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Autore: Afaneia    22/11/2017    3 recensioni
In una Kanto dominata dal colosso multinazionale della Silph SpA, che monopolizza il mercato con politiche aziendali inflessibili e alleanze poco trasparenti, il signor Fuji, fondatore del celebre Centro Pokémon Volontario di Lavandonia, si è sempre schierato contro la corruzione e a difesa della dignità dei Pokémon.
Suo figlio però ha scelto una strada diversa: disposto a qualsiasi accordo pur di allontanarsi dall'opprimente presenza di suo padre, il dottor Emir Fuji si è specializzato in ingegneria genetica e si è trasferito sull'Isola Cannella, dove dirige un Laboratorio Pokémon dedito a esperimenti d'avanguardia. Da quando ha lasciato Lavandonia non ha più voluto avere niente a che fare con suo padre.
Un giorno, il Laboratorio Pokémon organizza un viaggio di ricerca in Guyana...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mew, Mewtwo, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Capitolo I – Fragile.


Era una notte calda e soffocante e senza vento quella in cui Valérien, senza alcun preavviso e senza alcun motivo apparente, entrò nella sua tenda e sedette nervosamente al tavolo da campo, torcendosi le mani senza dire una parola.

Per qualche strano motivo, Emir non fece alcun gesto per manifestargli d'essere ancora sveglio nell'immobile notte equatoriale, colla pelle madida di sudore e le orecchie echeggianti dell'eterno ronzio delle zanzare. Sapeva che avrebbe dovuto sollevarsi sul letto e domandargli che cosa ci facesse lì, se fosse successo qualcosa di grave o se avesse bisogno di qualcosa... eppure, aspettò ancora, immobile sulla branda col capo rivolto dall'altro lato. C'era qualcosa, nel contegno nervoso di Valérien, che gli suggeriva che ci fosse qualcosa d'importante e vergognoso che doveva dirgli, e non gli parve opportuno mettergli fretta. Non si mosse.

«Sei sveglio?»

«Ehi» rispose Emir dopo qualche secondo. Si rigirò nella branda. «Dimmi.»

«È successa una cosa» si affrettò a dire Valérien, con un’ansia di confessione molto simile al sollievo.

Sollevandosi faticosamente a sedere sul letto, sotto la pesante zanzariera che avrebbe dovuto garantirgli il sonno, ma che a lui sembrava soltanto volerlo soffocare, Emir si strofinò più e più volte gli occhi e borbottò: «Ti ascolto.»

Come se non avesse atteso proprio nient’altro sin da quando era entrato nella sua tenda, Valérien disse tutto d’un fiato: «Credo di aver trovato un Pokémon nella foresta. Devi venire con me a vederlo.»

Se Emir era stato assonnato e confuso fino ad allora, il sonno lo abbandonò bruscamente. Aguzzò gli occhi nel buio, cercando d’infliggere lo sguardo nel volto di Valérien anche attraverso la notte, e disse ad alta voce: «Che cosa avresti trovato e dove?»

Valérien scosse la testa. «Non lo so. Non avevo mai visto un Pokémon simile. E poi, l’ho visto solo per pochi secondi…»

«È scappato?»

«No. Ma era Trasformato…»

«Oh… Valérien.» Se solo non avesse temuto di urtare i sentimenti di Valérien, che con tanta innocenza era venuto a infilarsi nella sua tenda per cercare il suo consiglio, Emir sarebbe scoppiato a ridere; ma anche trattenendosi dal ridere di lui, non poté proprio impedirsi di dirgli, in tono di lieve rimprovero: «Hai visto un Ditto!»

«Sapevo che l’avresti detto» disse Valérien, con voce improvvisamente divenuta fredda e delusa, e subito Emir si pentì del tono che aveva usato. «So distinguere un Ditto, Emir. Devi credermi, era… diverso. Devi venire con me a vederlo, subito.»

Con un sospiro profondo, Emir scivolò giù dalla branda e cercò a tentoni, nel buio, qualcosa di decente da mettersi. «Dove hai detto che l’hai trovato?»

«A mezzo chilometro da qui, nella palude.»

Gli salirono alle labbra tante proteste da non riuscire a dar voce a nessuna di esse. Di fronte a una tale spudorata imprudenza sentì che gli mancavano le parole: Valérien era un talento della biologia, d’accordo, ma era uno di quei geni distratti e svagati capacissimi di cacciarsi alla cieca in una situazione pericolosa come quella e di raccontarlo con la medesima naturalezza. Si sforzò di mettere a tacere il rimprovero che sentiva montargli nel petto e continuò a vestirsi. «Se veramente hai scoperto un nuovo Pokémon, sarà il caso di avvertire gli altri.»

«Credo che stia male, Emir» disse Valérien. Emir sentì che la camicia che aveva preso gli sfuggiva dalle mani nel buio. «Ti prego, vieni a vedere.»


Lasciarono il campo di corsa, arrancando nella foresta quasi a tentoni, aiutandosi più coi loro ricordi che con la luce delle torce, i cui crudi raggi luminosi saettavano tra gli alberi, attirando a ogni momento nugoli di moscerini e zanzare affamate.

L’aria era satura persino a quell’ora del profumo dei grossi fiori tropicali, ma l’odore si attenuò a poco a poco a misura che essi si allontanavano dal cuore della foresta e si avvicinavano alla vasta zona paludosa che finiva per perdersi, quasi insensibilmente, nel letto del fiume. Ma per quanto greve e pesante fosse il profumo dei fiori, l’odore marcescente della vegetazione che imputridiva nel fango era incomparabilmente più penetrante, ed Emir pensò di non aver mai detestato Valérien tanto quanto in quel momento.

Il suo cuore sobbalzò quando il raggio della torcia incontrò la prima turgida infiorescenza maleodorante.

«Valérien, diavolo! È il nido dei Gloom!»

Avevano esplorato e mappato quella zona, popolata interamente da Gloom e da qualche raro e robusto Vileplume, appena il giorno prima, e l’avevano reputato fin da subito un luogo di scarso interesse. Se fosse stato giorno, Emir non dubitava che si sarebbe accorto fin dall’inizio della direzione che avevano preso; ma era notte, ed egli non dormiva in pratica da quaranta ore. Era probabilmente più arrabbiato con sé stesso per non essersene accorto che con Valérien per averlo portato lì; eppure lo aggredì egualmente, spegnendo con rabbia la sua torcia per evitare di disturbare i placidi Gloom addormentati. «Sei venuto qui da solo, in piena notte, in un nido di Pokémon velenosi! Hai idea di cosa ti sarebbe potuto capitare?»

«Stanno dormendo!» si difese Valérien.

«Non avevi neppure un Pokémon per difenderti!» sbottò Emir, ma ormai più per dar sfogo alla sua rabbia che perché quella conversazione potesse portarli da qualche parte. Valérien era fatto così, svagato e distratto e assolutamente irresponsabile, e per quale motivo egli l’aveva scelto per partecipare a quella spedizione?

L’odore di carne putrefatta che i Gloom emanavano era troppo intenso e asfissiante per continuare a discutere sterilmente per il puro gusto di farlo. Imprecando ancora dentro di sé, Emir si frugò più volte nelle tasche alla ricerca di un fazzoletto per coprirsi il viso e ordinò: «Andiamo, dai. Visto che siamo arrivati fin qui, tanto vale cercare questo Pokémon misterioso e vedere se possiamo fare qualcosa per aiutarlo.» Anche se è sicuramente un Ditto, ma questo, incidentalmente, rimase non detto.

«È qua vicino. Vedi quell’albero caduto?»

Il fascio luminoso della sua torcia incontrò nel buio la possenza immane di un tronco abbattuto che si stendeva nel fango, attorno al quale una schiera di Gloom aveva trovato riparo per la notte. La strada, fino a quel punto, sembrava sicura e piuttosto breve: valeva la pena avvicinarvisi al buio, per ridurre al minimo il rischio di svegliare i Pokémon addormentati. Non si trattava di Pokémon aggressivi, ma spaventarli sarebbe stato troppo semplice: col loro veleno e il loro soprannumero, quanto tempo avrebbero impiegato a sopraffarli?

Riaccesero la torcia solo quando furono così vicino all’albero da non poter muovere ancora un solo passo senza rischiare di travolgere i Gloom, e l’odore era divenuto tanto penetrante da far lacrimare loro gli occhi. A un tratto Valérien gli tirò silenziosamente un braccio, senza emettere un suono, e gi indicò un punto in cui le enormi radici, grottescamente essiccate, si protendevano come silenti richiami verso il cuore della. Anche lì dormivano dei Gloom, ma in numero decisamente scarno: non potevano essere più di cinque o sei, e questo rapido calcolo lo rassicurò.

«È qui» mormorò Valérien, cercando di schermare in parte la luce della torcia. «Lo vedi?»

Tutto ciò che Emirvide, guardando nel disco di luce che si allargava al suolo, fu un Gloom addormentato con la faccia rivolta verso il tronco.

La rabbia gli montò dentro come una vampata.

«Valérien…»

«Guarda!» lo implorò Valérien.

Quando Emir tornò a chinare gli occhi sul tronco, al posto del Gloom c’era un Pokémon mai visto prima.

Aveva un corpo roseo e sinuoso, della grandezza di quello di un bambino, ma immensamente più fragile, e mostruosamente bello, con zampe affusolate e una coda molto lunga, sottile, in quel momento acciambellata sotto di lui. Aveva occhi enormi e spalancati, che splendevano più azzurri del cielo nel raggio della torcia, con le pupille innaturalmente dilatate dalla luce e dal dolore. Eppure, per quanto Emir si fosse bloccato d’istinto, trattenendo il respiro e impedendo a sé stesso di compiere anche il minimo movimento per non spaventarlo, dopo qualche istante si rese conto che non aveva affatto paura.

Il Pokémon aveva il volto scavato dalla sofferenza e il petto che si muoveva a brevi intervalli rapidi e ravvicinati, affannati; ma quando Emir si chinò in avanti, protendendo le mani verso di lui, e gli toccò cautamente il ventre colla punta delle dita, esso non si ritrasse, non si spaventò, non fece niente. Rimase perfettamente immobile e calmo, come un Pokémon che fosse abituato al contatto con l’uomo già da molto tempo, e attese con gli occhi spalancati come fanali, ma tranquilli e attenti, e il cuore che batteva fortissimo.

Il suo pelo era madido di fango e di sudore, la sua pelle bruciava di febbre; ma quando Emir ritrasse le dita e le accostò a sé, affannandosi a cercare una causa visibile, si rese conto che non erano incrostate solo di fango.

Il Pokémon che aveva di fronte era ferito, e la ferita puzzava.


Stesero il Pokémon sul tavolo da campo della sua tenda, sopra uno dei teli sterilizzati che sarebbero dovuti servire a imballare i campioni fossili che la spedizione stava cercando. L’avevano trasportato fin lì, arrancando al buio nella foresta, senza provocare neppure un gemito nel loro piccolo paziente; ma ora che erano riusciti a trascinarlo fin lì, a che cosa era servito?

Ciò che di quella ferita lo spaventava era che sembrava avvelenata, ed era gonfia di un pus verde e maleodorante dal quale egli si sentiva nauseato.

Il dottor Emir Fuji aveva un dottorato in ingegneria genetica, non era un medico o un chirurgo di specializzazione; nella sua tenda, come tutti i suoi colleghi, egli aveva una cassetta di pronto soccorso e tutta una serie di antidoti, ma in quel momento avrebbe potuto avere a disposizione anche una scatola di aghi e bottoni. Di fronte a una ferita di tale entità, c’era una sola persona in tutta l’equipe di cui egli poteva fidarsi.

Senza neppure voltarsi verso Valérien, mentre cercava di lavare via sangue e sporcizia dalla pelle del Pokémon, Emir disse sordamente: «Va’ a chiamare Rotwang1, Valérien.»

«Rotwang?» La voce di Valérien vacillava d’incertezza in attesa di una conferma. «Ma Emir, è tardi…»

Fu solo all’udire il tremore della sua voce che Emir realizzò per la prima volta che Valérien sarebbe dovuto andare prima da Rotwang, quella notte, e che non ci era andato perché ne era terrorizzato. Possibile che quel dannato tedesco fosse in grado di spaventarlo a tal punto?

«Valérien, non è il momento di discutere! Vacci e basta.»

Dopo un lungo istante di esitazione, tentennando in mezzo alla sua tenda, Valérien mormorò con voce spezzata: «Emir, ti prego…»

Con un’imprecazione terribile, Emir lo spinse da parte e si precipitò fuori dalla tenda.

Era mai possibile che Rotwang fosse in grado di spaventarlo tanto? Certo, era ovvio che si sarebbe infuriato e li avrebbe mandati al diavolo; ma chi si credeva di essere? Era un chirurgo, va bene; un bravo chirurgo, ma poi? Il capo della spedizione era lui, il direttore del laboratorio era lui: possibile che persino in una situazione d’emergenza come quella il solo pensiero di Rotwang potesse paralizzare a tal punto un professionista come Valérien?

Emir percorse l'accampamento silenzioso e furente come una folata di vento. Non avrebbe neppure saputo dire per quale motivo, esattamente, fosse tanto arrabbiato – perché Valérien aveva avuto paura? O forse perché piuttosto (ma questo mai egli l'avrebbe ammesso, neppure di fronte a sé stesso) perché, per un breve istante, subito prima di dare l’ordine di chiamarlo, era stato lui ad aver paura?

Non del tutto casualmente, la tenda di Rotwang era la più lontana dalla sua. Non ne proveniva la minima luce, e una piccola parte di lui provò imbarazzo al pensiero di svegliare così bruscamente qualcuno che dormiva. Era un pensiero che avrebbe provato in ogni momento, nei confronti di chiunque – un semplice residuato della buona educazione impartitagli da sua madre, forse – eppure quell'unica esitazione gli diede una fitta di rabbia atroce quando si accorse di averla provata proprio nei confronti di Rotwang.

A causa del caldo soffocante della giungla, l'entrata della tenda era coperta solo da una zanzariera. Emir la strappò quasi via per la rabbia e d'improvviso, senza accorgersene, fu dentro.

«Alzati, Rotwang! Abbiamo bisogno di te.»

Così com'era ora, in piena notte e nel buio più completo, non poteva vedere niente. Ma ebbe la certezza che Rotwang c'era, e che era stato beatamente addormentato fino a un attimo prima, quando da qualche parte nel buio di fronte a lui vi furono un sussulto e un grido soffocato, e in un fruscio di lenzuola arrotolate, sovrastando il cigolìo della branda arrugginita, il pesante accento tedesco di Rotwang ringhiò: «Che cazzo fai, Fuji?»

Rotwang era lo straniero più maledettamente sboccato che Emir conoscesse, e lo era solo con lui: per tutti gli anni che avevano lavorato assieme, egli non gli aveva mai sentito dire una parolaccia o una volgarità che non fosse più o meno direttamene rivolta o riferita a lui. Per tutto il resto del tempo, con chiunque altro egli lo avesse sentito parlare, Rotwang manteneva scrupolosamente il comportamento del tedesco freddo e sbrigativo, rude ma sostanzialmente corretto che tanto doveva essere piaciuto alla Silph SpA quando gli avevano segnalato il suo curriculum con tante raccomandazioni. Emir lo trovava un atteggiamento ridicolo e puerile, e questo atteggiamento glielo faceva odiare ancora di più.

«Alzati, Rotwang! Abbiamo un Pokémon ferito. Sembra grave. C'è bisogno di te immediatamente.»

Non vi furono altri movimenti o scricchiolii provenienti dal buio. «Dagli della morfina e lasciami dormire. Sono un chirurgo. Che cosa pretendi, che venga ad aprirlo in queste condizioni?»

Quella risposta avrebbe fatto impazzire anche un uomo meno agitato di lui. «Alzati o ti licenzio, Rotwang. Sai che posso farlo.»

La branda scricchiolò. Quel bastardo era tornato a stendersi?

«Okay, Fuji... licenziami. Secondo te col materiale che mi hanno dato che diamine dovrei fare? Posso intontirlo di morfina e cauterizzare la ferita col fuoco, se qualcuno di voi ha un accendino. Ah, e forse ho del cortisone da qualche parte. Senti, perché non scrivi alla Silph di assumere un guaritore al posto mio? Uno di quelli che guariscono imponendo le mani. Buonanotte, Fuji.»

Della questione del materiale, Rotwang si era lamentato ininterrottamente per mesi, forse per anni, da quando erano arrivati i primi consistenti tagli al progetto. Ne aveva sempre dato la colpa a lui, e per quanto Emir avesse in tutti i modi cercato di dimostrargli che non era vero, telefonando in sua presenza a Zafferanopoli e anche scagliandogli fisicamente addosso tutta la documentazione, Rotwang non gli aveva mai dato retta, forse perché era troppo comodo per lui considerarlo allo stesso pari dei dirigenti della Silph.

«C'è bisogno di te adesso» insisté Emir, senza accennare a tirarsi indietro di un passo. «C'è un sacco di sangue di là. Vieni almeno a dargli un'occhiata.»

Per un po' di tempo, Emir non udì più niente, ma finalmente Rotwang disse: «Ormai mi hai svegliato. Vengo, ma voglio gli straordinari in orario notturno, e mi aiuti a portare la cassa del materiale.»

Era fatta. Ma per quale motivo Emir aveva avuto tanta paura di Rotwang, poi? Era insopportabile, certo, e presuntuoso; ma era un medico per vocazione, malgrado le sue continue frecciatine sullo stipendio, e non avrebbe mai lasciato un Pokémon in difficoltà. Era stato stupido da parte sua aver tanta paura.

Sentì qualche altro sonoro cigolìo di vecchie molle arrugginite nell'angolo, poi Rotwang, che si era guardato bene dall'avvertirlo, accese una lampada da tavolo che lo abbagliò. Il medico scoppiò a ridere quando lo sentì imprecare.

«Attento agli occhi, eh, Fuji?»

Pensando al Pokémon che agonizzava sul suo tavolo, Emir si trattenne dal dirgli in termini molto chiari cosa pensasse del suo atteggiamento. «Va bene, andiamo, andiamo... stiamo perdendo tempo.»

«Va bene, allora... aggiornami.»

Finalmente quello che parlava con lui era il dottor Rotwang, il medico di fama mondiale che la Silph aveva fatto di tutto per accaparrarsi, e non senza motivo.

Quando i suoi occhi smisero di vedere ovunque macchie colorate, Rotwang era in piedi davanti a lui, a torso nudo, a cercare da qualche parte nella tenda i suoi scarponi da escursione, coi lunghi capelli biondi che gli ricadevano in continuazione sugli occhi via via che cercava di spostarli. Non l'aveva mai visto a torso nudo: aveva l'aspetto arrossato e insalubre dei nordeuropei, e la sua pelle odorava di chissà quale pomata antizanzare.

Per accelerare i tempi, Emir si affrettò a passargli una camicia che era stata abbandonata senza troppa grazia sul tavolo da campo. «Non ne so molto neanch'io. L'ha trovato Valérien nella palude, mezz'ora fa...»

«Il Pokémon, cazzo, Fuji, il Pokémon! Che idea devo farmi se non mi dici che Pokémon è?» sbottò Rotwang alzandosi e afferrando con rabbia la camicia che gli porgeva.

«Non lo sappiamo che Pokémon è, Rotwang!» esclamò Emir esasperato. «Se ti decidessi a venire, lo vedresti coi tuoi occhi. È un Pokémon che non ho mai visto, sei contento adesso?»

Rotwang aggrottò un lungo sopracciglio nero e arcuato, come se si sforzasse di non mostrarsi impressionato di fronte a lui. «Ehi, stai calmo, Fuji. Che pretendevi, che venissi nudo? Aiutami a portare il materiale e andiamo.»

Se avesse dovuto attendere un solo minuto di più, Emir sentiva che avrebbe urlato. Ma quest'ultima risoluzione giunse per lui come una liberazione: dalla penombra della tenda Rotwang fece riemergere la pesante cassa del materiale della cui inadeguatezza si era tanto lamentato, e finalmente poterono uscire: là fuori, all'esterno, la sua tenda illuminata dall'interno spiccava in mezzo all'accampamento come una fiaccola.

Trovarono Valérien in piedi accanto al tavolo a comprimere la ferita, col volto sbiancato e pieno di panico; ma non appena entrato, prima ancora di scaricare a terra la cassa del materiale, fu Rotwang a prendere il controllo della situazione.

«Spostati, Lestournelle, devo vedere che cosa devo fare. Voi due aprite la cassa, mentre io... porca puttana.»

Disteso sul tavolo, il Pokémon continuava a respirare lentamente, con brevi respiri stentati, affannosi, come se anche il minimo movimento del petto gli cagionasse un dolore atroce, e scrutava tutti loro con occhi enormi e dilatati dalla sofferenza, eppure ancora immensamente tranquilli. Non sembrava affatto spaventato dalle loro presenze angosciate, o confuso, o... al di là del dolore, sembrava paurosamente calmo, come se sapesse che, da parte loro, non aveva da aspettarsi alcuna minaccia, ma come se neppure la ferita e il dolore e l'infezione lo preoccupassero minimamente. Era calmo e forse un poco triste, e niente di più.

«Merda!» sbottò Rotwang appoggiandosi pesantemente al tavolo, come se a malapena le gambe lo reggessero in piedi; ma neppure a quel gesto la creatura parve spaventata da lui. Egli aveva scostato la garza con cui Valérien aveva tamponato fino ad allora la ferita, e aveva visto. Emir sapeva quale rapido ragionamento avesse formulato in quegli istanti il suo cervello, per averlo formulato lui stesso appena pochi minuti prima: quell'odore... «Dove l'avete trovato?»

«Al covo dei Gloom» rispose Valérien lugubremente. Il nome di quel Pokémon bastava da solo a confermare l’ipotesi che quella ferita e quell’odore suggerivano.

«Perché non mi hai detto che è avvelenata, Fuji?» gridò Rotwang senza neppure voltarsi verso di lui. Emir non l’aveva sentito mai tanto arrabbiato.

Cercò di giustificarsi. «Non ero sicuro di che tipo di ferita fosse, non avevo mai visto una…»

«Ma qualche film lo avrai visto anche tu, oppure no?» lo interruppe Rotwang, tornando a comprimere con rabbia la ferita. «Lestournelle, ci sono degli strumenti sottovuoto nella mia cassa, preparameli… gli avete dato qualcosa?»

Senza attendere risposta, cominciò a sfilarsi la giacca che si era gettato addosso e indicò con un cenno, senza neppure badare che qualcuno in quel momento lo stesse davvero guardando, la lampada da campo che rischiarava la tenda. Senza scomporsi, Emir si affrettò ad avvicinargliela. In quel momento era il chirurgo a dare ordini nella sua tenda, ed era del chirurgo ch’egli aveva bisogno.

Faticò qualche istante a ricordare le parole di Rotwang. «Io… no. No, non gli abbiamo dato niente. Ho solo lavato la ferita, per quel poco che…»

«Lo vedo» disse Rotwang a bassa voce, guardandolo nella bassa luce abbagliante della lampada. Emir pensò di non averlo mai visto tanto preoccupato. «Fuji, tu sai fare un’iniezione di morfina in vena?»

Almeno di quello era capace. All’interno della cassa tutto era stipato in un ordine miracoloso: mentre Valérien sistemava tutti gli strumenti chirurgici che aveva trovato, Emir ripescò senza troppo cercare una siringa sterilizzata e una fiala di morfina e si precipitò di nuovo accanto al tavolo.

Rotwang stava borbottando qualcosa in tedesco quando gli fu vicino. «Hai i guanti? Bravo, molto bene. Ora ti facciamo dormire, d’accordo?» disse rivolto al Pokémon, che non aveva l’aria di capire granché la sua lingua, ma ricambiò comunque il suo sguardo con grande dolcezza. Era mirabilmente bello.

Mentre trafficava intorno alla fiala per aprirla, Emir si schiarì la voce. «Pensi che…»

«È merda, Fuji» tagliò corto Rotwang con voce roca. «Non ti aspettare niente. Se fosse altrove, amputerei. Ma è all’addome e vedrò quello che posso fare coi pochi strumenti che ho.»

Non c’era altro da dire. Rotwang accarezzò con due dita il muso del Pokémon quando l’ago penetrò sotto la cute: esso spalancò gli occhi e mugolò piano, ma non accennò neppure ad agitarsi, e parve non avere la benché minima paura, come se provasse verso di loro una fiducia incondizionata e senza pari. Rotwang ne fu molto colpito.

«Ehi» borbottò come tra sé, mentre continuava ad accarezzarlo. «Certo che sei un tipo tranquillo, tu. Più tardi devi dirmi come ti chiami.»

Mew, miagolò il Pokémon, mentre la morfina faceva effetto.


Morì attorno alle undici del mattino.

Rotwang si era affaccendato attorno al tavolo per tutta la notte, cercando di salvarlo con quei magri mezzi che aveva, colle labbra tese e fredde e la fronte profondamente aggrottata, sudata, e poi, attorno alle sei, quando già i primi raggi di sole avevano cominciato a penetrare nella tenda e a confondersi fastidiosamente colla luce della lampada, si era arreso, si era strappato di dossi i guanti con un’imprecazione terribile, e se n’era andato.

Durante l’operazione erano arrivati anche i loro colleghi. Si erano svegliati quando avevano sentito l’unico disperato grido che Mew avesse emesso quella notte, ed erano accorsi; non avevano fatto molto rumore, e Rotwang neppure si era voltato a guardarli. Valérien aveva riassunto loro l’accaduto, ma quasi a cenni, parlando a malapena per evitare di disturbare il chirurgo che agiva, ed essi allora erano rimasti in piedi, attoniti nella tenda, ad aspettare e a fissare con occhi increduli il Pokémon che languiva sotto i ferri.

Quando Rotwang se n’era andato bestemmiando, rendendo anche troppo chiaro a tutti che non c’era mai stata alcuna speranza, nessuno aveva detto niente. Emir si era limitato a voltarsi, e nei loro occhi spauriti, nelle loro bocche stanche aveva vista riflesso il suo proprio volto.

Non c’era stato altro da dire. Erano rimasti tutti là dentro, nonostante non ci fosse più nulla che potessero fare e l’aria della tenda divenisse via via sempre più irrespirabile e soffocante a misura che il sole si levava. Si erano limitati a ciondolare nervosamente attorno al tavolo, chinandosi di tanto in tanto a osservare quei grandi occhi sofferenti eppure ancora disperatamente lucidi e calmi, e a non guardarsi mai gli uni con gli altri.

Alla fine, uno alla volta, se n’erano andati. Vincent era stato il primo: era sgusciato via in silenzio, con le guance esangui e l’aria di qualcuno che potesse svenire da un momento all’altro, mormorando qualcosa sull’andare a cercare Rotwang. Portia l’aveva seguito poco dopo, senza neppure cercare d’inventare una patetica scusa, passando le mani sulle loro spalle come a dar loro forza.

Alle otto del mattino erano rimasti solo lui e Valérien accanto al tavolo, e il Pokémon ancora non accennava a chiudere gli occhi e a riposare un poco. Guardava dritto verso di loro, ma nei suoi grandi occhi sofferenti Emir non aveva scorto altro, al di là del dolore, che una grande ineffabile pace, come s’esso sapesse perfettamente di doversi trovare lì, in quella tenda angusta, a morire. La sua pace lo sconvolgeva oltre ogni dire.

«Vai a dormire un po’, Valérien» aveva detto a un certo punto, senza guardarlo. «Non hai chiuso occhio per tutta la notte, e poi… non serve che restiamo entrambi. Hai sentito Rotwang. Non possiamo fare altro.»

Valérien non si era mosso.

«Davvero, vai. Ti chiamo io se… insomma, se fossimo nella tua tenda, io tornerei a dormire. Dico davvero.»

«Fa troppo caldo per dormire» aveva mormorato Valérien, con l’aria di voler porre freno alla conversazione, ed Emir alla fine aveva lasciato perdere. Valérien era poco più che un ragazzo, ma non era un bambino, e non ci sarebbe stato modo di convincerlo.

Finalmente, poco dopo le nove, il Pokémon aveva perso conoscenza, e infine morì attorno alle undici, serenamente e senza altre sofferenze superflue, ed essi rimasero soli.

«È finita» disse Valérien dopo un po’. Emir avrebbe voluto poter sentire sollievo nella sua voce, la consapevolezza di aver fatto tutto quello che potevano, che quella morte doveva esser destino… ma di sollievo non ce n’era.

Dopo un tempo indefinibilmente lungo da quando il petto di quel Pokémon si era alzato per l’ultima volta e poi non si era più abbassato, Emir fu il primo ad alzarsi. Non ne poteva più di star seduto, non disse neppure nulla. Uscì dalla tenda quasi senza accorgersene.

Pensò per un attimo di allontanarsi dal campo, di tornare nella giungla, anche così, da solo, e cercare di nuovo il nido dei Gloom, e là fare qualcosa, qualunque cosa… ma anche se non avesse cambiato idea, se non avesse saputo quanto vano e privo di significato e anche profondamente stupido questo sarebbe stato, sentiva già anche troppo bene che le sue gambe stanche non sarebbero state in grado di portarcelo. Ma nella sua tenda, accanto a quel corpo minuscolo e immobile che giaceva in piena vista, là dentro Emir non ci poteva stare.

Eppure perché era tanto sconvolto? Quello che era morto era solo un Pokémon, un Pokémon raro, certo, e mirabilmente bello: ma come erano riusciti a trovare lui, ne avrebbero trovati altri esemplari, a furia di cercare… ma se lo sapeva perfettamente che non era per aver perso quella possibilità che era sconvolto! Ma se non era per quello, che senso aveva? Forse che non aveva appreso già abbastanza bene, in tutti quegli anni in cui aveva lavorato per la Silph, che era naturale che i Pokémon morissero?

Se non avesse mai visto quel che aveva visto quella notte, non sarebbe andato a trovare Rotwang. Ma per quanto quell’uomo lo odiasse e lo disprezzasse, quella notte si era vestito e lo aveva seguito, ed era rimasto per ore a cercare di salvare quel Pokémon moribondo che lui e Valérien gli avevano portato, e ora Emir voleva parlargli.

Per quanto a quell’ora del mattino fosse ancora in ombra, l’interno della tenda era già soffocante. Quando Emir si affacciò cautamente sulla soglia e guardò dentro, Rotwang era là, a scartabellare nervosamente in un grosso libro gettato sul tavolo. Si era tolto la camicia, forse per il caldo o forse per cercare di rimuovere ogni residuo di quella notte, ma non si era fatto la barba, e i capelli gli ricadevano sulle spalle e sugli occhi a ogni suo movimento rabbioso. Emir dubitava che avesse realmente qualcosa da cercare là in mezzo.

Senza osare di avvicinarsi troppo a lui, Emir mormorò: «Ehi…»

Rotwang non si voltò verso di lui, ma egli non dubitò che lo avesse sentito dal movimento rigido che ebbero le sue scapole al di sotto della canottiera sportiva. Non reagì.

«Volevo solo…»

«L’hai fatto apposta, vero?» domandò Rotwang senza guardarlo.

Di tutte le parole d’accusa che avrebbe potuto rivolgergli, decisamente questa Emir proprio non se l’aspettava.

«Che cos’è che avrei fatto apposta, Rotwang?» domandò stancamente, appoggiandosi con la mano a una scansia di metallo che conteneva gli oggetti da lavoro del medico. «Non l’ho trovato neppure io quel Pokémon, i meriti della scoperta vanno tutti a Valérien, perciò se vuoi accusarmi di…»

«Oh, non di questo, no» sbottò Rotwang, voltandosi seccamente verso di lui. Era mortalmente pallido, ma l’ardore dei suoi occhi infuocati, in modo del tutto irrazionale, gli fece paura. «La tua vanagloria, per una volta, non c’entra niente… no, tu lo sai cos’hai fatto, Fuji! Tu lo sapevi che ormai per quel Pokémon non c’erano più speranze, non sarai un chirurgo ma sei un biologo, non un filologo! Eppure me lo hai messo lo stesso sotto i ferri, anche se in fin dei conti lo sapevi che non valeva neppure la pena di spostarlo, che sarebbe stato più pietoso lasciarlo morire dove lo avevi trovato…»

La requisitoria di Rotwang non era ancora finita, ed egli addirittura si era avvicinato di un passo, lo incalzava più da vicino; furioso com’era, forse in quel momento non era neppure in grado di sentirlo, eppure Emir non poté fare a meno di provare a difendersi. Quando tentò di parlare, la voce gli uscì di bocca tremante e soffocata, come s’egli ne avesse paura, eppure egli esclamò egualmente: «Non sapevo che stava morendo, dovevamo almeno provare…!»

«Ma ero io a dover provare, non è vero? Ad affondargli le mani nella carne e a sentirmelo morire sotto le dita... anche se persino un bambino si sarebbe accorto che non c'era niente che potessi fare! Eppure tu e Valérien adesso sarete quelli che hanno cercato di salvarlo, mentre io, invece...»

Ma in quel preciso momento, proprio quando Rotwang stava finalmente per scaricargli addosso che cos'era esattamente ch'egli sarebbe stato, d'ora in poi, per colpa sua, la voce acuta e sovreccitata di Valérien lo interruppe in modo inaspettato. Da qualche parte, proprio in mezzo al campo, egli gridò: « Emir! Emir, presto, vieni a vedere!

In circostanze normali, Rotwang si sarebbe certamente infuriato per esser stato interrotto, anche solo involontariamente, da qualcuno come Valérien, ed Emir era già rassegnato a sobbarcarsi anche questa nuova sfuriata... ma essa non venne. Quel mattino, il dottor Rotwang doveva essere troppo estenuato, o troppo deluso e amareggiato, per riuscire ad arrabbiarsi oer qualcosa di tanto puerile. Al contrario, come accorgendosi di aver esagerato, o quantomeno d'essersi scoperto un po' tropo, egli indietreggiò d'un passo e cercò di ricomporsi.

«Va' dal tuo amichetto, Fuji» disse a bassa voce, con lo sguardo diretto altrove, come a cercar con gli occhi qualcosa d'invisibile all'interno della tenda. «Temo che abbia un disperato bisogno di te.»

La voce di Valérien suonava carica d'ansia e di preoccupazione e vibrante di necessità, eppure, quando istintivamente egli fece per uscire dalla tenda, qualcosa dentro di lui lo trattenne, e si fermò senza motivo. Si sentiva confuso. Balbettò: «Non abbiamo ancora finito di...»

Ma quando si volse di nuovo verso di lui, Rotwang non lo stava guardando. Aveva lo sguardo puntato precisamente nella sua direzione, certo, ma i suoi occhi increduli, divenuti enormi, guardavano qualcosa che era al di là delle sue spalle ed egli sembrava intento a tutt'altro che al loro litigio... ma che cos'era che stava guardando?

«Fuji...»

Ma alle sue spalle, ebbe appena il tempo di pensare, nel fugace attimo di tempo che il suo corpo impiegò a compiere un quarto di giro, non c'era che l'ingresso della tenda, e che cosa mai poteva...

Appena al di fuori della tenda, a mezz'aria, esattamente di fronte ai suoi occhi, fluttuava un Pokémon rosa con immani occhi azzurri.

«Mew.»


«È una femmina» disse nervosamente Valérien dopo un po'.

«Ti piace proprio sottolineare l'ovvio, eh, Lestournelle?» ribatté Rotwang.

Erano seduti nella sua tenda, malgrado l'aria già torrida e soffocante del sole levato: richiamati dalla voce di Valérien, anche Portia e Vincent erano accorsi alla loro volta. Nessuno dei presenti riusciva neppure a distogliere lo sguardo dal Pokémon che stava accovacciato sul tavolo da campo di Rotwang, a sfogliare con le piccole zampe affusolate il suo libro. Non era stato difficile attirarlo dentro la tenda: dopo essere arrivata al campo del tutto autonomamente, sembrava che gli esseri umani le fossero piaciuti molto. Alle caute carezze di Valérien aveva reagito balzando di gioia a mezz'aria, e quando quegli era entrato nella tenda lo aveva seguito e si era messa a curiosare qua e là con tutta la naturalezza del mondo. Neppure lei dimostrava la minima paura degli esseri umani, e in generale, esattamente come l’altro esemplare, non dimostrava paura affatto.

«È venuta a cercare lui» mormorò Portia, ma più come a voler cercare una conferma che ad asserire qualcosa volontariamente. Rotwang le scoccò un'occhiata contrariata, ma evitò di scagliarsi anche contro di lei. Di tutto il laboratorio, Portia era l'unica con la quale avesse in genere un buon rapporto, ed evidentemente non voleva cambiare le cose proprio quel giorno.

Lui riposava ancora immobile nella tenda di Emir, sullo stesso tavolo da campo sul quale era stato operato, e ben presto sarebbe stato necessario rimuoverlo da lì, e soprattutto, inevitabilmente, si sarebbe dovuto analizzarlo e studiarlo... ma il solo pensare a quel corpo che giaceva immobile e che andava sempre più raffreddandosi lo riempiva di nausea e di brividi di freddo, ed Emir si sforzò di concentrarsi sul presente e di reprimere da qualche parte in fondo alla gola il senso di nausea che a ogni momento sentiva risalire.

«Non possiamo farglielo vedere» disse a mezza voce. «Dobbiamo tenerla lontana dalla mia tenda finché non avremo rimosso... insomma. Immagino che fosse la sua compagna. Dobbiamo trovare un posto dove spostare il... il...»

Rotwang gli rivolse uno sguardo furente al di sotto delle alte sopracciglia arcuate. Non disse nulla, ma tutto, tutto in lui pareva urlare a gran voce di trovare il coraggio di chiamarlo per nome – il cadavere!

Vincent aveva l'aria di voler aggiungere qualche cosa a quello ch'egli aveva appena detto, ma dopo un attimo di esitazione decise di lasciar perdere. Conoscendolo, doveva aver pensato alla necessità di eseguire un'autopsia, per determinare con certezza le cause della morte e poter approssimare almeno una conoscenza sommaria della fisiologia del nuovo Pokémon, ma con Rotwang in quelle condizioni, cogli occhi vitrei e arrossati di rabbia e di pianto, non c'era neppure da prenderlo in considerazione, per il momento.

«Troveremo sicuramente un posto adatto» si limitò a dire diplomaticamente.

Di tutti i presenti, Portia era sicuramente quella più calma e razionale, che era poi la ragione per cui Emir aveva tanto insistito per assumere proprio lei nel suo team di ricerca – poiché di tutti i membri del suo laboratorio, Portia era anche l'unica che avesse frequentato, come lui, l'Ateneo di Azzurropoli, sia pur laureandosi in Biofisica, ed era perciò l'unica ch'egli conoscesse da prima della fondazione del laboratorio.

«La tua è stata una scoperta eccezionale, Valérien, indipendentemente dagli sviluppi.» Le ultime parole furono pronunciate con tutta la delicatezza che le era possibile, ed ella sfiorò appena un ginocchio di Rotwang mentre parlava; ma quegli non le manifestò il benché minimo segno di gratitudine o di conforto a quel gesto. Se ne stava arroccato sulla sedia pieghevole da campo, colle gambe nervosamente accavallate e le braccia incrociate sul petto, e i suoi occhi cupi e arrossati non si distoglievano minimamente dai movimenti del Pokémon sul tavolo. «Forse dovremmo tornare alla palude dei Gloom e controllare meglio. Se quello è l'habitat di questa specie, potrebbe essere l'unica occasione che abbiamo per trovare un altro esemplare.»

In risposta alla sua proposta, Valérien si decise finalmente a parlare per la prima volta da quando era arrivata la seconda esemplare del nuovo Pokémon. Aveva le guance pallide come di cera e gli occhi lucidi di febbre. «Non possiamo essere certi che non ce ne siano altri esemplari. Per quanto ne sappiamo, potrebbero vivere in coppie isolate e la coppia più vicina potrebbe essere dall'altra parte della Guyana. O in Patagonia, o nella Terra del Fuoco, o...»

«O a un paio di chilometri da qui» lo interruppe Portia. «Valérien, ora tutti quanti siamo sconvolti, ma se lasciamo perdere ora ce ne pentiremo per tutta la vita. Forse ancora non ce ne rendiamo bene conto, ma abbiamo appena scoperto una nuova specie di Pokémon! Vogliamo davvero preparare armi e bagagli e lasciar perdere tutto solo perché siamo stanchi e confusi e perché è accaduta una tragedia terribile che nessuno di noi avrebbe in alcun modo potuto evitare?»

Vedendo che nessun altro prendeva la parola, Vincent si schiarì timidamente la voce. «Sono d'accordo con Portia, ragazzi. La scoperta è senza precedenti, e inoltre... beh. Non possiamo continuare a raccogliere dati sui fossili come se nulla fosse, ora che abbiamo trovato lei; e la Silph non si accontenterà certo di farci tornare a Isola Cannella con un solo esemplare senza che proviamo neppure a trovarne un altro in questa zona...»

Il volto di Valérien diventava sempre più pallido e più spaurito a ogni parola di Vincent, ed Emir temette che fosse sul punto di vomitare da un momento all'altro. Ma prima ch'egli avesse modo d'intervenire e di interromperlo, Vincent riprese: «Valérien, la scoperta è tua. Pensa alla tua carriera. Forse ora non te ne importa, ma lo rimpiangerai tra qualche anno. Riflettici.»

Fino a quel momento Valérien non si era veramente reso conto del fatto che sì, la scoperta era sua, a lui andava il titolo d'essersi inoltrato in piena notte nel cuore della giungla e d'essersi imbattuto, per puro caso, nel Pokémon più raro del mondo... quell'improvvisa presa di coscienza gli fece avvampare le guance di confusione, ed egli distolse lo sguardo.

Per un po’ nessuno sembrò aver nient'altro da dire.

A capo della spedizione era Emir, ora toccava a lui prendere una decisione definitiva, e tutti stavano aspettando che si esprimesse. Sentendosi addosso le aspettative di tutti, Emir si sforzò di concentrarsi e di non pensare in nessun modo al piccolo corpo rosa che giaceva a pochi metri di distanza da loro, nella sua tenda, solo...

Da un punto di vista strettamente razionale, Portia aveva ragione: anche se ancora non lo avevano realizzato, con ogni probabilità avevano appena compiuto la scoperta più importante del secolo dopo quella del DNA. La morte del primo esemplare, per quanto sconvolgente e inaspettata, non si poteva imputare a loro, ed essi avevano fatto molto più di quel che era possibile fare in quelle circostanza; o almeno questo era quel che a ogni momento egli s'imponeva di sforzarsi di credere. Era in fin dei conti naturale che i Pokémon morissero, ripeté con rabbia a se stesso, persino quelli che sembravano irradiare sacralità con la sola presenza...

E poi, c'era la Silph. Quella spedizione era costata una cifra inimmaginabile, persino cogli abominevoli tagli di budget che l'azienda aveva loro imposto: cercare ancora sarebbe stato più conveniente per l'azienda.

Il caposaldo fondamentale della sua vita era il suo lavoro. Che cos'avrebbe detto il signor Dale, il suo diretto superiore, là a Zafferanopoli, alla notizia che avevano deciso di non cercare altri esemplari del Pokémon più raro del mondo per proseguire la raccolta di dati sugli habitat dei Pokémon preistorici - di cui disponevano ormai più o meno a sufficienza – o, peggio ancora, per tornarsene a Kanto?

La nausea che non accennava a passargli premeva ancora da qualche parte in fondo alla sua gola. Sforzandosi di ignorarla, Emir si alzò in piedi: tutti appuntarono all'istante gli occhi su di lui, e persino Rotwang, che stava guardando con ostinazione la punta dei propri stivali, gli gettò un'occhiata di sfuggita.

La voce che uscì dalla sua gola non era realmente la sua – quando si doveva decidere, era la Silph a parlare per suo tramite. «Avete ragione. Concentreremo le ricerche sul nido dei Gloom e le allargheremo a macchia d'olio per cercare qualche tracia, ma penso che dovremmo cominciare da domani.» Percepì chiaramente che Rotwang levava gli occhi su di lui, ma non si voltò da quella parte. Valérien aveva l'aria di guardarlo con grande attenzione, ed egli cercò di concentrarsi su di lui. «Per oggi abbiamo già abbastanza carne al fuoco. Dobbiamo cercare di dormire un po', io devo telegrafare a Zafferanopoli per comunicare i cambiamenti di programma e... e le altre cose da fare oggi.»

Gli sguardi di sollevato assenso dei suoi colleghi lo fecero sentire un po' meglio: l'aver preso una decisione li aveva sollevati dalla greve necessità di decidere a loro volta. Annuendo calorosamente, Portia gli sorrise con aria rassicurante. «Hai fatto la cosa giusta, Emir. Non possiamo fare nient'altro.» Persino Valérien, per quanto ancora pallido, sembrava enormemente rassicurato dalla sua decisione...

Alla sua sinistra, ai margini del suo campo visivo, Rotwang spostò la sedia nel modo più rumoroso possibile per alzarsi in piedi. Certo, non che Emir si fosse mai atteso da lui il minimo segno di approvazione, e anzi ci sarebbe stato da aspettarsi che reagisse scontrosamente... ma quel che accadde dopo, molto rapidamente, andava al di là di ogni sua aspettativa.

Battendo sonoramente i tacchi, Rotwang alzò il braccio destro e gridò: «Heil, mein Fürher!»

Gli si gettarono addosso in tre per trattenerlo quando gli si scagliò contro. Emir non vedeva nulla, non capiva nulla: sentiva di non riuscire ad avanzare mentre Vincent e Valérien lo tenevano per le braccia, vedeva di fronte a sé solo gli occhi di Rotwang e a malapena udiva Portia, aggrappata al suo petto, che lo respingeva gridando: «Lascialo stare, Emir, lascialo stare!»

«Chiedimi scusa, Rotwang! Chiedimi scusa o io ti giuro che non lavorerai mai più in tutta Kanto!»

«Lascia stare, lascia stare, lascia stare... non vedi che occhi che ha?»

Ma certo che sì, Emir li vedeva i suoi occhi rossi, stralunati, iniettati di sangue e dilatati dalla stanchezza, vedeva il suo ghigno gonfio d'odio e la sua barba non fatta, da pazzo, ma aveva anche orecchie per sentire, e Rotwang gli aveva appena dato del nazista! «Chiedimi scusa!»

«Pensi di poter dare ordini qua dentro, mein Fürher? Guarda che con voi eravamo alleati solo durante la guerra!»

«Rotwang, finiscila anche tu!» sbottò Vincent. «Se pensi di poter dire tutto quello che ti pare perché le cose sono andate come sono andate, allora...»

Ma di questo nuovo scambio di battute Emir non vide mai la fine. Portia e Valérien lo trascinarono fuori dalla tenda che ancora scalciava, immobilizzandogli le braccia dietro la schiena, mentre Vincent restava là a inveire e a urlarsi addosso con Rotwang i peggiori insulti possibili, e quasi senza accorgersene egli si ritrovò fuori, contro un albero, a dimenarsi e a farneticare che era calmo e che non voleva picchiare nessuno e che soltanto lo lasciassero tornare là dentro a discutere e a chiarire in maniera civile...

«Richard non è civile in qusto momento, Emir!» lo riprese Portia, staccandosi da lui solo quando fu ragionevolmente certa che non intendesse correre di nuovo dentro, o che quantomento fossero abbastanza lontani dalla tenda perché avessero modo di riprenderlo, se ci avesse provato. «Gli è morto un Pokémon sotto i ferri! Come puoi pensare che sia in sé?»

Sentendosi ancora profondamente scosso, Emir reagì. «Io non l'ho provocato, Portia! L'avete visto tutti che non lo stavo neppure guardando...»

«Voi due vi provocate solo a starvi vicini! Pensi d'aver bisogno di dire qualcosa per farlo infuriare?» lo rimproverò Portia. Era tanto esasperata da cacciarsi le mani tra i capelli spettinati, raccolti in uno chignon precipitoso che andava ormai sciogliendosi. «Emir, Richard ti odia perché odia la Silph e tu sei il direttore. Odierebbe chiunque al tuo posto.»

«No, mi odia perché è un bastado che odia tutto il mondo eccetto te! E poi se le cose non gli vanno bene può sempre... può sempre...»

Per tutta risposta Portia si esibì in un plateale, provocatorio battito di mani. Emir ne rimase così attonito da ammutolire all'istante; al suo fianco anche Valérien, che gli aveva lasciato andare le braccia ma che ancora seguiva i suoi movimenti con l'aria apprensiva di qualcuno che si aspettasse di vederlo scappare da un momento all'altro, la scrutava come impietrito.

«Davvero una bella mossa, Emir! Suggeriscigli di licenziarsi e lasciaci senza un medico... coi tagli a questo progetto, chissà mai chi ci manderebbero da Zafferanopoli al suo posto, anche ammesso che ci manderebbero qualcuno. Vuoi compromettere tutto il progetto?»

Per il progetto che il laboratorio stava portando avanti da quasi quattro anni, purtroppo, Rotwang era indispensabile. Emir ne avrebbe fatto a meno dannatamente volentieri, ma il progetto di rigenerazione e clonazione di Pokémon estinti a partire dai loro fossili richiedeva necessariamente un medico; e Rotwang, che possedeva due specializzazioni, era entrato a far parte dell'equipe di laboratorio non tanto come chirurgo, per quanto fosse eccezionale, quanto come medico genetista.

«Rotwang è sostituibile» balbettò Emir pur di non darle ragione.

Di fronte alla plateale falsità di quell'affermazione, le labbra di Portia si strinsero nervosamente. «Ah, davvero?»

Naturale che non lo era, dato che la tesi specialistica di quel dannato tedesco era un tomo di duecento pagine su una patologia mitocondriale che poteva aver accelerato l'estinzione dei Kabutops nel Paleozoico, e dato che quell'uomo aveva seguito passo per passo tutti gli sviluppi del progetto... assieme a lui, Rotwang era forse l'unico altro al mondo a conoscere realmente a menadito tutti gli aspetti dei loro esperimenti...

Nonostante ciò, disposto a negare qualsiasi evidenza che gli capitasse davanti, Emir s'impettì e rispose: «Certo che lo è.»

«Emir, ti prego, non esagerare» mormorò timidamente Valérien.

«Pensala come vuoi, Emir» disse infine Portia. Non sembrava in grado di sostenere oltre quella conversazione. «Il direttore sei tu. Se pensi che Rotwang ti abbia offeso in modo insormontabile, prendi pure i provvedimenti che devi... ma ricordati degli ultimi tagli, e soprattutto ricordati che gli è appena morto un paziente. Cerca di pensare a come ti saresti sentito tu se avessi dovuto mettergli le mani addosso, pur sapendo di non avere gli strumenti per farlo...»

Il tremendo rumore metallico dei ferri gli riempì i pensieri in modo assordante. Dell'operazione vera e propria egli non aveva visto più o meno niente, era rimasto dietro le spalle di Rotwang a passargli i ferri via via che quegli glieli richiedeva e aveva spostato un paio di volte la lampada, a seconda della zona da illuminare – ma quel rumore tremendo che era come lo sferruzzare di ferri da calza su carni vive era bastato da solo a colmarlo di brividi di freddo. Certo, Rotwang le mani addosso aveva dovuto mettergliele da solo, e da solo aveva dovuto fronteggiare le carni marcescenti di quel Pokémon mirabilmente bello che gli si era affidato con la fiducia incrollabile e incondizionata di un bambino...

Che Portia avesse o meno percepito la sua esitazione, ebbe almeno la compassione di non fargliela pesare. Quando parlò, la sua voce suonò molto dolce. «Dovreste riposarvi un po' adesso, tutti e due. Dovreste dormire almeno un paio d'ore.»

«Non posso tornare di là» disse meccanicamente Emir.

«Forse dovremmo prima sistemare...» balbettò simultaneamente Valérien. Lo spettro di quel piccolo Pokémon morto aleggiava ancora non detto.

Portia non si dimostrò disposta a trattare. «Ce ne occuperemo io e Vincent. Voi due avete già fatto più di quello che avreste dovuto. Valérien, anche tu, dico davvero... sembri febbricitante. Devi dormire anche tu.»

Per quanto fosse egoista e meschino, il pensiero di non dover toccare quel corpo lo fece sentire assurdamente sollevato. Era la stessa sensazione infantile e immatura di quand'era bambino e suo padre si addossava qualche compito al suo posto, che si trattasse di lavare i piatti o di risolvere qualche guaio che aveva combinato.

«Emir» insisté Portia, con voce sorprendentemente dolce e ferma. «La mia tenda è ancora un po' all'ombra. Vai a stenderti là mentre io aspetto Vincent, ti prego.»

Il vociare che si levava dalla tenda di Rotwang si era progressivamente attutito: conoscendo quei due, il loro litigio doveva essere terminato subito dopo che entrambi si erano sfogati, e ora chissà, forse ne stavano discutendo pacificamente. Quei due non si odiavano davvero, erano solo abbastanza testardi da scontrarsi e litigare e poi rappacificarsi per ogni questione di disaccordo, e probabilmente Vincent ne sarebbe venuto fuori ben presto.

Portia aveva vinto. Sentendosi profondamente grato in cuor suo nei suoi confronti, Emir si limitò a ringraziarla con lo sguardo. Non c'era altro da dire. Sotto la spinta inflessibile dei suoi occhi imperiosi, sia lui che Valérien si allontanarono in silenzio.

Valérien avrebbe voluto parlare ancora, chiedergli qualcosa, forse inconsciamente avrebbe voluto venir rassicurato, ma in quel momento Emir riusciva a malapena a guardarlo. Valérien si era appoggiato a lui sin dalla sua prima settimana a Isola Cannella, aveva guardato a lui come a un mentore prima ancora che a un collega o a un amico, ed Emir gli era sempre stato grato per la sua amicizia e la sua devozione... ma ora non si sentiva in grado di confortare nessuno.

Lasciando Valérien dietro di sé, Emir entrò nella tenda di Portia, dove ancora ristagnava la confusione frenetica di quella notte. La sua branda era ancora disfatta.

Emir vi si gettò sopra a peso morto, completamente vestito, affondò la faccia nel rigido cuscino scomodo sul quale ancora aleggiava il profumo dei capelli di Portia, e chiudendo gli occhi si sforzò d'immaginare che fosse quello della pelle di sua madre.


Dopo cena, non precisamente di sua volontà, andò a trovare Rotwang.

Non si prese troppo disturbo di avvertirlo prima di entrare. Il medico era steso sulla sua branda, con l'aria di qualcuno che avesse un gran bisogno di dormire e lavarsi e farsi la barba, e stava leggendo lo stesso libro che Emir gli aveva visto sul tavolo quel giorno.

Rotwang non distolse gli occhi dalle pagine, ma non c'erano dubbi che lo avesse sentito entrare, e ora stava aspettando che parlasse. Emir si schiarì la voce.

«Sono venuto a dirti che non ce l'ho con te per quello che hai detto oggi. Eri in un momento di forte stress e posso immaginare ciò che ti passava per la testa.» Non erano esattamente parole sue, ma dal suo punto di vista stava facendo anche troppo.

Senza neppure degnarsi di abbassare il libro, Rotwang gli gettò un'occhiata obliqua. «Visto che sei qui, mi dispiace che tu abbia pensato che volessi paragonarti a Hitler. Non era mia intenzione.»

«Oh.» Questo Emir proprio non se l'aspettava. Era una pallida parvenza di scuse, quella – il massimo che ci si potesse aspettare da Rotwang, poi? Ma mentre egli si affannava a cercare qualcosa da rispondere a quelle parole, l'altro proseguì: «Volevo solo accusarti di essere genericamente un dittatore, ma... sai com'è. Io sono tedesco.»

Non uccidere Rotwang, non uccidere Rotwang. Cercando di reprimere il profondo desiderio di colpirlo il più violentemente possibile con la costola del libro, Emir si appoggiò al tavolo da campo per trattenersi e domandò molto lentamente: «Perché volevi accusarmi di essere un dittatore?»

Rotwang girò provocatoriamente pagina, per quanto fosse chiaro, dal modo in cui si muovevano i suoi occhi, che non stava leggendo. «Lo sai perché.»

«Rotwang, non c'erano alternative. Veramente pretendevi che lasciassimo quel Pokémon a morire nella giungla solo perché non potevamo essere certi che potesse sopravvivere? Non hai giurato di prestare la tua opera in qualunque circostanza o qualcosa del genere?»

«Lo sai anche tu che non è per questo.»

Emir stava davvero per perdere la pazienza. «Beh, se è perché lavoro per la Silph, mi pare che i nostri contratti si assomiglino molto. Anche tu lavori per la Silph, nessuno ti ha obbligato. Mi odi solo perché sono il direttore?»

Finalmente Rotwang si degnò di mettere da parte il libro e si mise a sedere sul letto per guardarlo negli occhi. Erano arrossati non solo di stanchezza, incavati, profondamente addolorati. «Ti odio perché sei un venduto.»

Fu in quel momento, in cui egli cercava l'ennesima risposta da contrapporre all'ennesima accusa, che lo sguardo gli cadde davvero sulla copertina del libro, ed egli lesse: Anatomia Pokémon. Rotwang non stava leggendo per passare il tempo o per aggiornarsi, si rese conto d'improvviso. Stava cercando di capire dove aveva sbagliato e se c'era ancora qualcosa che avrebbe potuto fare per salvare quel Pokémon.

Rotwang lo stava fissando dalla branda con tutta l'aria di qualcuno che avesse solo voglia di litigare e non vedesse l'ora di farsene offrire l'occasione. Non è che Emir ne avesse meno voglia di lui, per la verità, ma d'improvviso gli parve che non ne valesse la pena, almeno quella volta, e che litigare richiedesse troppe energie. Per quel giorno i suoi bollenti spiriti tedeschi avrebbero dovuto accontentarsi del litigio con Vincent.

Sentendosi addosso un po' meno voglia di ucciderlo di prima, Emir trasse un sospiro profondo e disse: «Hai ragione, sono un venduto, tutto quello che vuoi. Comunque, senti... ero venuto a dirti che le mie minacce di licenziarti non significavano niente. Se poi vuoi dare le dimissioni perché non ti trovi d'accordo con la politica aziendale, su questo non posso pronunciarmi.»

Gli occhi di Rotwang si fecero più sottili, forse amareggiati perché la sua provocazione era caduta nel vuoto. Si lasciò ricadere pesantemente sulla branda, con aria scocciata, e tornò a sollevare provocatoriamente il libro davanti agli occhi. «No, Fuji, grazie tante. Per quanto io sappia quanto ti piacerebbe liberarti di me, temo che sarò costretto a importi la mia presenza ancora per qualche tempo.»

Non c'era niente da fare, Rotwang era quello che era. Poteva essere abbattuto, certo, ed Emir poteva sentirsi sinceramente dispiaciuto per lui, ma questo era quanto. Quell'uomo si stava divertendo a prendersi gioco di lui perché lo odiava, persino in quel momento in cui Emir aveva cercato di mettere da parte il rancore e di tendergli una mano pur sapendo di avere ragione.

Eppure questa domanda proprio doveva fargliela, era più forte di lui, proprio sulla punta della sua lingua. Quando ormai era già sul punto di lasciar perdere tutto e uscire dalla tenda, questa domanda lo trattenne: tornò indietro, si avvicinò alla branda e chiese: «Se sei così arrabbiato con la Silph, perché non te ne vai?»

Rotwang si strinse oltraggiosamente nelle spalle. «Non so. Forse perché ho qualcosa d'importante da fare qui.»

«Qualcosa tipo?» Emir cominciava a spazientirsi.

«Forse non ti riguarda, mio caro direttore.»

«Già... forse no.»

Una parte di lui avrebbe voluto davvero aiutare Rotwang a liberarsi di tutto quel dolore, o almeno a urlarlo, a esprimerlo, ma sembrava non essercene modo, forse perché non aveva sufficienti mezzi, o sufficiente partecipazione, per superare la barriera del suo risentimento.

Ci aveva provato. Emir sollevò la zanzariera e uscì dalla tenda e lasciò che Rotwang rimanesse là dentro, a fronteggiare da solo la morte di quel Pokémon.


5 luglio, Guyana. Abbiamo trovato un nuovo Pokémon nel cuore della giungla.






Buonasera!

Ricopiare questo capitolo è stato un parto, dato che quasi ogni scena era scritta in due o tre modi diversi su fogli diversi, e ho dovuto selezionare una frase alla volta da ciascuno dei fogli. Penso di aver capito come si sente un filologo, da questo punto di vista.

So che le scelte che ho compiuto in questo capitolo sono state un po’ estreme, forse inaspettate, ma spero proprio di non aver deluso le aspettative di nessuno, e anzi mi auguro di aver suscitato un po’ di curiosità.

Come mio solito, desidero ringraziare infinitamente cristal_93, KomadoriZ71 e Peppe_97_Rinaldi per le loro recensioni al prologo.

Un bacio enorme e alla prossima!

Afaneia



1Il nome del dottor Rotwang è ovviamente un tributo all’omonimo personaggio del mio film preferito, Metropolis di Fritz Lang; anche l’aspetto fisico del dottore è vagamente ispirato a lui, semplicemente perché Rudolf Klein-Rogge era un attore meraviglioso, interprete di personaggi destinati a rimanere nella storia del cinema, come Rotwang o il dottor Mabuse (e anche perché ho strani gusti in fatto di uomini, ma questo è secondario).


   
 
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