevo altre tre ore da riempire prima di poter rientrare a casa; mio fratello David non doveva sapere che non ero entrata -ancora una volta- a scuola. Questa volta mi avrebbe uccisa. Misi le cuffiette e mi incamminai al mio solito posto. In un parco quasi al limitare della città c'era una casa in vendita da quando mi ero trasferita qui, e all'interno del suo giardino una piccola casa sull'albero. Mi erano sempre piaciute le case sull' albero, da piccola desideravo tanto averne una. Questa non era molto grande, era una sola spaziosa stanza, con due finestrelle e un piccolo "balconcino" se così si poteva definire, posto prima dell'ingresso. Scavalcai la staccionata con la busta e il mio zainetto in una mano, mi arrampicai per quelle scale artificiali imposte sull'albero e poi mi misi comoda con una bella scorta di cuscini e coperte che piano piano avevo portato li sù. Era un posto piacevole e tranquillo, quasi isolato. Uscii dallo zaino un libro di Ken Follet L'inverno del mondo e mi isolai completamente da tutto ciò che mi circondava. Ero talmente immersa dalla lettura che quasi mi accorsi del sangue che mi usciva dal labbro. Avevo il vizio di mordicchiarlo quando ero assorta o nervosa, un vizio che aveva quasi tutto il mondo lo riconosco, ma io proprio non lo lasciavo in pace nemmeno un secondo. Presi un fazzoletto e iniziai a tamponare il sangue, senza smettere di leggere. In sottofondo dalle mie cuffiette provenivano le parole di Ed Sheeren, Shape You, e se avessi già avuto la mia cheescake sarebbe stata la mattinata perfetta. Quando il mio orologio trillò, raccolsi la mia roba frettolosamente e mi apprestai a tornare a casa. Avevo messo quella sveglia per ricordarmi, ogni qual volta che bigiavo la scuola, che dovevo rientrare a casa. Una volta, infatti, addirittura mi addormentaii e mio fratello uscì pazzo quando rientrai a casa alle 16.00 del pomeriggio, dalle 8.00 di mattina che ero uscita. A volte era troppo, troppo, troppo snervante. Quante volte avevo ripetuto la parola troppo? Mai abbastanza. Legai i miei lunghi capelli castani in una coda alta, perché mi stavano facendo il solletico sul viso ed entrai in casa. <> dissi, non a voce abbastanza alta perché qualcuno potesse sentirmi. Effettivamente quasi non mi ero sentita nemmeno io. Mio fratello David comparve poco dopo dalle scale, vestito di tutto punto per andare a lavoro. Il suo completo grigio lo fasciava alla perfezione, peccato per quei capelli che non ne sapevano di rimanere ordinati. Un po' come i miei. Le sue labbra carnose si stirarono in un sorriso dolce quando mi vide, ed io cercai di imitarlo ma sentii subito che mi venne una smorfia orribile, così tornai seria. <> mi salutò, andando in cucina e versandosi un po' di caffè in una tazza. <> risposi, facendo lo spelling. Odiavo il mio nome, era stupido e insensato. Chi chiamerebbe mai la propria figlia Destino? Una persona che probabilmente odia la propria figlia e che non ci sta con la testa. Uh, ma guarda. Avevo appena descritto mia madre. <> mi chiese mio fratello, mentre stavo per salire le scale e andare in camera mia. <> risposi, rimanendo sul vago. <> domandò, sorseggiando il suo caffè. Merda. Il compito di matematica! Dee, sei uccificialmente una testa di cazzo. Un'olimpionica testa di cazzo. Mi ero dimenticata che fosse oggi! <> mentii spudoratamente per la 20 esima volta, quella mattina. No, non chiedetemi che bugie avevo detto. Non me lo ricordavo. Ma ero sicura di averne dette abbastanza. <> rispose David. <> esclamò lui, apparentemente calmo. Una cosa da annotare; quando David Cooper era apparentemente calmo, dentro di lui si stava scatenando l'inferno. <> sbottai, senza nemmeno rendermene conto. <>. <> lo corressi e lui mi lanciò uno sguardo di fuoco. Era più forte di me, non riuscivo a trattenermi. <> mi chiese, retoricamente. Mi sentivo un tantino in colpa. Che palle, odiavo i sensi di colpa. Mi sentivo così bene quando non sentivo nulla. Un controsenso? Può darsi. <> provai a dire ma mi interruppe. <> disse. <>. Maledetta professoressa White. Ma poi, giusto per ritornare al discorso di prima, che cognome era Bianco? E se avessi avuto io quel cognome? Bianco Destino. Pensate un po' alle risate. Senza riuscire a trattenermi, gli scoppiai a ridere in faccia. Bianco Destino! Era assurdo anche solo pensarlo quel nome, figuriamoci pronunciarlo. Mi ricordai improvvisamente di essere nel bel mezzo di una discussione con mio fratello, così tornai seria. Ma ormai il danno era fatto, David era proprio incazzato. <> provai a scusarmi, ma proprio quella parola non ne voleva sapere di uscire dalla mia bocca. <> sbottò lui, dandomi le spalle. <>. <> disse, quasi urlando. Mi venne un magone allo stomaco a cui rifiutai di dare ascolto. Afferrai il mio zaino e a mia volta urlai: <>, poi salii in camera mia. Sulle scale andai a sbattere contro Andrew e per poco non persi l'equilibrio. Lui mi afferrò per un polso e mi salvò da una frattura del coccige assicurata. <> mi chiese lui, prendendo lo zaino che mi era caduto e porgendomelo. Andrew era un amico di mio fratello, che si era trasferito qui qualche tempo prima di me. Riccioli biondo scuro sparati qua e là, occhi verdi, sorriso che in passato aveva fatto svenire (per non essere volgari manteniamo la lettera S) milioni di ragazze. Prima di innamorarsi della bambola di porcellana. Julie. Volevo dire Julie, giuro. Bionda, alta, occhi azzurri, tutta miele. Spargeva miele ogni volta che parlava tant'era dolce, ed era di una bellezza mozzafiato. <> spiegai, con una scrollata di spalle. <> disse lui sarcasticamente, poggiandosi al muro e picchiettandosi il mento. <>. <> dissi, bloccandolo. <> spiegai, con ovvietà. <> rispose Andrew, cercando di trattenere le risate . <> dissi. Non c'era niente da ridere. Benny Fox era davvero un coglione. <> gridò mio fratello dal piano di sotto. Andrew mi salutò e scese di sotto, per strappare un passaggio a mio fratello fino al bar dove lavorava. Mi trascinai faticosamente nella mia stanza. Le pareti verde acqua mi salutavano allegre e baciate dal sole. Il mio letto era ancora disfatto, per la stanza c'erano mucchi di vestiti e scarpe sparse, il mio comodino era pieno di carte di cibo, lattine di coca-cola e qualche libro già letto. Solo la mia scrivania era ordinata in modo quasi maniacale. Su di essa prendevano vita i miei migliori disegni, sia dipinti che con i colori a matita che con i carboncini. Ero in grado di creare qualsiasi cosa, con una matita. Ma ormai era da tempo che non disegnavo più. La scrivania vuota era uno sprecato poggia-vestiti, ma non me la faceva il cuore di spostare i prefetti colori allineati nel proprio astuccio, il plico di fogli bianchi e tele adagiate tra essa e il muro, gli acquarelli e la pittura posizionati a seconda della gradazione. Era un santuario. Un santuario ormai inutilizzato. Mi scaraventai sul letto, presi la mia cassa e alzai la musica a tutto volume. Se c'era una cosa che poteva offuscare i pensieri assordanti che rimbombavano nel mio cervello, quella era la musica. Mi alzai e improvvisai un concerto sul letto con la mia voce stonata da gabbiano agonizzante. Finsi anche di avere una chitarra. Wow, molto, molto divertente. Infine presi i compiti e iniziai a studiare. Iniziai dalla matematica, perché era la mia materia preferita. Risolvere quelle equazioni difficili mi faceva sentire bene, soddisfatta di me stessa. Era un po' come sciogliere l'aggrovigliamento di pensieri che avevo in testa e che spesso si accavallavano tra di loro. Era l' unico modo per farlo, o che almeno si avvicinasse a farlo, poiché era più semplice risolvere un'equazione di terzo grado che seguire il filo logico dei miei pensieri. Non impazzivo per la scuola, anche se studiare sotto sotto un po' mi piaceva. Solo che non riuscivo mai a concentrarmi il giusto. Frequentavo il penultimo amo di liceo ed ero certa che non avrei proseguito con gli studi, come David. Finiti i compiti scesi di sotto e mi concentrai sulla ricetta per fare la cheesecake, magari avrei ammorbitido David al suo ritorno, quella sera. <> commentò Mark, entrando in cucina. Mark era un altro coinquilino di quella casa. A dire il vero, era il proprietario. David e lui erano amici sin da piccoli, insieme a Charles, che abitava anche lui qui. Magari poteva sembrare strano abitare con quattro maschi, ma avevo 10 anni quando entrai in quella casa e mi consideravano tutti come se fossi anche un po' loro sorella. <<È per dopo cena>> spiegai, picchiettando sulla sua mano quando provò a rubare un lampone. La misi in frigo e preparai la tavola per tutti e cinque con dedizione; insomma, dovevo farmi perdonare da David! Avevo preparato anche il pollo con le patate. Ero una sorellina perfetta. Sì, come no. Il mio telefono suonò e la foto di me e David comparve sullo schermo. <> mi spiegò frettolosamente, appena schiacciai il pulsante verde. <> risposi. <>. Ero un po' delusa. Ma ignorai anche quell'emzione e mangiai, senza aspettare nessuno. Poi salii in camera e mi chiusi dentro, di nuovo con la musica a tutto volume. Il mio telefono si illuminò ancora una volta e una videochiamata apparve sul display. Lo sbloccai e un visino sdentato mi salutò con affetto. <> dissi, abbassando la musica e guardando gli occhietti vispi di mia nipote. In famiglia ero stata l'unica ad ereditare gli occhi azzurri di mia madre. Avrei preferito averceli color fango, pur di non avere niente che mi accomunasse a quella donna. <> esclamò lei contenta. <>. <> le dissi scherzosamente. <>. Mia cognata Roxenne, la moglie di mio fratello Dennis, comparve nel piccolo schermo dietro Melody. La salutai con un cenno della mano . <> urlò Roxy, gettando la testa indietro. Fantastico. Una bellissima riunione di famiglia via wirless. <> mi salutò mio fratello Dennis, mettendosi accanto a Roxy. Vedevo mezza faccia sia di uno che dell'altra, ma l'unica faccia che volevo vedere era quella di Melody o dell'altro mio nipote, Dawson, che aveva ereditato lo stesso nome di papà. Visto che ciò non era possibile e che non avevo particolarmente voglia di sorbirmi le chiacchiere di Roxy, dissi loro che avevo ancora da studiare. <> disse Dennis, prima di salutarmi. <> risposi, scrollando le spalle. <> annunciai, mentendo ancora, poi chiusi la comunicazione senza aspettare una risposta. 22 bugie in un giorno solo, ma brava, stai migliorando. Mi sdraiai di schiena sul letto e alzai i piedi sul muro. Dennis, Melody e Dawson mancavano anche a me. Anche Roxy mi mancava un po', ma tornare in quella casa mi distruggeva ogni volta. Mia madre sette anni fa se ne era andata di casa, abbandonandoci, ed io non sarei mai riuscita a perdonarla. Non solo perché se n'era andata, ma perché non mi aveva mai trattata da figlia. Io per lei non ero niente. Mio padre era lo sceriffo della città dove abitavo prima di trasferirmi da David a Wilminghton, quindi a casa c'era poco e niente. E quando c'era doveva badare alla mamma. Dennis era indaffarato tra il lavoro e Roxy e i bambini, quindi aveva iniziato anche lui a darmi sempre meno retta. E David se n'era andato di casa, per via di Dennis e Roxy, perché lei in precedenza era la sua ragazza, prima di diventare la ragazza di Dennis. Per quel motivo non si erano parlati per mesi ed anche se poi fortunatamente si erano chiariti, i primi mesi erano stati duri in famiglia. La partenza di David segnò una rottura definitiva nella mia famiglia. Il mio primo attacco di panico arrivò quando li vidi pestarsi a sangue (per la prima e unica volta in quel modo così violento) ed io per cercare di dividerli venni colpita. Avevo 9 anni. Poi, il non essere considerata da mia madre e le continue prese in giro dai miei compagni per le mie condizioni, non migliorarono di certo la situazione. A casa ero sempre sola. Vestivo con vestiti più piccoli perché mia madre si rifiutava di accompagnarmi. Scossi forte la testa, non dovevo pensarci. Quegli episodi appartenevano al passato, da quando David aveva iniziato a prendersi cura di me le cose avevano preso una piega migliore. Ma gli attacchi di panico non mi avevano mai abbandonata. Si presentavano violenti e famelici, succhiando via ogni singola mia energia. I miei compagni di scuola mi evitavano, per loro ero ciò che si considera "strana". Ma non era colpa mia, e comunque meno gente avevo attorno meglio stavo. Avevo sempre la testa fra le nuvole, i miei pensieri a volti erano sconnessi, tutto ciò perché piaceva starmene per conto mio, nel mio mondo, dove nessuno poteva entrarci. Solo io. Destiny Cooper.
   
 
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