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Autore: EffyLou    27/11/2017    0 recensioni
Johann Trollmann è un pugile, beniamino del popolo tedesco negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.
Indisciplinato, imprevedibile, borioso. Non sono i suoi difetti più grandi. Johann Rukeli Trollmann appartiene ad un popolo scomodo: è uno zingaro. Conquista le platee di Germania e fa innamorare le donne tedesche.
Nella sofferenza che porterà il Nazismo, il suo unico punto fermo e pilastro incrollabile è Frieda. Johann tocca l'apice e il fondo, assaggia il successo e la disperazione, conosce la serenità e la guerra. La derisione nazista si scontra con l'orgoglio di uno zingaro, che proprio non vuole saperne di abbassare la testa a quelle umiliazioni.
C'è solo un modo per far tacere quell'anima in rivolta: ridurlo ad un numero e darlo in pasto al Porajmos, l'Olocausto del popolo zingaro.
- - - - - -
I veri combattenti non temevano la loro ultima battaglia, e se c'era una cosa che Rukeli aveva sempre fatto, era dimostrare di non temere neppure il Diavolo. Neppure il Nazismo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Novecento/Dittature, Olocausto
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21. Lass uns ein Spiel machen

 

Praga.
I mesi erano passati veloci da quando Johann era tornato in Germania.
Frieda aveva continuato a lavorare alla boutique. Dopo quasi quattro settimane dalla partenza del ragazzo, aveva cominciato ad avere fastidiose nausee mattutine.
La situazione si fece seria quando divennero più forti e la costringevano ad infilare la testa nel gabinetto per rigettare. All’inizio solo Hedy sapeva e l’aiutava preparandole tisane.
Dopo tre mesi, Frieda ne parlò alla zia Rosa. Le disse delle nausee, del ritardo delle mestruazioni.
Si era messa a piangere, non sapeva come far fronte alla gravidanza. Non sapeva cosa fare, come comportarsi, non aveva idea di niente che riguardasse la maternità.
Solo pian piano aveva cominciato a metabolizzare questa novità, l’aveva accettata. Sua zia la istruì come se fosse sua madre, facendole presente i rischi e le situazioni in cui si sarebbe ritrovata con l’avanzare dei mesi.
Frieda aveva cucito dei vestitini da neonato che andavano bene per entrambi i sessi. La sera si metteva di fronte allo specchio, le mani sulla pancia ancora poco vistosa e la cullava. Ci metteva sopra i vestitini. Dopo metà del terzo mese, cominciò a sentire vaghi movimenti.
Arrivò gennaio. Quasi sei mesi di gravidanza.
Aveva deciso di tornare in Germania. Forse non avrebbe potuto vivere con Johann, come una famiglia normale, ma lì c’erano suo padre, suo cugino, i suoi amici. Zia Rosa l’avrebbe raggiunta a marzo.
«Olga, tesoro, sei sicura di voler partire da sola? Te la senti?» si era preoccupata prima che il treno partisse.
Frieda aveva sorriso, le aveva strizzato l’occhio. «Tranquilla, zia, so ancora mollare un gancio destro. Posso farcela»
Arrivò a Berlino dopo cena. Il grosso bagaglio che si era portata dietro pesava più del previsto.
Lo trascinò, tra sbuffi seccati, fino all’esterno della stazione di Alexanderplatz e pagò un taxi per farsi portare fino a Zillestraße, a casa del padre.
Sarebbe stata dura dirglielo. Avrebbe significato vedere la sua bambina crescere, diventare una donna.
Si trascinò dietro quella maledetta valigia per tre rampe di scale e fece il suo ingresso nella casa in cui aveva passato gli ultimi anni non sentendola più sua.
All’appendiabiti era appesa una giacca da militare ed un cappello. Al tavolo c’era Ivan.
L’avevano espulso dalle Waffen-SS perché non rispettava alcuni requisiti, come l’avere quattro figli. Himmler aveva deciso determinati parametri per la squadra d’élite del cancelliere. Ma era comunque stato spostato nella Wehrmacht, reparto di fanteria.
«Bentornata a casa» l’orso ucraino l’abbracciò stretta, con affetto.
«Mi sei mancato, pezzo da novanta. – gli mollò un pugnetto, facendosi male lei. – Papà?»
«Dovrebbe tornare a breve. Insomma, cosa ti riporta a Berlino? Hai messo su qualche chilo vedo»
«Non è grasso, però» sospirò, lasciandosi cadere sulla poltrona del salotto.
Ivan ci mise un po’ a capire, poi strabuzzò gli occhi. «E quando..?»
«A luglio Johann è venuto venti giorni a Praga. È successo» si strinse nelle spalle.
«Lo sa?»
«No. Non so come dirglielo. – mormorò. – Non se la passa bene, ed è tanto che non ricevo sue notizie. Quando nascerà non potremo stare insieme. Lui è ad Hannover, non ha una casa, e nemmeno io. Non mi sembra il caso di stare qui»
«No, no, certo. – annuì Ivan, accarezzandole la mano. – Johann non è ad Hannover, però. È qui a Berlino, ogni tanto viene a trovarci, sai. Ha trovato lavoro qui, a tempo determinato. Si trova a Rummelsburg, sotto l’ala della casa sicura del lavoro, fa il panettiere. Quindi potete stare insieme, magari al casale»
Frieda fece scattare la testa nella sua direzione, gli occhi che brillavano. «Certo! Non ci avevo pensato»
«E come lo dirai a zio?»
« “Ehi papà, sono incinta” »
«Veloce e indolore»
«Non mi piace girare intorno alle questioni importanti»
Si accucciò di fronte a lei, carezzandole i capelli e il viso, con un sorriso carico della tipica dolcezza di Ivan. «Io ti sono vicino, lyal’ka»
 
Suo padre aveva pianto, la sua bambina stava crescendo. Certo, era rimasta incinta un po’ più tardi rispetto alla media delle ragazze di quei tempi. Aveva ventiquattro anni, le altre ragazze già tra i diciannove e i ventidue anni si erano sposate e messo su una famiglia.
Era felice che la sua Frieda, però, si fosse presa il suo tempo. Ed era felice che ci sarebbe stato quel ragazzo a prendersi cura di lei: Edmund voleva bene a Rukeli, come ne voleva ad un figlio, conosceva i suoi sacrifici e l’affetto che provava per sua figlia. E quella era la cosa più importante, quel sentimento che li teneva uniti.
Sarebbe andata a vivere al casale del maneggio, con o senza Johann, l’auto sarebbe servita più a lei che ai due uomini.
In mattinata del giorno dopo il suo arrivo, Ivan ed Edmund caricarono il letto matrimoniale del signor Bilda su un camioncino affittato e lo portarono al casale. Lo ripulirono, aggiustarono ciò che non andava bene, portarono qualche stoviglia e altri oggetti per la quotidianità: asciugamani, sapone, coperte, cuscini, pentole. Lo stretto indispensabile. Per il resto, il casale era pulito e sistemato a dovere.
Mentre i due uomini si occupavano di queste faccende, Frieda telefonò a Hildi e Gilda, dando loro la lieta notizia. L’amica baciata dal fuoco aveva pianto al telefono, l’altra aveva cinguettato i suoi migliori auguri. Gilda aveva una figlia piccola, Teresa, di quasi un anno. Ricordava quand’era rimasta incita lei.
Hildi si era sposata con Bruno, vivevano nella villa che apparteneva alla famiglia della ragazza, fuori città. Sembravano tutti essersi sistemati e felici.
Dopo pranzo, andò alla panetteria dove lavorava Johann, quartiere di Rummelsburg, distretto di Lichtenberg.
Lo intravide dalla finestrella dietro il bancone, un cappello bianco sulla testa e un camice da cui sbucava la cravatta e il colletto della camicia, intento a impastare il pane. Lo guardò ancora un po’. Il volto concentrato, il naso all’insù, una guancia sporca di farina.
«Posso passare?» domandò al cassiere.
Johann fece scattare la testa nella sua direzione, udendo la sua voce. Sollevò le sopracciglia, confuso e piacevolmente sorpreso. «Falla passare, Bob!»
«Te l’ho già detto, non mi chiamo Bob» sospirò il cassiere alzando gli occhi al cielo, e fece un cenno a Frieda di andare. Lei gli girò intorno e raggiunse la cucina come un lampo.
Johann tenne le mani sull’impasto, un sorriso beato gli increspava le labbra.
«Ehi» sussurrò abbassandosi per baciarla, senza toccarla per non sporcarla di farina, lei in punta di piedi per raggiungere le sue labbra.
«Mi sei mancato» rispose mordendosi il labbro con un sorriso.
«Anche tu, mro vòci. Quanto starai?»
«Sono tornata definitivamente»
Le lanciò un’occhiata di vago rimprovero. «Sarebbe stato meglio di no, ti avevo detto che sarei tornato io a Praga»
«Stavo bene da zia Rosa. Ma mi mancavi. Mi mancava mio padre, Ivan, Gilda, Hildi, i cavalli. Starò nel casale, in campagna. Vuoi venire con me?»
«Tuo padre ti lascia la macchina?»
«Sì»
«Vengo con te solo se mi insegni a portarla»
«Ma tu hai la moto!» replicò piccata.
«Prendere o lasciare, biondina»
Alzò gli occhi al cielo, con un sorriso divertito. «E va bene»
«Sempre un piacere fare affari con lei, signora Trollmann»



 
Erano a Schönower Heide. Avevano cenato con Ivan ed Edmund, avevano portato loro qualcosa da mangiare, ma erano andati via presto.
Johann era davvero felice di rivedere Frieda, gli era mancata in quei sei mesi. La trovava piacevolmente più tonda, il seno più prosperoso. Doveva aver messo su qualche chilo, comunque era difficile da dire con tutti quei fastidiosi vestiti addosso.
Lei teneva le gambe incrociate sul letto, prima di andare a dormire. Johann era appena tornato dal bagno dopo essersi lavato i denti, le aveva spazzolato i capelli, come amava fare, e fatto una treccia morbida che terminava sotto le scapole.
Era seduto dietro di lei, stavano giocando: dovevano tracciarsi disegni o frasi sulla schiena a vicenda e indovinare. Johann le aveva disegnato un fiore, ma lei non aveva tentato di indovinare.
«Facciamo un altro gioco?» gli chiese Frieda.
«A quest’ora? È tardi, bambina» le disse dolcemente, baciandole le spalle.
«Sarà veloce, lo giuro. – gli sorrise, voltandosi contenta. – Ti spiego le regole. A turno chiudiamo gli occhi, chi rimane con gli occhi aperti deve posare il dito o la mano del partner in un punto a caso del proprio corpo e quello deve indovinare che punto è»
Johann le rivolse un sorriso tenebroso. «Conosco a memoria ogni parte del tuo corpo» pregustava già il modo in cui sarebbe finito quel gioco.
«Vedrai che è difficile» si impuntò.
Lui si mise a gambe incrociate di fronte a lei, alzando le spalle e il mento. «Va bene, però chiudi gli occhi tu per prima»
Frieda obbedì e Rukeli le prese il dito per puntarselo nella fossetta della clavicola. Lei arricciò il naso e pensò si trattasse dell’incavo del collo.
«Quasi. Apri gli occhi» quando li aprì, le mostrò il punto.
«Tocca a te ora»
Johann chiuse gli occhi e Frieda guidò la sua mano aperta sulla pancia gonfia.
Lui fece scattare le testa, perplesso. «Coscia?»
La ragazza scoppiò a ridere. «Ritenta»
«Non è giusto, io al tuo primo errore ti ho mostrato subito qual era!»
«Io non lo farò. Riprova dai!»
«Non lo so, mi arrendo»
E aprì gli occhi. Quando vide la sua mano poggiata sul ventre di Frieda ci mise un secondo a realizzare cosa lei cercasse di dirgli.  Sfarfallò le ciglia, incapace di mettere insieme una frase di senso compiuto. I suoi occhi saettavano dalla pancia gonfia della fidanzata al suo viso sorridente, gli occhi umidi per l’emozione.
«Tu…» sussurrò Johann, incapace di parlare. Aveva le lacrime agli occhi. Finalmente quei deliziosi chili che sembrava aver preso, il seno florido, e le nausee di cui gli aveva parlato avevano un senso.
Frieda poggiò la sua mano su quella di lui. Un sorriso, mentre una lacrima le rigava la guancia. L’emozione nello sguardo del suo Johann non aveva prezzo.
Con la mano libera, Rukeli si strofinò gli occhi e il viso. Quasi non riusciva a crederci.
Lei era stata sei mesi da sola, la maggior parte della gravidanza l’aveva passata da sola. Si era sentito un idiota. Doveva immaginarselo, viste le nottate a Praga.
Non riusciva a crederci, doveva metabolizzare questa novità. Padre. Sarebbe diventato padre. Ed era proprio Frieda che gli avrebbe dato un figlio, o una figlia.
«Quando piangerà, la notte, non mi alzerò solo io. Sappilo» lo avvertì con un sorriso, il labbro stretto tra i denti.
«I-io… non so che dire, te lo giuro. Sono del tutto impreparato. Sono mortificato che sei stata sola sei mesi, avrei voluto starti accanto, mi vergogno da morire ora, per le mie mancanze»
Si sentiva terribilmente in colpa, si vergognava di sé stesso e all’improvviso era impacciato di fronte a lei e alla sua meravigliosa pancia.
Lei gli si avvicinò col viso, prendendo il suo tra le mani. «Ehi… - gli sussurrò, dolcemente. – Non ti dannare l’anima. Hai avuto i tuoi problemi e le tue motivazione per venire in Germania. Io me la sono cavata, zia Rosa ed Hedy mi hanno aiutata, e anche il medico di fiducia di zia»
«Ci sono stati problemi?»
«No, no. – gli sorrise, dandogli un bacio sullo zigomo. – Dice che a giudicare dalla forma delle pancia, potrebbe essere una femmina. Non ci credo molto a queste cose. In ogni caso ha detto che è una gravidanza sana e forte, senza pericoli di alcun genere»
Le sfiorò il viso con i pollici, gli occhi emozionati. «Sei una roccia, bambina»
Un figlio era la cosa migliore che potesse capitargli. Aveva tutto ciò che desiderava nella sfera riguardante l’amore: una ragazza che lo amava, presto un figlio, una famiglia.
Gli sarebbe piaciuto vivere questo sogno in contemporanea con una brillante carriera di pugile, ma uno o l’altro andava bene, si accontentava.
Sdraiato sul letto, con Frieda accanto, si erano messo a fantasticare sulla loro vita familiare.
Johann non aveva idea se sarebbe stato un buon padre, ma avrebbe lottato con unghie e denti per dare al figlio una vita dignitosa e farlo sentire amato incondizionatamente. Immaginava di portare suo figlio a giocare al parco, a cavallo, a pescare, al luna park; fantasticò sul fatto che in futuro avrebbe potuto insegnargli un po’ di boxe, cose da uomini. E perché no, se Frieda era d’accordo, avere un secondo figlio.
Si ritrovò a fantasticare sul possibile volto del bambino o della bambina. Voleva che prendesse gli occhi di cielo della madre, che avrebbero brillato come zaffiri sulla pelle ambrata ereditata dal padre; le labbra carnose come il papà oppure delicate come la mamma? E i capelli? Ricci e biondi oppure mossi e neri? Il corpo? Statuario come Rukeli o dalle curve dolci come Frieda?
Ogni combinazione, ogni possibile momento d’affetto in famiglia, gli passò per la testa finché non crollò addormentato con piccole lacrime ai lati degli occhi ed un sorriso beato sulle labbra.




 
* * * *

È stato un capitolo un po' difficile da scrivere perché la maternità è un argomento che nelle mie storie, finora, non avevo mai toccato. Non sapevo come far reagire Johann nel modo più verosimile possibile, oppure come gestire in generale la situazione. 
Nella futura vita familiare attingerò un po' alla mia. Ho una sorella di tre anni che ho quasi cresciuto io, perciò ho seguito tutte le sue tappe, e ricordo anche il periodo della gravidanza di mia madre. Quindi per i comportamenti del/la bambino/a  (non voglio dirvi il sesso, eheh) attingerò molto da mia sorella e da quello che ho visto; anche per gli atteggiamenti dei genitori con una creatura così piccola. Non so come fare sennò hahah

Ad ogni modo è un capitolo un po' di passaggio, tenero immagino. E niente, spero ve lo siate goduto un po'! 

Su Wattpad, una ragazza (@HereisJude) è stata dolcissima ed ha scritto una poesia dedicata a Johann. Voglio condividerla con voi:

 
 Ero zingaro, venivo da Hannover
Ero zingaro e discriminato
Esponente del popolo impuro
Non degno nemmeno di vivere.

Ero zingaro, venivo da Hannover
Ero zingaro e determinato 
Mi avrebbero visto quei bastardi
Mi avrebbero visto brillare.

Ero zingaro, venivo da Hannover
Ero zingaro e tormentato
Avevo ombre e terrore negli occhi
Vedevo il mio popolo sterminato.

Ero zingaro, venivo da Hannover
Ero zingaro e nulla più 
Spero che i nazisti siano contenti
Ora che me ne sono andato.

Ero zingaro, venivo da Hannover
Ero zingaro e ora anche un sogno
Sono il sogno, la speranza 
La luce che sempre spenderà.

Ero zingaro, venivo da Hannover
Ero zingaro, bruciato nel vento
Ricordami tu nuova vita
Così che io possa vivere eternamente.

 

Spero vi sia piaciuta come è piaciuta a me, che mi sono commossa! HAHAH 
Ad ogni modo, fatemi sapere cosa ne pensate se vi va, se avete domande, consigli, o non so! 
Alla prossima, un besito ♥
   
 
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