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Autore: Adeia Di Elferas    30/11/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ascanio Sforza, nel profondo, stava gioendo per le lacrime che continuavano a rigare il volto stanco di Alessandro VI.

Ogni volta che il papa tirava su col naso o si metteva a fissare il vuoto biascicando qualche parola nella sua lingua, per il Cardinale milanese era un'autentica festa in Duomo.

“Ditegli – fece il Santo Padre, riprendendosi un po' dopo l'ennesima vuota richiesta a Dio del perché Juan fosse morto a quel modo – che la via pacifica è da preferirsi alla via legale...”

Ascanio annuì, pensando a come il suo parente a Pesaro avrebbe preso quell'ennesima richiesta del papa. In tutta sincerità, si era convinto che il lutto per il suo figlio prediletto gli avrebbe fatto dimenticare per un po' la storia dell'annullamento del matrimonio tra Giovanni e Lucrecia, ma evidentemente non era così.

“La via legale – riprese Rodrigo, tamponandosi un po' gli occhi con la manica già umida della tunica papale – sarebbe molto più rapida ed efficiente. Vogliamo solo dargli la possibilità di cavarsela senza onta.”

Il Cardinale, che sapeva quanti ottimi avvocati il parente di Pesaro potesse vantare alla sua corte, provò a dire: “Dichiararsi impotente non sarebbe un'onta, per vostro genero?”

“Non chiamatelo a quel modo!” inveì il papa, le narici dell'imponente naso che si aprivano come froge di un cavallo: “Non è mai stato mio genero. Non veramente. E direi che gli convenga dire di non aver consumato il matrimonio perché non ce la faceva, piuttosto che sostenere di essere stato gabbato e intrappolato in un matrimonio non valido...”

Ascanio non era del tutto d'accordo, ma finalmente aveva capito perché il papa volesse che fosse lo Sforza a tirarsi indietro spontaneamente, senza dover incorrere in una causa legale.

Se si fosse arrivati davanti a una giuria, Giovanni avrebbe potuto rifiutare le accuse e il papa avrebbe dovuto forzare il giudizio verso uno scioglimento arbitrario e immotivato. Lucrecia ne sarebbe uscita con la reputazione a pezzi.

In un processo riguardante il matrimonio, era sempre il marito ad avere ragione. Probabilmente in quel frangente, il papa si stava maledicendo per non aver avuto solo figli maschi.

“Avete capito che cosa dovete riferire al vostro parente?” chiese alla fine il Santo Padre, stanco.

“Ho capito benissimo.” confermò Ascanio, chinando il capo, servile.

“E allora vedete di convincerlo.” concluse Rodrigo, guardando negli occhi il Cardinale e poi borbottando: “Voi e quel vigliacco avete lo stesso sangue, eppure siete così diversi...”

“Avere lo stesso sangue non sempre dà gli stessi risultati.” si permise di far notare Ascanio.

Il Borja alzò le sopracciglia, non molto colpito dall'ultimo inciso e dichiarò concluso l'incontro facendo segno allo Sforza di andarsene e sbuffando: “Vedete di fare in fretta. Convincetelo, che diamine. Dio solo sa se a questo povero papa servono altre preoccupazioni...”

 

La mattina di giugno era fresca e soleggiata. Nella riserva di caccia della Contessa il terreno era ancora un po' fangoso, in alcuni punti, ma per il resto era ben praticabile.

La natura si stava risvegliando con tutta la sua potenza, dopo quel lungo e strano inverno, e gli animali che la Tigre e il marito incrociarono furono parecchia, abbastanza da dar loro l'imbarazzo della scelta su cosa cacciare.

Siccome non avevano portato con loro né altri cacciatori, né un carretto, Caterina preferì concentrarsi su un'unica preda. L'occasione arrivò dopo un paio d'ore di ricerca, quando si trovarono davanti un meraviglioso cervo di grosse dimensioni.

Giovanni, per non rischiare di rovinare la posta alla moglie, si limitò a passarle la freccia, non appena lei ebbe trovato l'angolatura giusta per non essere sottovento e per non farsi vedere dall'animale.

Quando tese la corda dell'arco, per un momento la bestia voltò il muso in sua direzione, ma non trovò il tempo nemmeno di provare a scappare, che la punta di ferro della freccia aveva già trapassato il suo collo, uccidendolo sul colpo.

“Posso provare io?” chiese il Medici, che stava osservando la moglie intenta a macellare l'animale.

L'avevano appeso a un ramo, perché la Contessa preferiva preparare la carne subito, in modo da trasportarla più facilmente fino alla Casina.

Sorpresa dalla richiesta del marito, la donna smise per un momento di incidere la pelle del cervo e, passandosi il dorso della mano sulla fronte per asciugarsi il sudore, gli porse il coltello: “Certo. Dai, fammi vedere come te la cavi...”

Il sole filtrava tra le foglie di un verde tenero della pianta che stava dando loro riparo e il Popolano dovette stringere un momento gli occhi, mentre si avvicinava alla carcassa, per non restarne abbagliato.

Guardando un secondo in terra, restò rapito dal contrasto tra il colore pieno e vitale dell'erba finissima e quello del sangue dell'animale, scuro e pesante.

Giovanni si schiarì la voce e poi, dopo essersi tirato su le maniche del camicione, così come aveva visto fare alla moglie con quelle del suo abito da lavoro, afferrò con una mano la carcassa e con il coltello cominciò a scavare nella carne.

Caterina lo osservò per qualche istante, mentre faceva le incisioni maggiori. Era chiaro che suo marito l'aveva osservata con attenzione, quando l'aveva aiutata a macellare altre bestie, tuttavia, quando finì con il lavoro grossolano, il fiorentino rallentò, come indeciso su che fare.

“Guarda...” intervenne allora la Tigre, guidando la mano del marito, così bella anche se coperta di sangue ancora tiepido, verso il prossimo punto da tagliare: “Qui, attorno alla zampa, in modo da staccare bene la coscia...”

L'uomo permise alla moglie di eseguire il movimento assieme a lui, anche se ormai si trovava a essere più concentrato su di lei che non sul cervo che gli stava davanti.

Sentiva la decisione del movimento che Caterina imprimeva alla sua mano e vedeva la lama staccare con facilità i pezzi di carne dalla bestia, ma tutto ciò che gli importava era il suo respiro vicino al collo e la sua vicinanza.

Quando il pezzo di carne finalmente si staccò, Giovanni chiuse un momento gli occhi e poi, sfuggendo dalla presa della moglie, piantò a caso il pugnale sul fianco della bestia e si voltò verso Caterina.

Tenendole il viso tra le mani, la baciò a lungo, senza trovare opposizioni, mentre un venticello profumato d'estate scompigliava loro i capelli e faceva ondeggiare appena quel che restava del cervo appeso al ramo.

Anche la Sforza aveva appoggiato le mani sul volto del marito, sentendo la ruvidità della barba che stava ricrescendo e l'armonia dei suoi lineamenti.

Dopo poco, però, lo convinse ad allontanarsi da lei. I due si guardarono, entrambi assorti in pensieri a tratti angoscianti e a tratti rassicuranti. Nel toccarsi a quel modo, si erano sporcati a vicenda la faccia di sangue. Quella visione richiamava tanto all'ambasciatore, quanto alla Contessa, sia i fantasmi dei morti e della guerra, sia la forza della vita.

Anche il bacio che si erano dati sapeva di sangue. E non solo. Aveva anche il sapore dell'estate e del terreno che odorava ancora di pioggia, e portava con sé pure un retrogusto di urgenza, quasi di paura, come se l'effimerità di quell'istante fosse palpabile e reale ancor più del sangue e della carne del cervo che stava loro davanti.

“Avanti...” fece alla fine Caterina, riscuotendosi per prima: “Finiamo il lavoro...”

E così, alternandosi nel tagliare, marito e moglie finirono di macellare il cervo e poi ne riposero i vari tagli nelle bisacce che avevano portato con sé.

Vagarono per la riserva ancora qualche ora, taciturni e ormai disinteressati alle possibili prede che a volte sfilavano proprio sotto al loro naso con imprudenza. Quando ebbero fame, la Leonessa propose di andare alla Casina e il fiorentino accettò subito.

Per fortuna, per quanto fosse stato chiuso a lungo, il capanno di caccia era in perfetto ordine, come l'ultima volta in cui l'avevano lasciato.

Caterina accese il fuoco nel camino e mise subito a cuocere due pezzi di carne molto grossi e magri, forse i migliori che si potessero ricavare dal cervo che aveva cacciato.

“Mettine sul fuoco ancora un po'...” fece Giovanni, prendendo dalla sacca un altro trancio e porgendolo alla moglie: “Ho una fame da lupi.”

“Non sarebbe meglio che...” provò a dire la Sforza, andando con il pensiero al cibo che avevano portato con loro, proprio per permettere al Medici di mangiare qualcosa che gli evitasse di star male.

“Ogni tanto – fece il Popolano, mentre la donna metteva anche quel pezzo appena preso accanto agli altri – anche io devo mangiare un po' di carne... Per una volta, non ne morirò.”

Si avvicinò alla Contessa, che aveva appena finito di sistemare tutto nel camino, e la prese per i fianchi, sorridendole: “E poi, se non mangio mai nulla di sostanzioso, finirai per pensare di aver sposato un mucchietto d'ossa.”

La Tigre cedette a un paio di baci di Giovanni, che ancora avevano il sapore selvatico del sangue di cervo e il sentore forte della lunga cavalcata al sole di giugno.

“Aspetta...” fece Caterina, facendolo fermare un momento: “Ho portato una cosa...”

La donna andò alla bisaccia da sella che aveva lasciato sul tavolo e ne estrasse una scatoletta di metallo.

Sistemò i pezzi di carne un po' più lontani dal fuoco, in modo che continuassero a cuocere, ma più lentamente e poi sorrise al marito: “Siediti sul letto.” gli ordinò.

Il Medici non se lo fece ripetere e si sistemò, cominciando a intuire che cosa la moglie avesse portato con sé per quella battuta di caccia.

Con calma, la Tigre gli si mise alle spalle, gli tolse lentamente il camicione – anche quello rimasto macchiato di sangue quando avevano macellato il cervo – e poi, circondandolo con le braccia, gli slacciò anche la cinta delle brache.

Lo sentì deglutire, come se fosse in egual misura in ansia e colmo di speranze, e alla fine si decise ad aprire il barattolo. Uno strano odore ne uscì, mentre la donna prendeva un po' dell'unguento che vi era custodito e cominciava a massaggiare con metodo la parte bassa della schiena del marito, concentrandosi soprattutto sui fianchi.

“Che cosa c'è in questa lozione?” chiese Giovanni, che annusava l'aria cercando di capire le varie note odorose che gli arrivavano.

“Bacche di lauro, euforbia e radice di satirione.” spiegò Caterina, con voce bassa, mentre le sue mani saggiavano la pelle sempre più calda della schiena del marito: “So che hanno un odore strano, ma ti assicuro che finirai per apprezzarlo...”

Il fiorentino non commentò, lasciandosi solo scappare un sospiro di gradimento, visto che il massaggio lo stava rilassando e svegliando allo stesso tempo.

Tenendo sotto controllo le reazioni del marito, man mano che l'unguento veniva assorbito, la Sforza si trovò a pensare che Giovanni aveva ragione. Stava diventando sempre più magro e, a conti fatti, evitare certi cibi non gli avevano comunque permesso di evitare una brutta crisi, mentre c'era la peste.

Passando le dita con un tocco appena più leggero lungo la linea ben visibile che le ultime coste segnavano sulla sua schiena, la Contessa si sentì improvvisamente intenerire. Il suo uomo le pareva quasi un pulcino arruffato. Faceva del suo meglio e non lo si poteva definire abbattuto, ma era chiaro che il suo corpo stesse facendo molta fatica.

Senza dire nulla, Caterina si arrese all'istinto di quel momento e smise di ungere la schiena del fiorentino, per abbracciarlo.

Giovanni non si aspettava un gesto del genere, ma gradì molto la dolcezza con cui la moglie lo teneva stretto a sé. Abbassò gli occhi verso il proprio petto e vi vide le mani di Caterina appoggiate sopra, le dita aperte, come ad afferrarlo meglio.

Sentendo il suo calore addosso e la delicatezza della sua presa, il Medici pensò tra sé: 'È quasi impossibile, crederla davvero un'assassina'.

Il Popolano riaprì gli occhi e guardò di nuovo la mani della moglie. Questa volta notò il colore un po' sbiadito del sangue. Era del cervo, lo sapeva, ma quella visione bastò a fargli rivalutare ciò che aveva appena pensato.

Quasi comprendendo ciò che passava per la mente del fiorentino, la Sforza fece un sospiro molto profondo e sciolse il suo abbraccio, tornando a massaggiare la schiena del marito con maggior vigore, facendo infine scivolare le mani verso il ventre e poi più in basso.

 

Il castello di San Gemini era silenzioso, quasi non fosse occupato da una colonna di soldati scapestrati e irrequieti.

Bartolomeo d'Alviano stava leggendo la lettera che sua moglie gli aveva fatto avere quella mattina e più la rileggeva più sentiva crescere il peso che aveva sul cuore.

Le aveva chiesto se fosse il caso di assecondare la richiesta del papa, che lo voleva a Roma per certi affari. Bartolomea aveva risposto abbastanza in fretta, intimandogli di non recarsi in Vaticano per nessun motivo.

Lo metteva a parte della morte di Juan Borja e dei sospetti che a Roma si nutrivano verso di lei, che, secondo il papa, avrebbe pagato un sicario per uccidere quel bellimbusto del Duca di Gandia per vendicarsi della morte di Virginio.

Gli chiedeva di portare a termine la missione per cui era stato pagato e poi di cercarsi subito una nuova condotta che gli portasse una bella quantità di soldi.

Non avrebbe trovato nulla di strano in quel messaggio, se solo non fosse stato scritto da un pugno diverso da quello di sua moglie. Solo la firma in calce era chiaramente autentica. Il condottiero era sicuro che se la sua donna era arrivata al punto di dover dettare una lettera così personale voleva dire che era ulteriormente peggiorata.

Non aveva sue notizie certe ormai da qualche settimana e non si arrischiava a chiedere apertamente come stesse nelle lettere che le spediva, temendo di vedersi rispondere che stava bene, quando invece la verità era diversa.

Bartolomeo, che aveva preso il castello di San Gemini in meno di sei ore, si stava sorbendo in quei giorni una tregua che non sopportava. Di fatto, gli uomini di Savelli gli stavano muovendo una sorta di assedio, pur non attaccando mai.

Riguardò ancora una volta la grafia precisa e rigida dello scribacchino che aveva raccolto le parole di Bartolomea, e poi chiuse gli occhi, con un mezzo gemito. Si trovava a circa una giornata da Bracciano. Anche meno, se avesse fatto il viaggio da solo e a marce forzate.

Era paradossale trovarsi bloccato lì, in attesa che Savelli si decidesse ad attaccare, mentre sua moglie era nel loro castello a morire da sola.

Battendo un pugno sulla scrivania, l'uomo si alzò e andò dal suo secondo. Gli abbaiò un paio di ordini che il giovane parve non capire subito, tanto che chiese al comandante di ripeterli.

“Ma così...” fece l'ufficiale, rendendosi conto di aver compreso bene anche la prima volta: “Faremo sì che i soldati di Savelli entrino in città...”

“Almeno romperemo questa dannata tregua! Sono stanco di aspettare una battaglia che sembra non arrivare mai! Voglio sporcarmi le mani del sangue di questi maledetti e tornarmene a casa!” sbottò Bartolomeo: “Fate quello che vi dico! Voglio finire questa guerra inutile il prima possibile! Non sei pagato per discutere i miei ordini, ma per fare quello che ti dico io, fosse anche buttarti giù da un orrido, hai capito?!”

Il suo secondo, non abituato a sentirgli dire frasi tanto lunghe, annuì terrorizzato dalla furia del suo superiore e scappò a riferire gli ordini a chi di dovere.

 

“Oh, la carne!” esclamò Caterina, ricordandosi all'improvviso del cervo che stava abbrustolendo sul fuoco.

Giovanni si tirò su a sedere e, con il lenzuolo che lo coprivano fino alla vita, appoggiò la schiena alla testiera grezza dello stretto letto, guardando la moglie che si affaccendava attorno al camino, il fisico giunonico e flessuoso appena celato dal camicione che si era infilata prima di alzarsi.

La Casina era permeata dal profumo succulento della carne ormai ben cotta e dall'essenza ancora persistente dell'unguento preparato dalla Tigre. Fuori splendeva ancora il sole, ma la luce stava già volgendo in quella più spenta del tardo pomeriggio. Benché fosse già giugno, le giornate erano ancora molto brevi.

“Prendi...” fece la Sforza, porgendo al marito un grosso pezzo di carne infilzato su un coltello, prendendone poi uno anche per sé e mettendosi accanto a lui.

Per qualche minuto, i due restarono in silenzio, assorti nel mangiare il cervo freschissimo e molto saporito che avevano cacciato assieme. Appena i loro stomaci furono discretamente pieni, Giovanni smise di mordere il suo pezzo per fissare la Leonessa, che invece continuava ad attaccare la sua preda con voracità.

“Adesso che la peste è passata, hai intenzione di riprendere la guerra con Pandolfo Malatesta?” si informò il Medici, allungando il suo pezzo di carne, mangiato più o meno per metà, alla moglie che aveva già finito il proprio.

Caterina lo ringraziò con un cenno del capo e poi disse, dopo aver deglutito rumorosamente: “Non ho voglia di parlarne adesso.”

“Dovremmo, invece.” la contraddisse Giovanni, sistemandosi un po' e grattandosi il mento un po' ruvido di barba.

“E va bene...” sospirò la donna: “Ma prima lasciami finire di mangiare.”

Il fiorentino annuì e attese con pazienza che la milanese spazzolasse tutto ciò che restava della carne arrostita, per poi tornare alla carica: “Intendi dire a Tiberti di attaccare presto?”

“Da quello che sappiamo – rispose Caterina, passandosi il dorso della mano sulle labbra – Pandolfo non è ancora tornato da Venezia. Prima voglio vedere se porterà con sé dei soldati della Serenissima, o se il Doge invece lo lascerà tornare a casa da solo.”

“Hai ragione.” convenne il Medici, annuendo lentamente: “E per Faenza?”

“Per il matrimonio, intendi?” chiese la Contessa, più sulle spine.

Quella mattina, quando stavano uscendo per andare a caccia, Cesare Feo li aveva cercati e aveva detto alla Tigre che Castagnino aveva mandato una staffetta, arrivata mentre stavano festeggiando, per informare che Astorre Manfredi era in ottima salute, malgrado la recente epidemia, e per proporre che Bianca si trasferisse entro l'anno a Faenza.

“Sì.” rispose il Popolano, tenendo le mani in grembo e le sopracciglia aggrottate: “Insomma, è chiaro che vogliono metterti fretta per capire se starai con Venezia o con Firenze.”

“Però non posso dire apertamente che sono alleata di Firenze. Io non ho ancora preso accordi ufficiali con la Signoria.” fece notare la Contessa, massaggiandosi la fronte, gli occhi verdi che indugiavano a tratti sul marito, a tratti sul coltello che teneva ancora in mano: “Per ora penso che mi limiterò a prendere tempo. Dirò che Astorre è ancora troppo giovane e che troverei più conveniente aspettare che abbia almeno tredici anni.”

“Faresti meglio a star larga e dire quattordici.” intervenne Giovanni, mentre valutava tra sé la possibile lentezza della guerra, visto che il centro Italia si stava riprendendo solo in quei giorni dalla peste.

Caterina agitò la mano in aria: “Un anno per volta. Se dicessi quattordici, capirebbero che il mio è un 'mai' e non un 'più tardi'. Per ora li voglio tener buoni. Faenza è nel centro delle mie terre. Sai che significa? È come avere costantemente un cannone puntato alla testa...”

Quell'affermazione diede molto da pensare al Popolano che, da quel momento, evitò di dare consigli senza ragionarci attentamente sopra.

Quando la sera li colse, marito e moglie stavano ancora parlando di politica e di guerra e, più ne discutevano, più si rendevano conto della possibile importanza strategica dello Stato di Caterina.

“Una lama a doppio taglio.” disse alla fine la donna, alzandosi per prendere un po' di vino: “Se da un lato ci dà una grande possibilità, dall'altro ci rende una preda ghiotta tanto per Venezia, quanto per Firenze...”

“Ci servirebbe un protettore esterno a questa contesa.” fece il Medici, parlando quasi senza pensarci.

“Milano.” sussurrò Caterina, bevendo qualche sorso e stringendosi nelle spalle: “E con Milano l'Impero. In fondo, mia sorella è la moglie dell'Imperatore e mio zio è il Duca di Milano. È tempo di far pesare un po' il sangue, non credi?”

“Potrebbe essere pericoloso...” mise le mani avanti Giovanni, fissando la moglie che tornava a letto da lui.

“Quando c'entra il sangue, c'è sempre pericolo.” ribatté la donna: “Ma per poter contare almeno sulla protezione formale di mio zio, prima dobbiamo fare in modo di fargli digerire il nostro matrimonio...”

“Non sarà facile...” sussurrò il Medici, cominciando a spremersi le meningi.

Stremata dalle troppe parole, Caterina annuì: “Non sarà facile. Ma non è il caso di pensarci proprio adesso.” e si infilò sotto le coperte, cercando la vicinanza del marito, in modo di archiviare, almeno per quel giorno, gli affari di Stato.

 

“Avete lo stesso sangue – disse Perotto, infilandosi gli stivali e sollevando una spalla – è normale che anche lui ne stia soffrendo.”

Lucrecia guardava la schiena dritta del Pedro, mentre lui si chinava per stringersi i lacci e, pur dandogli silenziosamente ragione, non riusciva a mettere a tacere il pungolo che le tormentava l'anima.

Aveva incontrato Cesare, quel giorno. Era andato al convento e ci aveva tenuto a dire che non si sarebbe più presentato in mezzo a tutte quelle suore, e che dunque, se lei voleva rivederlo, sarebbe stato meglio che uscisse da quella 'gabbia di matte vestite di nero' e tornasse a vivere nella casa di suo padre.

Quando lei, senza riuscire a trattenere le lacrime, gli aveva parlato di Juan, Cesare si era irrigidito e aveva voluto cambiare subito discorso.

Lucrecia aveva insistito, chiedendogli che cosa ne sapesse, chi ne fosse sospettato, perchè l'avessero ucciso, ma più lei chiedeva, più lui si arrabbiava e alla fine, il loro incontro nato con un abbraccio tanto accorato da togliere il fiato, si era concluso con un furibondo litigio.

“Non mi direte che sospettate di vostro fratello...” insistette Perotto, quasi mettendosi a ridere.

La giovane diede un colpetto al cuscino, per stare più comoda, e ancora una volta non disse nulla.

La stanzetta che le suore le avevano concesso era scarna, piccola e abbastanza umida. Anche se il convento era una bella struttura, luminosa e spaziosa, la camera in cui la figlia del papa dormiva faceva onore al nome che le suore le davano: cella.

Pedro si voltò verso Lucrecia e scorse nei suoi occhi profondo qualcosa che lo agitò. Era chiaro che la Borja stesse navigando in acque turbolente. Era dilaniata dall'amore che provava per il fratello Cesare e dalla rabbia accesa dal sospetto che aveva fin da subito cominciato a nutrire per lui.

E lo stesso, si era reso conto Perotto, l'ultima volta che si era trovato faccia a faccia con Cesare, provava il Cardinal Borja. Amore e rabbia. Questo provava per la sorella.

Mettendosi in piedi, Calderon afferrò la camicia e il giubbone che aveva lasciato sull'inginocchiatoio e sospirò: “Avete davvero lo stesso sangue...”

“Dove state andando?” chiese Lucrecia, vedendo l'uomo raggiungere la porta.

Pedro dedicò un ultimo sguardo alla donna dalla bellezza crudele che le coperte spesse e ruvide del suo letto da suora riuscivano a mala pena a celare e disse solo: “In cappella. Anche uno spergiuro come me a volte sente il bisogno di pregare...”

 
   
 
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