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Autore: Roscoe24    29/11/2017    4 recensioni
“Ahi,” si lamentò, toccandosi la fronte. Ci sarebbe spuntato un bel bernoccolo, se lo sentiva.
“Oh santi numi!” sentì esclamare e poi di nuovo il botto metallico dello sportello che veniva chiuso. Alec aveva ancora le mani sulla fronte, quindi non poteva vedere chi fosse il suo interlocutore. La verità era che si stava vergognando così tanto di essersi comportato come un tale imbranato che non aveva il coraggio di togliersi le mani dal viso.
“Ehi, là sotto. Tutto bene?” lo sconosciuto appoggiò le mani sui polsi di Alec, il quale percepì il tocco caldo contro la sua pelle. Curioso, si liberò la faccia.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Alec si svegliò la mattina seguente con un mal di testa atroce e la bocca impastata dall’alcol. Non l’aveva ancora appurato, ma era quasi sicuro che il suo alito sapesse di morte – non che avesse l’impellenza di scoprirlo. Nonostante l’emicrania che minacciava di fargli esplodere il cervello, però, si svegliò con il sorriso. Cosa che, si rese conto, succedeva spesso da quando aveva conosciuto Magnus.
Magnus.
Tutto era più bello in sua compagnia: ballare, baciarsi, persino bere dal bicchiere dell’altro incrociando gli avambracci e facendo attenzione a non far cadere l’alcol. Erano diventati piuttosto competitivi, quando si erano sfidati a quel gioco, tanto che avevano cominciato a tirare di proposito l’uno il braccio dell’altro affinché versasse più liquido. Tutto ciò era finito in uno scoppio di risate e Alec, davvero, non ricordava di aver mai riso tanto. Posò una mano sulla pancia, ricordando che, ad un certo punto, le risate gli avevano fatto dolere gli addominali.
Ma quel tocco lo fece focalizzare anche su un’altra parte della serata. Quando era stato Magnus a sfiorarlo nello stesso punto, il palmo aperto sul suo addome, mentre lo accarezzava in tutta la sua lunghezza, il tocco caldo che aveva fatto mancare il respiro ad Alec. Lui e Magnus avevano fatto… qualcosa.
(Sesso orale, Alec! Chiama le cose con il loro nome!)
Non si stupì nemmeno più di tanto quando quel rimprovero risuonò nel suo cervello con la voce di Isabelle. Rimaneva il fatto che, comunque, avesse ragione.
Sesso orale.
Più ripeteva quelle parole nella sua mente, più assumevano il loro significato. Alec aveva sempre pensato al concetto del sesso in generale come qualcosa di lontano, qualcosa che avrebbe sperimentato solo dopo essersi allontanato dalla casa di famiglia, magari al college, dove avrebbe potuto essere chi era veramente senza premurarsi di nascondersi e, di conseguenza, riuscire a sperimentare ciò che i ragazzi della sua età normalmente sperimentavano. Mai avrebbe pensato, quindi, di sentirsi pronto a sperimentare certe cose così presto.
Era tutto merito di Magnus, pensò, del modo che avevano loro due di connettersi. Ripensandoci, sentiva salire in sé quel terrore che avrebbe dovuto provare mentre viveva quella situazione, l’agitazione della prima volta. Non si imparava a fare certe cose, non c’erano manuali su cui poter apprendere come muoversi in quel campo. Nessuno insegnava ad un ragazzo gay come fare a rapportarsi con la sessualità e il sesso in generale. E quindi Alec aveva dovuto fare tutto da solo, seguendo il suo istinto, che sicuramente ne sapeva più di lui. O almeno, così credeva, fino a quando non si era trovato effettivamente in ginocchio e un principio di panico si era insinuato in lui, facendolo sentire come un analfabeta a cui viene affidato il lancio di uno shuttle della NASA nello spazio. La sua ragione, in quella frazione di tempo, aveva ripreso il comando della nave-Alec e aveva cercato di commettere ammutinamento contro l’istinto – quella piccola, subdola manipolatrice voleva tornare padrona e avere di nuovo la supremazia – ma poi, Magnus aveva parlato.
“Fai attenzione ai denti, tesoro.”
E Alec aveva ritrovato tutta la sua sicurezza, che l’aveva spinto a zittire la prepotenza della sua razionalità, e si era lasciato guidare da quella parte di sé che aveva desiderato esplorare l’aspetto fisico di una relazione con qualcuno al quale si sentiva così legato. Se i loro cuori erano intrecciati, aveva pensato Alec, era giusto che cominciassero a farlo anche i loro corpi. E, sebbene non avessero avuto un rapporto completo, Alec era felice di aver fatto quel piccolo, ma importante, passo.
Scostò le coperte, facendo particolare attenzione a non fare nessuno rumore, alzandosi. Nella stanza entrava una luce blu, tipica della mattina presto, e i respiri profondi di Jace spezzavano il silenzio. Suo fratello stava ancora dormendo, per cui Alec uscì dalla loro camera silenziosamente.
Sulla porta, ascoltò i rumori della casa per capire chi fosse sveglio. Da basso, arrivò il suono di pentole e padelle, chiaro segno che Maryse era già in un cucina per preparare non solo la colazione, ma anche il pranzo. Giorno di festa – rosso sul calendario – significava nonna Phoebe in visita. Alec avrebbe storto il naso, se il suo umore non fosse stato così alla stelle.
Si diresse verso il bagno, aprì la porta e vi entrò con tutta l’intenzione di farsi una doccia, ma qualcosa, nel fugace riflesso che i suoi occhi carpirono nello specchio, lo indusse a fermarsi e a guardarsi meglio.
“Alec, che hai sul collo?”
A quanto pareva, un succhiotto enorme. Alec sapeva che ci sarebbe rimasto il segno, ma non credeva che sarebbe stato così grosso. Non se ne dispiacque, comunque. Poteva coprirlo da occhi indiscreti con facilità, mentre lui, adesso, poteva concedersi un’occhiata a quel simbolo, alla prova che effettivamente tutto ciò che stava rivivendo nella sua mente era successo davvero e non era stato un sogno.
Il suo stomaco ebbe un tuffo, mentre le sue dita allargavano il colletto della maglietta per riuscire a vedere meglio quel segno. Lo sfiorò con la mano libera e la sua mente tornò, ancora una volta, alla sera prima, a Magnus che gli aveva preso il viso con una mano, lo aveva fatto alzare e gli aveva pulito un angolo della bocca con il pollice, prima di sfiorare tutto il labbro inferiore. Alec, a quel gesto, aveva istintivamente schiuso le labbra e Magnus l’aveva baciato. L’avevano fatto moltissime volte, nell’ultimo periodo, ma quel bacio in particolare aveva un sapore nuovo. Sapeva di gentilezza, ma allo stesso tempo mandava scariche elettriche in tutto il corpo di Alec; lo faceva sentire al sicuro, sebbene l’impressione che aveva era quella di essersi lanciato da un burrone senza paracadute.
Era un bacio lento, pieno di accortezza, ma non per questo privo di passionalità. Alec aveva sentito ogni singolo centimetro del suo corpo diventare bollente, mentre Magnus spostava le proprie labbra dalla sua bocca e si dirigeva, lentamente, verso la sua mascella. Non l’aveva morso, come aveva fatto Alec con lui, si era limitato a percorrere la distanza tra le labbra e il lobo con una tranquillità calcolata, lasciando baci umidi lungo una strada ben delineata. E quando era arrivato sotto all’orecchio, gli aveva afferrato il lobo tra le labbra e aveva cominciato a succhiarlo. Alec aveva soffocato un gemito.
“Non farlo.” Aveva sussurrato Magnus al suo orecchio, “Non trattenerti.”
Alec aveva annuito – perché parlare in quel momento gli sembrava estremamente difficile – e Magnus aveva fatto scendere la bocca fino al suo collo. C’era una calma in Magnus, così diversa dall’irruenza che aveva avuto Alec, che rendeva il tutto estremamente piacevole. Alec era bruciato in fretta, come un fuoco di paglia, guidato dalla sua frenesia, dalla voglia di scoprire al più presto qualcosa che non si conosce, ma che si ha voglia di provare. Magnus, invece, stava bruciando lentamente, un incendio che si prendeva piano piano un pezzo di foresta alla volta, diventando sempre più alto, sempre più indomabile, sempre più letale. Conosceva quello che stava facendo e lo stava facendo dannatamente bene, prendendosi il tempo necessario affinché Alec potesse imprimersi anche il più piccolo dettaglio nella mente per non dimenticarlo mai. Ecco cosa stava facendo Magnus: gli stava regalando un ricordo, qualcosa che si sarebbe portato con sé tutta la vita. E per far imprimere un ricordo a fondo, ci vuole calma, pazienza e cura.
Fu in quel momento che gli lasciò il succhiotto. Alec aveva sentito le sue labbra premere all’altezza della giugulare, la lingua che lambiva la pelle e i denti che la mordicchiavano senza fargli male. Come se fosse stato possibile, aveva pensato Alec in un momento di lucidità, che tutto questo potesse in qualche modo essere spiacevole. Adorava tutto questo. Gli piaceva sentire come la bocca di Magnus fosse rovente sulla propria pelle e riuscisse a lasciare segni su di essa.
“Hai l’affanno, tesoro.” Aveva detto Magnus, abbandonando il suo collo per tornare a guardarlo il viso. Dio, quanto erano belli i suoi occhi. Alec adorava il loro colore, caldo e avvolgente come le fiamme. C’era qualcosa di rassicurante e pericoloso, in essi, come se fossero stati in grado di distruggere qualsiasi cosa, se solo quel qualcosa avesse fatto male a chi Magnus amava. Erano una calamita, per Alec, che mai si sarebbe stancato di perdersi dentro di essi.
“È colpa tua.” La sua voce aveva tremato, rauca e ansimante, il cuore che sembrava volesse schizzare fuori dal petto.
Magnus aveva sorriso. “Io direi che è merito mio.”  E lo aveva detto carico di orgoglio, come se ciò che stava facendo fosse la cosa migliore al mondo. E forse lo era davvero.
Magnus l’aveva baciato di nuovo, prima di fare un passo indietro – con grande disappunto di Alec, che aveva aggrottato le sopracciglia in una muta richiesta di spiegazione. Magnus aveva sorriso di nuovo.
“Voglio guardarti, Alexander. Non vado da nessuna parte.”
E lo guardò. Dio, se lo guardò. Alec pensava si sarebbe disintegrato, liquefatto, sotto quello sguardo, che percorreva ogni singolo millimetro del suo corpo come se dovesse placare una fame disumana. Magnus lo guardava e Alec bruciava, sentiva la pelle formicolare e richiamare la sua vicinanza.
“Toccami.” Gli uscì, prima che ricordasse di aver già fatto una richiesta simile nella stessa stanza, solo qualche tempo indietro. Magnus gli si avvicinò di nuovo, lo sguardo incollato alla figura di Alec, che per la prima volta in vita sua si era sentito bello, come se riuscisse a vedersi attraverso gli occhi di Magnus.
Aveva trattenuto il respiro quando il suo ragazzo aveva cominciato ad accarezzarlo: era partito dalle clavicole e lentamente era sceso al petto, coperto da una leggera peluria, e agli addominali, piano, percorrendone la loro fattezza, come un cieco che cerca disperatamente di definire i contorni di qualcosa che ha sempre desiderato vedere, ma che, purtroppo, non vedrà mai. Il fatto era, però, che Magnus lo vedeva e lo toccava, accarezzandolo con una devozione che Alec non avrebbe mai pensato qualcuno avrebbe potuto riservargli.
Il respiro gli si mozzò ancora – e davvero aveva perso il conto delle volte che l’aria gli era venuta a mancare – quando Magnus aveva cominciato a baciargli la clavicola, su cui lasciò un morso, ed era sceso, tracciando con la lingua il perimetro di un capezzolo. Alec era sicuro di aver tremato, a quel punto.
Non riusciva più a respirare. Gli sembrava di correre una maratona che non avrebbe mai avuto fine. L’unica cosa che riusciva a uscire dalla sua bocca erano sospiri mozzati e gemiti che non cercava più di trattenere perché non avrebbe avuto senso farlo. Il cuore pompava frenetico il sangue al corpo, ma Alec aveva l’impressione che arrivasse solo in un punto specifico. E Magnus sembrava se ne fosse accorto. Deglutì, quando cominciò ad accarezzarlo sopra alla stoffa dei pantaloni, la patta gonfia e dolorosamente scomoda.
“Era questo che intendevi,” aveva cominciato, facendo scivolare le dita dentro ai pantaloni e ai boxer di Alec, “Quando mi hai chiesto di toccarti?”
Alec aveva chiuso gli occhi e sbattuto la nuca contro il muro, per darsi una parvenza di contegno. Non avrebbe resistito ancora molto, lo sapeva, e non voleva che tutto questo finisse. Non ancora. Ne voleva ancora un po’. Alec voleva bruciare ancora un po’. Se era quello l’inferno riservato ai peccatori di cui parlavano quei bigotti all’Istituto, Alec era felice di accogliere la dannazione eterna.
Scosse la testa ad occhi chiusi, in un segno di diniego.
“Guardami, Alexander.”
Alec aveva obbedito. L’ambra liquida negli occhi di Magnus aveva una sfumatura dorata che li accendeva di una luce nuova, carica di desiderio.
“Cosa vuoi che faccia, tesoro?” aveva chiesto, roco.
Alec si era schiarito la gola, sentendola secca. Come poteva chiedergli una cosa simile in un momento in cui il suo cervello era andato in tilt e ragionare gli veniva difficile come scalare una montagna altissima senza le dovute dosi di ossigeno in più?
Ecco cosa gli faceva Magnus, gli azzerava il cervello e lo privava di ossigeno. Gli faceva martellare il cuore con prepotenza e incendiava il suo corpo in un modo che andava al di là dell’umana comprensione. Quello che riusciva a fargli provare Magnus, in ogni contesto, era qualcosa di ultraterreno.
Magnus fece uscire la sua mano dai pantaloni di Alec, che come unica risposta riuscì ad elaborare solo un lamento di disapprovazione.
“Devi solo chiedere, Alexander.”
Magnus stava giocando ad un gioco che sembrava fosse stato inventato da lui stesso. Faceva sembrare che tutto dipendesse da Alec, ma in realtà tutto dipendeva da lui. Sapeva cosa dire e come dirlo per far sciogliere Alec, per fargli andare in nebbia il cervello, per far sentire il suo corpo come pastafrolla che viene amalgamata con cura dalle mani del maggiore.
“Chiedi,” aveva continuato, la mano che aveva cominciato ad accarezzarlo di nuovo, su e giù per l’addome con calcolata lentezza, prima di afferrare la lunga catenella con la freccia che Alec aveva al collo e tirarlo di più a sé, “E ti sarà dato.”
Alec deglutì ancora una volta, gli occhi incollati alla bocca di Magnus: “Inginocchiati.”  La voce che tremò di nuovo, estranea persino alle orecchie dello stesso Alec. Ma non certo perché titubasse, semplicemente non riusciva più ad avere controllo di se stesso, era entrato dentro un vortice di emozioni, come se si trovasse dentro l’occhio di un ciclone e non riuscisse a uscirne – non volesse più uscirne. Era una situazione che lo faceva sentire vivo, che accendeva ogni nervo del suo corpo e gli faceva tremare anima e cuore. Avrebbe voluto che tutto quell’attimo durasse in eterno. Solo lui, Magnus e tutto quello che avevano da offrirsi.
Magnus assecondò la sua richiesta e Alec, per tutto quel lasso di tempo, non si morse la lingua nel tentativo di trattenere i suoi gemiti e le sue imprecazioni, solo perché Magnus gli aveva chiesto di non trattenersi.
Alec tornò alla realtà non appena si rese conto che aveva cominciato a sudare. Spostò lo sguardo dallo specchio, notando le guance che si erano colorate di rosso, e dal succhiotto, che sapeva coincideva perfettamente con la bocca di Magnus.
Magnus. Gli avrebbe scritto, più tardi. Sorrise.
Prima doveva farsi un doccia. Fredda. Decisamente ghiacciata.

*

Dopo la sua doccia raffredda ormoni, Alec aveva lavato via il torpore del sonno, ma non l’assillante mal di testa, arrivando alla conclusione che solo un’aspirina l’avrebbe aiutato a liberarsene. Prima di scendere al piano di sotto e attuare il suo piano, però, tornò in camera sua e, seduto sul letto, afferrò il cellulare.

> To: Magnus, 08.48
Buongiorno…

Inviò anche se non sapeva se aspettarsi una risposta, dopotutto Magnus poteva ancora essere a dormire.
Ma il suo cellulare vibrò, riempiendo il silenzio della stanza, e Alec sorrise.

> From: Magnus, 08.48
Buongiorno a te, stellina. Dormito bene?
> To: Magnus, 08.48
Sì, tutto sommato. Ho mal di testa…
> From: Magnus, 08.48
Conseguenza della sbronza, tesoro mio. L’alcol è divertente all’inizio, ma i postumi sono devastanti.

Alec soffocò una risata. Riusciva quasi a vederlo, Magnus, che scriveva da sotto le coperte, i capelli arruffati e il kajal sbavato dalla sera prima.
Sicuramente era una di quelle rare persone che sono belle anche appena sveglie, ne era certo.

> To: Magnus, 08.49
E tu, stai bene?
> From: Magnus, 08.49
Sì, la mia testa ha finalmente smesso di girare. È stato divertente ubriacarsi con te.”

Alec si trovò a sorridere come un ebete, non riuscendo a trattenersi.

> To: Magnus, 08.49
Anche per me. Non l’avevo mai fatto, prima.
> From: Magnus, 08.49
Vuoi dire che sono stato la tua prima sbronza, tartufino?
> To: Magnus, 08.49
Sei stato tante mie prime cose, Magnus…
> From: Magnus, 08.49
Tutte ugualmente positive?

Non ne avevano parlato di quello che era successo in cucina. Si erano limitati a guardarsi, una volta finito, occhi negli occhi e basta, fino a che Alec aveva fatto notare a Magnus che lo stava fissando.

> To: Magnus, 08.50
Tutte ugualmente positive.
(Il succhiotto è enorme)


La buttò là come esperimento perché in cuor suo voleva trovare un modo per parlare di ciò che era successo e capire se anche per Magnus era stato piacevole tanto quanto per lui.

> From: Magnus, 08.50
Sono particolarmente fiero di quel succhiotto. 
> To: Magnus, 08.50
È un modo per marchiare il territorio?
> From: Magnus, 08.50
Mi fai sembrare un uomo delle caverne, così.
> To: Magnus, 08.51
Sei piuttosto possessivo, devi ammetterlo.
> From: Magnus, 08.51
Preferisco protettivo. La possessività può sfociare nell’ossessione e, a volte, diventare pericolosa. Sono protettivo nei tuoi confronti perché tengo a te, ma se un giorno tu dovessi capire di non voler più stare con me, di certo non te lo impedirei.
> To: Magnus, 08.51
Io vorrò sempre stare con te.
> From: Magnus, 08.51
Anche io, Alexander. Era solo per mettere le cose in chiaro. Sarai mio fino a quando vorrai esserlo.
> To: Magnus, 08.51
Allora sarò sempre tuo.
> From: Magnus, 08.51
Stiamo nuovamente sfociando nel disgustosamente dolce. Siamo da diabete.

Alec rise sommessamente per non svegliare Jace, gli occhi che brillavano innamorati, mentre fissava lo schermo del cellulare.
Stava per rispondere, ma Magnus lo precedette.

> From: Magnus, 08.52
È stato bello, ieri sera.
> To: Magnus, 08.52
Anche per me. Tanto.

“Ti prego, almeno dimmi che non vi state scrivendo cose sconce via telefono, mentre io sono nella stessa stanza.”
Alec sussultò e dovette trattenersi per non saltare letteralmente sul materasso.
Jace si era svegliato e lo stava guardando di traverso, nella tipica espressione contrariata che aveva quando qualcuno disturbava il suo sonno. La sua voce arrocchita lo faceva sembrare ancora più orso di quanto non fosse normalmente, il che fece presumere ad Alec che nemmeno suo fratello dovesse stare benissimo.
“Mal di testa?”
“Puoi giurarci. Mi sembra di avere un battaglione militare che marcia nel mio cervello.”
“Non volevo svegliarti.” Si scusò Alec e Jace gli rispose con un cenno del capo, chiudendo di nuovo gli occhi, un avambraccio piegato affinché venissero coperti.
“Salutami il tuo ragazzo. Sempre se non stavate facendo del sexting. In quel caso, lasciami fuori.”
Alec arrossì, “Niente sexting.”
Jace si voltò verso il muro, sistemando il braccio sotto al cuscino, “Allora salutamelo,” borbottò prima di addormentarsi di nuovo.

> To: Magnus, 08.54
Jace ti saluta.
> From: Magnus, 08.54
L’abbiamo svegliato?
> To: Magnus, 08.54
Si è già riaddormentato. Ha anche cominciato a russare. Oggi cosa fai?
> From: Magnus, 08.54
Ragnor vuole portarmi a conoscere una sua amica, Dorothy. Suppongo non sia solo un’amica, però.
> To: Magnus, 08.55
Gliel’hai già chiesto?
> From: Magnus, 08.55
Certo. E lui ha negato. Ma lo conosco. Le sue orecchie sono diventate viola e ha cominciato a guardare altrove. C’è del tenero in Danimarca.

Alec rise dal naso, trattenendosi per non svegliare di nuovo Jace.

> To: Magnus, 08.55
Non era esattamente così…
> From: Magnus, 08.55
Lo so, ma era divertente dirlo comunque. C’è del tenero a New York ti piace di più?
> To: Magnus, 08.56
Sembra il titolo perfetto per una commedia romantica. C’è del tenero a New York: la storia di come Ragnor e Dorothy si sono innamorati.
> From: Magnus, 08.56
Dirò a Ragnor che l’hai detto. Secondo me gli piace.
Era tanto che non lo vedevo così, comunque… non frequenta una donna da quando mi ha adottato, in pratica. Vederlo prendersi anche cura di sé e dei suoi sentimenti mi fa piacere.

> To: Magnus, 08.56
Questa Dorothy deve essere speciale, se ha catturato la sua attenzione. Non sei curioso di conoscerla?
> From: Magnus, 08.56
Certo, voglio sapere chi è la donna che lo sopporta!

Alec scosse la testa, il sorriso che non accennava ad andarsene.

> To: Magnus, 08.56
Smettila. Lo adori.
> From: Magnus, 08.57
Certo, ma adoro anche lanciargli frecciatine. E il mio modo di dimostrargli affetto. Tu cosa fai, oggi, invece?
Alec sbuffò al pensiero che prima o poi avrebbe dovuto lasciare quella stanza, smettere di parlare con Magnus e affrontare i parenti in visita. Non voleva i parenti, voleva Magnus. Parlare con lui, ridere con lui. E invece avrebbe dovuto sopportare le domande imbarazzanti e insistenti di nonna Phoebe e della prozia Eloide. Vecchie megere.

> To: Magnus, 08.57
Parenti in visita a casa Lightwood: nonna e sua sorella vengono qui per discutere con mia madre sul Ringraziamento. Parleranno degli invitati, del menù e alterneranno il tutto a domande imbarazzanti. Voglia sotto zero.
> From: Magnus, 08.57
Fuggi da me.
> To: Magnus, 08.57
Non mi tentare. Potrei farlo davvero.

Un insistente bussare interruppe Alec. Sua madre doveva essere salita al piano di sopra senza che lui se ne accorgesse.
“Alec, Jace!” gridò da fuori la porta e Alec ringraziò che sua madre non aveva l’abitudine di piombare nelle camere dei suoi figli perché altrimenti avrebbe notato l’enorme marchio sul suo collo. Non voleva dire altre bugie, o inventarsi scuse che avrebbero portato ad eventuali domande – o indagini, nel caso di suo padre – per scoprire chi fosse la sua ragazza. Come se fosse così impensabile che potesse avere un ragazzo.
Cercò di non focalizzarsi sulla scena, ma la sua mente aveva già lavorato veloce: Robert e Maryse seduti al tavolo che si lanciano occhiate per decidere chi dei due avrebbe dovuto porre per primo la domanda e, successivamente, uno schiarimento di gola da parte di suo padre, preludio di una conversazione che sarebbe iniziata più o meno così: “Alec, figliolo, tua madre ha notato qualcosa sul collo. Non devi dirci nulla?”
E Alec avrebbe potuto mettere su la sua più stoica faccia, rimanendo impassibile prima di rispondere: “Certo, ho incontrato un ragazzo stupendo e usciamo insieme.”
Alec riusciva a malapena ad immaginarsi le facce che avrebbero fatto i suoi, ma se prima di Magnus tutto questo gli avrebbe dato l’impressione di essere una delusione, per loro, adesso sentiva una sorta di ingiustizia nascere dentro di sé che lo portava a chiedersi perché avrebbero dovuto reagire male, o rimanere delusi da lui. Alla fine, lui era sempre lo stesso Alec, cosa cambiava se, anzi che le femmine, gli piacevano i maschi? Mica diventava un disonesto, o un bugiardo, ne tanto meno un ladro. La sua sessualità non cambiava il suo carattere, o la persona che era, ne tanto meno i suoi principi o la sua educazione. Quindi per quale motivo i suoi genitori avrebbero dovuto provare rammarico o delusione davanti alla scoperta della verità?
Sentiva nascere qualcosa in sé, qualcosa che, era sicuro, l’avrebbe portato presto a parlare, a mettere in chiaro le cose.
Una cosa alla volta, si disse. Era già un enorme passo il fatto che non si sentisse più in colpa nei confronti dei suoi genitori per non rispecchiare esattamente le aspettative che avevano su di lui: il primogenito etero che avrebbe dovuto portare loro i primi nipotini, i quali avrebbero avuto i suoi occhi e i capelli della madre o viceversa.
Alec di figli ne voleva, certo, ma era sicuro che suo padre non avrebbe approvato il modo in cui li avrebbe avuti. Questo, comunque, oltre a rimanere un problema di Robert, era qualcosa che Alec avrebbe affrontato con il tempo. Prima la verità, poi tutto il resto. E anche per la verità aveva ancora bisogno di tempo.  
“Non voglio alzarmi,” mugugnò Jace, un suono che sembrava provenisse dall’oltretomba e che distrasse Alec dalle sue elucubrazioni mentali.
“Devi farlo,” disse Alec, mentre scriveva un messaggio a Magnus spiegandoli che doveva andare e che si sarebbero sentiti più tardi. Magnus gli rispose dicendo che andava bene, decorando il tutto con una fila di cuori. Alec sorrise.
“Non ti ho mai visto sorridere tanto.”
Alec alzò gli occhi sul fratello. Jace se ne stava in costa, girato nella sua direzione, i capelli arruffati e gli occhi velati dai postumi dell’alcol. La voce era uscita rauca, probabilmente per tutto il tempo passato a gridare euforico cercando di sovrastare, invano, la musica che veniva pompata dalle casse. Simon era un bravo DJ, pensò fugacemente prima di concentrarsi di nuovo su Jace.
“Ed è bello, Alec.” continuò il minore, “Ho sempre avuto l’impressione che avessi una sorta di oscurità che albergava dentro di te e divorasse tutta la luce buona che emetti. E Dio solo sa quanto io…” si interruppe serrando la mascella, probabilmente cercando le parole esatte. Alec avrebbe voluto fargli presente che si riteneva un ateo abbastanza convinto e che quindi frasi del genere avevano davvero poco senso, ma si rimproverò immediatamente di quel pensiero. Erano rare le volte in cui Jace si apriva così tanto emotivamente e non voleva interromperlo (era certo che questo cambiamento fosse dovuto a Clary, che lo spronava ad aprirsi e a comunicare) – in più, non avrebbe potuto ribattere niente di quello che Jace stava dicendo perché anche Alec aveva avuto la stessa impressione, per un periodo della sua vita. Aveva sempre pensato che ci fosse qualcosa, dentro di lui, che faceva si che la sua felicità venisse corrotta da qualcosa di più oscuro. Sapeva che era la paura dei pregiudizi a renderlo insicuro. Era quella la sua oscurità: i pregiudizi, la paura di essere giudicato, senza che qualcuno lo conoscesse davvero, solo in base a chi amava. La mancanza di tolleranza, il fatto che chiunque l’avesse incontrato, avrebbe sempre e solo visto il fatto che era un uomo che amava un altro uomo. Non importa se avesse fatto cose grandiose nella vita, per alcune persone, l’unica cosa a cui dare importanza sarebbe stata quella.
Nessuno ha mai giudicato qualcuno per la sua eterosessualità, ma se un ragazzo, o una ragazza, dicono di essere omossessuali, allora quella sembra diventare la cosa più importante per definire un essere umano.
Era quello che spaventava Alec. Era quella la sua parte oscura.
“…Quanto io avessi voluto aiutarti. Ma non sapevo come fare, non sapevo cosa dire. Lo sentivo che c’era qualcosa, ma non sapevo cosa. E mi sembrava di barcollare nell’ignoto. Tu eri triste e io non sapevo cosa fare per sollevarti il morale.”
Jace fece una pausa, i suoi occhi fissi in quelli di Alec, carichi di un affetto profondo ed esplicito. “Vederti sorridere, quindi, è fantastico, Alec. E sono felice che qualcuno sia riuscito ad abbattere la tua tristezza.”
Alec aveva la lacrime agli occhi, ma le ricacciò indietro. Piuttosto, si alzò dal proprio letto e si allungò verso il fratello, stringendolo in un abbraccio stritola costole. Era grato per tante cose e Jace era una di queste.
“Grazie,” gli sussurrò, mentre sentiva le braccia di suo fratello intorno alla schiena.  
“Se ti fa soffrire, però, lo uccido.”
Alec si trovò a ridere, trovando una frase del genere così tipica di Jace e del suo essere protettivo nei confronti dei suoi fratelli. A quanto pare, era una cosa dei Lightwood, si trovò a pensare.
“Non sto scherzando, non devi ridere!”
“Oh, piantala e alza il tuo pigro culo dal letto!”
“Il mio culo è tutto tranne che pigro, mio caro!” disse spingendo giocosamente via Alec e alzandosi dal proprio letto, sculettando esageratamente verso la porta. Alec rise e scosse la testa, mentre Jace usciva dalla loro stanza. Rimasto solo, Alec decise di vestirsi, coprendo il succhiotto con un maglione a collo alto, e poi scendere per prendere finalmente quella benedetta aspirina.

*

Phoebe Lightwood era quella che poteva essere definita una donna intimidatoria. I suoi piccoli occhi scuri riuscivano a mettere in soggezione chiunque, dando sempre l’impressione che stesse criticando ogni cosa.
Alec aveva sempre pensato che i comportamenti di sua nonna spiegassero molti tratti del carattere di suo padre. Robert era stato cresciuto da una madre incapace di slanci affettuosi, che l’avevano reso a sua volta inabile a dimostrare affetto verso i suoi figli. Alec faceva davvero fatica a ricordare l’ultima volta che suo padre gli aveva dato un carezza o un abbraccio casuali. Erano gesti, quelli, che riservava solo alle feste – Natale, i compleanni, l’ultimo dell’anno, il Ringraziamento, la Pasqua. Solo in quelle occasioni Robert abbracciava i suoi figli, rendendo un gesto così genuino estremamente formale. Sembrava lo facesse perché doveva farlo, come se le dimostrazioni di affetto fossero ammesse solo durante occasioni speciali. Alec si trovò a pensare al modo casuale che, invece, aveva Maryse di aggiustare la sciarpa di Max prima di uscire per la scuola, o al modo che aveva di lisciare i capelli di Isabelle, sebbene trovasse sempre da ridire sul fatto che, se avesse continuato a piastrarli, li avrebbe rovinati.
“Non ti serve piastrarli, Isabelle. Sono lisci di natura! Li brucerai!”
E ogni volta Isabelle borbottava qualcosa, scocciata, e si allontanava bruscamente dalla madre.
Erano diversi, i suoi genitori. Si erano trovati, certo, perché entrambi non erano ciò che normalmente viene definito un genitore affettuoso, ma nella sua rigidità Maryse rimaneva comunque umana. Robert, invece, sembrava che nel cervello avesse un compartimento riservato alle emozioni e alle manifestazioni di affetto che teneva sempre chiuso a chiave. Robert era arido, sebbene non se ne rendesse conto.
“Ci staranno tutti i Lightwood a questo tavolo, Maryse?” domandò nonna Phoebe, distraendo Alec dai suoi pensieri. La osservò. Era seduta davanti a sua madre e la scrutava con il naso all’insù, come se, sebbene la reputasse una più che degna avversaria, non temesse davvero il confronto. Maryse era tosta, ma Phoebe lo era di più e –  Alec ne ignorava il motivo – aveva passato la maggior parte del tempo in cui i suoi genitori erano stati fidanzati a cercare lo scontro con lei. Non sapeva se lo facesse per testare l’autenticità dell’amore che Maryse provava per suo figlio, o per altro. Dopo il matrimonio, la cosa era diventata meno frequente, sebbene continuasse a trovare scuse per rimbeccare Maryse, cercando un pretesto per fare critiche – nemmeno troppo velate – sulle sue scelte.
“Certo, ci siamo sempre stati, non vedo perché quest’anno dovrebbe essere diverso.”
Phoebe fece una smorfia contrariata, “L’anno scorso Eloide è dovuta stare nella parte aggiunta del tavolo. Quella specie di ridicola protesi aveva le gambe che traballavano.”
La prozia Eloide, un’acida zitella che aveva persino fatto scappare il suo gatto, non aveva niente della tempra della sorella. Se Phoebe era una colonna portante di un tempio antico, Eloide si limitava ad essere la sua ombra. Gravitava intorno alla sorella convinta che in quel modo avrebbe racimolato un po’ del suo carisma, ma non era affatto così.
“Inaccettabile.” Si limitò a dire Eloide, cercando di darsi un tono. Alec riuscì chiaramente a vedere sua madre stringere i denti per un secondo, prima di riacquistare la sua compostezza.
“Mi sono già scusata per l’inconveniente dello scorso anno. E quest’anno abbiamo un tavolo nuovo, come potete ben notare.” Dichiarò Maryse, un sorriso vittorioso sul volto. Sua madre, Alec doveva riconoscerlo, aveva una certa grazia a non farsi calpestare. Non diventava mai aggressiva, ma era risoluta e tenace; intimidirla era molto, molto difficile. Provò una punta di orgoglio nel vedere che, nonostante Phoebe avrebbe fatto paura anche al demonio, sua madre le teneva testa.
“Che comunque mi sembra troppo piccolo.” Ribatté Phoebe, perché comunque doveva sempre avere l’ultima parola.
“Troppo piccolo,” ripeté Eloide.
“Ci staremo, mamma.” dichiarò Robert, tagliando corto. Sapeva benissimo che Phoebe avrebbe potuto andare avanti per un tempo indeterminato, se si trattava di trovare da ridire su sua moglie. Almeno questo, Alec glielo concedeva, non l’aveva mai permesso. Robert prendeva sempre le parti di sua moglie, smorzando ogni tentativo di critica di sua madre.
“Vedremo,” disse Phoebe, austera, prima di abbassare lo sguardo sul suo piatto e tornare a mangiare.
Alec lanciò un’occhiata ad ognuno dei suoi fratelli, rimasti in silenzio come lui. Tutti e tre ricambiarono il suo sguardo e ci lesse dentro il suo stesso disagio.
Improvvisamente, scappare da Magnus divenne una soluzione ancora più allettante di quanto non fosse già all’inizio. Avrebbe davvero voluto fuggire da lui, passare la giornata insieme a fare niente, semplicemente stando in compagnia. Con Magnus, le conversazioni non erano mai cariche di tensione e i silenzi erano piacevoli. Non sentivano mai la necessità di riempirli con frasi di circostanza perché non erano mai a disagio l’uno con l’altro. I loro silenzi erano confortevoli come le loro conversazioni. E ad Alec mancava l’armonia che c’era quando era con Magnus. Armonia che, adesso, era assente.
Sospirò e cominciò a mangiare. Lo stesso fecero i suoi fratelli.

*

“È stato imbarazzante.” Disse Alec, dopo aver raccontato il pranzo familiare del giorno prima a Magnus. Si trovavano nella loro caffetteria e, dopo aver passato il pomeriggio a studiare in biblioteca, avevano deciso che un caffè era più che meritato. Era bello sapere che quel posto aveva un significato particolare, per loro. Era la loro caffetteria, il luogo dove si erano tenuti per mano la prima volta e dove avevano rotto il ghiaccio. Era lì che avevano costruito le prime basi della loro relazione, dove avevano creato un legame e preso confidenza. Alec adorava quel posto.
“Direi. Tua nonna sembra la versione babbana della Umbridge.”
Alec, che si stava portando la tazza colma di caffè alle labbra, dovette riappoggiarla al tavolo per non rischiare di versarsi il liquido scuro addosso a causa della risata che Magnus gli aveva provocato. Non poteva dargli torto. Se Phoebe Lightwood si fosse vestita di rosa, sarebbe stata la perfetta Dolores Umbridge.
“Non avrei saputo descriverla meglio.” Concordò, bevendo un sorso di caffè e lanciando un’occhiata complice a Magnus da sopra la tazza. L’altro ricambiò lo sguardo, sorridendo. “A te com’è andata, invece?”
Magnus afferrò un biscotto dal vassoietto che lui e Alec stavano condividendo, “Bene. Dot è simpatica. È stata lei a volermi conoscere.”
“Dot?” domandò Alec, un sopracciglio alzato.
“Ha insistito perché la chiamassi così. Dice che Dorothy è troppo formale.” Spiegò, dando un altro morso al biscotto, “È un’archeologa, lei e Ragnor si sono conosciuti perché insegnano entrambi all’università ed è stato amore a prima vista!”
Alec sorrise, sentendo l’entusiasmo nella voce di Magnus. Sembrava sinceramente colpito da quella donna ed era palese che fosse felice per Ragnor.
“Sei felice?” gli domandò per confermare la sua ipotesi. Si appoggiò allo schienale della sedia, le mani ad abbracciare la tazza di fronte a lui. Guardava Magnus dritto negli occhi e l’orientale sostenne il suo sguardo per un attimo più lungo del dovuto, prima di rispondergli: “Sì.”
Alec non sapeva se quel era dovuto solo alla situazione tra Ragnor e Dot, dal momento che i suoi occhi avevano indugiato un po’ troppo dentro ai propri.
“Tanto.” Aggiunse e quando si allungò sul tavolo per afferrare una delle mani di Alec e intrecciare le loro dita, il minore ebbe la conferma che non era riferito solo a Ragnor.
Sentì il cuore esplodergli di gioia e lo stomaco fare una capriola al pensiero che riusciva a rendere felice Magnus come Magnus rendeva felice lui.
“Se volessi portarti in un posto, questo sabato, tu verresti?”
Magnus, che aveva cominciato ad accarezzare il dorso della mano di Alec con il pollice, alzò un sopracciglio con fare interrogativo, “Dipende. Rischio di rovinare le mie Jimmy Choo?” domandò e Alec rise, al ricordo della faccia scettica di Magnus quando erano casualmente finiti in quella fiera medievale.
“Andiamo, non farla tragica. Ti sei divertito, alla fine. E le tue Jimmy Choo stanno benissimo!”
Magnus si arrese all’evidenza: indipendentemente da dove andassero, finché era con Alec ogni posto diventava piacevole.
“D’accordo,” alzò gli occhi al cielo perché comunque voleva continuare la sua commedia ancora  un po’, “Dove vuoi portarmi?”
Alec si aprì in un sorriso furbo, le fossette ai lati delle guance che comparvero malandrine, come se sapessero qualcosa che Magnus, invece, ignorava. Magnus adorava quelle fossette.
“È una sorpresa.”    
“Sei fortunato che mi fido di te!” disse Magnus, facendo ridere Alec.
“Non devi preoccuparti di niente, solo… vestiti in maniera comoda, ok?”
“Ok.” Magnus fece spallucce, usando la mano che aveva libera per prendere la sua tazza colma di cappuccino e prenderne un sorso. Quando ebbe riappoggiato la tazza al tavolo, Alec era intento a mangiare uno dei biscotti. Lo trovava adorabile anche mentre mangiava: quanto era cotto da uno a ormai sei irrecuperabile?
Scosse la testa, conoscendo la risposta.
“Hai sentito cosa dicono a scuola?” domandò cauto. Alec deglutì il suo boccone e annuì.
“Sì. Ma non sono preoccupato.”
Al loro rientro, quella mattina, a scuola girava voce che due ragazzi, alla festa di Magnus, si fossero baciati. Nessuno conosceva la loro identità e le ipotesi erano tantissime. Alcuni ritenevano che fossero due della squadra di football, altri di basket – perché c’era la convinzione che fossero molti gli atleti omosessuali restii a dichiararsi. Altri ancora, invece, pensavano che fosse semplicemente una conseguenza di una sbronza colossale che aveva fatto si che, di chiunque si trattasse, non doveva avere veramente quell’intenzione e si era confuso.
Alec sospirò: “Siamo noi, Mags. Lo so. Ma evidentemente c’era così buio che nessuno ci ha riconosciuto.”
Mags. Alec non era il tipo da nomignoli, o da soprannomi. Erano così rare le volte in cui lo chiamava in quel modo che, ogni volta, Magnus sentiva il cuore battere impazzito. Era una cosa così intima, personale, così autentica che il ragazzo ogni volta non riusciva a trattenersi dal sorridere, felice oltre ogni misura.
“Ti sei pentito?” gli domandò, perché in fondo aveva introdotto quel discorso per sapere cosa pensasse Alec, quali fossero i suoi sentimenti riguardo quel pettegolezzo.
“Di averti baciato in pubblico? O di aver passato con la persona che più mi piace al mondo la serata migliore della mia vita? Quale delle due, Mags?”
Magnus, per la primissima volta in vita sua, arrossì. Non violentemente, certo, ma riusciva a sentire chiaramente le sue guance scaldarsi.
“Di entrambe.”
“No. Non mi sono pentito. Lo rifarei duecento volte. Buio o non buio.”
Magnus rifletté un attimo su quelle parole, “Stai uscendo dall’armadio, tesoro.”
Alec sorrise, “È probabile.”
“Però manterremo un profilo basso, comunque. Non voglio che ti piombi tutto addosso in una volta sola.”
“Grazie.” Alec gli strinse la mano e ne baciò il dorso. Magnus sorrise.
“Sono davvero la persona che più ti piace al mondo?”
Alec scoppiò in una risata che lo portò a tirare indietro la testa, “Come se non lo sapessi.”

*

Alec si diresse a casa di Magnus alle tre di sabato pomeriggio come d’accordo. La prima settimana di novembre aveva portato con sé un abbassamento di temperatura che aveva costretto Alec a riesumare il giubbotto invernale dall’armadio e nel quale aveva seppellito il viso per tutto il tragitto dalla fermata della metropolitana alla casa di Magnus. Sentiva chiaramente le guance e il naso freddi. Sicuramente doveva assomigliare a Rudolf la renna con il naso arrossato, ma decise che non ci avrebbe dato tanto peso. Piuttosto, imboccò il vialetto che lo avrebbe condotto a casa di Magnus e, una volta saliti i tre scalini del portico, suonò il campanello. Magnus impiegò trenta secondi ad aprirgli la porta.
“Ciao, tesoro.” Lo guardò con tenerezza, notando le guance e il naso rossi per il freddo. Magnus trovava il viso di Alec stupendo sempre, ma con quel rossore e i capelli scompigliati lo trovava ancora più bello.
“Ciao.” Alec gli sorrise e si sporse in avanti per lasciargli un bacio delicato sulle labbra. “Sei pronto?” gli domandò, rimanendo sulla soglia.
“Sì!” confermò l’altro. Solo in quel momento Alec abbassò lo sguardo sull’abbigliamento del suo ragazzo. Magnus indossava una camicia bianca, abbinata ad un gilet grigio perla e dei pantaloni dello stesso colore.
“Magnus,” cominciò Alec, titubante, “Avevo detto comodo.”
Magnus lo guardò come se avesse parlato in ostrogoto, “Sono comodo.”
“Certo, ma questi vestiti non sono adatti per dove stiamo andando.”
Magnus lo guardò ad occhi sgranati, come se Alec l’avesse appena schiaffeggiato senza motivo. I suoi vestiti, insieme ai suoi trucchi e alla sua macchina fotografica, erano una delle cose materiali a cui teneva di più e Alec sapeva quanto potesse diventare permaloso se qualcuno aveva da ridire su queste tre cose.
“Cosa dovrei mettermi, di grazia?” ribatté, un tantino risentito.
“Una tuta?” propose Alec, cautamente.
Magnus si portò una mano al cuore, facendo uscire il re del dramma che – Alec lo sapeva benissimo – viveva in lui.
“Una tuta?” ripeté quasi disgustato all’idea, “Non so, perché non mi chiedi di mettere degli acid washed jeans, Alexander?”
Magnus detestava, anzi odiava gli acid washed jeans. Più delle tute.
Alec sospirò e fece un passo verso Magnus, in modo che entrambi potessero essere in casa – fuori c’era freddo e stare immobile non era proprio la migliore delle soluzioni – e dopo essersi chiuso la porta alle spalle, tornò a guardare Magnus.
“Ti fidi di me?”
“No.” disse l’altro, le braccia incrociate al petto e lo sguardo risoluto. Alec sapeva che non avrebbe dovuto trovarlo carino oltre ogni limite quando si arrabbiava e tra le sue sopracciglia si formava una ruga che lo rendeva così serioso da farlo sembrare più grande di quanto non fosse, ma non poteva farne a meno. Si avvicinò lentamente, sciogliendo le braccia di Magnus, che oppose meno resistenza di quanta Alec si sarebbe aspettato, e sistemandole intorno alla propria vita, mentre gli prendeva il viso tra le mani.
“Sei arrabbiato?” domandò, facendo sfiorare i loro nasi.
“Hai insultato i miei vestiti.” Brontolò l’altro, come se tale risposta fosse una sufficiente giustificazione.
Alec gli baciò un angolo della bocca, “Non ho insultato i tuoi vestiti,” chiarì, passando a baciare l’altro angolo, “Ho solo detto che sono inadatti per dove andremo.” Fissò i suoi occhi in quelli di Magnus, le loro bocche separate dalla distanza di un capello, “Non vorrei mai si rovinassero e sparlassero male di me con le tue Jimmy Choo. Non voglio che i tuoi vestiti e le tue scarpe pensino che voglio rovinare il tuo intero guardaroba.”
Magnus rise, abbandonando definitivamente il suo cipiglio imbronciato e tirò Alec a sé per baciarlo, sentendo la necessità di azzerare quell’insulsa distanza tra di loro.
“Sei un idiota.” Decretò, appoggiando la fronte a quella di Alec, che rise – i suoi occhi si illuminarono prima dell’intero viso, in quel modo che Magnus adorava. “Però sei un gran figo, quindi posso accettare la tua idiozia.”
“E vorrà dire che per lo stesso motivo, accetterò il fatto che la tua idea di comodo equivalga a vestirti come un pinguino.”
Magnus boccheggiò: “Rimangiatelo!”
Alec non riuscì a trattenere una risata: “Mai!” gli pizzicò un fianco e Magnus sussultò.
“Sei antipatico, oggi.”
“Mi ringrazierai quando vedrai dove stiamo andando.”
“Rimane comunque il fatto che mi hai dato del pinguino!”
“E tu mi hai dato dell’idiota!”
“L’ho detto in modo affettuoso, non lo penso sul serio!”
“Nemmeno io lo penso sul serio,” Alec si chinò per dargli un bacio a stampo, “In realtà penso che la tua figaggine aumenti spropositatamente quando ti vesti in quel modo.”
Magnus lo scrutò per riuscire a capire se Alec stava facendo il ruffiano o se lo pensasse davvero. Quando capì che era serio, soddisfatto di quella costatazione, lo baciò di nuovo.
“Anche se,” cominciò Alec, quando si staccarono, “Niente ha ancora battuto il gilet di pelle con niente sotto.”
Magnus rise, scuotendo la testa affettuosamente. Non gli sarebbero bastate tutte le parole di tutte le lingue che conosceva per riuscire a spiegare quanto amasse Alexander Lightwood.
“Lo credo bene, pasticcino. Il motivo per cui i miei vestiti mi stanno così bene è perché ho degli addominali favolosi.”
Alec rise, ma non ribatté. Dopotutto, Magnus aveva ragione. “Vatti a cambiare!” disse soltanto.
“Solo se vieni in camera mia con me.”
Alec annuì senza pensarci troppo e insieme si diressero verso il piano di sopra.

Entrare nella camera di Magnus era come entrare nella rappresentazione fisica della sua personalità. Era una stanza grossa, colorata e inondata dal profumo al sandalo. Al centro di essa, troneggiava un imponente letto a baldacchino, con la trapunta rossa decorata da fili dorati, vicino al quale stava un cassettone in legno con annesso specchio su cui facevano bella mostra tutti i trucchi che Magnus possedeva – e Alec aveva la sensazione che i tre cassetti di quel mobile fossero colmi di strumenti per il make-up e smalti. C’era una scrivania vicino alla finestra, colma di libri chiusi ordinatamente, e sulla quale era appoggiata la sua macchina fotografica. Sul pavimento in parquet, erano sparsi pouf e cuscini di ogni colore. La cosa che più colpì Alec, però, furono le foto attaccate ai muri. Ce n’erano tantissime: alcune ritraevano Magnus bambino, con le guance paffute e la frangetta che cadeva sugli occhi vispi e curiosi – Alec sentì la tenerezza invadergli il cuore come una violenta marea; altre ritraevano Magnus ragazzino insieme ad un Ragnor più giovane di qualche anno, i capelli neri appena striati dalle sfumature grigiastre. Altre, invece, erano più recenti e raffiguravano loro due insieme. C’erano entrambe le foto che si erano fatti in metropolitana – le loro prime foto – e c’era persino quella che lo ritraeva insieme al cavallo. Il cuore di Alec aveva cominciato a battere più forte, scalpitando contro la cassa toracica. Era bello sapere che Magnus lo riteneva tanto importante da metterlo insieme ai ricordi della sua infanzia. Era come se non lo ritenesse una cometa passeggera nella sua vita, ma piuttosto una tappa fondamentale della sua esistenza, qualcuno con cui condividere il cammino della vita. E Alec non poteva essere più felice di costatare questa cosa perché per lui valeva lo stesso. Forse era prematuro dirlo, perché entrambi erano molto giovani, ma Alec non riusciva ad immaginarsi con nessun altro, se non con Magnus. Ed era, questo, un pensiero a lungo termine. Lo amava e sempre l’avrebbe fatto. Sentiva dentro di sé il desiderio di passare tutta la sua vita con Magnus, che andava a completare il pezzo mancante del suo cuore. Era la sua metà della mela, ne era certo.
“Siediti dove vuoi, orsetto.”
Alec si distrasse dalle fotografie e si incamminò verso la scrivania, sedendosi sulla sedia.
“Perché orsetto?”
Magnus rise, la lingua tra i denti e il naso arricciato, “Perché con quella felpa enorme sembri tanto un orsetto. E in più, perché mi piace punzecchiarti con nomi che detesti.”
“E lo fai perché credi abbia insultato i tuoi vestiti.” Non era una domanda e Magnus lo sapeva.
“Mi conosci così bene, fiorellino.”
Alec roteò gli occhi e cominciò, sovrappensiero, a giocare con il laccio della macchina fotografica. Magnus lo lasciò fare e si diresse al suo armadio – che era grosso quanto una nazione e occupava tutta una parete della camera. Non che Alec se ne stupì. Gli piaceva quella stanza perché rispecchiava Magnus alla perfezione e ancora di più gli piaceva vedere come loro due si muovessero all’interno di essa. Era la prima volta che ci entrava, ma non si sentiva in imbarazzo o fuori luogo, al contrario, si sentiva a suo agio, come se ci fosse sempre stato. Alec smise di prestare attenzione alla macchina fotografica e si concentrò su Magnus: la cresta perfettamente curata, ciocche della quale cadevano sulla nuca del ragazzo; le spalle ampie fasciate dentro alla camicia, la linea sinuosa alla fine della schiena che formava una curva aggraziata dove la schiena e il sedere si congiungevano e… basta Alec, contegno.
Al diavolo! Una sbirciatina non avrebbe fatto male a nessuno. Anzi, avrebbe fatto solo bene ai suoi occhi ingordi che altro non volevano che fissare il sedere di Magnus. Non era colpa sua se era sodo e bellissimo e bramava tutte le attenzioni di Alec, sporgendosi all’infuori naturalmente e in maniera armoniosa.  
“Almeno non sbavare, tesoro.”
“Io non sbavo!” sussultò Alec, colto in flagrante.
Magnus spostò lo sguardo dal suo armadio a lui, voltandosi completamente per guardarlo negli occhi. “Non sei credibile.”
“Ah sì?” lo sfidò Alec, le braccia incrociate al petto, “Allora vorrà dire che non ti guarderò per il resto della giornata.”
Magnus avrebbe voluto rispondere con un sarcastico come se ci riuscissi, ma optò per un’altra soluzione. Si incamminò verso Alec, gli occhi incollati ai suoi e, quando lo raggiunse, si sedette a cavalcioni su di lui. Lo senti trattenere rumorosamente il respiro e sorrise, soddisfatto di quella reazione. Sentì immediatamente le mani di Alec sulla schiena e, istintivamente, allacciò le proprie alla sua nuca, facendo scorrere le mani tra i capelli corvini. Strofinò il naso contro quello di Alec, prima di appropriarsi voracemente delle sue labbra, che succhiò avidamente prima di infilare la lingua nella bocca di Alec, che reagì con un gemito soffocato.
“Doveva essere una punizione a quello che ho detto? Perché sembrava tutto tranne che questo.” Disse Alec, ansimante a causa della mancanza di ossigeno dovuta al bacio.
Magnus rise, continuando a far correre le dita tra i capelli di Alec. Li adorava, come tante altre cose di lui.
“Era un modo per farmi guardare.”
Alec avrebbe voluto rispondergli che era impossibile non guardarlo, soprattutto quando si muoveva con l’aggraziata eleganza ipnotica tipica dei felini che caratterizzava ogni suo movimento, ma con Magnus che lo guardava in quel modo, come se fosse qualcosa di prezioso e raro, il suo profumo che gli inondava le narici e i loro respiri che si mescolavano a causa dell’inesistente distanza tra di loro, il suo cervello non riuscì ad elaborare altro se non il comando di stringerlo ancora di più a sé e baciarlo.
Magnus si schiacciò contro di lui più che poté, petto contro petto, i bacini che collisero, mentre le mani di Alec cominciarono a vagare sulla sua schiena, in una carezza premurosa e impellente allo stesso tempo. Sembrava sempre che volesse chiedergli il permesso di toccarlo, lottando contro la propria necessità di percepirlo sotto le proprie dita. L’altruismo di Alexander, Magnus lo percepiva anche in gesti simili. Lottava contro i suoi desideri per capire se prima erano condivisi. Combatteva la voglia di toccarlo in modo frenetico assicurandosi prima che Magnus volesse essere toccato. Sembrava che ancora non avesse capito a pieno che poteva toccarlo quando e come voleva perché Magnus l’avrebbe sempre lasciato fare. Moriva dalla voglia di sentirsi sfiorare dalle dita lunghe e callose di Alec, dalle sue mani piene di minuscole imperfezioni e cicatrici, le mani di un pugile e di un arciere, che trasmettevano forza, ma che erano capaci anche delle carezze più delicate e premurose. Erano ruvide e lisce allo stesso tempo, erano forza e dolcezza. Erano proprio come Alexander. Il suo dolce, premuroso e incredibilmente forte Alexander.
“Non volevi portarmi da qualche parte?” gli domandò, la voce che sussultava per via del respiro affannoso. Alec sbuffò una risata, i suoi occhi fissi sulle labbra di Magnus.
“Hai ragione.” Gli diede ancora un bacio a stampo prima di alzare le sue iridi su di lui.
“Non vuoi dirmi dove andiamo?”
Alec scosse la testa.
“Un indizio piccolo piccolo?”
Alec gli accarezzò il viso, “No. E non provare a dissuadermi.”
Magnus alzò gli occhi al cielo e – riluttante, molto, molto riluttante – si alzò da Alec e si diresse nuovamente verso il suo armadio. Alec non si perse nemmeno una delle sue mosse.
“L’unica cosa comoda che ho sono dei pantaloni da yoga e una maglietta che non metto dall’anteguerra.”
“Andranno benissimo.”
Magnus annuì e, dopo aver estratto gli indumenti nominati da un angolo buio e dimenticato del suo armadio, cominciò a liberarsi dei vestiti che aveva addosso. Cominciò con il gilet che lanciò ad Alec, il quale rise e lo afferrò al volo. La sua espressione si fece seria quando vide Magnus cominciare a sbottonarsi la camicia davanti a lui. Ok che si erano visti più o meno nudi, ma non poté impedire alle sue guance di diventare viola, quando la camicia sparì nell’armadio – appesa accuratamente ad una gruccia – e Magnus rimase a torso nudo. Dio, era così perfetto che Alec si era persino dimenticato come si faceva a respirare. Indugiò sul modo in cui i dorsali di Magnus si contraevano mentre sistemava la gruccia nell’armadio, alzando le braccia e mostrando anche i suoi bicipiti. Stava ufficialmente sbavando. Era inutile negare. Si lasciò andare anche ad un sospiro sognante perché sì. Non gli serviva un vero motivo per sospirare sognante quando Magnus e tutta la sua muscolatura erano tutto ciò su cui Alec aveva sempre fantasticato. Corrispondeva alla sua idea di bellezza, era tonico, delineato e definito senza essere esageratamente muscoloso. Era una combinazione perfetta dei doni di madre natura curati con un po’ di attività fisica. Equilibrato e bellissimo.
“Alexander?” lo chiamò Magnus, un sopracciglio alzato.
Alec sbatté le palpebre più volte e dovette fare uno sforzo enorme per alzare lo sguardo sugli occhi di Magnus e smettere di fissargli gli addominali.
“Non mi stavi ascoltando?”
“No.” ammise sinceramente, “Mi distrai. Puoi ripetere?”
Magnus rise perché in fondo beccare Alec con le guance rosse che lo guardava di nascosto era divertente e piacevole allo stesso tempo. “Ho chiesto se saremo all’aperto o al chiuso.”
“Che è un modo per estorcermi indizi.”
“Sono solo curioso!”
Alec si alzò dalla sedia e lo raggiunse. Gli baciò la fronte ed evitò di concentrarsi su altre parti del corpo di Magnus perché altrimenti si sarebbe distratto di nuovo e disse: “Prima ti vesti, prima scoprirai dove siamo diretti.”
“Sei ingiusto.”
“Disse quello che si è spogliato per estorcere informazioni.”
“Alexander!” esclamò Magnus, cercando di risultare oltraggiato nel modo più convincente possibile, “Mi ferisce sapere che mi credi fautore di tali mezzucci.”
Alec sorrise e lo attirò a sé, tenendo le labbra ad una distanza minima, ma senza baciarlo, “L’hai detto tu che ti conosco così bene. Quindi ammettilo e basta.”
Magnus assottigliò lo sguardo, “Non so se considerarti un genio, o solo un formidabile smorfioso.”
“Puoi pensarci mentre ti vesti.”
Magnus non riuscì a trattenere una risata a cui si unì anche Alec, i loro occhi innamorati che si cercarono per trovarsi, complici in una felicità che era così autentica da sembrare irreale.
“D’accordo.” si arrese Magnus, che cominciò a vestirsi, mentre Alec lo seguiva con gli occhi.
Era bello stare insieme. Indipendentemente da cosa facessero.

*

Magnus camminava con le mani di Alec sugli occhi. Aveva perso il conto delle volte che aveva rischiato di inciampare, scatenando risolini sommessi in Alec, che si impegnava davvero per fargli da guida.
“A destra c’è un buco sulla strada, stai sulla sinistra.”
“Comincio a pensare che vuoi portarmi a sperdere.”
“Non dire idiozie, Magnus.”
Alec lo spinse leggermente per fargli imboccare un’altra strada, facendolo voltare a sinistra. Camminarono per qualche metro ancora, in silenzio, prima di fermarsi di botto. Magnus provò a intuire dove si trovassero, ma il fatto che New York fosse una città estremamente rumorosa, con i suoi clacson e le grida dei rispettivi autisti, con la musica degli artisti di strada e le liti per i rarissimi parcheggi che si trovavano, non lo aiutava a capire molto.
“Sei pronto?”
“No.”
Alec rise, “Dai, Magnus. Fidati un pochino di me!”
“D’accordo.” concesse, così Alec tolse le mani dai suoi occhi. Magnus dovette osservare la grande struttura a forma di cupola in vetro e guardare bene all’interno prima di capire dove si trovassero: era una struttura adibita al paintball. Si trovò a sorridere ancora prima di voltarsi verso Alec.
“Ti sei ricordato!”
Alec, soddisfatto di quel sorriso che allargava il viso di Magnus, annuì orgoglioso. Ricordava una conversazione particolare che avevano avuto, una volta, mentre discutevano di film. Magnus aveva nominato, tra quelli che più gli piacevano, Dieci cose che odio ti te, dicendo che una delle sue scene preferite era proprio quella dove Patrick Verona e Kat Stratford giocavano a paintball.
“Mi piacerebbe provare, un giorno.”
“Davvero?”

Magnus aveva annuito con convinzione, “Sembra divertente.”
Così Alec si era messo sotto per cercare su internet un posto dove, anche in inverno, fosse possibile giocare. E, quando aveva trovato questa struttura – che aveva aperto da poco – aveva deciso che gli avrebbe fatto una sorpresa.
Magnus lo abbracciò fortissimo, stringendolo a sé, “Grazie.”
“Per averti portato qui o per aver salvato i suoi preziosissimi vestiti dalla vernice?”
Magnus rise, scuotendo la testa. “Entrambe le cose.”
Alec gli accarezzò una guancia, lasciando poi la mano appoggiata al viso di Magnus: “Ti piace?”
Magnus annuì, gli occhi che luccicavano. Doveva aver sicuramente fatto qualcosa di buono, in una vita precedente, per meritarsi Alexander, altrimenti non si spiegava come un tale dono del cielo fosse entrato nella sua vita.  
“Allora entriamo!” Alec lo prese per mano e, insieme, si diressero all’entrata.

L’edificio, visto dall’interno, si mostrava molto più ampio rispetto a come appariva dall’esterno. Non c’era il fieno o la paglia, come si vedeva nel film, perché essendo al chiuso l’avevano organizzato come se fosse una palestra. C’erano totem dietro cui nascondersi e piccole fortezze da conquistare; per i più audaci c’erano persino pareti da scalare per raggiungere fortezze ancora più ampie che, una volta conquistate, facevano accumulare un sacco di punti. Era questo che la ragazza addetta alla distribuzione delle pistole a vernice stava spiegando loro. Le regole del gioco sembravano molte di più di quante ne apparissero nei film, ma i due ragazzi non sembrava se ne preoccupassero.
“Le pistole le carichiamo noi, avete circa 50 munizioni a testa. Se le finite e ne volete altre, venite qui e ve le ricarico io.”
“Grazie.” Risposero in coro i due e la ragazza sorrise, consegnando le pistole.
“Divertitevi!”
Magnus e Alec le fecero un cenno con il capo e, dopo aver preso le pistole, si diressero verso il punto di gioco. Lo guardarono un attimo, studiando i dettagli, rimanendo in silenzio, poi Magnus parlò.
“Uno contro uno?”
“Pensavi che avremmo fatto squadra contro quei due ragazzini laggiù?”
L’orientale alzò gli occhi al cielo, sbuffando: “Sai, a volte assomigli a Jace. Questo sarcasmo inopportuno tipico di voi Lightwood.”
Tipico di noi Lightwood? Perché lo fai suonare come se fosse una cosa sporca?”
Magnus lo guardò per costatare se Alec si fosse offeso per quell’uscita. Ok, era stata un po’ infelice, ma onestamente parlando non voleva che suonasse come se fosse un’offesa, voleva semplicemente che uscisse come un dato di fatto. Evidentemente, però, la sua intonazione non la pensava così. Stava per scusarsi, quando Alec alzò un indice per precederlo.
“E ti prego, non uscirtene con uno dei tuoi doppi sensi su sporco. È così tipico tuo.” Alec roteò teatralmente gli occhi, ma venne tradito da un sorriso accennato che gli alzò solo un angolo della bocca. Probabilmente, Magnus costatò, si era accorto di quanto quella sua affermazione l’avesse imbarazzato e voleva trovare un modo per sdrammatizzare. Gliene fu molto grato.
“Non volevo offenderti.” Disse, comunque, perché ne sentiva il bisogno.
“Lo so,” Alec gli sorrise affettuoso, prima di cominciare a camminare all’indietro, mentre continuava a tenere gli occhi fissi su Magnus. Il maggiore era così concentrato a capire se Alec gli credeva davvero che non si accorse della palla di vernice gialla che lo colpì in pieno petto.
“Sei lento, Bane.” Magnus guardò prima la vernice venire assorbita dal tessuto della maglietta, poi alzò lo sguardo su Alec, che aveva cominciato a ridere così forte che si stava tenendo la pancia, e poi ancora il punto colpito. Alzò di nuovo lo sguardo su Alec, la bocca che andava a formare una O perfetta in preda allo stupore, mentre gli occhi si ridussero a due fessure per l’affronto subito.
“A tradimento non vale.”
“Si ritiene a tradimento solo se si colpisce alle spalle. Ti sembrano spalle, quelle?” indicò con il dito in direzione del petto di Magnus.
“No,” disse Magnus, ricomponendosi, “Ma quelle sì!” continuò alzando la sua pistola per colpire Alec. Una palla di vernice rossa, infatti, andò a colpire la sua spalla destra. “Sei lento, Lightwood.”
Alec gli sorrise, un sorriso che non aveva niente a che vedere con quelli dolci che gli riservava di solito. Era una sorriso ferino, scaltro, che andava ad accendere gli occhi di Alec di una luce competitiva.
“Ok,” disse Alec, la voce arrocchita. “Giochiamo.”
Magnus sapeva che non avrebbe dovuto trovarlo così eccitante, con la voce cavernosa e l’espressione di chi ha intenzione di divorarlo. Il fatto era, però, che Magnus si sarebbe fatto mangiare volentieri da Alec, quindi beh… lo trovava sexy oltre al limite umano consentito, quando si comportava in quel modo.
“Giochiamo.” Ribatté, anche se, in quel momento esatto, Magnus stava pensando ad un altro tipo di gioco.

Passarono quasi tutto il pomeriggio dentro quell’edificio, rincorrendosi come dei bambini, mentre si colpivano a vicenda, sporcandosi di vernice ovunque. Alec andava sempre a segno e Magnus non mancava mai di fargli notare che se era così bravo era solo perché era un arciere. I comuni mortali, invece, era normale che ogni tanto mancassero il bersaglio. Non che lui se la fosse cavata male, comunque. Magnus era piuttosto soddisfatto della varietà di vernice che macchiava la vecchia felpa di Alec. Gli unici punti dove non si erano sporcati, erano nella zona vicino agli occhi, protetti da una mascherina di plastica trasparente. Per il resto, invece, anche i loro capelli erano rimasti vittima del loro scontro all’ultimo colpo di vernice.
Era stato davvero, davvero divertente. Avevano riso come matti, alternando le risate ad insulti bonari. La cosa bella del loro rapporto, stava pensando Alec, mentre stava accasciato ad un totem vicino a Magnus, era che oltre ad essere una coppia erano anche amici. Non si limitavano a fare ciò che le coppie fanno, ampliavano il loro rapporto anche all’amicizia. E Alec non poteva pensare a niente di più bello.
La persona che amava era anche il suo migliore amico. Cosa poteva chiedere di meglio?
“Allora, sei soddisfatto?” chiese, voltandosi verso Magnus, che aveva una guancia striata di viola e verde.
“Molto. È stato più divertente di quanto immaginassi. Ma suppongo sia merito tuo.”
“Merito mio?”
Magnus cercò di scrostare con il pollice un po’ di vernice azzurra dal naso di Alec. “Merito tuo.” Confermò, “Se l’avessi fatto con chiunque altro non sarebbe stato divertente nemmeno la metà. Il fatto è che sei tu a rendere tutto migliore, tesoro.”
Alec arrossì intensamente, facendo scomparire, in quel modo, le tracce di vernice rossa che sporcavano il suo viso. Magnus gli sorrise, intenerito. “È bello stare insieme a te,” gli disse, appoggiando una guancia alla spalla di Alec, il quale si voltò per baciargli i capelli.
“Anche a me piace.”
“Lo credo bene,” disse Magnus, “Sono una delle persone che più ti piace al mondo!”
Alec scoppiò in una risata, riservandogli una spallata leggera che costrinse Magnus ad allontanarsi da lui. Mugugnò in disapprovazione, prima di risistemarsi esattamente com’era messo.
“Smetterai mai di dirlo?”
“Mai.”
Alec fece intrecciare le loro dita. Se Magnus voleva ricalcare quel concetto, a lui stava più che bene. In fondo, era la verità. Non vedeva perché avrebbe dovuto negarlo.



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Ciao a tutti e ben ritrovati! 
Dopo due settimane, e qualche giorno di ritardo di cui mi scuso tantissimo, ecco un nuovo capitolo! Vorrei scusarmi, inoltre, perché rispondendo ad una recensione del capitolo precedente avevo detto che in questo capitolo avremmo visto Alec in veste di infermiere, ma il capitolo è venuto più lungo del previsto e quindi ho pensato di mettere questa cosa anzi nel capitolo successivo! 
Allora... cosa ne pensate? All'inizio ho voluto inserire i pensieri di Alec riguardante la festa perché mi sembrava giusto porre l'attenzione su come si sentisse, dal momento che era una sua prima volta e ammetto che ne ho approfittato per scrivere il missing moment (possiamo definirlo così?) del capitolo precedente, dove vediamo solo Magnus che ammira Alec mentre si riveste (Magnus è furbo e la sa lunga, ammettiamolo). Successivamente - oltre all'apparizione di nonna Phoebe, che, correggetemi se sbaglio, dovrebbe esistere davvero nei libri, insieme a questa prozia Eloide, che invece ho totalmente inventato -  abbiamo un momento Malec dove si scopre che un loro bacio è stato notato sebbene non si sappia l'identità di chi è coinvolto e a tal proposito vorrei chiarire, anche se sicuramente lo sapete già, che "uscire dall'armadio" è la traduzione letterale di "come out of the closet" che è un modo di dire fare coming out, ma siccome in italiano non abbiamo niente di simile, ho usato la traduzione letterale che non è bellissima, ma passatemela! 
Sto parlando un sacco, sono logorroica, scusatemi! Vi saluto e, come sempre, vi ringrazio immensamente per leggere questa storia, ringrazio chiunque l'abbia messa tra i seguiti/preferiti e chi trova sempre il tempo per recensire. Mi fa un enorme piacere e, come sempre, vi abbraccio tutti! Ve lo meritate, davvero <3 
Alla prossima!

PS: per la scena dove giocano a paintball vorrei ringraziare Napi, che ha suggerito l'idea in una recensione precedente! Spero che il momento sia stato all'altezza dell'aspettativa! 


 
   
 
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