Verity
respirò debolmente mentre apriva la porta, spingendola con poca forza ma
trovandola più leggera di quanto pensasse. Visto da fuori il laboratorio
sembrava una scatola bianca di quelle che si vedevano nei negozi di confetti,
con qualche finestra sparsa per le facciate, mentre l’ingresso sembrava quello
asettico di un ospedale, con le frecce a indicarti dove si trovassero i vari
settori e un lungo bancone dove due ragazze in camice bianco parlavano con i
vari uffici attraverso enormi schermi di particelle d’aria riunite.
All’inizio
il bianco delle pareti l’abbagliò, costringendola a pararsi gli occhi con le
mani, ma si abituò in fretta e si diresse, seguendo le frecce, al piano dei
ricercatori. Così piccolo da fuori, all’interno quel luogo era un vero labirinto,
con scale da ogni parte che salivano e scendevano, lettere e dati che volavano
rasenti il soffitto e raggiungevano chi aveva bisogno di loro. Non conosceva la
magia che permetteva di allagare gli spazi interni, dubitava che la
insegnassero nelle scuole, ma sapeva che fosse molto utilizzata, soprattutto
nelle fabbriche o nei luoghi di archiviazione cosicché occupassero il minor
spazio possibile e fossero accessibili solo a coloro che avevano partecipato
all’incantesimo iniziale o quelli cui veniva dato il permesso: se qualcuno
esterno avesse provato ad entrare, sarebbe stato distrutto dalla magia.
Teoricamente sarebbe dovuto valere anche lì, ma siccome erano tantissime le
persone che entravano e uscivano, solo la parte più interna e importante era
stata sottoposta a quel tipo di sicurezza. Oltrepassò vari uffici e la maggior
parte degli scienziati e dei ricercatori la salutarono con un gesto frettoloso
della mano, troppo impegnati con il proprio lavoro per potersi fermare ad
aiutarla. Era piuttosto imbarazzata: nessuno era riuscito a dirle dove fosse
suo padre e stava iniziando a chiedersi se non avesse sbagliato qualcosa. Aveva
chiesto solo a quelli di cui si ricordava, le cui facce riusciva ad associare
ai suoi ricordi. Nonostante nessuno riuscisse a darle una risposta, alcuni
degli studiosi, rilassati e senza fretta, le avevano fatto delle domande,
sorridendo e stringendole spesso la mano per complimentarsi, anche se non ne
capiva il motivo. Un mago avanti negli anni, con la gobba, la salvò
dall’assistente assillante che le si era attaccato da quasi un quarto d’ora,
senza dare segni di volerla lasciare libera. La trascinò via per un braccio,
urlando a tutti di tornare alle proprie mansioni, pena il saltare la pausa
pranzo per tutto il mese, con una voce rauca.
‹‹Scusalo
per l’attaccamento eccessivo… Bah, scuse in generale per tutti!››
‹‹Non
era un problema, ma non capisco perché.››
‹‹Sono
poche le donne che vengono qua, tuttalpiù Eleonore, che porta solo disordine e
confusione… E urla, come me.››
Verity
accennò una risata che cercò di trasformare, per decenza, in un colpo di tosse:
‹‹Eleonore è terribile alcune volte.››
L’anziano
mago, che aveva sentito la risata molto bene, fischiettò non sapendo cosa dire
ma pensando: È sua madre, perché la
chiama con il nome di battesimo?
Non
erano affari suoi e anche se era molto affezionato a Victor, non poteva
occuparsi di altre questioni familiari: gestire sua moglie tutte le volte che
veniva era già abbastanza stancante.
‹‹Questo
è l’ufficio di Victor, arrivederci›› le rivolse un sorriso e tornò al suo
lavoro.
Verity
fissò per un po’ la maniglia della porta, poi l’abbassò ed entrò.
Non
vedeva niente: la stanza era immersa nel buio, le imposte chiuse, le tende
abbassate e nessun raggio di luce filtrava. Fece qualche passò in avanti e
sbatté con le ginocchia contro quella che avrebbe potuto essere una scrivania;
protese le mani in avanti e toccando a destra e a sinistra raggiunse la
finestra. Tastò il vetro freddo e ne trovò il bordo, sfiorò poi la corda ruvida
e vi avvolse le dita di entrambe le mani, stringendola e tirando su una delle
tapparelle. Sentì un mugolio dietro di sé e si bloccò improvvisamente, mollando
di colpo la corda. Un fruscio di fogli proveniva dalla scrivania, di cui adesso
riconosceva i contorni e vedeva le forme. Era coperta quasi completamente da
tomi spessi e polverosi, impilati l’uno sull’altro in torri instabili; la
stessa cosa avveniva a terra, dove le pile erano ancora più alte e pericolanti.
Sopra il libri c’erano dei fogli scritti fittamente in una calligrafia quasi
illeggibile, plichi di ricerche e dati numerici, fascicoli di grafici e schemi.
In uno spiraglio minuscolo riusciva a vedere la testa bianca di suo padre.
Dormiva con una mano sotto la guancia come cuscino e aveva ancora la penna stilografica
in mano. La riconobbe subito: gliel’aveva regalata sette Natali prima… Pensava
che fosse a casa nascosta in qualche cassetto, inutilizzata. Il pensiero che la
stesse usando da sette anni le scaldò il cuore, portandola a sorridere. Si
accorse di un foglio seminascosto dal braccio di Victor e lo sfilò
delicatamente. C’erano scritte delle misurazioni che ricordava di aver fatto
dai vari dottori che l’avevano visitata nel corso degli anni, e tutti gli esami
dell’ospedale uniti ad equazioni incomprensibili collegate a dei dati sugli
Ingranaggi.
Cosa
stava studiando che la riguardasse? E soprattutto cosa centrava lei con gli
Ingranaggi e tutti quei dati?
Posò
il foglio sopra uno dei plichi e si allontanò in silenzio. Si sedette sulla
poltrona di pelle nera vicino alla finestra e guardò ancora l’ufficio. A lato
della scrivania c’erano due minuscole librerie, perpendicolari al muro e
parallele l’una all’altra: lo spazio tra le due bastava a far passare una sola
persona, magra per di più. In un cestino erano ammucchiati scatolini di cibo
take-away cinese, indiano e tailandese mentre ovunque, per terra, si
calpestavano fogli di ricerche, immagini collegate a grafici e lunghe tesi e
argomentazioni di cui non poteva capire nulla. Nella poca luce le sembrava di vedere
delle formule scritte sul muro, oltre che sulle lavagne appese sulle quattro
pareti. Rise tra sé e sé del disordine, che le sembrava tanto caratteristico di
suo padre. Finì per assopirsi sulla poltrona, posando la testa su uno dei
braccioli.
La
svegliò Victor, passandole la mano sulla spalla più volte: ‹‹Verity, cosa fai
qui? Eleonore lo sa?››
‹‹Ti
sei svegliato finalmente, ma io quanto tempo ho dormito? Comunque Eleonore non
sa nulla, è fuori tutto il giorno per qualcosa che riguarda l’anniversario
della città…››
Victor
alzò gli occhi al cielo, si passò una mano sul viso per svegliarsi e poi si
allontanò, misurando i passi per apparire il più calmo possibile. Fece più
volte il giro della stanza, quasi volesse calcolarne l’area con i piedi; aprì
la porta e guardò a destra e a sinistra; la richiuse; ritornò alla scrivania e
si sedette meccanicamente, raggruppando i fogli e infilandoli in una
cartellina. Non era tanto il comportamento di Eleonore, che era sempre in giro
con le sue amiche, a innervosirlo, ma il fatto che Verity fosse lì con lui, in
quella stessa stanza, perché sapeva che lei doveva volere qualcosa da lui, che
osservava e chissà cosa poteva pensare di un padre turbato dalla sola presenza
della figlia.
Verity
aveva seguito con lo sguardo tutti i movimenti del padre, riportando alla
memoria i pochi momenti che aveva vissuto con lui: c’erano dei week-end quando
era molto piccola, delle volte in cui l’aveva accompagnata a scuola con
quell’aria ansiosa che aveva anche in quel momento, alcuni Natali in cui si
erano ritrovati tutti insieme, come quello di sette anni prima. Il lavoro però
lo aveva sempre assorbito, togliendogli ogni forza e concentrazione; anche
quando erano a casa, il suo pensiero sembrava essere sempre volto a qualcosa di
diverso dal momento presente. Non ricordava nemmeno di averlo visto prendere
una posizione o mostrare sicurezza e autorità al di fuori dell’ambito
lavorativo, era impacciato nel parlare e nei movimenti, come in quel momento.
Vedeva bene che non aveva la più pallida idea di cosa fare.
‹‹Papà,
senti, cos’è qual foglio pieno di dati su cui ti sei addormentato?››
‹‹È
uno studio molto importante, è…››
Stava
per iniziare a spiegare minuziosamente quando si rese conto a quale foglio si
riferisse e ammutolì, interrompendo il contatto visivo con i suoi occhi
smeraldo. Non voleva risponderle dicendo la verità, ma non era capace di
inventarsi dal nulla una bugia credibile e cercò di sviare il discorso su un
altro argomento.
‹‹È
una ricerca importante ma ancora sterile al momento, non ci sono applicazioni
pratiche. Ma immagino tu non abbia pranzato... È ora di pranzo vero?››
Verity
rise, annuendo con il viso e lui sospirò sollevato.
‹‹Ottimo,
allora vieni con me… A proposito, cosa fai qui alla fine?››
Non
ottenne risposta dalla figlia, che si alzò e lo seguì fuori dalla porta,
dicendo di avere molta fame. Nel corridoio stretto, che li costringeva a
camminare spalla contro spalla, erano buffi da vedere. Sembravano amici,
conoscenti, parenti alla lontana o addirittura sconosciuti, ma non padre e
figlia. Verity era rilassata, la goffaggine del padre l’aveva calmata e in quel
momento pensava solo a cosa avrebbe potuto trovare alla mensa del laboratorio;
Victor era rigido come un manichino e cercava di ridurre al minimo il contatto,
guardando sempre di sottecchi la figlia.
Al
tavolo, seduti uno di fronte all’altra, erano rimasti in silenzio: lei
osservava gli studiosi che si sedevano e alzavano velocemente senza godersi il
pranzo, che leggevano sui loro schermi d’aria dati e grafici o parlavano dei
progressi dei figli a scuola. Sbirciò il piatto di suo padre e lo vide ancora
pieno. Si chiese perché non avesse mai notato quell’insicurezza, ma fu anche
lesta nel darsi una risposta: non lo aveva mai osservato così da vicino. Quando
erano a casa, lui rimaneva spesso lontano. Aveva realmente scambiato
l’indecisione per indifferenza o forse era davvero stato così come lo
ricordava? Non riusciva a risolvere quel dubbio. Decise che avrebbe aspettato:
era ancora in tempo per allontanarla come avrebbe sicuramente fatto Eleonore
una volta conosciuto il motivo della sua visita.
Victor
aveva notato come l’umore di Verity fosse cambiato e al posto della curiosità
il suo volto portasse i segni del dubbio e della domanda e pensò, per una
volta, di saperne il perché: non sapeva come si sarebbe comportato. Non ne era
certo nemmeno lui, pensava solo di non volerle dare l’impressione che l’avrebbe
abbandonata presto. Mentre lei era catturata dalla conversazione di due suoi
colleghi, colse l’occasione per osservarla bene, per imprimersi nella memoria
quanto fosse cambiata dalla bambina con gli occhi tristi che conservava nei
suoi ricordi. Era diventata grande, pensò, una ragazza bella e probabilmente
anche buona se aveva stretto una così bella amicizia con la figlia di Erald ed
Emily. Il modo con cui guardava quello che la circondava gli sembrava lo stesso
dell’infanzia, quando girava per la casa prendendo in mano tutti gli oggetti
che riusciva a raggiungere e li studiava con attenzione; il sorriso che faceva
aveva ancora una nota di tristezza, nascosta nell’angolo delle labbra, che
forse nessuno notava, ma che lui vedeva perché era lo stesso della sua mamma,
eppure era cambiato, anche se non avrebbe saputo descrivere come e in cosa.
Una
volta finito di mangiare le chiese di nuovo cosa facesse lì e la vide
incrociare le braccia dietro la schiena e respirare profondamente: ‹‹Vorrei
delle informazioni sugli Ingranaggi Sacri, se fosse possibile.››
Sorrise
un po’ confuso ma sollevato: per un secondo aveva creduto che fosse stata
Eleonore ad inviarla, per farlo ritornare a casa: si lamentava da molti mesi
delle sue assenze troppo lunghe, dicendo che avrebbe dovuto essere più
partecipe della vita della famiglia.
Le
disse di seguirlo e la portò al piano superiore, sbloccando l’incantesimo di
protezione per permetterle di entrare nella stanza ampia e luminosa dove
custodivano gli Ingranaggi. Salutò i suoi colleghi e presentò velocemente
Verity, per poi concentrarsi sulle due teche poste nel centro.
La
ragazza si avvicinò e sfiorò il vetro freddo con le dita, guardando con
attenzione mentre suo padre parlava. Una conteneva un ciondolo argenteo con un
pietra rossa, forse un rubino, come pendente, mentre nell’altra, appoggiato su
un cuscinetto di seta, vi era un bracciale dorato, spesso, del tipo che si
intrecciano lungo l’avambraccio fino quasi al gomito con varie gemme
incastonate: la più bella, che sembrava un enorme smeraldo, se indossata
sarebbe finita appena sopra il polso.
‹‹Sono
così banali?›› chiese ‹‹Mi aspettavo qualcosa di più grandioso, non so, uno
spadone lungo o uno scettro magari…››
‹‹Hanno
sorpreso anche me, ma così sono più semplici da studiare… Pensa come sarebbe
stato difficile analizzare la lama tagliente di una spada. È nelle piccolezze
che si trovano le cose importanti: se fossero state grandi come le avevamo
immaginate, adesso saremmo ancora a cercare un modo per capirle. I dettagli
minuscoli ci hanno aiutato molto… La collana si chiama Benihime, il bracciale
Hikarihime. Se… Se vuoi puoi prenderle in mano.››
Alcuni
ricercatori interruppero il proprio lavoro per lanciare uno sguardo preoccupato
a Victor, ma l’espressione senza insicurezze del loro capo li fece ritornare ai
propri dati con tranquillità. Due di loro aprirono le teche e misero gli
Ingranaggi nelle mani appena tremanti di Verity.
‹‹Cosa
sono? Di preciso intendo.››
‹‹Oltre
a fonti di energia? Non lo sappiamo ancora. I monaci mi hanno raccontato che se
vengono a contatto con le giuste essenze si animano e rivelano la loro vera
forma, ma non abbiamo trovato nulla che reagisca. Però mi piacerebbe davvero
scoprirlo: c’è poesia, equilibrio… Direi anche bellezza in loro. Chi le ha
portate qui, se davvero sono state portate ovviamente, doveva trovarsi in un
grande pericolo e non parlo della minaccia di Lucifero: concentrandosi a fondo
si può sentire vita dentro quelle pietre, energia che fluisce. Certe volte
penso che se riuscissimo a sfruttare tutto quel potere, potremmo fare grandi
progressi e curare meglio di quanto stiamo già facendo i disastri che ci hanno
lasciato i nostri antenati…››
Verity
stava ascoltando con interesse quando qualcosa la distrasse. Non sapeva come
fosse possibile e quasi neanche riusciva a crederci, ma sentiva quella forza di
cui suo padre parlava. Sembrava come un flusso di vita che dalle gemme entrava
direttamente dentro di lei, risvegliando qualcosa che era nascosto senza sapere
dove. Era qualcosa di vivo che donava vita, ma anche speranza e desiderio,
eppure c’era qualcosa di tremendamente sbagliato in tutta quella magia, una
strana instabilità che non si spiegava in nessun modo e a cui suo padre non
aveva minimamente accennato, come se ad un certo momento quelle gemme sarebbero
potute esplodere diffondendo un miasma oscuro e demoniaco.
‹‹Sai
dirmi solo questo? Non avete fatto altre scoperte in tutti questi anni?››
‹‹È
imbarazzante ammetterlo, ma questo è tutto quello che abbiamo: due gioielli,
dei macchinari precisissimi e la nostra magia. Non sappiamo da dove arrivino
realmente o quale sia il loro scopo. Nessuna delle leggende sembra avere una
spiegazione razionale e scientifica o anche solo dettagli utilizzabili per le
ricerche, ci siamo solo noi con le nostre idee, spesso fallimentari.››
Perso
nel raccontare, senza averne coscienza, Victor si era avvicinato a Verity, ma
resosi conto di aver colmato la distanza che li separava quasi completamente,
si allontanò, stringendo le mani. Rimasero nel laboratorio ancora un po’ di
tempo, discutendo tra loro a voce bassa, ma alla fine Verity lo ringraziò e
andò via.
Le
piacque così tanto come si era svolta la giornata che finì per ritornare a
trovare il padre e i suoi collaboratori. L’ambiente era serio ma al contempo
appassionante, e spesso si sentivano battute e risate nelle stanze; la
conoscevano tutti e anche per entrare nella stanza degli ingranaggi non era più
vincolata a Victor, che molte volte rimaneva chiuso per lungo tempo nel suo
ufficio impegnato a cercare un qualsiasi appiglio per ottenere buoni risultati
con la ricerca. Era riuscita, anche se di sfuggita, a vedere gli zii tra una
pausa e l’altra, ma questi non le avevano parlato e lei aveva fatto
altrettanto, preferendo osservare le dolci reazioni imbarazzate del padre. In
certe occasioni le si avvicinava da dietro e le lasciava un carezza sulla
schiena per poi ritrarsi appena lei si voltava; spesso blaterava frasi a caso e
senza senso come “Ma dove sono le ventose
di questi polipi?” e arrossiva come un peperone quando si rendeva conto di
averle dette ad alta voce, zittendosi. Certo, era strano e particolare, ma
piacevole, e riusciva a vedere di che tipo di uomo si fosse innamorata sua
madre da giovane. Eppure non vedeva in Eleonore la donna che avrebbe potuto
renderlo felice e non perse l’occasione di chiedergli, la prima notte che
rimase con lui nel laboratorio, perché l’avesse sposata.
‹‹L’amavo
molto…››
‹‹L’amore
non scompare all’improvviso… Cos’è successo?››
Victor
era circondato di ricordi, indeciso se raccontarli o tenerli per sé, ma alla
fine prevalse il desiderio di accontentare la curiosità della figlia.
‹‹La
vidi per la prima volta a un congresso sull’ambiente: all’epoca ero solo il
segretario dell’ex-direttore ed ero molto più imbranato di adesso. Tenevo in
mano un pila di fogli che sarebbero serviti per la dimostrazione mentre altre
cinque o sei pile volteggiavano dietro di me e non vedevo bene cosa ci fosse
davanti. Ero quasi arrivato alla nostra postazione, intravedevo già il mio
capo, ma non notai tua madre e le andai addosso facendo cadere tutto quanto. Mi
aiutò a recuperare i fogli mentre il direttore teneva una mano sugli occhi,
rifiutandosi di guardare il disastro che avevo combinato.
Era
così bella quel giorno, delicata come una bambola e gentilissima… Fu un colpo
di fulmine per me, mi piace credere che lo sia stato anche per lei. Le feci la
corte ogni giorno, una corte spietata, e quando mi disse di sì, ignorai ogni
avvertimento di mia madre sul fatto che secondo lei la conoscessi troppo poco e
che fosse un matrimonio avventato e mal valutato. E i primi anni furono
probabilmente il periodo più bello della mia vita: non immagini la dolcezza, il
desiderio, la passione che condividevamo, ma anche il rispetto, la voglia di
creare qualcosa di reale insieme.
Poi
sei nata tu e mi sono risvegliato tutt’un tratto in un letto gelido, in una
casa senza allegria ma piena di lamenti e con una donna al fianco che non
riconoscevo più. Non era, non è, il mio posto quella villa immensa; non sono
mie quelle ricchezze che Eleonore ama tanto. Sapere che tu non eri la figlia che
desiderava mi ha fatto vedere quello che non avevo mai visto.››
‹‹Credi
sia sempre stata così?››
‹‹Non
saprei, forse. L’ho idealizzata troppo nel mio cuore, incidendo un ricordo che
ora sanguina, ma questo non significa che non l’ami più: è un amore diverso,
meno trascinante, ma più profondo. Lei ti ama, enormemente, ma non sarà mai in
grado di mostrartelo. Eppure non avrei voluto che soffrissi così tanto per
questo.››
Era
così evidente che fosse innamorato di Eleonore! Forse lui non se ne accorgeva,
ma per lei, che aveva visto Erald ed Emily insieme tanto tempo fa e aveva ben
impressi nella memoria ogni loro gesto, per lei era chiaro come la luce di una
candela nella notte. Ma a quella sensazione di ammirazione verso i sentimenti
di suo padre, si sostituì in pochi secondi un moto di irritazione e non riuscì
a tenere a freno le parole: ‹‹Potevi stare con me invece di piangerti
addosso.››
‹‹Non
sapevo come comportarmi,›› le disse ‹‹non lo so nemmeno ora e lo puoi notare da
sola senza che sia io a dirtelo. Tu non hai la magia e io non ho mai saputo se
usarla o meno in tua presenza, se ti avrebbe fatto sentire inferiore, diversa
dagli altri bambini.››
‹‹E
piuttosto che affrontare il dilemma con un esperimento, hai preferito lasciarmi
da sola? Questo mi ha fatto sentire diversa: dover comprendere, a soli cinque
anni, che non avrei mai avuto una famiglia come le altre ragazze mi ha davvero
fatto sentire inferiore e sola.››
Avrebbe
detto di tutto in quel momento, qualunque frase o parola che avesse potuto
farla tornare indietro per rivivere l’infanzia e comportarsi come il padre che
avrebbe dovuto essere. In quel preciso istante tutta la colpa che da vent’anni
assediava il suo animo esplose colpendolo dritto al cuore, chiudendogli lo
stomaco e lasciando la gola secca e la mente sgombra da pensieri. Verity la
percepì per intero e, forse, ne condivise addirittura una parte: non aveva mai
pensato che si sarebbe rivolta in quel modo a suo padre. Solo allora collegò
l’espressione enigmatica che ricordava fosse appartenuta al suo volto ogni
volta che si trovavano insieme alla paura di sbagliare e non all’indifferenza
nei suoi confronti.
‹‹Ogni
volta che ti vedevo andare via senza abbracciarmi, quando mi spingevi giù dalla
macchina per andare a scuola, quando non tornavi a casa per giorni e giorni, in
quei momenti ogni sogno infranto era più doloroso che mille colpi al cuore. Ora
però sei qui, sei al mio fianco: mi saluti e scappi via, parli a vanvera e
arrossisci. Ma sei qui e, alla fine, è l’unica cosa che conta, papà.››
Victor
si affacciò dalla finestra e vide la Cintura di Orione brillare nella notte. La
fissò senza nemmeno chiudere le palpebre: non voleva raffigurarsi gli occhi
della figlia nella mente, non desiderava neanche incontrarli nella realtà.
Avrebbero avuto la stessa sfumatura verde scuro, quasi nero, che aveva
percepito ogni volta che in passato l’aveva delusa o rattristata, perché anche
se parlava di un presente dove lui era lì, il passato non poteva essere
cancellato, e Verity avrebbe sempre portato dentro di sé il ricordo di un padre
assente e indifferente, incapace di rivelare i suoi sentimenti.
Verity
gli prese la mano, la strinse con forza imprimendogli sulle nocche il segno
degli anelli, e lui lo interpretò come un segno di fiducia, un incitamento a migliorare
per quel futuro che potevano condividere, cambiare e modificare a loro
piacimento fino a che non avesse raggiunto la forma dei loro desideri. Poi
rimasero abbracciati.
Verity
raccontò a Dakota tutto quello che si erano confessati in quei giorni. Dakota
sorrideva e annuiva, recitando abilmente la parte dell’amica sorpresa e
incredula: fin da quando aveva accettato di accompagnarla aveva saputo bene
come sarebbe terminata quella visita e anche per questo non aveva mai chiamato
Verity per farsi svelare i minimi dettagli che da sola non era riuscita a
immaginare. L’unico difetto di quella felice situazione era l’attenzione che
Verity poneva nelle parole con cui riportava i discorsi di Victor: c’era una
diffidenza appena palpabile che mai l’abbandonava, come se non fosse convinta
dell’intera faccenda. Poteva essere una sua sensazione, ma più Verity parlava e
più si persuadeva che non lo fosse.
‹‹Sai
che sei strana? Perché non ti vuoi fidare di lui? Non sto giustificando il suo
comportamento, sia chiaro, ma un poco riesco a capirlo; quando ti ho conosciuta
avevo anch’io la stessa paura di fare qualcosa di sbagliato e non sarebbe
assurdo se lui l’avesse ancora. Poi nemmeno mio papà era molto degno di fiducia
e pensa che adesso vivo con lui.››
‹‹Quanti
mesi ti sono serviti solo per mettere piede in quella casa?››
Rise:
le erano stati necessari sei mesi solo per trasferire tutta la roba che aveva
portato via e messo nella stanza di Verity e ci era voluto quasi un anno per
stabilirsi là definitivamente. Probabilmente non aveva così tanto diritto di
criticare come credeva, ma non per questo avrebbe smesso.
‹‹Situazioni
diverse. I tuoi non si lanciavano fatture oscure in salotto al posto di ben più
innocui cuscini. Dagli tempo e vedrai che sarà un ottimo papà, anche se in
ritardo.››
Verity
rise di tutto cuore, riconoscendo che la sua situazione si sarebbe sicuramente
trasformata in meglio, legandosi in un rapporto saldo.
Angolo dell’autrice
Buongiorno
a tutti! Aggiorno oggi con il nuovo capitolo, sperando che vi piaccia e che
abbiate voglia di lasciarmi una recensione.
Ringrazio
moltissime le persone che mi hanno lasciato il loro parere nei capitoli
precedenti e a tutti voi lettori silenziosi che avete letto. Sono felice che
leggiate J
Un
saluto a tutti,
Nemamiah