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Autore: Alchimista    19/11/2017    2 recensioni
Shirabu non lo aveva mai detto a nessuno, ma gli spogliatoi avevano in qualche modo il potere di rilassarlo. Tutto pareva restare sigillato al di fuori di essi: la folla che li acclamava, la frenesia del campo, l’agitazione e l’adrenalina della sfida, ogni cosa entrava in pausa per tutto il tempo in cui lui restava negli spogliatoi e il giovane alzatore poteva prendersi qualche istante per pensare in maniera rilassata, senza la pressione del gioco, senza il costante pensiero di dover essere perfetto.
«È ora, Shirabu», si sentì chiamare dal capitano.
No. Aveva bisogno ancora di qualche istante, solo un paio, il tempo necessario a pensare ancora una volta, magari da solo…
«Solo un secondo, vi raggiungo subito».
Quarta soulmate della raccolta | Ushishira | Semiten | IwaOi
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eita Semi, Kenjiro Shirabu, Tendo Satori, Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fate don't know you like I do'
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PairingUshishira | TenSemi |IwaOi

Parte: 6/9.

Avvertimenti: Soulmates!AU in cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno. | Angst | Malattia | Non odiatemi troppo | Per comprendere le parti che riguardano gli IwaOi è necessario leggere la prima soulmate della raccolta, che trovate qui.

Alla mia parabatai Luna.

Don’t let me be gone.

Parte sesta.

 

 

 

«Ushijima? Ushjima Wakatoshi?»

Negli anni del liceo Ushijima non s’era mai addormentato durante una lezione, non importava quanto fosse stressato o stanco: era semplicemente un comportamento inammissibile e non se lo sarebbe mai perdonato  se si fosse trovato in una situazione del genere.

A voler essere sinceri, quella mattina non s’era addormentato – aveva sentito il professore chiamarlo, lo aveva sentito perfettamente mentre pronunciava prima il suo cognome e poi il suo nome; semplicemente non aveva risposto. Perché? Wakatoshi non ne era certo: probabilmente non ne aveva avuto la forza, forse s’era chiesto anche per quale motivo dovesse farlo. Alla fine aveva mosso la testa verso l’uomo, molto lentamente, e l’aveva guardato senza davvero essere in quel posto, senza riuscire a concentrare la propria attenzione sulla figura che aveva davanti. Aveva riconosciuto a stento l’uomo e col pensiero aveva accampato una scusa mortificata che però non aveva lasciato le sue labbra – perché tutto ad un tratto era diventato tanto difficile parlare?

«Ti stai sentendo male?»

Stavolta la voce del professore arrivò più chiara – s’era forse avvicinato? - e Ushijima cercò di negare con un cenno del capo: non stava propriamente male, non provava più dolore del solito; si sentiva solo un po’ spento, affaticato. Con Shirabu ormai nel quarto ciclo di chemioterapia, i medici gli avevano detto che quelle sensazioni erano il minimo degli effetti collaterali che il legame poteva causargli, quindi il ragazzo non se ne preoccupava davvero.

Si accorse di Hayato solo quando il compagno di squadra gli fu vicino, accovacciato accanto a lui e con una mano sulla sua gamba. Parlava, parlava anche lui – perché parlavano tutti? - e Ushijima faticava così tanto a seguire le sue parole: le sentiva, ma come suoni disconnessi dal loro significato e doveva ripeterle nella sua testa diverse volte perché lentamente acquistassero senso. Alla fine, si rese conto che l’amico gli stava chiedendo se ce la faceva ad alzarsi.

«Sto bene», sussurrò – forse non era la risposta giusta a quella domanda, ma era certo che, da qualche parte, gli avessero chiesto anche come si sentisse, quindi quelle parole potevano valere per allora.

Il viso di Hayato in ogni modo gli parve incupirsi e lo vide volgersi al professore, parlare con lui brevemente e poi alzarsi – il libero della Shiratorizawa non era mai parso tanto imponente ad Ushijima.

«Aggrappati a me, Ushijima: andiamo a prendere un po’ d’aria».

Quando Wakatoshi ebbe capito ciò che l’amico voleva fare, prese la mano che questi gli stava tendendo e si mise in piedi: non gli girò la testa, come invece aveva fatto quella mattina, e si sentì abbastanza sicuro sulle proprie gambe, tanto da potersi permettere di camminare senza l’aiuto di nessuno. Fu facile ignorare gli sguardi del resto della classe – dopotutto, ad Ushijima non importava molto della loro opinione al momento.

Il corridoio era in qualche modo più fresco dell’aula in cui era stato fino a quel momento e il capitano della Shiratorizawa prese un profondo respiro, cercando di concentrarsi. Sapeva che a Shirabu non era successo nulla di nuovo – in caso contrario sarebbe stato seriamente male – e che quindi tutto dipendeva dal loro legame, qualcosa a cui avrebbe dovuto essere abituato ormai, ma che ogni giorno lo sfiniva sempre un po’ di più.

«Hai dormito stanotte?»

Hayato era solito fare domande simili ad Ushijima, soprattutto nelle ultime settimane. In realtà, tutta la squadra ormai aveva preso a fare domande di quel genere al capitano, da quando gli effetti della chemio avevano cominciato ad essere così invasivi da non permettere alla coppia di poter gestire la situazione da soli.  I ragazzi avevano deciso di fare a turni in ospedale, così da permettere ad Ushijima di essere presente a lezione o prendere semplicemente un po’ di tempo per riposare; Yamagata, invece, non si muoveva dal fianco di Wakatoshi, essendo il solo nella sua stessa classe e quindi molto spesso a contatto con lui.

«Come al solito. Non preoccuparti, Hayato, sto bene», cercò di rassicurarlo Ushijima, ma la verità era che non riusciva a mantenere la concentrazione per più di qualche minuto di fila, dopodiché tutto diventava sfocato e i suoni sfumavano fino a diventare rumore indistinto.

«Vieni». Yamagata lo prese gentilmente, passandogli un braccio intorno alla vita e facendo in modo che Ushijima si appoggiasse a lui – la prima volta che era stato tanto male, il libero aveva avuto qualche remora a farsi avanti: certo, avevano la stessa età, ma Ushijima aveva una fama che lui neanche sfiorava e questo qualche volta gli aveva dato l’impressione che il capitano fosse irraggiungibile, intoccabile. Tuttavia, quella volta Ushijima gli era parso così fragile, così umano, che dopo l’iniziale esitazione, Hayato aveva semplicemente agito – era terribile da pensare, ma quella malattia li aveva avvicinati moltissimo.

I due ragazzi raggiunsero l’infermeria senza problemi – Yamagata s’era accorto, avendo Wakatoshi tanto vicino, che al capitano era salita un po’ di febbre, quindi aveva chiesto alla donna di turno quella mattina di potergli portare un antinfiammatorio e di tenerlo lì a riposo almeno per qualche ora – dal momento che il malessere non apparteneva davvero ad Ushijima, le medicine non avrebbero aiutato molto, ma Yamagata sperava potessero almeno tenere sotto controllo la temperatura e permettere al ragazzo di riposare un po’. Quello era il penultimo giorno di chemioterapia per Shirabu e il libero sperò che una volta passati i giorni di medicinali le cose sarebbero potute andare meglio.

Si sedette accanto al piccolo letto, che Wakatoshi riempiva completamente data la sua corporatura, e stette a guardarlo, perdendosi nei lineamenti stanchi del suo viso. Hayato non aveva ancora un legame e da quando Shirabu era stato ricoverato ed aveva cominciato i trattamenti per il cancro non poteva fare a meno di chiedersi se ne valesse davvero la pena. Ammirava la forza che Kenjirou e Wakatoshi parevano trarre l’uno dall’altro, ma allo stesso tempo non era sicuro che ciò che avevano valesse tutto il dolore che il capitano stava provando a causa della malattia dell’alzatore.

«Da quanto tempo dorme?»

Hayato si riscosse alla voce di Semi che con Tendou era appena entrato in infermeria. Avevano entrambi l’aria abbastanza preoccupata, sebbene il ragazzo avesse scritto loro per informarli che, nonostante la temperatura alta, Ushijima stava riposando tranquillamente.

«Ormai saranno un paio di ore», disse, tornando a guardare il capitano «Ma la febbre è scesa e sembra stia riposando tranquillamente».

Tendou cercò un po’ di spazio sul letto e si sedette nonostante Ushijima avesse dovuto piegare le gambe per starci; Semi poteva chiaramente sentire il suo desiderio di stare accanto all’amico e la cosa gli stringeva il cuore.

«Ke-Kenjirou…», mormorò il ragazzo nel sonno, attirando l’attenzione di tutti «Devo… devo andare da Kenjirou…».

Yamagata si avvicinò al viso di Ushijima, sfiorandogli una spalla e sussurrando che andava tutto bene.

«C’è Reon con Shirabu, ricordi? Oggi andava lui…», gli ricordò.

Wakatoshi socchiuse gli occhi – erano vitrei, quasi stesse piangendo – ed annuì appena. Sapeva che Reon era con lui e sapeva anche che avrebbe dovuto riposare nei momenti in cui non era con compagno così da poter poi alleviare il suo dolore quando erano assieme, eppure stargli lontano era così difficile, così sbagliato che alle volte gli pareva di soffrire di più quando era da solo.

«Adesso devo andare al club di pallavolo: quei ragazzi avranno bisogno di almeno un senpai che li controlli o andranno tutti alla deriva. Ci sono Tendou e Semi in stanza, staranno con te finché vorrai». Hayato aveva un modo dolce di parlare con Ushijima, un’intonazione che nessuno dei suoi compagni di squadra aveva mai sentito prima e che sorprese i due ragazzi presenti: la premura con cui Yamagata controllò le coperte del capitano e lo affidò formalmente a loro prima di salutarli ed uscire li sorprese.

«Satori…», chiamò Ushijima, voltandosi di fianco così da poter vedere l’amico «Questa volta mi sembra di non poter respirare…»

I due ragazzi avevano cominciato ad appuntare i diversi sintomi di quel malessere da diverse settimane ormai, dal giorno successivo alla visita in ospedale della Karasuno. Satori s’era fatto avanti ed aveva ribadito ad Ushijima che poteva disporre della sua fedele e costante presenza in qualunque momento; Wakatoshi lo aveva guardato per qualche istante, senza sapere cosa rispondere, e alla fine lo aveva semplicemente abbracciato, ringraziandolo. Da allora, tra le altre cose, tenevano un elenco delle sensazioni che il capitano provava quando stava male e quando era lontano da Shirabu, così da poter di volta in volta trovare il miglior rimedio per alleviare quantomeno il dolore.

«Ricordi cosa ti aiuta in questi casi? Chiudi gli occhi e prova a sentire Shirabu accanto a te. Lascia da parte il dolore, concentrati solo sul momento in cui hai sentito il legame corrisposto per la prima volta». Tendou gli accarezzò i capelli umidicci per il sudore e Ushijima fece come gli aveva detto. Semi guardava la scena con un misto di malinconia ed orgoglio: Tendou poteva essere la persona più stramba del liceo, ma quando si trattava di Ushijima diventata la più seria ed impegnata – il sentimento che li legava era ammirevole.

«Resti con me, Satori? Voglio solo… solo riposare ancora un po’, Kenjirou ha bisogno di tutta la mia energia».

«Quante volte devo ripeterti che non vado da nessuna parte, Miracle Boy?»

Chiunque altro avrebbe potuto giudicare quella scena fin troppo sentimentale, ma alla Shiratorizawa Tendou era anche famoso ormai per non farsi mai problemi del genere: nessuno aveva ancora dimenticato il periodo in cui il centrale aveva finto di provarci seriamente con Ushijima solo per la curiosità di conoscere la reazione gelosa di Shirabu. E Shirabu era una delle persone più gelose che potevano esistere sulla Terra – il centrale lo aveva imparato a sue spese.

«Se fossi una qualunque altra persona, sarei davvero preoccupato nell’assistere a scene del genere», scherzò Semi – in qualche modo si sentiva a disagio in quella situazione, non per l’affetto che i due amici si stavano dimostrando, ma per la fragilità che Ushijima non stava nascondendo: temeva che, nello stordimento, Wakatoshi avesse dimenticato che anche lui era presente nella stanza e gli pareva di invadere un momento personale a cui non era stato davvero invitato.

«Ma SemiSemi, tu sai che ti amo con la potenza e il fuoco di mille Soli!», si difese Tendou, fingendo di essere offeso da quell’insinuazione.

«Ti hanno mai detto che sei fin troppo sdolcinato? Smettila di scherzare», tagliò corto Eita, con una punta di imbarazzo – era strano, ma sentirsi dire da Satori che lo amava in maniera tanto casuale e rilassata aveva ancora il potere di fargli fermare il cuore.

Tuttavia, fu l’espressione che il compagno gli rivolse a bloccare completamente Semi. Si sentì prigioniero degli occhi seri con cui il centrale lo stava fissando e in un momento sparirono l’infermeria, Ushijima e anche la malattia di Shirabu. Restarono soli.

«Tu sai che non scherzo mai: quando si tratta dell’amore che provo per te, sono sempre serio, Semi».

Ed Eita non lo avrebbe mai messo davvero in dubbio. Sapeva che per Satori la loro storia era la cosa più importante, che in qualche modo era ancora più importante per via del suo legame atrofico: Tendou s’era innamorato di lui profondamente e completamente, quasi a voler compensare la mancanza che sentiva, di cui alle volte ancora si incolpava. E Semi era certo di non meritare tutto quell’amore, era certo che fosse troppo, che Tendou esagerasse in qualunque cosa lo riguardava: si poteva essere troppo innamorati? Alle volte quella sensazione lo spaventava – la consapevolezza che Satori avrebbe fatto qualunque cosa per lui e che lui non sarebbe mai stato in grado di superare il modo in cui Tendou lo amava. Altre volte, invece, si sentiva la persona più fortunata del mondo.

Semi aveva imparato a conoscerlo davvero solo dopo che il legame li aveva uniti e lentamente se n’era innamorato: quando si trattava di Tendou erano i dettagli a fare la differenza, come la premura che aveva verso l’intera squadra, la sua capacità di alzarsi presto la mattina per fare un po’ di jogging, quando la sera cercava di star sveglio e conversare con lui ma la testa prendeva a ciondolargli per il sonno, il modo autoritario e spaventoso con cui alle volte si divertiva ad infastidire i nuovi ragazzi del club di pallavolo o la semplicità dei suoi sorrisi sinceri, dei suoi baci veloci, degli abbracci lunghi e caldi.

Semi s’era innamorato di Tendou lentamente, scoprendolo un po’ di più ogni giorno, comprendendo minuto dopo minuto perché il legame li avesse uniti. Satori, invece, era stato innamorato di lui da sempre, forse dal primo momento in cui s’erano rivolti la parola, forse dal primo momento in cui l’aveva visto – non ricordava come era stata la propria vita prima che Semi avesse preso a farne parte; lo aveva amato ed aveva pregato che il legame lo unisse a lui, perché così sarebbe stato suo e non avrebbe avuto scelta che amarlo e se anche non fosse stato corrisposto avrebbe avuto una ragione per pensare a lui in ogni istante libero. Quando, anche se debole, il legame era arrivato, Tendou aveva reagito all’imperfezione con la devozione più profonda, la passione più sfrenata e l’affetto più sincero che potesse avere la forza di mostrare. La mancanza non lo aveva fermato: era stato il punto da cui partire, il limite oltre il quale Satori sapeva di doversi ergere con le sue sole forze: Eita ne sarebbe sempre valsa la pena.

 

Se avesse dovuto scegliere con sincerità la cosa che più odiava della propria malattia, Shirabu avrebbe detto senza alcun dubbio che era la stanchezza. Non il dolore, non il senso di colpa o la paura, ma la stanchezza. Non era abituato a sentirsi stanco senza aver fatto davvero qualcosa e non era abituato a sentirsi tanto stanco da non riuscire a prendere sonno. Che fossero i test scolastici o la pallavolo, Kenjirou conosceva bene la stanchezza, eppure quella che portava con sé la chemioterapia era un tipo completamente diverso, che pareva penetrargli nelle ossa, svellere la sua energia dall’interno, prosciugarlo senza dargli possibilità di scelta. E allora Shirabu si ritrovava a fine serata col solo desiderio di dormire ma così spossato, così stanco, da non riuscire a farlo.

Quella sera Ushijima era a casa - il giorno prima era stato di nuovo male a scuola, Kenjirou lo sapeva perché Semi aveva contattato Reon, che era con lui, chiedendogli di restare ancora e Wakatoshi lo aveva raggiunto solo a fine pomeriggio, tremante. Per questo gli aveva chiesto di dormire a casa stavolta: avrebbe voluto che il ragazzo alternasse con regolarità i due posti, anche se sa che ormai stargli lontano faceva quasi più male che bene ad Ushijima. Quella sera, ad ogni modo, Kenjirou era solo. Non proprio solo, in realtà: aveva sua madre, che ora già dormiva sulla poltrona accanto a lui – l’aveva sentita parlare con suo padre prima di addormentarsi e anche se la conversazione era avvenuta fuori dalla stanza, il ragazzo non faticava ad immaginare che cosa s’erano detti i genitori. E c’era Yotaro. Yotaro era sempre presente. Stava meglio - Shirabu era certo che non avesse superato ancora del tutto i suoi problemi ed era lontano dall’accettare completamente il fatto che non avrebbe più riacquistato la vista, ma stava meglio: avevano preso a parlarsi di nuovo come prima e in quei giorni, anzi, Yotaro riempiva i silenzi che la stanchezza di Shirabu accresceva in numero e in durata.

Ma c’era un momento in cui, inevitabilmente, Kenjirou restava solo con i propri pensieri. Quando chiudeva la chiamata con Yotaro, quando sua madre dormiva e lo stesso sonno non giungeva anche per lui, il ragazzo si ritrovava impotente di fronte alle paure e alle paranoie, senza la forza necessaria per scacciarle o opporsi ad esse. Stavolta, come un po’ tutte le volte, Shirabu non avrebbe saputo dire com’era cominciata quella catena di pensieri che, inevitabilmente, finiva col distruggerlo. Forse aveva preso a pensare alla scuola o forse alla pallavolo; ciò che sapeva era che in breve era giunto alla conclusione che tutti gli sforzi che aveva fatto fino a quel momento non erano serviti a nulla: se fosse morto, una chiusura tanto definitiva della sua vita avrebbe trascinato con sé anche tutti i traguardi che aveva raggiunto, le cose che aveva ottenuto.

A che cosa era servito studiare tanto duramente per essere ammesso alla Shiratorizawa, se adesso non era neanche in grado di finire il suo percorso di studi? E a che cosa era servito riuscire a guadagnare il posto di titolare nella squadra di pallavolo, per giocare al fianco di Ushijima, se avevano perso la finale e lui non avrebbe più toccato un pallone?

Il ragazzo sospirò: avrebbe voluto voltarsi su un fianco e raggrupparsi con le ginocchia al petto per cercare di resistere a quel dolore, a quella disperazione profonda, ma non aveva le forze per muoversi e lasciò che la tristezza lo prendesse mentre, col viso rivolto al soffitto e le braccia inermi lungo il corpo, non offriva alcuna difesa alla sua vulnerabilità. Era completamente battuto, sconfitto fin dentro l’anima; mentre la madre dormiva e niente disturbava il silenzio della stanza, Shirabu pensò di morire.

Come sarebbe stato morire? Un sollievo per il suo corpo esausto, una liberazione? O forse avrebbe fatto ancora più male? Poteva sentire più dolore di così? Shirabu realizzò che non gli importava - se fosse stato da solo, forse sarebbe morto da tempo… da quando il cancro aveva cominciato a rubargli il futuro. Ma pensava ai suoi genitori, ai suoi amici, ad Ushijima e qualcosa dentro di lui provava ancora a gridare: un grido sottile, strozzato e roco, ma ancora un grido.

«Mamma», mimò con le labbra, quasi senza far uscire la voce «Mamma ti prego, mi sento morire e non voglio...».

Ma la donna non poteva sentirlo e Shirabu lo sapeva. Lo sapeva ed era terrorizzato perché gli pareva di non poter fisicamente parlare più forte di così, gli pareva di star scomparendo a cominciare dalla sua voce, sempre più sfumata, sempre più bassa. E se stava morendo, se stava morendo proprio in quel momento, avrebbe voluto Ushijima accanto a sé. Per chiedergli scusa, per lasciarsi cullare un’ultima volta.

Dove aveva messo il suo cellulare? Più cercava di pensarci, più Kenjirou sentiva la testa leggera e i pensieri sfuggirgli prima che potesse metterli a fuoco. Dov’era il suo cellulare? L’ultima volta… l’ultima volta che lo aveva usato… aveva parlato con Yotaro, sì, e poi… poi doveva averlo appoggiato sul comodino. Il comodino. Poteva arrivare fino al comodino? Era dal lato del braccio libero dalla flebo, quindi non sarebbe stato difficile, ma nell’alzarsi l’arto pareva recare su di sé il peso di tutto il corpo, forse anche il doppio di quel peso, e faceva male come se tanti aghi lo stessero punzecchiando. Shirabu era così stanco di sentire dolore…

La punta delle dita toccò il bordo freddo del comodino prima con difficoltà e poi, lentamente, sempre con più forza - Shirabu le spingeva con sforzo quasi titanico, cercando di allungarle quanto bastava per raggiungere il cellulare. Gli parve fosse passata un’eternità quando finalmente sentì la superficie liscia del display e avrebbe potuto piangere di gioia quando le dita si serrarono intorno al dispositivo, finalmente in suo possesso.

Il numero di Ushijima, fortunatamente, era fra le chiamate rapide e in breve Shirabu poté sentire il suono ad intermittenza che segnava l’inizio della chiamata. Pensò che Wakatoshi doveva aver preso sonno, perché il cellulare squillò a lungo prima che Shirabu ricevette risposta.

«Kenjirou?» si sentì chiamare dalla voce di Ushijima - se si fosse appena svegliato, Shirabu non avrebbe saputo dirlo, dal momento che il suo tono gli pareva fin troppo serio.

Wakatoshi ti prego…, pensò, accorgendosi solo in un secondo momento che non aveva parlato, che Ushijima aspettava ancora di sentire la sua risposta. Ma era così debole, e si sentiva così male, così disperato.

«Kenjirou che succede? Per favore, parlami, che cosa sta succedendo?» Ora Ushijima era seriamente allarmato e Shirabu poteva sentirlo bene nell’inflessione della voce, nel respiro accelerato, nella preoccupazione che il legame versava anche nella sua anima.

Ti prego, parla, ti prego. Fosse l’ultima cosa che hai da dire, non lasciarlo così, si disse disperato e trovò forza in quella disperazione.

«Ti prego, Wakatoshi, mi sento morire...»

Ushijima non conosceva parole che avrebbero potuto descrivere ciò che stava provando. I sussurri di Shirabu risuonarono nella sua testa come in una stanza vuota nutrendosi del loro stesso peso ed espandendosi ad eco fino al cuore. Non aveva sentito più dolore del solito, non aveva avvertito alcun campanello d’allarme che gli facesse realizzare quello che stava affrontando Shirabu. Perché proprio in quel momento, nel momento più importante, il legame lo tradiva, abbandonandolo a se stesso e facendo in modo che anche Kenjirou fosse solo? La testa prese a girargli con violenza, quasi avessero alterato la gravità del suo corpo ed improvvisamente non fosse in grado di stare in piedi.

L’Asso della Shiratorizawa si ritrovò in strada senza neanche rendersene conto: la mente non riusciva a seguire i movimenti del corpo e realizzava a scatti ciò che esso faceva, sicché ad Ushijima pareva di vedere una serie di istantanee vicine nel tempo ma non perfettamente consequenziali – ogni tanto ne mancava qualcuna e i secondi si perdevano nei pensieri e nella paura.

«Ti prego, Wakatoshi, mi sento morire...»

La corsa verso l’ospedale durò poco, meno di quanto Ushijima si aspettasse, meno di quanto normalmente avrebbe ricordato. Non pensava, non era capace di mettere a fuoco un singolo  pensiero e solo i battiti accelerati del suo cuore scandivano la vita di un corpo che, altrimenti, sarebbe stato alla stregua di una macchina, programmata semplicemente per tornare alla sua origine, al posto a cui apparteneva.

Gli infermieri che lo videro entrare ancora correndo non lo fermarono per chiedergli dove stesse andando o cosa cercasse: ormai lo conoscevano bene tutti e qualcuno semplicemente sperò che non fosse successo nulla di grave a Shirabu. In ogni caso, se anche li avesse sentiti, Ushijima non si sarebbe davvero fermato a parlare con loro – lui non aveva tempo e loro non avevano importanza, niente aveva importanza.

«Kenjirou».

La sua voce seppe di disperata paura. Era troppo tardi? Shirabu era ancora con lui? Dio, Dio, stava davvero morendo? Come poteva accadere qualcosa del genere senza che lui percepisse qualcosa? Come poteva semplicemente guardare il suo compagno morire e non sentire la vita abbandonare anche il proprio corpo? Wakatoshi guardava il corpo pallido e minuscolo di Kenjirou nella penombra della stanza ed aveva l’impressione che quell’intera scena sapesse di surreale, che da un momento all’altro si sarebbe svegliato e si sarebbe reso conto che era stato solo uno strano incubo.

Ma i secondi continuavano a passare, identici a quelli che li avevano preceduti, e Ushijima aveva paura che anche solo facendo il minimo movimento avrebbe interrotto l’equilibrio astratto su cui tutto si reggeva – allo stesso tempo, però, Kenjirou era lì e Wakatoshi non poteva stargli lontano.

«Kenjirou», chiamò di nuovo, con un tono più basso, più incerto.

Lo vide muoversi all’improvviso: fu uno scatto minimo, il volto del più piccolo che semplicemente si girava verso di lui, ma bastò a spezzare l’incantesimo fatto di staticità e di paura, e a permettere a Ushijima di muoversi lentamente verso di lui.

«Mi dispiace così tanto», lo sentì mormorare: aveva la voce rotta e quando Wakatoshi gli fu abbastanza vicino vide che stava piangendo. La tristezza passava dall’uno all’altro, legandoli.

Gli si avvicinò fino a calarsi su di lui e, facendo quanto meno rumore possibile per non svegliare sua madre, Ushijima prese Kenjirou fra le braccia, sostenendolo all’altezza della schiena e sotto le ginocchia. Trascinando con sé anche la flebo, lo portò al centro della stanza e prese a muoversi lento, oscillando come se seguisse una qualche melodia e i piedi e l’intero corpo si muovessero a tempo con essa. Kenjirou si lasciò cullare da quell’ondeggiare tranquillo e tra le braccia forti di Wakatoshi gli parve di poter dimenticare la malattia, la morte, la vita che non avrebbe mai più vissuto appieno. Tra le braccia del suo compagno, Shirabu riusciva ancora a trovare la pace: quello era qualcosa che il cancro non sarebbe mai riuscito a strappargli.

«Ti va di dirmi che cosa è successo?»

Ushijima non era arrabbiato. Shirabu pensò che avrebbe avuto tutti i motivi per esserlo: dopotutto, lo aveva chiamato nel cuore della notte, dicendogli che si sentiva morire; chiunque altro gli avrebbe gridato contro per lo spavento che s’era preso. Ushijima, invece, gli aveva semplicemente chiesto cosa fosse successo, mentre lo teneva tra le sue braccia e si muoveva sulle silenziose note di un lento o forse di una delle composizioni che Yotaro aveva caricato sul loro ipod.

Kenjirou nascose il viso contro il petto grande del suo compagno, col timore che qualunque cosa avrebbe detto non sarebbe stata abbastanza da giustificarlo. Ma era stanco e non ebbe le forze necessarie a mentire.

«Credevo di morire», sussurrò, senza volerlo guardare in viso. Sentì le braccia di Ushijima stringerlo con un po’ più di forza e si chiese se potesse essere possibile sparire così, contro il suo corpo o forse assorbito da esso, nella pace più perfetta. «Ho pensato che, se tutto finirà in questo modo, se non riuscirò ad uscire da qui, tutto quello che ho fatto fino a questo momento non sarà servito a niente. Non avrà avuto il minimo valore».

«Tutto quello che hai fatto fino a questo momento, fino a questo istante in cui ti tengo tra le braccia, servono a definire quello che sei, Kenjirou. Se… se tu...» L’idea della morte era talmente enorme che la mente, il cuore di Ushijima non potevano contenerla. «Non è il momento della morte a determinare se la nostra vita è servita o meno a qualcosa – è quello che fai quando sei ancora vivo che le dà significato».

Shirabu ascoltava quelle parole ed avrebbe voluto crederci davvero fino in fondo – eppure, una parte di lui non poteva fare a meno di pensare a quanto spreco ci sarebbe stato se fosse morto, a quale fallimento sarebbe stato se non fosse riuscito a sconfiggere il cancro. La sua vita era sempre stata una sfida contro se stesso e contro i propri limiti. E Shirabu aveva sempre avuto paura dei fallimenti.

Quando tornarono a letto, Ushijima non lasciò andare Shirabu: si distese di schiena e lasciò che il più piccolo di aggrappasse a lui, col viso contro il proprio petto, stringendolo a sé. Cercò di non farsi sommergere dal dolore e di restare positivo: avere speranza era la cosa più difficile che aveva mai fatto, ma pensò che se ci fosse riuscito allora anche Kenjirou ne avrebbe avuta un po’, il minimo per resistere.

«Quest’ultimo ciclo di chemio è stato terribile», mormorò Shirabu. Aveva gli occhi chiusi e con la guancia  all’altezza del cuore di Ushijima poteva sentirne il ritmo un po’ accelerato.

«Ma non manca molto: le ultime analisi mostravano una riduzione della massa, ancora un po’ e potranno operare».

Kenjirou annuì: sapeva che le cose non stavano andando male, che il tumore era regredito e che c’erano sempre più margini per un intervento chirurgico che potesse rimuoverlo completamente; quello che non sapeva era quanto ancora il suo corpo avrebbe retto prima di crollare definitivamente o quanto la sua mente sarebbe riuscita ad andare avanti prima di impazzire del tutto. Non avere certezze era l’esperienza peggiore della sua vita – stringeva a sé il corpo di Wakatoshi e si chiedeva per quanto ancora avrebbe potuto farlo.

«Promettimi che resisterai. Promettimelo, Kenjirou».

Quelle parole spiazzarono Shirabu che racimolò tutte le forze che aveva per alzarsi quanto bastava a guardare il compagno negli occhi: lucidi e brillanti, trattenevano le prime lacrime di un pianto che Ushijima rimandava da troppo tempo. Nella quasi totale oscurità della stanza erano la sola cosa che Shirabu poteva vedere e mostravano una fragilità che l’alzatore non avrebbe mai concepito, pensando a Wakatoshi.

Gli accarezzò il viso e sorrise annuendo. Lo prometteva, prometteva di restargli accanto fino alla fine, fino a che avesse avuto forze e di non arrendersi prima. Avrebbe fatto di tutto per non perderlo.

 

«Sono certo che toccasse a te».

«È toccato a me la scorsa settimana, quindi di conseguenza in questa tocca a te».

«Ma sei sicuro sicuro che non tocchi a te?»

«Tendou Satori, questo weekend tocca a te fare le pulizie nella nostra stanza e se non troverò tutto in ordine per domenica sera, giuro che stavolta-».

Satori fu veloce a muoversi e in un paio di falcate raggiunse dalla sua posizione, alla scrivania, il letto del compagno, prendendo il volto di Semi tra le lunghe dita e baciandolo purché non finisse la sua terribile minaccia. Restarono a baciarsi per un po’, frastornati dal loro stesso sapore, e si separarono solo per riprendere fiato.

«Stavolta…?» lo provocò Tendou con un sorriso cattivo sulle labbra.

«Stavolta… tu...» mormorò Eita, ma il sapore del compagno ancora sulla bocca gli aveva annebbiato la vista - il legame era così forte che tutto brillava dopo i baci di Satori. «Usare contro di me questi trucchetti non mi farà dimenticare che questa settimana è il tuo turno», borbottò, quando fu più lucido, cercando di svincolarsi dalla stretta del compagno. Tendou non aveva alcuna intenzione di farlo alzare e lo braccò, stringendolo dalle spalle e poggiandoglisi contro, ma Semi riuscì a liberarsi con un sorriso trionfante e si diresse senza esitazione verso la porta della stanza.

«Vai via? Hai intenzione di lasciarmi tanto insoddisfatto?».

Eita soffocò una risata, riconoscendo la battuta.

«Sta’ tranquillo, Romeo, voglio solo prendere un té caldo - ti porto qualcosa?».

«Mi basterà riaverti tra le mie braccia, mia bella Giulietta».

Semi scosse la testa più volte, ridendo, prima di lasciare la stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Tendou si sistemò meglio sul letto del compagno, socchiudendo gli occhi e spostando le braccia sotto la testa: se non si soffermava a pensarci, tutto sembrava scorrere come al solito all’Accademia - era ancora capace di scherzare con Semi, di pranzare con i ragazzi e seguire le lezioni. Se non ci pensava, era quasi come se Shirabu fosse ancora a poche stanze da loro. Ma c’erano momenti come quello, momenti in cui Satori restava da solo, in cui non poteva distogliere i pensieri dalla realtà dei fatti: Shirabu stava davvero male, si era indebolito a tal punto da non riuscire a camminare ed era dimagrito tanto. Non lo aveva detto a nessuno, ma vederlo in quello stato aveva preso a ferire anche a lui che era stato sempre tanto ottimista e sicuro che le cose si sarebbero aggiustate. Non aveva smesso di crederci, certo, ma adesso riusciva a capire la tristezza degli altri e preferiva non parlare di lui se non era necessario. Adesso anche lui apprezzava i silenzi.

Sospirò, tirandosi su quando sentì qualcuno bussare alla porta. Pensò che Semi doveva aver dimenticato le chiavi e sorrise d’istinto: aveva una nuova ragione per prenderlo in giro, era fin troppo facile con lui!

«O mia Giulietta, l’amore vi fa brutti scherzi se non ric-».

Il resto delle parole a Tendou morì in gola perché, aperta la porta, davanti ai suoi occhi non c’era la figura del suo compagno, ma quella più grossa di Ushijima. Satori vide il suo viso pallido e gli occhi arrossati da un lungo pianto che ancora continuava a bagnarli - la paura che fosse successo qualcosa di terribile lo travolse, dandogli un capogiro.

«Cosa- Shirabu…?» balbettò, accorgendosi di essere a corto di fiato.

Ushijima stette in silenzio per qualche istante, fermo sulla soglia, senza distogliere lo sguardo dal suo migliore amico e respirando lentamente.

«Non avevo intenzione di piangere», mormorò poi, con una voce più controllata di quanto Satori si sarebbe aspettato «È solo successo e adesso… non riesco più a smettere, Satori».

Tendou ebbe l’impressione che fosse più confuso che triste e lo lasciò entrare spostandosi semplicemente dalla porta.

«Vuoi che ti prenda qualcosa da bere? Semi è sceso per un té...»

Wakatoshi negò col capo, sedendosi sul letto dell’amico e Tendou scrisse rapidamente al compagno prima di avvicinarsi, poggiandosi accanto a lui ed inclinando il capo per poterlo scrutare meglio.

«Che succede, miracle boy?» gli chiese con voce preoccupata, sfiorandogli il braccio: non era abituato a scrutare tanto a fondo Ushijima - di solito, il capitano della Shiratorizawa era un libro aperto, così spontaneo e schietto da non aver alcun tipo di filtro.

«Satori, io non voglio che Kenjirou muoia».

La semplicità con cui Wakatoshi pronunciò quelle parole spiazzò anche Tendou che pure aveva imparato a conoscerlo tanto bene. Era una verità così limpida e allo stesso tempo così dolorosa che per qualche istante il ragazzo non seppe cosa rispondere o se ci fosse davvero qualcosa che poteva dire. Gli si strinse accando, tirandolo a sé poggiandogli un braccio sulle spalle e sospirò.

«Ieri sera, quando sono stato da lui, gli ho chiesto di non lasciarmi. Me lo sono fatto promettere, sai? Ma oggi non ho fatto altro che pensarci, Satori: Kenjirou non può promettermi una cosa del genere... perché non dipende da lui. E più ci riflettevo più capivo quanto io stesso fossi stato egoista a chiederlo, ma la verità è che non ce la faccio. Preferirei di gran lunga sopportare tutto il dolore che sto provando per il resto della mia vita che perderlo ed esserne liberato. Ed è tutto così… così…»

I primi singhiozzi avevano spezzato le parole di Ushijima e il ragazzo, sorpreso, s’era portato le mani al petto, quasi avesse difficoltà a respirare. Stretto nelle sue stesse braccia, il capitano della Shiratorizzawa sembrava un bambino indifeso, solo contro un incubo più grande di lui. Tendou sentì chiaramente qualcosa spezzarsi dentro e lo abbracciò con forza, quasi potesse prendersi il suo dolore, i suoi dubbi e quell’amore che lo stava uccidendo.

«Va tutto bene, Wakatoshi. Ssh, va tutto bene», mormorò – non serviva, non serviva a nessuno dei due dirlo, eppure Satori ebbe la sensazione che Ushijima si accoccolasse di più contro di lui mentre lo diceva, alla ricerca di un supporto ed un sollievo che lui in realtà non poteva offrirgli se non con le parole.

«Mi sento così impotente», singhiozzò, nascondendo il viso nel collo dell’amico «Ogni giorno che passa vedo un segno in più sul suo viso. Sta sfiorendo come una rosa, ruga dopo ruga sui petali morbidi, e non c’è nulla che io possa fare. Sono costretto a guardare e a pensare che quello che osservo passare è un altro attimo che lo allontana da me e lo avvicina alla fine».

Satori gli accarezzò con dolcezza i capelli, sussurrando ancora parole di conforto, che non facevano bene a nessuno, solo perché il silenzio sarebbe stato peggiore di qualunque altra cosa. Ushijima piangeva e non sembrava in grado di controllare: i singhiozzi che scuotevano le larghe spalle e il grosso petto, facendolo tremare tutto. Era come se tutte le volte che non aveva pianto si stessero concentrando in quel momento.

Quando Semi rientrò, cercando di essere il più silenzioso possibile, la stanza era al buio e solo la luce che ora proveniva dal corridoio gli permise di distinguere le due figure all’interno. Il suo compagno era seduto per terra, poggiato di fianco contro il letto e con le dita di una mano intrecciate a quelle di Ushijima che, sul bordo sembrava essersi assopito ancora fra le lacrime; il fascio di luce chiara finiva proprio sul corpo del capitano, sfiorandogli il viso ed evidenziando la sofferenza che tratteneva anche nel sonno. Eita guardò la scena da lontano, indeciso su se avvicinarsi: il modo in cui entrambi sembravano distrutti, sconfitti, era l’esatta definizione della tristezza – una tragicità senza forza, che si sfogava nel lento e costante corrodere del tempo.

Stava per tornare alla porta quando Tendou aprì gli occhi. I due compagni parlarono con lo sguardo e Semi poté distintamente sentire il bisogno che il ragazzo aveva di lui. Non andare via, gli disse, solo socchiudendo gli occhi, quel tanto che bastava a far tremare Eita. Si mosse con lentezza, allora, e cercò di accucciarsi accanto a Satori senza sfiorare Ushijima per paura di svegliarlo; al contatto col suo corpo, il centrale sospirò, come se quel tocco gli avesse dato improvviso sollievo e tremò appena, tirando il compagno un po’ più a sé.

Non dormirono più, ma non dissero nulla per tutta la notte. Entrambi erano concentrati sull’altro e su Ushijima che di tanto in tanto nel sonno si lasciava sfuggire un lamento sommesso o un singhiozzo. Comunicarono col corpo, Semi e Tendou, tenendosi più stretti quando lo sconforto li assaliva e accarezzandosi per farsi forza. Quando un incubo scosse il corpo del capitano, entrambi furono pronti ad intervenire se fosse stato necessario: Satori gli strinse entrambe le mani ed Eita, dall’altro lato del letto, gli sfiorò i capelli, provando a tranquillizzarlo.

Era ormai mattino quando Semi si rialzò, facendo in modo di non svegliare Ushijima. Tendou lasciò andare lentamente la mano dell’amico, intenzionato a seguire il compagno fuori dalla stanza, ma Eita, aperta la porta, si fermò sulla soglia, incuriosendolo.

«Che succede…?» sussurrò, per non fare troppo rumore, ma da sopra la spalla di Semi ebbe la risposta alla sua domanda ancor prima che l’altro potesse parlare.

Per terra contro la parete del corridoio, in corrispondenza della porta della loro stanza, il resto della squadra della Shiratorizawa dormiva in posizioni che davvero non potevano considerarsi comode: Goshiki, con solo una magliettina ed un pantaloncino, era stretto su se stesso forse per il freddo e aveva la testa su una delle gambe che Reon teneva incrociate, la schiena contro il muro e la testa che ciondolava a lato; accanto a lui Hayato sonnecchiava accucciato con la testa ed il fianco destro contro il muro, mentre Kawanishi era steso per terra, con le braccia a sollevargli la testa.

Tendou non riuscì a trattenere uno scoppio di risa ad una vista tanto dolce e buffa.

«Avevo detto loro che Ushijima era da noi, che non stava molto bene», mormorò Semi, sorpreso quanto lui «Ma non credevo che sarebbero venuti».

Videro Reon socchiudere gli occhi, appena sveglio, e guardarsi intorno con aria un po’ confusa: ci mise qualche istante a realizzare dove fosse e, voltandosi verso i compagni di squadra, non si mosse per non svegliarli. Quando notò anche Semi e Tendou, sorrise sospirando.

«Volevamo essergli vicino», mormorò con voce roca, tanto che distinguere le sue parole fu difficile «Ma non si sentivano rumori dalla stanza e abbiamo pensato che vi foste addormentati».

Semi si trattenne dal dire che passare l’intera notte a dormire in corridoio non poteva di certo fare bene a qualcuno, perché sapeva che neanche l’attenzione con cui insieme a Tendou aveva vegliato sul sonno di Ushijima gli aveva recato qualche beneficio pratico. La verità di quella situazione era che nessuno poteva fare nulla per quanto ci provassero, eppure avrebbero continuato a starsi accanto, per quanto inutile fosse.

 

***

 

«Mi piacerebbe scendere per una mezz’ora nel giardino dell’ospedale».

Shirabu fissava il cielo limpido della mattina dal proprio letto – una pila di tre cuscini lo teneva con la schiena dritta – e si chiedeva come fosse il mondo fuori da quel posto, o anche solo fuori dalla sua stanza. Erano settimane che non usciva e la sola cosa che poteva vedere erano le parete anonime che lo circondavano, i pochi mobili che la riempivano e il proprio letto. Forse era anche quella monotonia a renderlo stanco.

Quella mattina Goshiki e Kawanishi stavano con lui. In effetti, tutti i suoi compagni di squadra ed anche qualche suo compagno di scuola avevano preso a passare tempo con lui, facendo in modo che non fosse mai da solo, sia quando Ushijima era con lui, sia nelle poche ore al giorno in cui il ragazzo era lontano. Eppure, per quanto potesse essere triste da dire, Shirabu aveva cominciato a pensare che la loro costante presenza non facesse altro che appesantire l’atmosfera. Non era più come nei primi mesi: ora la maggior parte dei ragazzi che gli facevano compagnia avevano smesso di parlargli di ciò che succedeva fuori dall’ospedale, forse per timore di rattristarlo raccontandogli qualcosa che lui, in ogni caso, non poteva vivere appieno, o magari semplicemente perché vederlo in quelle condizioni faceva passare loro la voglia.

Sebbene all’inizio fosse stato quello che aveva reagito meglio alla situazione, ormai Tendou aveva smesso da un po’ di fare le sue solite battute e comportarsi in modo strano: adesso il più delle volte se ne stava semplicemente in silenzio e passava lo sguardo dalla finestra alla flebo del ragazzo, perso nei suoi pensieri tanto che l’alzatore aveva l’impressione d’essere da solo. Alla fine, la serietà della situazione aveva abbattuto anche lui e Shirabu lo aveva visto tornare sui suoi passi ed avere paura come il resto della squadra: non era più tempo per fingere che tutto sarebbe semplicemente tornato come prima.

Un pomeriggio Tendou aveva chiesto dal nulla a Shirabu se poteva abbracciarlo e Kenjirou glielo aveva lasciato fare, trattenendo a stento le lacrime. Hayato, invece, era il suo opposto. Hayato era il sole e la vitalità e la gioia e tutto il mondo che stava fuori da quella stanza sapeva racchiuderlo e portarlo a Shirabu con semplicità e forza. Spesso Kenjirou ne era quasi sopraffatto, ma in quegli ultimi giorni aveva capito quanto potesse fargli bene lasciare entrare un po’ più di luce. Lo ascoltava parlare e gli pareva che si fosse trasformato in un bambino: era strano il modo il cui aveva reagito a tutto quel dolore e Shirabu era felice che almeno uno di loro riuscisse ancora a sorridere.

Con Semi e con Reon le cose erano più facili. Eita, dopo i primi tempi in cui aveva dato spesso di matto, adesso paradossalmente riusciva a conversare con lui con una certa tranquillità riguardo alla scuola o al club di pallavolo – era il solo con cui Shirabu riusciva a non pensare alla sua malattia e a fingersi sicuro del fatto che un giorno ogni cosa sarebbe tornata come prima e lui avrebbe di nuovo frequentato le lezioni e la palestra. Alla fine, Semi gli aveva detto che era stato innamorato di lui. Dal nulla, semplicemente così, una frase buttata tra una spiegazione di storia ed un pettegolezzo di pallavolo. Shirabu l’aveva fissato, alzando le sopracciglia, e Semi gli aveva sorriso per la prima volta con la dolcezza che solitamente riservava a Tendou. Gli aveva raccontato che era stato prima del suo legame, che le cose erano ovviamente andate in maniera diversa, ma che non aveva smesso di tenere a lui in maniera particolare, in qualche modo aveva continuato ad amarlo.

Shirabu aveva annuito e lo aveva ringraziato, per l’amore che gli stava dando e per averglielo detto e per avergli sorriso – in un attimo la loro rivalità, l’astio, le sfide, tutto era sublimato in qualcosa di più profondo e Kenjirou pensò che forse sarebbe stata la sola cosa per cui essere grati a quella malattia, perché senza di essa Eita non si sarebbe mai confessato. Reon era semplicemente affettuoso: lo trattava come un fratello più piccolo, spesso gli portava qualche dolce fatto in casa e illuminava le giornate con una pace che Kenjirou non si sarebbe mai aspettato di trovare in lui; spesso gli raccontava degli altri ragazzi e Shirabu confidava a lui i suoi dubbi e le sue preoccupazioni. Grazie a Reon, sapeva delle reali condizioni di Ushijima e di come lentamente tutta la squadra stesse peggiorando insieme a lui – solo così era riuscito a spiegarsi il cambiamento di Tendou. Tutti si davano da fare per non lasciarlo solo ma soffrivano nello stargli tanto accanto. Se fosse stata la situazione di qualcun altro, Shirabu avrebbe riso.

Shirabu aveva avuto paura che per Kawanishi sarebbe stato difficile: a Taichi non piacevano i cambiamenti, le situazioni nuove, perché voleva dire cercare un diverso equilibrio e tastare nuovi campi per la prima volta. Gli somigliava molto in questo, quindi lo aveva affrontato di petto, proprio nei primissimi giorni, chiedendogli di non cambiare nulla del suo comportamento, di far conto che si fosse semplicemente spostato di stanza per un po’. Da allora gli era parso che Kawanishi avesse preso i dati che gli aveva fornito, li avesse elaborati e si fosse mosso di conseguenza: il risultato era stato che con lui era facile anche non parlare perché i suoi silenzi non pesavano come quelli di Satori, erano i silenzi di sempre, quelli di quando studiavano insieme, quelli di quando si facevano compagnia stando ognuno per conto proprio ma nella stessa stanza. Il loro equilibrio restava lo stesso.

Goshiki invece l’equilibrio lo aveva perso del tutto. Non andava mai da solo a fare visita a Shirabu: quella mattina era con Taichi, la volta prima era andato con Ushijima, spesso sceglieva di andare con Semi o con Hayato, così che fossero loro a portare avanti la conversazione e a lui non restasse altro che fare presenza. Non si trattava di un atteggiamento egoista, di una cosa fatta tanto per farla, per togliersi il senso di colpa – Shirabu sapeva che Goshiki non era così. Semplicemente, da solo non sapeva sostenere quella situazione e stava male, quindi non poteva varcare la soglia della stanza di Kenjirou senza avere qualcuno che lo aiutasse a non andare completamente nel panico.

«Mi aiutereste ad uscire dalla stanza? Solo per un po’...» tornò a chiedere Shirabu, attirando finalmente la completa attenzione di entrambi i compagni di squadra.

«Te la senti?» chiese con cautela Taichi, alzandosi.

Gli bastò che Shirabu annuisse per accettare la cosa: dopotutto, non vedeva che cosa ci fosse di male – non gli piaceva sapere che Kenjirou non si muoveva da quelle quattro pareti, era sempre stato dell’idea che Ushijima avrebbe dovuto insistere per portarlo fuori di lì più spesso, perché un simile isolamento di certo non gli avrebbe fatto bene. Tutti invece continuavano a trattarlo come il più fragile dei cristalli.

Goshiki, seduto poco lontano, sussultò nel vedere l’amico mentre preparava la sedia a rotelle e prendeva poi Kenjirou in braccio per farlo sedere. Avrebbe voluto dire che non gli pareva una buona idea, che sicuramente Shirabu si sarebbe stancato e che forse avrebbero dovuto chiedere prima ad uno dei medici, ma stette in silenzio perché, in fondo, chi era lui per negare a Shirabu mezz’ora di pace all’aria aperta?

«Respira, Goshiki, va tutto bene», lo prese in giro l’alzatore, mentre gli passava accanto con Taichi che spingeva la sedia a rotelle. «Torniamo su presto».

Tsutomu sorrise, scacciando il nervosismo e li seguì. Per una volta poteva stare tranquillo e godersi la compagnia di Shirabu, per una volta poteva anche smetterla di pensare alla sua malattia.

C’era da dire che il giardino dell’ospedale era un posto incantevole. Non era molto grande eppure, nonostante diversa gente lo frequentasse, non perdeva la sua quiete intrinseca, quasi i rumori potessero sfumarsi come i colori autunnali delle foglie, e il caldo che l’aria ancora tratteneva in quei giorni rendeva il soggiorno ancora più piacevole. Shirabu respirò quasi potesse trarne beneficio – finalmente aveva qualche momento libero dalla mascherina dell’ossigeno che negli ultimi giorni stava tenendo su spesso e gli pareva persino che l’aria sapesse in modo diverso, fosse solo per il fatto che non era quella artificiale che era costretto a respirare.

«Dovresti scendere qui almeno una volta al giorno», commentò Taichi, fermando la sedia a rotelle accanto ad una panchina libera e sedendosi.

«Qualche volta ho convinto Wakatoshi e Yotaro a venirci, ma nell’ultimo periodo non sono uscito molto dalla stanza – sapevo che avrei convinto facilmente te», rispose l’alzatore con un ghigno.

«Quindi mi hai semplicemente sfruttato perché sai che non mi piace discutere», osservò Taichi, alquanto divertito.

«Precisamente! E perché so che il primino non avrebbe detto niente ad alta voce».

Goshiki arrossì – era solitamente un ragazzo molto estroverso, ma quando si trattava dei senpai l’emotività faceva sì che diventasse insicuro su qualunque cosa – un tratto che sapeva avrebbe dovuto eliminare se voleva tenere alto il ruolo di Asso per cui si stava tanto impegnando.

«H-ho solo pensato che avresti potuto affaticarti, ma questo posto è stupendo: l'ospedale sembra essere lontano miglia!»

Gli occhi di Tsutomu brillavano e i suoi compagni di squadra potevano capirlo: nei corridoi anonimi in cui Shirabu erano stati fino ad ora, aleggiava sempre una certa pesantezza, come una cappa scura che non li lasciava mai davvero, e che invece il vento di quel giardino scacciava del tutto. Davanti a loro, sul viale, c'era una famiglia che giocava allegra con una palla: si poteva vedere chiaramente che era la madre ad essere ricoverata, poiché al di sotto del giubbotto si intravedevano le gambe di un pigiama bianco fin troppo comune in un posto del genere. I due bambini che le giocavano intorno non potevano superare i dieci anni e mostravano tutta la vitalità che caratterizzava quell'età, tanto che il padre faceva quasi fatica a stare dietro ad entrambi. Ma erano felici, la donna rideva, i piccoli correvano di tanto in tanto ad abbracciarla e l'uomo sembrava guardare un miracolo ogni volta che succedeva.

Uno dei due bambini calciò con forza la palla nella direzione dei ragazzi e questa fece una parabola alta sopra le loro teste, atterrando tra i cespugli alle loro spalle. Goshiki vide l'espressione scoraggiata del piccolo, probabilmente sul punto di piangere, mentre il padre gli diceva qualcosa e si avviava nella loro direzione, quindi si alzò deciso ad aiutarlo. Kawanishi lo guardò chiedendosi per quale motivo lo stesse facendo, ma dovette ammettere che fu divertente osservarlo mentre a gattoni cercava la palla insieme allo sconosciuto.

«L'ho trovata», esclamò dopo qualche minuto il ragazzo, uscendo trionfante dai cespugli con la palla in mano e diverse foglie fra i capelli.

Kawanishi rise di gusto mentre il più piccolo restituiva la palla al bambino e, tirando fuori il cellulare, gli scatto una foto mentre tornava verso di loro.  

«Se non fossi sceso con noi questa mattina, ti saresti perso una perla del genere! Dobbiamo assolutamente farlo presente ad Ushijima quando arriverà», ghignò, rivolgendosi a Shirabu, mentre il vento faceva cadere una grossa manciata di foglie dalla chioma degli alberi che erano lì vicino sulle loro teste.

«Anche tu sei da immortalare!», esclamò ancora divertito Taichi, volgendo la fotocamera verso il compagno di stanza e rubando un paio di scatti prima che Kenjirou potesse lamentarsi o distruggergli il cellulare.

Ma Shirabu non disse nulla.

«Si è addormentato», sussurrò Goshiki, accovacciandosi accanto a lui. Kenjirou aveva gli occhi chiusi e la testa piegata di lato e poggiata sulla spalla. Sembrava riposare con una tranquillità che non aveva da mesi, quasi come se la stanchezza, che tormentava anche il suo sonno, gli avesse finalmente dato un po’ di tregua.

«No».

La voce di Kawanishi era stata tanto sottile che Goshiki a stento riuscì a sentirla: solo quando Taichi lo spinse all’indietro per avvicinarsi a Shirabu, Tsutomu realizzò che qualcosa non andava. Tenendosi con le mani per non cadere, il primino osservò con orrore Kawanishi scrollare Shirabu prendendolo per le spalle – no, non stava dormendo, non stava dormendo.

«Aiuto! Qualcuno ci aiuti, non respira! Il mio amico non respira!» gridò Taichi con tutto il fiato che aveva in gola.

Disperato, prese Shirabu tra le braccia e lo pose a terra, controllando di nuovo che il battito fosse assente. Goshiki era pietrificato dall’orrore e guardava con occhi sbarrati la scena: non poteva essere morto, Shirabu non poteva semplicemente essere morto, non funzionava così, non-

«Vai a chiamare qualcuno, fa’ qualcosa Goshiki», si sentì gridare dall’amico, ma non ne aveva la forza: sentiva, capiva che cosa gli aveva detto, ma le gambe non riuscivano a dare al corpo la spinta per alzarsi, gli occhi non potevano staccarsi dal volto pallido di Shirabu, dal suo petto immobile, dal semplice fatto che non respirasse, che fosse morto.

«Goshiki!» gridò di nuovo Taichi, ma l’amico continuò a non dare segni di reazione. Allora lui tornò a concentrarsi su Shirabu: sapeva fare una rianimazione, perché all’Accademia avevano fatto seguire a tutti delle lezioni di pronto soccorso, ma mentre poggiava le mani sul petto dell’amico si rese conto che quello era un corpo vero e non un manichino, che aveva delle costole che lui avrebbe potuto rompere e un cuore che avrebbe potuto danneggiare in qualche modo. Per qualche istante la paura lo travolse, le mani tremarono e Kawanishi si sentì completamente perso.

«Ci penso io a lui, so cosa fare. Corri a chiamare aiuto!».

Una voce gli arrivò dall’alto e Kawanishi registrò appena il fatto che fosse l’uomo che stava giocando davanti a loro con la sua famiglia. Lo guardò negli occhi per qualche frazione di secondo e poi scattò in avanti, rischiando di cadere per la troppa forza che aveva dato allo slancio. Un dottore, aveva solo bisogno di un dottore, di qualcuno che potesse aiutarlo. Sarebbe bastato avvisare uno di loro e tutto sarebbe tornato a posto, Shirabu sarebbe stato di nuovo bene.

Ma Shirabu non stava bene. Shirabu aveva il cancro e il suo corpo aveva ceduto, s’era semplicemente spento. E allora che cosa potevano fare i medici? C’era davvero qualcuno che poteva salvarlo?

Kawanishi non s’accorse delle persone che travolgeva lungo la sua corsa, i suoi occhi non avevano altro compito che distinguere i civili dai dottori e quando vide due uomini in camice camminare verso l’entrata dell’ospedale, gli piombò addosso come un rapace sulla preda.

«Vi prego», esalò, non a corto di fiato per la corsa ma per la paura «Vi prego, il mio amico non respira, credo abbia avuto un infarto. Vi prego».

Uno dei due uomini corse all’interno della struttura, per prendere la borsa d’emergenza col defibrillatore e quando uscì, Taichi fece loro strada fino a dove aveva lasciato Shirabu: poteva vedere, mentre correva, l’uomo calato ancora sull’amico mentre cercava di rianimarlo alternando il massaggio cardiaco alla respirazione bocca a bocca. Non vide affatto Goshiki, sebbene il ragazzo non si fosse mosso in un centimetro.

Kawanishi osservò i medici prendere il posto dello sconosciuto, li vide controllare ancora il battito di Kenjirou prima di intervenire ed avrebbe voluto dire loro che era certo che il cuore si fosse fermato, che non c’era bisogno di perdere altro tempo, ma tacque, semplicemente perché le parole non riuscirono ad uscire, incastrate nella gola insieme alla paura. Quando uno dei due diede la prima scossa di defibrillatore, Taichi credette di averla sentita anche lui: un brivido lo attraversò da testa a piede e forse per la prima volta realizzò davvero ciò che aveva di fronte.

In quel preciso istante, in quel attimo fisso nel tempo e nello spazio, Shirabu Kenjirou era morto.

 

 

 

 

 

___________________

Non mi odiate. Keep the faith. Alla prossima parte!



   
 
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