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Autore: Nemamiah    22/11/2017    1 recensioni
Dal testo:
Verity sorrise e rispose: ‹‹Io invece credo che ci sia sempre un motivo per il modo in cui si sceglie di agire, indipendentemente dall’essere buoni o cattivi.››
‹‹È un altro modo di vedere la vita, ma penso porti alla sofferenza. Chiunque può tradirti, fingere di essere in un modo e rivelarsi l’opposto. È necessario classificare le persone e scegliere chi non far avvicinare per essere felici.››
‹‹Anche la sofferenza può condurre alla felicità, non è sempre negativa.››
[...]
‹‹Forse è solo questione di scegliere quale rischio correre quando si conosce qualcuno, se tenerlo lontano dal tuo cuore o donarglielo anche se potrebbe distruggerlo, sapendo che significa concedergli la tua fiducia, saltare nel vuoto e sperare che ti prenda prima che tocchi il suolo.››
‹‹Un po’ come l’amore.››
‹‹No. L’amore è saltare nel vuoto e sapere che non toccherai il suolo perché qualcuno ti prenderà prima.››
[...]
‹‹Il problema è questo: fare la cosa giusta non è sinonimo di rendere tutti felici.››
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Sovrannaturale
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nero come il bianco - Raccolta'
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Verity respirò debolmente mentre apriva la porta, spingendola con poca forza ma trovandola più leggera di quanto pensasse. Visto da fuori il laboratorio sembrava una scatola bianca di quelle che si vedevano nei negozi di confetti, con qualche finestra sparsa per le facciate, mentre l’ingresso sembrava quello asettico di un ospedale, con le frecce a indicarti dove si trovassero i vari settori e un lungo bancone dove due ragazze in camice bianco parlavano con i vari uffici attraverso enormi schermi di particelle d’aria riunite.

All’inizio il bianco delle pareti l’abbagliò, costringendola a pararsi gli occhi con le mani, ma si abituò in fretta e si diresse, seguendo le frecce, al piano dei ricercatori. Così piccolo da fuori, all’interno quel luogo era un vero labirinto, con scale da ogni parte che salivano e scendevano, lettere e dati che volavano rasenti il soffitto e raggiungevano chi aveva bisogno di loro. Non conosceva la magia che permetteva di allagare gli spazi interni, dubitava che la insegnassero nelle scuole, ma sapeva che fosse molto utilizzata, soprattutto nelle fabbriche o nei luoghi di archiviazione cosicché occupassero il minor spazio possibile e fossero accessibili solo a coloro che avevano partecipato all’incantesimo iniziale o quelli cui veniva dato il permesso: se qualcuno esterno avesse provato ad entrare, sarebbe stato distrutto dalla magia. Teoricamente sarebbe dovuto valere anche lì, ma siccome erano tantissime le persone che entravano e uscivano, solo la parte più interna e importante era stata sottoposta a quel tipo di sicurezza. Oltrepassò vari uffici e la maggior parte degli scienziati e dei ricercatori la salutarono con un gesto frettoloso della mano, troppo impegnati con il proprio lavoro per potersi fermare ad aiutarla. Era piuttosto imbarazzata: nessuno era riuscito a dirle dove fosse suo padre e stava iniziando a chiedersi se non avesse sbagliato qualcosa. Aveva chiesto solo a quelli di cui si ricordava, le cui facce riusciva ad associare ai suoi ricordi. Nonostante nessuno riuscisse a darle una risposta, alcuni degli studiosi, rilassati e senza fretta, le avevano fatto delle domande, sorridendo e stringendole spesso la mano per complimentarsi, anche se non ne capiva il motivo. Un mago avanti negli anni, con la gobba, la salvò dall’assistente assillante che le si era attaccato da quasi un quarto d’ora, senza dare segni di volerla lasciare libera. La trascinò via per un braccio, urlando a tutti di tornare alle proprie mansioni, pena il saltare la pausa pranzo per tutto il mese, con una voce rauca.

‹‹Scusalo per l’attaccamento eccessivo… Bah, scuse in generale per tutti!››

‹‹Non era un problema, ma non capisco perché.››

‹‹Sono poche le donne che vengono qua, tuttalpiù Eleonore, che porta solo disordine e confusione… E urla, come me.››

Verity accennò una risata che cercò di trasformare, per decenza, in un colpo di tosse: ‹‹Eleonore è terribile alcune volte.››

L’anziano mago, che aveva sentito la risata molto bene, fischiettò non sapendo cosa dire ma pensando: È sua madre, perché la chiama con il nome di battesimo?

Non erano affari suoi e anche se era molto affezionato a Victor, non poteva occuparsi di altre questioni familiari: gestire sua moglie tutte le volte che veniva era già abbastanza stancante.

‹‹Questo è l’ufficio di Victor, arrivederci›› le rivolse un sorriso e tornò al suo lavoro.

Verity fissò per un po’ la maniglia della porta, poi l’abbassò ed entrò.

Non vedeva niente: la stanza era immersa nel buio, le imposte chiuse, le tende abbassate e nessun raggio di luce filtrava. Fece qualche passò in avanti e sbatté con le ginocchia contro quella che avrebbe potuto essere una scrivania; protese le mani in avanti e toccando a destra e a sinistra raggiunse la finestra. Tastò il vetro freddo e ne trovò il bordo, sfiorò poi la corda ruvida e vi avvolse le dita di entrambe le mani, stringendola e tirando su una delle tapparelle. Sentì un mugolio dietro di sé e si bloccò improvvisamente, mollando di colpo la corda. Un fruscio di fogli proveniva dalla scrivania, di cui adesso riconosceva i contorni e vedeva le forme. Era coperta quasi completamente da tomi spessi e polverosi, impilati l’uno sull’altro in torri instabili; la stessa cosa avveniva a terra, dove le pile erano ancora più alte e pericolanti. Sopra il libri c’erano dei fogli scritti fittamente in una calligrafia quasi illeggibile, plichi di ricerche e dati numerici, fascicoli di grafici e schemi. In uno spiraglio minuscolo riusciva a vedere la testa bianca di suo padre. Dormiva con una mano sotto la guancia come cuscino e aveva ancora la penna stilografica in mano. La riconobbe subito: gliel’aveva regalata sette Natali prima… Pensava che fosse a casa nascosta in qualche cassetto, inutilizzata. Il pensiero che la stesse usando da sette anni le scaldò il cuore, portandola a sorridere. Si accorse di un foglio seminascosto dal braccio di Victor e lo sfilò delicatamente. C’erano scritte delle misurazioni che ricordava di aver fatto dai vari dottori che l’avevano visitata nel corso degli anni, e tutti gli esami dell’ospedale uniti ad equazioni incomprensibili collegate a dei dati sugli Ingranaggi.

Cosa stava studiando che la riguardasse? E soprattutto cosa centrava lei con gli Ingranaggi e tutti quei dati?

Posò il foglio sopra uno dei plichi e si allontanò in silenzio. Si sedette sulla poltrona di pelle nera vicino alla finestra e guardò ancora l’ufficio. A lato della scrivania c’erano due minuscole librerie, perpendicolari al muro e parallele l’una all’altra: lo spazio tra le due bastava a far passare una sola persona, magra per di più. In un cestino erano ammucchiati scatolini di cibo take-away cinese, indiano e tailandese mentre ovunque, per terra, si calpestavano fogli di ricerche, immagini collegate a grafici e lunghe tesi e argomentazioni di cui non poteva capire nulla. Nella poca luce le sembrava di vedere delle formule scritte sul muro, oltre che sulle lavagne appese sulle quattro pareti. Rise tra sé e sé del disordine, che le sembrava tanto caratteristico di suo padre. Finì per assopirsi sulla poltrona, posando la testa su uno dei braccioli.

La svegliò Victor, passandole la mano sulla spalla più volte: ‹‹Verity, cosa fai qui? Eleonore lo sa?››

‹‹Ti sei svegliato finalmente, ma io quanto tempo ho dormito? Comunque Eleonore non sa nulla, è fuori tutto il giorno per qualcosa che riguarda l’anniversario della città…››

Victor alzò gli occhi al cielo, si passò una mano sul viso per svegliarsi e poi si allontanò, misurando i passi per apparire il più calmo possibile. Fece più volte il giro della stanza, quasi volesse calcolarne l’area con i piedi; aprì la porta e guardò a destra e a sinistra; la richiuse; ritornò alla scrivania e si sedette meccanicamente, raggruppando i fogli e infilandoli in una cartellina. Non era tanto il comportamento di Eleonore, che era sempre in giro con le sue amiche, a innervosirlo, ma il fatto che Verity fosse lì con lui, in quella stessa stanza, perché sapeva che lei doveva volere qualcosa da lui, che osservava e chissà cosa poteva pensare di un padre turbato dalla sola presenza della figlia.

Verity aveva seguito con lo sguardo tutti i movimenti del padre, riportando alla memoria i pochi momenti che aveva vissuto con lui: c’erano dei week-end quando era molto piccola, delle volte in cui l’aveva accompagnata a scuola con quell’aria ansiosa che aveva anche in quel momento, alcuni Natali in cui si erano ritrovati tutti insieme, come quello di sette anni prima. Il lavoro però lo aveva sempre assorbito, togliendogli ogni forza e concentrazione; anche quando erano a casa, il suo pensiero sembrava essere sempre volto a qualcosa di diverso dal momento presente. Non ricordava nemmeno di averlo visto prendere una posizione o mostrare sicurezza e autorità al di fuori dell’ambito lavorativo, era impacciato nel parlare e nei movimenti, come in quel momento. Vedeva bene che non aveva la più pallida idea di cosa fare.

‹‹Papà, senti, cos’è qual foglio pieno di dati su cui ti sei addormentato?››

‹‹È uno studio molto importante, è…››

Stava per iniziare a spiegare minuziosamente quando si rese conto a quale foglio si riferisse e ammutolì, interrompendo il contatto visivo con i suoi occhi smeraldo. Non voleva risponderle dicendo la verità, ma non era capace di inventarsi dal nulla una bugia credibile e cercò di sviare il discorso su un altro argomento.

‹‹È una ricerca importante ma ancora sterile al momento, non ci sono applicazioni pratiche. Ma immagino tu non abbia pranzato... È ora di pranzo vero?››

Verity rise, annuendo con il viso e lui sospirò sollevato.

‹‹Ottimo, allora vieni con me… A proposito, cosa fai qui alla fine?››

Non ottenne risposta dalla figlia, che si alzò e lo seguì fuori dalla porta, dicendo di avere molta fame. Nel corridoio stretto, che li costringeva a camminare spalla contro spalla, erano buffi da vedere. Sembravano amici, conoscenti, parenti alla lontana o addirittura sconosciuti, ma non padre e figlia. Verity era rilassata, la goffaggine del padre l’aveva calmata e in quel momento pensava solo a cosa avrebbe potuto trovare alla mensa del laboratorio; Victor era rigido come un manichino e cercava di ridurre al minimo il contatto, guardando sempre di sottecchi la figlia.

Al tavolo, seduti uno di fronte all’altra, erano rimasti in silenzio: lei osservava gli studiosi che si sedevano e alzavano velocemente senza godersi il pranzo, che leggevano sui loro schermi d’aria dati e grafici o parlavano dei progressi dei figli a scuola. Sbirciò il piatto di suo padre e lo vide ancora pieno. Si chiese perché non avesse mai notato quell’insicurezza, ma fu anche lesta nel darsi una risposta: non lo aveva mai osservato così da vicino. Quando erano a casa, lui rimaneva spesso lontano. Aveva realmente scambiato l’indecisione per indifferenza o forse era davvero stato così come lo ricordava? Non riusciva a risolvere quel dubbio. Decise che avrebbe aspettato: era ancora in tempo per allontanarla come avrebbe sicuramente fatto Eleonore una volta conosciuto il motivo della sua visita.

Victor aveva notato come l’umore di Verity fosse cambiato e al posto della curiosità il suo volto portasse i segni del dubbio e della domanda e pensò, per una volta, di saperne il perché: non sapeva come si sarebbe comportato. Non ne era certo nemmeno lui, pensava solo di non volerle dare l’impressione che l’avrebbe abbandonata presto. Mentre lei era catturata dalla conversazione di due suoi colleghi, colse l’occasione per osservarla bene, per imprimersi nella memoria quanto fosse cambiata dalla bambina con gli occhi tristi che conservava nei suoi ricordi. Era diventata grande, pensò, una ragazza bella e probabilmente anche buona se aveva stretto una così bella amicizia con la figlia di Erald ed Emily. Il modo con cui guardava quello che la circondava gli sembrava lo stesso dell’infanzia, quando girava per la casa prendendo in mano tutti gli oggetti che riusciva a raggiungere e li studiava con attenzione; il sorriso che faceva aveva ancora una nota di tristezza, nascosta nell’angolo delle labbra, che forse nessuno notava, ma che lui vedeva perché era lo stesso della sua mamma, eppure era cambiato, anche se non avrebbe saputo descrivere come e in cosa.

Una volta finito di mangiare le chiese di nuovo cosa facesse lì e la vide incrociare le braccia dietro la schiena e respirare profondamente: ‹‹Vorrei delle informazioni sugli Ingranaggi Sacri, se fosse possibile.››

Sorrise un po’ confuso ma sollevato: per un secondo aveva creduto che fosse stata Eleonore ad inviarla, per farlo ritornare a casa: si lamentava da molti mesi delle sue assenze troppo lunghe, dicendo che avrebbe dovuto essere più partecipe della vita della famiglia.

Le disse di seguirlo e la portò al piano superiore, sbloccando l’incantesimo di protezione per permetterle di entrare nella stanza ampia e luminosa dove custodivano gli Ingranaggi. Salutò i suoi colleghi e presentò velocemente Verity, per poi concentrarsi sulle due teche poste nel centro.

La ragazza si avvicinò e sfiorò il vetro freddo con le dita, guardando con attenzione mentre suo padre parlava. Una conteneva un ciondolo argenteo con un pietra rossa, forse un rubino, come pendente, mentre nell’altra, appoggiato su un cuscinetto di seta, vi era un bracciale dorato, spesso, del tipo che si intrecciano lungo l’avambraccio fino quasi al gomito con varie gemme incastonate: la più bella, che sembrava un enorme smeraldo, se indossata sarebbe finita appena sopra il polso.

‹‹Sono così banali?›› chiese ‹‹Mi aspettavo qualcosa di più grandioso, non so, uno spadone lungo o uno scettro magari…››

‹‹Hanno sorpreso anche me, ma così sono più semplici da studiare… Pensa come sarebbe stato difficile analizzare la lama tagliente di una spada. È nelle piccolezze che si trovano le cose importanti: se fossero state grandi come le avevamo immaginate, adesso saremmo ancora a cercare un modo per capirle. I dettagli minuscoli ci hanno aiutato molto… La collana si chiama Benihime, il bracciale Hikarihime. Se… Se vuoi puoi prenderle in mano.››

Alcuni ricercatori interruppero il proprio lavoro per lanciare uno sguardo preoccupato a Victor, ma l’espressione senza insicurezze del loro capo li fece ritornare ai propri dati con tranquillità. Due di loro aprirono le teche e misero gli Ingranaggi nelle mani appena tremanti di Verity.

‹‹Cosa sono? Di preciso intendo.››

‹‹Oltre a fonti di energia? Non lo sappiamo ancora. I monaci mi hanno raccontato che se vengono a contatto con le giuste essenze si animano e rivelano la loro vera forma, ma non abbiamo trovato nulla che reagisca. Però mi piacerebbe davvero scoprirlo: c’è poesia, equilibrio… Direi anche bellezza in loro. Chi le ha portate qui, se davvero sono state portate ovviamente, doveva trovarsi in un grande pericolo e non parlo della minaccia di Lucifero: concentrandosi a fondo si può sentire vita dentro quelle pietre, energia che fluisce. Certe volte penso che se riuscissimo a sfruttare tutto quel potere, potremmo fare grandi progressi e curare meglio di quanto stiamo già facendo i disastri che ci hanno lasciato i nostri antenati…››

Verity stava ascoltando con interesse quando qualcosa la distrasse. Non sapeva come fosse possibile e quasi neanche riusciva a crederci, ma sentiva quella forza di cui suo padre parlava. Sembrava come un flusso di vita che dalle gemme entrava direttamente dentro di lei, risvegliando qualcosa che era nascosto senza sapere dove. Era qualcosa di vivo che donava vita, ma anche speranza e desiderio, eppure c’era qualcosa di tremendamente sbagliato in tutta quella magia, una strana instabilità che non si spiegava in nessun modo e a cui suo padre non aveva minimamente accennato, come se ad un certo momento quelle gemme sarebbero potute esplodere diffondendo un miasma oscuro e demoniaco.

‹‹Sai dirmi solo questo? Non avete fatto altre scoperte in tutti questi anni?››

‹‹È imbarazzante ammetterlo, ma questo è tutto quello che abbiamo: due gioielli, dei macchinari precisissimi e la nostra magia. Non sappiamo da dove arrivino realmente o quale sia il loro scopo. Nessuna delle leggende sembra avere una spiegazione razionale e scientifica o anche solo dettagli utilizzabili per le ricerche, ci siamo solo noi con le nostre idee, spesso fallimentari.››

Perso nel raccontare, senza averne coscienza, Victor si era avvicinato a Verity, ma resosi conto di aver colmato la distanza che li separava quasi completamente, si allontanò, stringendo le mani. Rimasero nel laboratorio ancora un po’ di tempo, discutendo tra loro a voce bassa, ma alla fine Verity lo ringraziò e andò via.

Le piacque così tanto come si era svolta la giornata che finì per ritornare a trovare il padre e i suoi collaboratori. L’ambiente era serio ma al contempo appassionante, e spesso si sentivano battute e risate nelle stanze; la conoscevano tutti e anche per entrare nella stanza degli ingranaggi non era più vincolata a Victor, che molte volte rimaneva chiuso per lungo tempo nel suo ufficio impegnato a cercare un qualsiasi appiglio per ottenere buoni risultati con la ricerca. Era riuscita, anche se di sfuggita, a vedere gli zii tra una pausa e l’altra, ma questi non le avevano parlato e lei aveva fatto altrettanto, preferendo osservare le dolci reazioni imbarazzate del padre. In certe occasioni le si avvicinava da dietro e le lasciava un carezza sulla schiena per poi ritrarsi appena lei si voltava; spesso blaterava frasi a caso e senza senso come “Ma dove sono le ventose di questi polipi?” e arrossiva come un peperone quando si rendeva conto di averle dette ad alta voce, zittendosi. Certo, era strano e particolare, ma piacevole, e riusciva a vedere di che tipo di uomo si fosse innamorata sua madre da giovane. Eppure non vedeva in Eleonore la donna che avrebbe potuto renderlo felice e non perse l’occasione di chiedergli, la prima notte che rimase con lui nel laboratorio, perché l’avesse sposata.

‹‹L’amavo molto…››

‹‹L’amore non scompare all’improvviso… Cos’è successo?››

Victor era circondato di ricordi, indeciso se raccontarli o tenerli per sé, ma alla fine prevalse il desiderio di accontentare la curiosità della figlia.

‹‹La vidi per la prima volta a un congresso sull’ambiente: all’epoca ero solo il segretario dell’ex-direttore ed ero molto più imbranato di adesso. Tenevo in mano un pila di fogli che sarebbero serviti per la dimostrazione mentre altre cinque o sei pile volteggiavano dietro di me e non vedevo bene cosa ci fosse davanti. Ero quasi arrivato alla nostra postazione, intravedevo già il mio capo, ma non notai tua madre e le andai addosso facendo cadere tutto quanto. Mi aiutò a recuperare i fogli mentre il direttore teneva una mano sugli occhi, rifiutandosi di guardare il disastro che avevo combinato.

Era così bella quel giorno, delicata come una bambola e gentilissima… Fu un colpo di fulmine per me, mi piace credere che lo sia stato anche per lei. Le feci la corte ogni giorno, una corte spietata, e quando mi disse di sì, ignorai ogni avvertimento di mia madre sul fatto che secondo lei la conoscessi troppo poco e che fosse un matrimonio avventato e mal valutato. E i primi anni furono probabilmente il periodo più bello della mia vita: non immagini la dolcezza, il desiderio, la passione che condividevamo, ma anche il rispetto, la voglia di creare qualcosa di reale insieme.

Poi sei nata tu e mi sono risvegliato tutt’un tratto in un letto gelido, in una casa senza allegria ma piena di lamenti e con una donna al fianco che non riconoscevo più. Non era, non è, il mio posto quella villa immensa; non sono mie quelle ricchezze che Eleonore ama tanto. Sapere che tu non eri la figlia che desiderava mi ha fatto vedere quello che non avevo mai visto.››

‹‹Credi sia sempre stata così?››

‹‹Non saprei, forse. L’ho idealizzata troppo nel mio cuore, incidendo un ricordo che ora sanguina, ma questo non significa che non l’ami più: è un amore diverso, meno trascinante, ma più profondo. Lei ti ama, enormemente, ma non sarà mai in grado di mostrartelo. Eppure non avrei voluto che soffrissi così tanto per questo.››

Era così evidente che fosse innamorato di Eleonore! Forse lui non se ne accorgeva, ma per lei, che aveva visto Erald ed Emily insieme tanto tempo fa e aveva ben impressi nella memoria ogni loro gesto, per lei era chiaro come la luce di una candela nella notte. Ma a quella sensazione di ammirazione verso i sentimenti di suo padre, si sostituì in pochi secondi un moto di irritazione e non riuscì a tenere a freno le parole: ‹‹Potevi stare con me invece di piangerti addosso.››

‹‹Non sapevo come comportarmi,›› le disse ‹‹non lo so nemmeno ora e lo puoi notare da sola senza che sia io a dirtelo. Tu non hai la magia e io non ho mai saputo se usarla o meno in tua presenza, se ti avrebbe fatto sentire inferiore, diversa dagli altri bambini.››

‹‹E piuttosto che affrontare il dilemma con un esperimento, hai preferito lasciarmi da sola? Questo mi ha fatto sentire diversa: dover comprendere, a soli cinque anni, che non avrei mai avuto una famiglia come le altre ragazze mi ha davvero fatto sentire inferiore e sola.››

Avrebbe detto di tutto in quel momento, qualunque frase o parola che avesse potuto farla tornare indietro per rivivere l’infanzia e comportarsi come il padre che avrebbe dovuto essere. In quel preciso istante tutta la colpa che da vent’anni assediava il suo animo esplose colpendolo dritto al cuore, chiudendogli lo stomaco e lasciando la gola secca e la mente sgombra da pensieri. Verity la percepì per intero e, forse, ne condivise addirittura una parte: non aveva mai pensato che si sarebbe rivolta in quel modo a suo padre. Solo allora collegò l’espressione enigmatica che ricordava fosse appartenuta al suo volto ogni volta che si trovavano insieme alla paura di sbagliare e non all’indifferenza nei suoi confronti.

‹‹Ogni volta che ti vedevo andare via senza abbracciarmi, quando mi spingevi giù dalla macchina per andare a scuola, quando non tornavi a casa per giorni e giorni, in quei momenti ogni sogno infranto era più doloroso che mille colpi al cuore. Ora però sei qui, sei al mio fianco: mi saluti e scappi via, parli a vanvera e arrossisci. Ma sei qui e, alla fine, è l’unica cosa che conta, papà.››

Victor si affacciò dalla finestra e vide la Cintura di Orione brillare nella notte. La fissò senza nemmeno chiudere le palpebre: non voleva raffigurarsi gli occhi della figlia nella mente, non desiderava neanche incontrarli nella realtà. Avrebbero avuto la stessa sfumatura verde scuro, quasi nero, che aveva percepito ogni volta che in passato l’aveva delusa o rattristata, perché anche se parlava di un presente dove lui era lì, il passato non poteva essere cancellato, e Verity avrebbe sempre portato dentro di sé il ricordo di un padre assente e indifferente, incapace di rivelare i suoi sentimenti.

Verity gli prese la mano, la strinse con forza imprimendogli sulle nocche il segno degli anelli, e lui lo interpretò come un segno di fiducia, un incitamento a migliorare per quel futuro che potevano condividere, cambiare e modificare a loro piacimento fino a che non avesse raggiunto la forma dei loro desideri. Poi rimasero abbracciati.

 

Verity raccontò a Dakota tutto quello che si erano confessati in quei giorni. Dakota sorrideva e annuiva, recitando abilmente la parte dell’amica sorpresa e incredula: fin da quando aveva accettato di accompagnarla aveva saputo bene come sarebbe terminata quella visita e anche per questo non aveva mai chiamato Verity per farsi svelare i minimi dettagli che da sola non era riuscita a immaginare. L’unico difetto di quella felice situazione era l’attenzione che Verity poneva nelle parole con cui riportava i discorsi di Victor: c’era una diffidenza appena palpabile che mai l’abbandonava, come se non fosse convinta dell’intera faccenda. Poteva essere una sua sensazione, ma più Verity parlava e più si persuadeva che non lo fosse.

‹‹Sai che sei strana? Perché non ti vuoi fidare di lui? Non sto giustificando il suo comportamento, sia chiaro, ma un poco riesco a capirlo; quando ti ho conosciuta avevo anch’io la stessa paura di fare qualcosa di sbagliato e non sarebbe assurdo se lui l’avesse ancora. Poi nemmeno mio papà era molto degno di fiducia e pensa che adesso vivo con lui.››

‹‹Quanti mesi ti sono serviti solo per mettere piede in quella casa?››

Rise: le erano stati necessari sei mesi solo per trasferire tutta la roba che aveva portato via e messo nella stanza di Verity e ci era voluto quasi un anno per stabilirsi là definitivamente. Probabilmente non aveva così tanto diritto di criticare come credeva, ma non per questo avrebbe smesso.

‹‹Situazioni diverse. I tuoi non si lanciavano fatture oscure in salotto al posto di ben più innocui cuscini. Dagli tempo e vedrai che sarà un ottimo papà, anche se in ritardo.››

Verity rise di tutto cuore, riconoscendo che la sua situazione si sarebbe sicuramente trasformata in meglio, legandosi in un rapporto saldo.

 

 

Angolo dell’autrice

Buongiorno a tutti! Aggiorno oggi con il nuovo capitolo, sperando che vi piaccia e che abbiate voglia di lasciarmi una recensione.

Ringrazio moltissime le persone che mi hanno lasciato il loro parere nei capitoli precedenti e a tutti voi lettori silenziosi che avete letto. Sono felice che leggiate J

Un saluto a tutti,

Nemamiah

 

 

 

   
 
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