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Autore: LazySoul    15/11/2017    2 recensioni
Trama:
Diana ha 17 anni, è la secondogenita dell'Alpha ed è trattata da tutti come una bambina.
Nel tentativo di dimostrare di essere grande abbastanza per combattere e difendersi da sola, chiederà aiuto alla persona che più la confonde, suscitando in lei sentimenti contrastanti, Xavier O'Bryen.
Tra uno spasimante indesiderato, una migliore amica adorabilmente pazza e un assassino in circolazione, riuscirà Diana ad accettare i sentimenti che prova per Xavier?
Estratto:
«Sei giovane, ancora non hai imparato che spesso gli odori celano delle emozioni», spiegò, appoggiandosi al materasso con le mani e avvicinando il viso pericolosamente al mio: «E sai cosa mi sta urlando il tuo odore in questo preciso istante?», mi chiese, anche se era palese che non si aspettasse una risposta.
«Prendimi», sussurrò ad un soffio dalle mie labbra.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo XIV: Edith, artista emergente

 

«Quand'è il tuo compleanno?»

Fu Xavier a spezzare il silenzio, facendomi sussultare per la sorpresa.

«Il 14 Aprile», risposi con tono scocciato.

Erano passati venti minuti buoni da quando ero entrata in camera sua per consegnargli la minestrina preparata dalla nonna.

L'unica cosa che mi impediva di andarmene era la stupida sfida che mi impediva di muovermi dal letto. Non avrei ceduto, ne andava del mio orgoglio: gli avrei dimostrato che ero in grado di stare sdraiata a far niente senza impazzire.

«Diciotto anni», sussurrò, muovendo il capo in modo da guardarmi in volto: «Hai in programma di organizzare una festa?»

Risi alle sue parole, scuotendo la testa per lo stupore: «I miei genitori non mi lasciano andare da sola alle feste. Cosa ti fa pensare che potrebbero permettermi di organizzarne una?»

«Prima di ieri sera non eri mai andata ad una festa?», mi chiese, gli occhi colmi di stupore.
«Non da sola», ammisi con una smorfia: «I miei non mi lasciano andare da nessuna parte senza Kyle come guardia del corpo».
«Come mai?»
«Guardano troppa tv, sono convinti che le feste siano un luogo pericoloso per le ragazze. Mi dicono sempre di fare attenzione a cosa bevo e di non dare confidenza agli estranei», dissi, alzando gli occhi al cielo: «Come se qualche umano potesse mai farmi del male».

Xavier rise, scuotendo la testa: «Ho avuto il piacere di scontrarmi con te; sei forte Diana, ma non sei invincibile. Posso capire la preoccupazione dei tuoi genitori».

Sospirai: «Lo so, ma non sono nemmeno una ragazzina indifesa. So badare a me stessa».

«Devi dare loro tempo», disse Xavier: «Anche mio padre era sempre molto apprensivo con me».

«Davvero?», chiesi, curiosa.

«Sì, mi riempiva di raccomandazioni ogni volta che mi facevo degli amici e volevo uscire con loro. La mia adolescenza è stata piuttosto solitaria in realtà, ci trasferivamo da una parte all'altra degli Stati Uniti ogni pochi anni, non era facile stringere amicizie durature. Quando venne attaccato, avevamo appena finito di litigare; gli avevo detto che volevo entrare a far parte di un vero branco, che volevo avere un luogo da considerare casa. Sono stato stupido; pensavo di aver bisogno di quattro mura e un tetto fisso sopra la testa, quando poi tutto quello che mi serviva per sentirmi a casa era lui, la mia unica famiglia».

La tristezza che traspariva dalla voce di Xavier era tale da farmi sentire un fastidioso groppo in gola.

Non riuscivo a immaginare come dovesse sentirsi. Nella mia breve vita avevo partecipato ad un unico funerale, quello della signora Picard, e mi era bastato.

«Quanti anni hai?», chiesi, tenendo lo sguardo basso; sapevo che se avessi visto nei suoi occhi il dolore che avevo percepito nella sua voce, avrei finito per fare qualcosa di stupido. Come per esempio baciarlo nel tentativo di consolarlo.

«Ne compio 23 a Luglio», disse: «Chissà dove saremo».

Aggrottai le sopracciglia e lo scrutai: «In che senso?»

I suoi occhi chiari seguirono i lineamenti del mio volto con un'espressione dolce e vagamente divertita: «Beh, prima parlavamo di un viaggio in giro per il mondo. A Luglio potremmo essere qua, come in Europa o...»

«Sei sicuro di voler venire con me? Non volevi mettere radici?»

Ero rimasta colpita dalle sue precedenti parole, quando aveva parlato del padre e del loro litigio. Possibile che perdere suo padre gli avesse fatto cambiare così profondamente idea?

«Era quello che credevo di volere», disse: «Ora non ne sono più sicuro».

«Perché no?»

«Perché ho conosciuto te».

L'aria mi rimase incastrata nei polmoni, il cuore batteva forte contro la mia cassa toracica e il dolore era tale da farmi sentire debole. Mi sollevai dal letto, quel tanto che bastava per poter sovrastare il suo viso col mio, appoggiandomi coi gomiti al materasso.

Cercai nel suo sguardo la veridicità delle sue parole e tutto quello che trovai fu la mia stessa paura, la mia stessa confusione e la mia stessa resa.

Per quanto si mostrasse padrone della situazione, era spaventato quanto me dal forte legame che ci univa.

Il suo cuore sembrava impazzito quanto il mio, il suo respiro era irregolare e accelerato come il mio.

La paura venne sostituita da una sensazione di pace; sapere di non essere sola, di non essere l'unica a provare quelle emozioni così totalizzanti e nuove, mi trasmise un senso di calma e appartenenza.

Non aveva senso avere paura. Non di lui e non di quello che ci univa.

Lasciai che la mano destra percorresse i contorni del suo viso, saggiando la pelle ruvida per l'accenno di barba che gli scuriva la mandibola. Il pollice sfiorò il suo labbro inferiore, facendo dischiudere le sue labbra morbide e invitanti. Di riflesso, socchiusi a mia volta la bocca, lasciandomi sfuggire un sospiro.

Xavier sollevò il volto, nel tentativo di avvicinarlo al mio, proprio mentre io mi abbassavo su di lui.

Le nostre labbra s'incontrarono a metà strada, brevemente; eppure quel semplice contatto mi emozionò più di quanto avrei mai potuto pensare.

Contrassi le dita, stringendo forte una manciata di suoi capelli; sentendone la consistenza morbida contro i polpastrelli.

Fu un bacio breve, giusto il tempo di inspirare a fondo il suo odore e lasciarmi travolgere dalle forti emozioni che quel semplice contatto aveva provocato nel mio corpo, poi ci separammo.

Le labbra mi formicolavano e le dita pizzicavano.

Un brivido di desiderio mi attraversò interamente, lasciandomi senza fiato.

Emise un suono gutturale, un gemito quasi sofferente e si sollevò ancora, nel tentativo di far scontrare nuovamente la mia bocca con la sua, ma io mi allontanai, appoggiando una mano contro il suo petto per farlo rimanere sdraiato.

Il forte desiderio nei suoi occhi mi fece paura, i suoi occhi sembravano più scuri, colmi di una risoluzione, di una fame e una follia che ero certa fossero presenti anche nei miei.

«Diana», sussurrò, tentando nuovamente di sollevarsi.

Mi alzai, mettendo qualche passo tra il letto e me.

Tenevo gli occhi bassi, puntati sulle mani che mi tremavano in modo incontrollato. Stargli lontano era più difficile di quanto avessi pensato; combattere contro il mio stesso corpo non era facile.

Strinsi forte le mani a pugno e sollevai lo sguardo, incontrando l'espressione dolorante e contrariata di Xavier. Aveva provato a sollevarsi per afferrarmi e impedirmi di allontanarmi da lui; tutto ciò che aveva ottenuto, muovendosi in modo così sconsiderato, era stato aprire la ferita sulla sua spalla.

Corsi verso la porta e chiamai nonna, dicendole di fare in fretta, poi tornai accanto a lui, dove l'odore del suo sangue e il rosso che ricopriva ora la sua spalla erano più vivi e forti.

Aprii bocca, avrei voluto dirgli che mi dispiaceva, ma le parole mi rimasero incastrate in gola.

Rimasi semplicemente a fissarlo, spostando lo sguardo dalla sua spalla dove il rosso sporcava sempre di più la garza bianca, al suo volto contratto dalla sofferenza.

Quando nonna arrivò, borbottando qualcosa a proposito dell'incoscienza dei giovani d'oggi, portando con sé delle garze pulite, ne approfittai per fuggire; non riuscivo a sopportare lo sguardo di Xavier e il dolore che gli induriva i lineamenti. Sapevo che quel dolore non era dovuto alla ferita aperta, non solo almeno.

Il senso di colpa mi spinse a fuggire; scesi le scale di corsa, il cuore che mi batteva furiosamente nel petto e le guance rosse per la vergogna.

Mi chiusi in camera, dove mi gettai sul letto, nascondendo il volto contro il cuscino.

Ero una codarda, un'essere ignobile e senza spina dorsale.

Quando era successo? Quando ero diventata un essere tanto pavido e orribile?

Ero fuggita di fronte al momento più bello di tutta la mia vita.

Mi voltai a pancia in su e mi coprii il volto con le mani. Sbirciai la sveglia sul comodino attraverso le dita e mi resi conto che era ormai pomeriggio inoltrato; un paio di ore e mamma avrebbe chiamato tutti a tavola per cena.

Non avevo nemmeno dato la minestra a Xavier; avevo preferito accettare la sua stupida sfida e coricarmi accanto a lui sul letto, per dimostrargli che ero in grado di stare ferma e non fare nulla...

Oh, cavolo! Avevo perso.

Sbuffai e chiusi gli occhi, concentrandomi per sentire il battito cardiaco di Xavier al piano di sopra. I muri di casa mia erano piuttosto spessi ma, se ci si impegnava, era possibile sentire ogni minimo rumore.

«Sta fermo», sentii dire alla voce di nonna.

Xavier gemette per il dolore, udii nonna borbottare qualche parola che non riuscii a distinguere.

«Diana doveva nutrirti, non farti riaprire le ferite di questa notte», si lamentò lei, facendomi chiudere gli occhi per la vergogna.

Mi pentivo di ciò che avevo, o forse sarebbe stato meglio dire non avevo fatto, ma ormai era tardi.

Non potevo tornare indietro nel tempo, tutto quello che potevo fare era sperare che Xavier non mi odiasse troppo.

«Non è stata colpa sua», rispose O'Bryen, con voce bassa e dolorante, tanto che faticai a distinguere le parole che stava pronunciando: «Sono stato impulsivo».

«Mia nipote è giovane», disse nonna, il tono di voce mi ricordava quello che rivolgeva a mio padre per rimproverarlo quando non si comportava come lei gli consigliava: «Ha bisogno di tempo».

Le parole di nonna mi fecero scottare le guance per l'imbarazzo; malgrado sapessi che aveva ragione, sentirglielo dire fu comunque destabilizzante.

«Lo so», rispose Xavier: «Solo che a volte me ne dimentico».

Smisi di origliare, decidendo di aver udito fin troppo.

Per non cedere alla tentazione di tornare ad ascoltare la loro conversazione, recuperai gli auricolari dallo zaino e poi presi il computer dalla scrivania, accendendolo.

Non potevo utilizzare il cellulare come mio solito per ascoltare la musica, mamma l'aveva già sequestrato; notavo con rassegnazione che non si trovava più sulla cassettiera, ossia dove l'avevo lasciato.

Inserii gli auricolari nell'apposita apertura laterale e la riproduzione di brani casuali decise di deliziarmi con le prime note di "Under Pressure" dei Queen.

Appoggiai il computer sulla pancia e mi lasciai cadere di schiena sul materasso.

Tenevo gli occhi chiusi per concentrarmi sulle parole della canzone, che canticchiavo a mezza voce.

Non ero particolarmente brava a cantare, la maggior parte delle volte non riuscivo a raggiungere la nota giusta e finivo con stonare malamente, rovinando l'armonia della canzone. Ero però troppo testarda per arrendermi e continuavo a provarci, malgrado Kyle mi urlasse contro o mi insultasse ogni volta che mi sentiva cantare.

«Why can't we give love that one more chance?», sussurrai a fior di labbra, sorridendo tristemente: «Why can't we give love give love...».

Smisi di cantare e sfilai gli auricolari, il petto compresso da una strana sensazione di malessere.

Possibile che ogni cosa mi facesse pensare a Xavier? Possibile che non riuscissi a scollegarmi dalla realtà per pochi brevi minuti?

Con un sospiro rassegnato abbassai lo schermo del computer.

Avevo sbagliato ad allontanarmi, a non baciarlo nuovamente quando tutto ciò che volevo era sentire ancora le sue labbra bollenti e delicate sulle mie.

Quello che ci eravamo scambiati non era stato il mio primo bacio, ma avrebbe potuto benissimo esserlo. Non avevo mai provato quella totalizzante sensazione di pace e desiderio. Con nessuno.

Mi portai una mano al petto, cercando di calmare il battito impazzito del mio cuore.

Sarebbe potuto sembrare facile; tutto quello che dovevo fare era andare da lui, dirgli che provavo per lui qualcosa che non riuscivo a descrivere a parole, dirgli che non potevo immaginare la mia vita senza di lui, baciarlo.

Non era affatto facile.

Non quando ci conoscevamo da una settimana e tutto quello che sapevo di lui era l'età, il giorno del suo compleanno e pochi (troppi pochi) dettagli a proposito della sua adolescenza.

Sollevai nuovamente lo schermo del computer e feci una cosa che non facevo da almeno una settimana: entrai sul mio profilo su Facebook.

Avevo una ventina di notifiche e una richiesta d'amicizia.

"Ma dai, Alan Truce vuole diventare mio amico, interessante".

Sorrisi, ripensando alla sera precedente e al modo in cui lui e Isabel avevano ballato il lento; stretti l'uno all'altro, persi in una conversazione sussurrata a mezza voce.

Accettai l'amicizia e poi controllai le notifiche, erano principalmente di Sab, mi aveva taggato sotto una decina di foto di meme, oltre ad avermi menzionata in un paio di post.

Isabel era quella tecnologica tra noi due; quella che non poteva vivere senza Facebook, Instagram, Twitter e Snapchat. Quella che mi faceva vedere foto di attori o modelle, criticandoli oppure osannandoli.

Ricordo che una volta mi aveva fatto vedere la foto di un modello particolarmente carino, dicendomi che quello sarebbe stato il padre dei suoi figli. Quando le avevo detto che non avevo idea di chi fosse quel ragazzo, lei mi aveva tirato un coppino, dall'alto del suo metro e sessantasette, e mi aveva detto che dovevo smetterla di vivere fuori dal mondo e farmi una cultura. In risposta le avevo chiesto il nome del cantante dei Queen, quando era rimasta in silenzio per cinque secondi buoni, le avevo detto che quella che si doveva fare una cultura era lei e avevo smesso di ascoltarla per qualche minuto. Avevamo fatto pace dividendo un doppio cheeseburger con patatine e frappé al cioccolato, perché non avevamo abbastanza soldi per potercene permettere uno a testa.

Guardai, una dopo l'altra, tutte le foto sotto le quali mi aveva taggata, poi le inviai un messaggio, chiedendole come stesse, l'ultima volta che l'avevo vista era stata quella mattina, intorno alle cinque di mattino, quando l'avevo abbandonata da sola in tenda per soccorrere Xavier. Speravo non se la fosse presa troppo.

Mentre aspettavo che rispondesse, decisi di scorrere velocemente la home di Facebook, ma mi stancai presto e, guardandomi intorno, l'occhio mi cadde sulla ricerca di Cernuda, abbandonata ai miei piedi.

«Tanto vale fare qualcosa di utile», borbottai, allungando la mano e scorrendo con lo sguardo la biografia di Cernuda, alla ricerca dell'asterisco che avevo fatto in matita per indicare ciò che avevo già studiato e cosa no.

Il telefono di casa squillò, facendomi sussultare per la sorpresa.

Fu Edith a rispondere: «Pronto?», la sua voce dal tono allegro e infantile e il modo in cui allungò la vocale finale della parola, mi fecero sorridere.

«Ciao! Va bene, te la chiamo subito», ci fu un secondo di pausa e poi con tutto il fiato che aveva in corpo, Edith urlò il mio nome: «Diana, telefono!»

Abbandonai il computer e la ricerca sul letto e infilai in fretta le ciabatte pelose, correndo in salotto.

Mia sorella mi porse la cornetta con un sorriso: «É Isabel», disse, poi saltellò verso il tavolo, dove il suo set di acquarelli l'attendeva.

«Pronto?»

«Tu sei la peggior amica che esista sulla faccia della terra», disse Sab. Me la immaginai stravaccata sul divano, oppure sul suo letto, una coperta ad avvolgerle i piedi e una tazza bollente di latte tra le mani. La conoscevo così bene che forse avrei potuto anche indovinare il colore del maglione che indossava in quell'istante.

«Lo so», ammisi, sedendomi a terra, accanto al mobiletto su cui si trovava il telefono fisso, portandomi le ginocchia al petto.

«Per una settimana hai fatto leva sulla mia ingenua bontà fino a convincermi a fare questa pazzia, assicurandomi che nessuno l'avrebbe mai scoperto e che ci saremmo divertite e basta. Poi, mi abbandoni da sola, di notte, nel bosco, per salvare O'Bryen che, vorrei ricordarti, avevi detto di odiare, e mi fai venire a recuperare da Kyle».

Rimasi in silenzio, sapevo che non aveva ancora finito e che aveva bisogno di sfogarsi.

«Quando tuo fratello mi ha svegliata ero in posizione Superman, con la bava alla bocca e il mascara che mi arrivava fino al mento».

Mi coprii la bocca per non farle sentire la mia risata, anche se silenziosa. Dovevo assolutamente chiedere a Kyle se aveva avuto il tempo e la prontezza di farle una foto prima di svegliarla.

«So che stai ridendo e questo non è affatto il comportamento che ci si aspetterebbe dalla propria migliore amica», disse Sab con il suo tono fintamente ferito; sapevo che, malgrado fosse arrabbiata con me, stava sorridendo anche lei in quel preciso istante.

«I miei genitori mi hanno messo in punizione per il resto della mia vita, quindi non c'è niente da ridere», aggiunse, sospirando tristemente.

«Per il resto della tua vita?», chiesi, stupita; i signori Drake non mi sembravano il tipo da mettere in punizione la figlia così a lungo.

«Ma no, l'ho detto per dire. Volevo farti sentire in colpa», disse Sab: «Ci sono riuscita?»

Scoppiai a ridere e questa volta non cercai nemmeno di nasconderlo.

«Direi di no», commentò con un sospiro rassegnato: «Comunque la punizione non è stata affatto leggera: non posso avere una vita sociale all'infuori della scuola per una settimana. Se mi comporterò bene, la prossima domenica questo incubò sarà finito, altrimenti la punizione proseguirà per ancora una settimana. Sappi che incolpo te di tutte le cose brutte che stanno capitando nella mia vita».

«Addirittura? Cosa intendi con "cose brutte"?», domandai, smettendo di ridere, curiosa di sentire la sua risposta.

«Sì, addirittura», esclamò: «Ti incolpo della punizione che mi hanno dato i miei genitori, del brufolo che mi è comparso sulla fronte a causa dello stress a cui mi hai sottoposto con il tuo comportamento sconsiderato e del polpettone bruciato che ha preparato mamma a pranzo».

Scoppiai a ridere, coprendomi il volto con la mano: «Come fa ad essere colpa mia il polpettone bruciato di tua madre?»

«Continuava a urlarmi contro per la questione "festa" e non ha sentito suonare il timer, quindi ha bruciato il polpettone. Mia mamma, la regina del polpettone, ha bruciato il polpettone ed è tutta colpa tua».

Mi passai la mano tra i capelli, cercando di contenere la mia ilarità; sapevo che Sab poteva essere particolarmente permalosa quando si strattava da cibo; bastava pensare al modo schifato con cui mi aveva guardato la sera prima quando avevo "osato" mangiare un bignè e una pizzetta insieme.

Ridere del polpettone bruciato della signora Drake avrebbe potuto firmare la mia condanna a morte.

«Mi dispiace, Isabel», ammisi, attorcigliandomi il filo del telefono intorno alle dita: «Come potevo sapere che il nostro brillante piano sarebbe stato sabotato da O'Bryen?»

A pronunciare quel nome una stretta fastidiosa mi strinse lo stomaco.

Forse avrei dovuto scusarmi anche con lui; per aver lasciato che la mia irrazionale paura di innamorarmi rovinasse il nostro primo bacio.

«A proposito, come sta?», chiese Sab.

«Meglio di qualche ora fa, un paio di giorni al massimo e sarà come nuovo», la rassicurai, sentendola sospirare di sollievo: «Meno male».

Per qualche secondo rimanemmo in silenzio.

Ero incantata a fissare mia sorella colorare e il modo concentrato con cui faceva attenzione a non uscire dai bordi, quando Sab parlò: «Alan mi ha chiesto di andare al cinema sabato pomeriggio».

Riuscivo a figurarmela, sdraiata sul divano, con un sorriso radioso in volto e gli occhi a forma di cuore persi a fissare il soffitto.

«E?», le chiesi, curiosa di sapere maggiori dettagli.

«E gli ho dovuto dire di no perché per colpa di qualcuno, di cui non ho intenzione di fare il nome coff, coff, Diana, coff, sono in punizione».

Era ufficiale, Isabel non mi avrebbe mai perdonato. Non solo le avevo indirettamente impedito di uscire col ragazzo con cui aveva ballato un lento la sera precedente, ma avevo anche spinto la signora Drake a bruciare il polpettone.

Ero una pessima amica.

Sospirai.

Sapevo cosa dovevo fare per farmi perdonare, ma non ero sicura di essere in grado di compiere un sacrificio simile. Mi grattai il mento, sperando che Isabel dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, per farmi capire che in fondo non era poi così arrabbiata.

Dal suo capo della linea giungeva solo silenzio.

«Indosserò un vestito», dissi, una smorfia schifata in faccia e gli occhi chiusi dallo sconforto: «Questo sabato, al plenilunio».

Sab trattenne il fiato per qualche secondo: «E metterai il rossetto che ti ho regalato a Natale».

Aprii bocca per protestare, poi mi resi conto che non potevo negoziare; dovevo farmi perdonare e se quello era l'unico modo in cui avrei potuto farlo, allora avrei accettato passivamente le sue condizioni.

«Va bene».

«Sì!», urlò Sab.

L'istante successivo sentii chiaramente qualcosa cadere a terra e la mia amica imprecare.

«Isabel?», chiamai, cercando di capire cosa fosse successo.

«Ora ti devo lasciare, ho fatto cadere a terra la tazza di latte e miele e se non pulisco in 0,2 secondi rischio che mamma se ne renda conto e...»

«Isabel Teresa Drake cosa diavolo...?», urlò la voce a dir poco adirata della signora Drake.

«Ci vediamo domani a scuola, forse», sussurrò Sab, poi concluse la chiamata.

Quando posai la cornetta, venni immediatamente intercettata da nonna, che mi chiese di aiutarla a preparare cena, mettendomi in mano il mestolo per girare la minestra, mentre lei preparava lo spezzatino di cervo, uno dei miei piatti preferiti. Prestai la massima attenzione ad ogni suo passaggio, cercando di memorizzare ogni minimo dettaglio. Dovevo approfittare della sua conoscenza per farmi insegnare tutto ciò che sapeva; così da essere poi in grado di cavarmela da sola una volta che fossi andata in giro per il Mondo.

«Nonna?», attirai la sua attenzione: «Mi insegni i tuoi segreti?»

Vidi nonna smettere di legare con spago da cucina la salvia, l'alloro e il rosmarino fresco, così da sollevare lo sguardo e puntarlo sul mio volto: «I miei segreti?»

«Sì, a riconoscere le erbe, crearci medicine e unguenti, a cucinare...», elencai, senza smettere di mescolare la minestra e fissandola con occhi colmi di supplica.

«Va bene», disse nonna, tornando a legare il mazzetto di erbe aromatiche: «Se vuoi, domani dopo scuola possiamo avere la nostra prima lezione».

Sbarrai gli occhi per la sorpresa e la contentezza: «Grazie!», esclamai, trattenendo a stento l'euforia.

«É giusto tramandare la mia conoscenza a qualcuno. Non vivrò per sempre e penso che tu, tra i tuoi fratelli, sia quella maggiormente portata per apprendere e portare avanti la tradizione che mia nonna aveva insegnato a me quando avevo la tua età. Prima di imparare però a riconoscere le erbe, faremo una lezione di storia, sulle origini del nostro popolo e sul perché vivere in armonia con la natura sia così importante, quasi necessario».

Alla parola "storia" sentii un po' del mio entusiasmo scemare, ma non mi persi d'animo e le sorrisi: «Va bene».

Pochi secondi dopo arrivò anche mamma a darci una mano, apparecchiando tavola.

«Questa settimana hai verifiche?», mi chiese, mentre disponeva i piatti.

«Ho un'interrogazione», dissi, ricordandomi della ricerca su Cernuda.

«Che materia?»

«Spagnolo», dissi, venendola annuire distrattamente.

«Domani non ci sarò a cena», disse mamma, portandosi le mani ai fianchi: «Io e tuo padre andiamo da Rice, a quanto pare facciamo un'ultima riunione pre-plenilunio per decidere i dettagli finali. Mi raccomando, mi aspetto che vi comportiate bene e che non facciate impazzire vostra nonna».

Aggrottai le sopracciglia, mettendomi sulla difensiva: «Perché lo dici solo a me?»

«Con tuo fratello e tua sorella ne ho già parlato», mi spiegò, sollevando gli occhi al cielo.

«Ah, va bene», dissi, annuendo.

Volevo chiederle più dettagli; più cose avrei saputo sulla festa di sabato (per esempio il numero di persone davanti alle quali mi sarei umiliata indossando un vestito) meglio mi sarei potuta preparare all'inevitabile catastrofe.

In quell'istante entrò in cucina mio fratello, il piatto che un tempo conteneva i biscotti era ormai vuoto e stretta in una sua mano. Quell'infame aveva anche il coraggio di sorridermi come se niente fosse.

Lo fulminai con lo sguardo: «Me la pagherai».

Mamma e nonna si lanciarono occhiate confuse, e vidi con nell'angolo del mio campo visuale sollevare le spalle e scuotere la testa confuse mentre cercavano di capire perché dovessi farla pagare a mio fratello.

Kyle appoggiò il piatto sul bancone della cucina, poi si portò una mano al cuore: era l'immagine dell'innocenza:«Sorellina, non capisco a cosa ti riferisci».

Sbuffai, colpendolo alla spalla sinistra: «Hai mangiato tutti i biscotti!»

Presa dalla furia, tentai di saltargli addosso e colpirlo in quella sua testa vuota, ma le mani di papà (che non avevo sentito arrivare) si appoggiarono sulle mie spalle, bloccandomi dov'ero.

«Cosa sta succedendo qua?», chiese, scompigliandomi i capelli e lanciando a Kyle un'occhiata indagatrice.

«Papà!», mi lamentai, tentando di sfuggire alla sua presa, ma lui mi strinse in uno dei suoi abbracci da orso, rischiando di soffocarmi con la sua mole e impedendomi per cinque lunghi secondi di fuggire.

Quando potei respirare e muovermi nuovamente, puntai l'indice contro Kyle: «Ha mangiato tutti i biscotti!»

Mamma scoppiò a ridere, seguita subito dopo dalla nonna. Traditrici.

Papà sorrise e mi scompigliò nuovamente i capelli: «Quando la smetterete di punzecchiarvi come quando eravate bambini? Pensavo foste cresciuti entrambi».

Aprii bocca per ribattere e fargli notare che era stato Kyle a rubarmi i biscotti, quindi il bambino era lui, non io, ma venni interrotta da Edith, che arrivò correndo con in mano un foglio e un sorriso radioso sulle labbra.

«Papà, guarda!», esclamò, mettendogli sotto al naso il disegno, che non potei fare a meno di sbirciare.

Sul foglio c'era disegnata, in modo abbastanza chiaro da essere sorprendete per essere frutto della manualità e fantasia di una bambina di otto anni, la camera in mansarda e due figure sul letto che si stavano baciando.

Sbarrai gli occhi e sfilai dalle mani di mia sorella il disegno, così da poterlo vedere bene.

Spostai lo sguardo su Edith: «Cos'è questo?», le chiesi, impedendo al resto della famiglia, che mi pressava da ogni lato, di dare anche solo una breve sbirciatina al disegno.

Mia sorella sfoggiò il suo sorriso più malefico, poi esclamò: «Diana ama Xavier! Diana ama Xavier!»

Tutti scoppiarono a ridere, Kyle riuscì a rubarmi di mano il disegno e scoppiò a ridere ancora più forte, mentre io fissavo la scena con un misto di orrore e vergogna, con le guance bollenti per l'imbarazzo.

Mamma e papà mi scrutarono con un sorriso malizioso che peggiorò ulteriormente la situazione.

Tutto ciò che riuscii a dire in mia difesa fu: «Edith ha fin troppa fantasia».

Nessuno però sembrò credermi.

 

**********

Ciao a tutti!

Scusate se vi ho fatto aspettare un po', ma non è stato facile scrivere questo capitolo (la scena del bacio è stata un'agonia per me come per voi, anzi, forse per me è stata addirittura più traumatica) 🙈

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che abbiate voglia di lasciarmi un commento per farmi sapere la vostra opinione!

Un bacio 😘

LazySoul

  
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