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Autore: melville    17/11/2017    0 recensioni
Ricominciare.
é una parola semplice, ma forse metterne in pratica il significato non lo è altrettanto. E Peter lo sa bene, purtroppo.
Una storia dove il passato e il presente sembra continuino a inttreciarsi senza lasciarsi andare. Tra università, turni di lavori part-time e coinquilini impiccioni, Peter cerca di andare avanti con la sua vita senza dover affrontare i fantasmi del passato... ma a volte nemmeno la più forte delle volontà può bastare. Non quando, a dirla tutta, non si è pronti a voltare per sempre pagina per primi.
Una storia dove ricominciare non vuol dire necessariamente chiudere per sempre il libro, ma iniziare semplicemente un nuovo capitolo.
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Rimaniamo tutti qualche istante in silenzio prima che la voce di Jace mormori qualcosa come: “E chi era quella fica?”
Non so se sentirmi geloso per l’apprezzamento rivolto alla ragazza o ridere per il solito modo inopportuno di Jace. Scelgo l’indifferenza, che forse mi salva più di tutto ormai.
“Nessuno d’importante Jace”, solo il mio più grande amore e immenso rimpianto.
Martyn mi guarda male e Marie Claire alza un sopracciglio scettica, perché alle donne certe cose non sfuggono.
“Allora”, sospiro “Riprendiamo il lavoro?”
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo II

lunedì

 

Suona la sveglia, poggiata sul comodino affianco al letto.

Odio le mattine: il doversi alzare presto, il dover fare tutto di corsa, l’aria fredda che ti prende ogni giorno impreparato quando esci di casa, la colazione trangugiata al bar se hai fortuna oppure lo stomaco vuoto fino a pranzo, le macchine che non rispettano le strisce, i pedoni che non rispettano i semafori e i lavori sulle linee della metropolitana che ti fregano sempre.

Odio così tanto le mattine e sono tanto fortunato –si dice sarcasticamente- da dovermi svegliare tutti i giorni presto, perché quando non devo andare a lezione ho comunque il turno a lavoro e vice versa. La mia vita è un puzzle intricato tra i miei doveri, i miei obblighi, le cose che vorrei e ciò che realmente ho.

Oggi, comunque, le lezioni in facoltà sono nel pomeriggio perciò ho almeno la soddisfazione di poter fare una colazione abbondante e con la necessaria calma, mentre faccio il turno al bar.

Inoltre il bar è solamente a qualche isolato dall’appartamento, quindi posso tranquillamente arrivarci in bici, senza dover fare troppi giri con autobus e metropolitana. Tra l’altro l’app della London Tube dice che oggi la linea nera sarà fuori uso, non oso immaginare il casino che ci sarà in centro.

Mi piace andare in bicicletta perché è salutare, economico e da ecologista. Tutto sommato mi fa sentire una persona migliore, certo poi butto sempre i mozziconi di sigarette per terra e torno ad essere un cittadino di merda, però illudersi per quei dieci minuti di strada non ha mai fatto male a nessuno.

Entro nel bar che è passato un minuto alle sette e Martyn, il ragazzo che fa il turno con me e ha il compito di aprire il locale, mi accoglie con un applauso sarcastico: «Cavolo Pete, sei migliorato: oggi solo un minuto di ritardo!»

«Hai visto che quando mi metto d’impegno posso fare miracoli?» ribatto altrettanto sarcasticamente e Martyn ride allacciandosi il grembiule in vita e andando a girare il cartello alla porta da ‘chiuso’ ad ‘aperto’. E la mattina inizia con un cappuccino e un muffin al limone che nemmeno da Costa li fanno così buoni.

Cominciano a comparire i soliti clienti abituali che vanno presto a lavoro e si fermano per un veloce caffè, poi c’è l’ondata di studenti che con più calma possono anche sedersi ai tavolini e chiacchierare godendosi la colazione, ci sono però anche quelli che arrivano in ritardo e prendono qualcosa da portare vie e: «Non troppo caldo per favore!»

Ci sono le mamme con i bambini seguite da coloro che hanno la pausa a metà mattina a lavoro o che a lavoro proprio non ci sono andati. Arrivano poi un paio di ragazzi stranieri che probabilmente stanno facendo il corso di lingua nella scuola dietro l’angolo, hanno dei pessimi accenti e dei modi di fare esuberanti: entrano e il locale si riempie di chiacchere e gridolini. Mi viene da ridere perché in mezzo a tutti gli inglesi tranquilli risaltano come un arcobaleno su uno sfondo in bianco e nero.

Verso le 11.30, come al solito, il locale è completamente vuoto se non per un gruppetto di gente anziana che dopo aver preso un té verde ha cominciato l’usuale partita di bridge al tavolo, e io posso permettermi di uscire per la pausa sigaretta che sogno da quando ho cominciato il turno.

La strada anch’essa è popolata da pochissime persone, ma sul marciapiede è ritto in piedi a qualche passo da me il ragazzo che si occupa del negozio di dischi affianco al bar. Anche lui sta facendo pausa fumandosi una tabaccata, o almeno suppongo sia solo una tabaccata.

Si chiama Dean, ha i capelli e la barba rossa e l’anellino al naso. Si veste sempre con dei jeans strappati un po’ ovunque e la maglia di qualche band heavy-metal che conosce solo lui, i polsi sono pieni di braccialetti e quando mette le maniche corte si vedono i tatuaggi che scendono dalla spalla destra. Per completare la sua figura da vero rocker indossa sempre dei Dr. Martens nero opachi, giuro di non averlo mai visto senza indosso quegli anfibi.

«Ehi Dean» lo saluto richiamando la sua attenzione.

Mi rivolge un sorriso di sbieco e un po’ stanco, gli occhi azzurri si vedono a malapena sotto le palpebre pesanti.

«Ciao Peter, come va oggi?»

«Bah… Solita storia da lunedì mattina. Novità?»

Mi guarda scettico e butta nel cestino il mozzicone della sigaretta finita, «Se ci fossero novità, ora starei sorridendo» mi risponde con uno sguardo serio.

Ed ecco che con la sua perla di saggezza di metà mattinata e il suo fare enigmatico rientra nel negozio. Adoro Dean: è completamente assente dalla vita comune per gestire la sua sgangherata.

«Peter?»

No. No no no no no. Cazzo. Non è possibile, ma che ho fatto di male per meritarmi questo? Non voglio voltarmi, forse se non mi giro crede di aver sbagliato persona e se ne va… Ma chi voglio prendere in giro non è così idiota!

Mi volto ed eccola di nuovo davanti a me, con i capelli color grano legati in una mezza coda e gli occhi azzurri resi ancora più luminosi da questo sole inaspettato.

«Dianne… Qual buon vento ti porta qui?»

Si morde il labbro inferiore a disagio, «Ieri sera hai dimenticato questa alla festa e ho pensato di riportartela.»

Mi porge la mia felpa nera, mi ero completamente dimenticato di essermela tolta, lasciandola abbandonata su una sedia.

«Non era mia intenzione disturbarti a lavoro, ma ho chiamato Charlie e mi ha detto che a casa non c’era nessuno e lui era a lezione all’università. Allora ho pensato di portargliela lì ma oggi in metropolitana c’è un casino tremendo e lui mi ha dato l’indirizzo del bar e io tanto ho il negozio che è qui vicino e poi ho pensato che magari tu ne avessi bisogno e quindi te l’ho portata qui invece che portarla stasera all’appartamento.»

Finito il monologo prende un profondo respiro e mi guarda rigida, aspettando una mia reazione. Se prima ero infastidito dalla sua presenza adesso vorrei abbracciarla e rassicurarla, accarezzandole le guance.

Contegno Peter, distanza di sicurezza.

«Be’… Grazie, non c’era bisogno ti facessi tutti questi problemi.»

Mi sorride incerta e annuisce, sistemandosi le pieghe della lunga gonna bianca.

«Vuoi un caffè? Offre la casa» le propongo gentile e Dio!, Charlie ha ragione quando dice che lei mi rende una persona diversa: io non offro mai nulla a nessuno, diamine!

Mi guarda sorpresa come a voler assicurarsi che non la stia prendendo in giro. Dopodiché si apre in un sorriso felice e annuisce pacatamente: «Mi farebbe piacere un bel caffè, grazie.»

Entriamo e lei si accomoda al bancone, guardandosi curiosamente in torno.

Io intanto prendo una delle tazzine pulite e preparo la macchina del caffè, «Lo prendi sempre macchiato?» le chiedo già pronto a far scaldare il latte.

«Oh no, adesso lo prendo espresso normale.»

La guardo di sfuggita e subito mi volto di spalle per sistemarle la tazzina fumante sul piattino.

E cosa stava a significare quell’adesso? Adesso, ma rispetto a cosa Dianne?

Sembrerà banale, d’altronde è solo del caffè, però mi sento deluso a non sapere più nemmeno le sue abitudini. D’altronde un anno è composto da ben dodici mesi, circa cinquantadue settimane, trecentosessantacinque giorni, è un periodo lungo anche se spesso non ce ne rendiamo conto.

Un anno. Un anno e ora me la ritrovo seduta e impacciata nel bar in cui lavoro, senza che nessuno dei due sappia bene come agire o cosa dire.

Martyn sta leggendo il giornale seduto su uno degli sgabelli posti sotto il bancone e non presta molta attenzione a noi. Dianne sorseggia con calma il caffè nel quale non ha aggiunto zucchero, ed è strano perché lei ne metteva sempre due cucchiai.

Ed è proprio vero che la vita va avanti per tutti. E per lei mi chiedo quanto sia andata avanti. Chissà com’è, il suo ‘adesso’.

«Hai detto di occuparti di un negozio prima, non vai più all’Università?»

«Sì vado sempre: mi piace e finalmente è l’ultimo anno. Poi se la mollassi i miei mi taglierebbero tutti i fondi e sarei costretta a tornare a vivere con loro!», fa una finta smorfia disgustata con la bocca e a me scappa una risata involontaria. «Questo semestre tutti i miei corsi sono pomeridiani, quindi la mattina faccio i turni in una carinissima boutique. Mi ci trovo davvero bene e i clienti sono sempre molto gentili! Oggi dovevano fare dei lavori all’interno i proprietari e mi sono ritrovata la mattinata libera. E tu? Come sei finito a lavorare qui?»

«Be’ con Charlie abbiamo preso un’auto in comune e quindi abbiamo dovuto cominciare a racimolare più soldi.»

«Stai da lui adesso?», si sbilancia e tenta la domanda un po’ più personale, quella che va a rivangare il passato di cui non abbiamo ancora fatto parola.

Annuisco senza guardarla e con uno straccio pulisco il bancone sporco di latte, cercando di frenare l’insistente domanda che mi viene da porle.

«E tu… Tu stai sempre-»

«Sì» m’interrompe bruscamente, prendendo la borsetta poggiata di fianco al suo gomito e alzandosi dallo sgabello. «Sto sempre nella vecchia casa.»

«Ah», non so cos’altro dire. Ma ci pensa lei a concludere questo momento di stallo, prendendo la via della porta e guardandomi un’ultima volta.

«È stato… bello rivederti, Peter. Grazie per il caffè.»

«Sì, be’ ciao Dianne.»

La porta si chiude dietro le sue spalle e finalmente riesco a prendere un respiro profondo che mi fa tornare in funzione l’apparato respiratorio che quasi sembrava essersi bloccato dall’ansia.

«Chi era quella?» chiede Martyn interessato, mettendo il giornale a posto sul bancone.

«È una lunga storia.»

Grugnisce ed è una risposta più che sufficiente per tornare a farmi gli affari miei.

L’unica cosa a cui riesco a pensare è il fatto che ancora viva nel nostro appartamento e mi chiedo come sia ora. Se i mobili sono cambiati e se i quadri sono sempre li stessi. Chissà se usa ancora le forchette blu e i piatti gialli o li ha cambiati tutti. E la camera da letto magari ora è diversa, con un armadio più piccolo e un letto che non è più il nostro.

Chissà.

Ed è così frustrante quando ti rendi conto di non sapere più niente su una persona di cui in passato eri addirittura in grado di prevedere i gesti e le parole. Ed è come una tabula rasa davanti a te, e non sai come comportarti e cosa aspettarti, è anzi, un cruciverba di cui ti accorgi non sapere nemmeno una risposta.

Diamine!

 

«Com’è andata oggi?» chiede Charlie facendo scarpetta con il pane nel piatto intriso del sugo dell’arrosto che ha appena finito di mangiare. Io il mio di piatto l’ho finito da un pezzo.

Se c’è una cosa in cui il mio coinquilino è bravo sicuramente è cucinare, e i suoi arrosti sono una benedizione venuta dall’Eden.

«Bene.»

Lo vedo alzare la testa dal piatto e guardarmi con occhi indagatori, aspettando qualcosa.

Cosa vuole adesso questo?, è il mio primo pensiero. Mi accorgo che la risposta non è così difficile, perché esaminando la giornata di oggi mi rendo conto di un particolare a cui per tutto il tempo non avevo badato: una semplice frase che si era andata a poggiare in un angolo lontano del cervello, soppressa da tutti gli altri pensieri.

Ed è ovvio che mi abbia fatto quella domanda, con quel tono, guardandomi con quell’insistente sguardo, perché lui sa.

È stato lui a dare l’indirizzo del bar a Dianne e se per tutto il giorno non ho dato peso a quelle parole adesso sento montare dentro, la sento proprio graffiare nel mio stomaco, una forza distruttrice pronta a riversarsi su di lui finché non si è placata. Perché a volte davvero non lo capisco diamine! Come non ho mai capito perché per tutto quest’anno abbia fatto carte false affinché io riuscissi a dimenticarla e adesso non capisco perché abbia dovuto prendere lui la decisione di spedirla diretta nel mio territorio, quando le mie difese erano più abbassate.

«A che gioco stai giocando?»
Strabuzza gli occhi e «Non capisco a cosa alludi.»

«Non prendermi in giro Charles, so che sei stato tu a mandarla al bar.»

Si sfrega i palmi delle mani sulle ginocchia e inumidisce le labbra secche: «Credo solo che dobbiate chiarire…»

Lo guardo e mi sento seriamente preso in giro, sento il mio volto deformato da una smorfia d’orrore e guardo il mio migliore amico perplesso.

«È un intero anno che ogni volta che provo a parlarti di Dianne eviti il discorso e onestamente non ho ancora capito perché, nel senso: credi che non parlandone si sia risolto qualcosa? Ho accettato il fatto che tu non ne volessi parlare nonostante io ne avessi bisogno perché la mia ragazza, la donna che amavo, mentre io ero tranquillo a fare il mio stage in Irlanda mi stava tradendo con un pezzo di merda. Ho pensato che magari tu sapessi cosa stavi facendo perché io proprio non ne avevo la minima idea. Abbiamo fatto in modo di non parlarne per mesi, di evitare qualsiasi cosa comportasse lei e poi dopo un cazzo di anno che la situazione è sempre uguale e io sto cercando con tutte le mie forze di andare avanti tu le dici di venire al bar dove io lavoro?»

Mi guarda gonfiando le guance, tamburella i polpastrelli sulla superficie del tavolo.

«Proprio perché, come hai detto tu, in un intero anno la situazione non è cambiata ho pensato che magari stavamo sbagliando tutto: che tu avessi bisogno di un confronto diretto…»

Sono arrabbiato, perché come al solito mi sta trattando da ragazzino senza rendersi conto che qui l’unico bambino è lui.

«Tu non hai nessun diritto di prendere decisioni al posto mio Charlie! Non puoi giocare a fare lo psicologo con me, facendo esperimenti a seconda di come ti gira con i miei sentimenti, non siamo nella tua Università del cazzo e io non sono un tuo fottuto paziente schizzato di testa!»

Sono furioso e lui è offeso, lo vedo dalla piega in mezzo agli occhi e le sopracciglia corrugate. Mi guarda ferito: «Io volevo solo esserti d’aiuto!»

«Be’ nessuno te l’ha chiesto!» urlo come una furia. Mi alzo in piedi. «Dovevi avvertirmi, io- io non lo so se sono pronto ok? Non sto capendo nulla, so solo che ogni volta che la vedo fa così bene da fare anche malissimo perché so che non è più mia. Perché lei mi ha scartato.»

Sospira. «Dovresti sentire cos’ha da dirti.»

«Poteva dirmi tutto quello che voleva quando ho fatto la valigia quel giorno. Le ho dato la possibilità di giustificarsi, e sai lei cos’ha fatto? È stata lì ferma a piangere sullo stipite della porta senza far nulla per fermarmi. Come dovrei sentirmi Charlie? Perché davvero, io non lo so più.»

Sposto la sedia ed esco dalla cucina, scappo dal suo sguardo impotente e vado a rifugiare tutta la mia vulnerabilità nella mia camera, dove so di avere ancora qualche certezza.

 
  
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