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Autore: Il_Signore_Oscuro    02/12/2017    6 recensioni
Il mondo si ricorda solo dei grandi personaggi, di coloro che hanno avuto un ruolo centrale negli eventi più importanti del suo tempo. Mentre il grande meccanismo della Storia divora tutto il resto, precipitandolo nell'oblio. Io però ho scavato e scavato, consegnando alla vostra memoria una storia diversa, una storia che era rimasta nell'ombra. Una guerra più profonda, e combattuta lontano dagli occhi dei molti...
Da oltre dieci generazioni i Cangramo sono i leali alfieri degli Argona, i potenti sovrani della costa orientale di Clitalia, la terra divisa fra i molti re. I Cangramo dominano su una piccola contea nell'estremo sud-est, una contea che comprende il Porto del Volga, la Valspurga alle pendici del Monsiderio e l'antica Rocca Grigia, costruita su un'altura a strapiombo sul mare. I quattro fratelli Cangramo cercheranno di ritagliarsi un posto in un mondo violento e insidioso, intessuto di amori, battaglie, inganni e segreti. Mentre lontano dagli occhi, un male a lungo dimenticato, antico e potente, getta la sua ombra sul futuro degli uomini...
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Capitolo IV
Il Canto del Metallo
(Carlo)
 
 

Immagina che il tempo interrompa il suo ciclo, che il sole si fermi nella sua lenta caduta verso ovest, che il vento quieti il suo soffio che sospinge da qualche parte le bianche nuvole. Insomma, che ogni cosa cessi di muoversi.
Ti avvii verso l’uscita della Sala Grande, magari passando una mano sul fuoco che si consuma sul semi-tronco di roccia del focolare: le fiamme non possono scottarti ora. Come uno spiffero attraversi le fessure del portale, scendi per i sette gradoni in pietra che precedono l’ingresso, fuori dal castello. Cammini nel terreno livellato, fra i contadini di ritorno per riempirsi un poco la pancia. Nel recinto dei soldati due spade smussate impattano l’una contro l’altra, sotto lo sguardo vigile di Mastro Villa.
Giungi ai cancelli della Rocca, come un insetto balzi fra una sbarra e l’altra senza impedimento. Sei subito nello sterrato, che come una biscia si insinua per la Selva Scura. Ma tu l’hai già vista, e sai che verrà il tempo, più in là, per scandagliarne i reconditi segreti, celati fra gli alberi e le fronde.
Non ci metti molto a scoprire che il tuo corpo non ha peso, puoi muoverti attraverso l’aria con un solo pensiero: la terra non è più la prigione dei tuoi passi. Mentre Sali, tutto si fa più piccolo sotto i tuoi piedi, guardando verso giù puoi catturare in un solo sguardo la striscia di legno e roccia del Valga, le alte mura della Rocca Grigia, gli imponenti alberi della foresta, il conglomerato di villaggi nella Val Spurga, ai piedi del Monsiderio, solo l’ultimo di una catena di montagne che attraversa a mo’ di cuspide l’intera Clitalia.
Qualcosa ti chiama a nord, un richiamo più forte di ogni altra musica ma senza voce, e la tua volontà ti scaglia come uno strale dal suo arco proprio in quella direzione: ti muovi come fossi il vento di un uragano, il mondo ti scorre sotto il ventre, neanche i picchi rocciosi possono arrivare a toccarti.
Quando sei abbastanza a nord ti accorgi che qualcosa sta cambiando: uno sbuffo ti smuove una ciocca sul viso, le nuvole riprendono ad arrancare. Le catene che trattenevano il tempo si stanno spezzando una ad una: il gigante riprende a piccoli passi la sua folle corsa senza fine. Il tuo corpo scivola giù come una foglia secca con cui il vento si è stancato di giocare.
E scivoli invisibile come sempre in un accampamento a qualche centinaio di metri dalla corona di montagne che segna il passo fra Clitalia e il resto del continente. Le tende non sono molte, sono anonime e senza vessilli a distinguerle l’una dall’altra. Un ragazzo con i lineamenti squadrati, in realtà familiari, è accomodato su una sporgenza di roccia nel terreno. Riversa sulle sue gambe c’è una spada…


La cote grattava il filo della lama, sputando scintille rosse che si estinguevano a contatto con il terreno arido e duro ai piedi della Corona, le montagne che segnavano il passo fra Clitalia e il resto del continente a nord. Le ombre dei picchi scendevano severe, come dita oscure verso i bivacchi dei soldati animati della solita vita. Un bicchiere di coccio che si rompeva all’ennesima caduta, i sussurri del vino speziato versato nelle coppe, i rumori gutturali di chi buttava l’aria fuori dal corpo in modi non proprio attinenti all’etichetta, le voci di chi intonava sconce canzoni da taverna. Un’orchestra di suoni tanto differenti fra loro, che cozzavano l’uno sull’altro, che si accapigliavano tutti insieme. E poi c’era lui, quell’unico suono che si ripeteva sempre uguale, ogni volta che le scintille fiottavano giù dalla cote. Carlo l’aveva battezzato canto del metallo.
La spada del Principe era un blocco di acciaio forgiato nella migliore fucina di Argonia, con la luce che si scioglieva lungo il piatto della lama in macchie di bianco e d’argento. Quasi non riusciva a immaginarsela incrostata di sangue e budella quella lama. Eppure, nei suoi tre anni da scudiero, le occasioni non erano affatto mancate. Anzi, lui stesso aveva avuto il compito di pulirla e lucidarla alla fine di ogni battaglia.
Nell’acciaio Carlo vide riflesso il suo viso: iridi castane, con un anello di verde a circondagli le pupille. I capelli mogano erano tagliati corti, perché non avessero a crescere in ricci. Solo un filo di barba ispida circondava il mento, simile per le linee squadrate a quello di suo padre.
Giù per il collo, una robusta armatura di ferro opaco copriva il corpo, con l’effige del cane-lupo in rilievo sul petto. Gli spallacci era rivestiti di cuoio borchiato, mentre dalla cintura pendeva l’ascia di semplice fattura e la daga, e quest’ultima sì era singolare, con l’elsa fasciata di sete azzurre e un pomo in osso, le cui sembianze ritraevano il capo di un passerotto. Il fodero, di contro, era una semplice guaina di cuoio senza alcuna traccia di ricami o altre decorazioni.
Una risata sguaiata venne dall’accampamento, forse un uomo già ciucco a quell’ora. Carlo si voltò: era un ambiente tanto diverso dalla austerità della Rocca Grigia. Ci aveva messo un po’ per abituarsi, ma alla fine aveva capito: erano soldati, e i soldati esorcizzavano così la paura della morte. Quell’allegria serviva per far finta che nella prossima battaglia te, e magari il compagno che ti stava accanto, ve la sareste cavata al massimo con qualche ammaccatura, che avreste potuto combattere per un altro giorno ancora, prima della fine. Era un tipo con una stoppa bionda quello che cantava e rideva, saltellando da un piede all’altro mentre raccontava chissà quale storia buffa. Guardandolo, Carlo non poté fare a meno di sorridere, quando uno scalpicciare di passi alle sue spalle lo mise in allerta.
Erano passi famigliari, passi che incedevano sempre a metà fra la corsa e il cammino. Carlo scattò in piedi, lasciando cadere la cote dalla sua mano sinistra, e tenendo con la destra la spada, la cui punta sfiorava il terreno.
«Mio Signore» esclamò il ragazzo, chinando appena il capo.
Alfonso era lì di fronte a lui, una smorfia di disappunto gli tendeva la bocca cinta di barba castana. I suoi occhi erano roventi fiammelle azzurre, incastonate in un viso dai tratti morbidi come una moneta. Una cicatrice bianca correva dal sopracciglio sinistro fino a graffiargli lo zigomo. Era di aspetto gradevole, sembrava ancora più un ragazzo che un uomo fatto e finito, sebbene avesse già vent’anni. La sua altezza sfiorava a fatica il metro e settanta, ma il fisico asciutto lo rendeva agile anche con un’armatura indosso. E che armatura… la corazza era smaltata con un intenso e brillante azzurro, i bordi erano stati placcati in oro, con un passerotto appollaiato su un arco di mezzaluna proprio al centro del petto. Carlo trovava curioso che un uomo della temperie di Alfonso portasse un emblema del genere, ma non era stato lui a sceglierlo, quello era il simbolo che la famiglia Argona aveva adottato da quando avevano lasciato Iberia per approdare sulle coste orientali di Clitalia, e questo era accaduto almeno tre secoli fa.
«Dov’eri finito? Ho dovuto chiedere a uno sguattero di infilarmi l’armatura» lo redarguì il Principe, con evidente irritazione.
«Affilavo la tua spada, mio signore» Gliela porse dalla parte del manico. «Se senza un’armatura potete sperare di sopravvivere, con una spada smussata vi ammazzano di sicuro.»
«Sei impudente, ragazzo.» Notò lui, con voce bassa. «Dovrei farti frustare per questo, la tua lingua ne gioverebbe.»
«Oh, ma così dopo sarei dolorante…»
«È quella l’idea, sì.» Replicò il Principe, col tono di chi non ha voglia di ripetere le ovvietà.
«E poi come lo proteggo il tuo regale sedere dalle mazzate di quei cattivoni lassù?» Disse, accennando con un pollice alle montagne che si ergevano alle spalle del piazzaforte.
Ci fu un teso silenzio: l’espressione di Alfonso era seria, austera, mentre il suo scudiero persisteva in uno sfacciato ghigno di compiacimento. Era una gara di resistenza, chi avrebbe retto di più? Chi si sarebbe arreso per primo?
Poi accadde: l’Argona scoppiò in una risata sguaiata, senza più riuscire a trattenersi.
«Ah, tu, maledetto figlio di puttana! È per questo che adoro voi Cangramo: avete un paio di palle grosse così, e la faccia tosta come nessun altro. Fossero tutti come voi, adesso gli Orimberga non siederebbero sul trono di Arcadia.»
«Non è saggio parlar male della famiglia reale, Alfonso.» gli disse con tono fraterno il suo scudiero.
Il Principe per tutta risposta sputò in terra, mentre rinfoderava nella guaina di cuoio la spada fresca di affilatura.
«Fanculo gli Orimberga e tutto il seguito di leccaculo che si portano appresso. Hanno trasformato la carica di “Re fra i pari” in un titolo ereditario, e le votazioni in una schifosa farsa priva di senso.» Sputò nuovamente, come per rimarcare il concetto. «Quello scranno andrebbe distrutto pezzo per pezzo.»
«Credi non serva più allo scopo?» Chiese Carlo, dubbioso.
«Non da quando gli Ippocrati hanno perso influenza e si sono chiusi nei loro palazzi a sud-ovest. Un tempo erano loro a reggere il gioco, ma quantomeno lo reggevano bene, nascondendo quanto c’era da nascondere. Mentre questi spocchiosi non hanno la benché minima vergogna. Il potere del Re e dell’Alto Sacerdote nelle mani di un’unica famiglia, non ne verrà niente di buono, parola mia.»
Carlo non seppe che rispondere e si morse l’interno del labbro: sapeva che Alfonso non aveva ancora finito di dar voce ai suoi pensieri.
«Ma basta parlare di politica, un giorno sarò il Re della Costa orientale, e quando gli Orimberga mi chiederanno di inginocchiarmi e giurare fedeltà»  sorrise, come se la scena ce l’avesse davanti agli occhi «saprò io cosa rispondere!»
Carlo replicò con un sorriso accondiscendente, senza scomporsi. Alfonso aveva la voce di ferro, come il carattere. E proprio come il ferro il suo carattere si arroventava facilmente, quando le fiamme lo incendiavano. Questo il giovane scudiero lo sapeva bene. Sapeva che Alfonso s’era fatto le ossa fra le compagnie mercenarie della lontana Ellenia, e i mercenari non erano certo noti per la mitezza o le loro parole accorte. Gli occhi di Carlo volsero verso le montagne: dall’Artiglio del Leone scesero giù fino allo stretto che si inoltrava per la Corona in uno spigoloso declivio, da lì vide fuoriuscire un uomo: era vestito di stracci malandati e camminava accompagnato da un bastone, sebbene nulla nel suo incedere suggerisse che le sue gambe avessero qualcosa che non andava.
Marlo, uno dei tenenti del Principe, si avvicinò con un gruppo di altri cinque soldati. I balestrieri tenevano lo strano vagabondo sotto tiro, nonostante fosse evidentemente innocuo. Un garzone fu mandato a chiamare l’Argona, affinché potesse interrogarlo di persona. E Carlo, com’era nel suo dovere, seguì il suo signore.
Per ordine di Alfonso l’uomo fu fatto accomodare vicino a un focolare, gli venne servita una coppa di vino speziato e una ciotola di zuppa appena riscaldata, mentre il giovane Argona cominciava a interrogarlo, mettendosi seduto proprio di fronte a lui.
«Cosa fai da queste parti? Non sai che la Corona è un posto pericoloso di questi tempi?»
«L’ho imparato a mie spese, mio signore.»  Rispose l’uomo, cacciandosi in bocca un cucchiaio di zuppa.
La sua voce era calma e serena, per nulla inquietata dal fatto di trovarsi di fronte a un nobile. Aveva una cascata di capelli ramati e arruffati, proprio come la lunga barba che gli scendeva fino al petto.
«Portavo al pascolo il mio gregge, su’ per le montagne.» Sorrise, guardando Alfonso. «Sapete, è una vecchia tradizione da queste parti. Quando ecco che mi ritrovo circondato da ogni parte da un gruppo di guitti. Hanno preso il mio bestiame, lo giuro, fino all’ultima pecora!»
«E come sei sopravvissuto?» Chiese il Principe, portando una mano a calcarsi il mento.
«Oh, è stato Lucio, il mio cane da pastore: ha azzannato uno dei briganti, guadagnandomi il tempo per la fuga. Ahimè, temo che lo abbiano ucciso quel poveretto… » denegò col capo, come sconsolato. «era un così bravo animale».
“C’è qualcosa che non va’” penso Carlo, ascoltando la storia del pastore. Ciò che lo lasciava dubbioso non era la vicenda in sé: non era raro che mascalzoni d’ogni sorta si divertissero a depredare la gente di passaggio. Ciò che non lo convinceva era il suo aspetto: a una prima occhiata, per com’era trasandato, avrebbe detto che fosse un vecchio sulla settantina. Ma a guardarlo meglio sulla sua pelle non v’era la benché minima traccia di una ruga, né alcuna di quelle macchie che sovvengono con l’età. La sua voce era profonda come quella dei saggi la cui vita sfiora il secolo d’età, ma barba e capelli, per quanto trascurati, avevano ancora il vivo colore della giovinezza. Inoltre il suo corpo era sì asciutto, ma non tremava, non era debole o malfermo, né tantomeno decrepito com’è quello di un anziano.
Uno dei suoi occhi era cieco, ma nell’altro scorgeva il vivido brillio di una non comune intelligenza. Il suo tono, ed era questo l’aspetto che più lo lasciava interdetto, non era quello di uomo che ha paura: troppo calmo per qualcuno che aveva visto la morte in faccia, troppo sereno per un uomo che nel giro di pochi istanti aveva perso tutto ciò che possedeva.
Insomma, Carlo non si fidava. Che forse si trattasse di una trappola o magari di un inganno ordito dal Clan delle Asce?
«Questi guitti di cui parli, avevano degli emblemi?»  Chiese Alfonso, mettendosi a un palmo di naso dal pastore.
«A fatica si possono chiamare così, ma sì, ne avevano: due asce incrociate, disegnate male su drappi più logori e malmessi dei miei, mio signore.» Rispose l’uomo, mettendo da parte il cucchiaio e la ciotola di coccio ormai vuota. Passando a buttar giù consistenti sorsate di vino.
«Da un mese siamo a caccia di questo gruppo di briganti e tagliagole: hanno razziato villaggi, assaltato carovane e ucciso povera gente indifesa. Sono qui con i miei uomini per mettere fine alle loro malefatte una volta per tutte. Dunque dimmi, vecchio, sapresti indicarmi dove erano appostati? Dov’era situato il loro rifugio?»
«Sicuro, mio signore. Conosco ogni anfratto della Corona, sìsì, da quando non ero che un ragazzino.»
«Bene, allora parlane pure con i miei tenenti e abbi cura di non dimenticare alcun dettaglio. Ci sarà utile ogni più piccolo particolare.»
Il pastore rispose con un cenno di assenso e iniziò a descrivere con perizia ogni angolo della Corona. Carlo prese per una spalla il suo Principe, chiedendoli di scambiare una parola in privato. Lontano da orecchie indiscrete. Si distanziarono dal resto degli uomini, facendo attenzione che la voce rimanesse a basso volume.
«Io non mi fido di quello lì.» Sentenziò lo scudiero.
«Perché mai? È un povero vecchio.»  Rispose Alfonso, facendo spallucce.
«Tu credi?» Lo rimbeccò. «Guardalo, potesse colpirmi un fulmine se quella è la faccia di un uomo spaventato.»
«Magari è più coraggioso di quanto pensi.» Lo sfidò il Principe con un ghigno, ma Carlo non aveva voglia di scherzare.
«Sono serio. E se si tratta di una trappola?»
Il viso di Alfonso perse ogni traccia di ilarità e dopo un sospiro esasperato, si portò una mano alla fronte, quasi volesse spremersi qualcosa di sensato fuori dalla testa.
«Non abbiamo comunque alternative migliori. Esistono pochi modi per attraversare una catena di montagne.»
«Mettilo sotto sorveglianza.» Gli suggerì lo scudiero, allargando le braccia. «Che capisca che nel caso si tratti di un’imboscata. noi non saremo gli unici a fare una brutta fine.»
Il Principe non gli pareva convinto: non amava questo genere di “giochetti” e Carlo lo sapeva bene. L’Argona preferiva sempre colpire un uomo, piuttosto che minacciare di colpirlo. Ma alle volte le guerre si giocavano su terreni meno semplici e più insidiosi di quelli di una battaglia. Nonostante tutto alla fine sembrò rassegnarsi, e diede disposizione che il pastore fosse tenuto sotto sorveglianza, che le armi di chi lo vegliava fossero sempre ben in vista, e un paio di minacce, affatto velate, giungessero forti e chiare al suo orecchio.
Andava messo sotto pressione. Ma niente di tutto questo sortì risultati: l’uomo sembrò tanto a suo agio nella prigionia quanto lo era in libertà, non diede segno di aver celato nulla delle verità che sapeva. A quel punto Alfonso non poté che dare disposizioni affinché i suoi uomini si muovessero per la strettoia che si inerpicava attraverso le rocce della Corona, proprio come il pastore gli aveva consigliato.

Nella tenda Carlo agganciò lo scudo al braccio sinistro: una cupola di ferro battuto, rivestita da uno strato di pelliccia e un ulteriore strato di spesso cuoio bollito. Indossò l’elmo privo di celata e si assicurò che l’ascia e la daga fossero ben affilate e pronte a tagliare. Quando nell’accampamento il corno suonò l’adunata, lo sguardo gli cadde su un vecchio tomo che giaceva vicino al suo giaciglio “Storie di guerra, battaglie e altre meraviglie”. Un sorriso malinconico si delineò sul volto dello scudiero: un regalo del suo fratellino. Si avvicinò al libro, la rilegatura in pelle era stata rovinata dai numerosi viaggi in lungo e in largo per Clitalia, ma il titolo in calce si leggeva ancora. Carlo si chinò, e aprì il tomo, sfogliando un paio di pagine: come sempre le lettere tremavano nei suoi occhi. Doveva impiegare tutto il suo impegno, tutta la sua concentrazione perché rimanessero lì dov’erano, e fossero comprensibili alla lettura. Ma le cesellature e le immagini erano belle da guardare, almeno questo. Lo facevano viaggiare con la mente a giorni lontani.
Richiuse il tomo, nascondendolo sotto le coperte. E dopo essersi assicurato che tutto fosse in ordine, si avviò fuori dalla tenda a passo spedito.
Leggere non era mai stata la prima delle sue attitudini né la migliore, ma le storie, sì, quelle gli piacevano. Quando ancora viveva nella Rocca Grigia, c’erano notti in cui chiedeva ad Arturo di raccontargli le parole dei poeti e degli scrittori con la sua voce. Declamandole alla luce del focolare. Arturo sapeva mettere emozione nelle parole, sapeva cambiare le voci dei personaggi dando ad ognuno la sua. Non avesse avuto sangue nobile probabilmente avrebbe fatto l’attore, lo scrittore o qualcosa del genere. E lui? Cosa avrebbe fatto se non fosse stato un Cangramo? Carlo denegò con il capo: probabilmente sarebbe diventato un musicista o un cantastorie, di quelli che campano suonando qui e là per piazze e taverne.
Perché era vero, di lettere non ne capiva molto. Ma la musica, quella gli scorreva dentro.

Raggiunse il drappello riunitosi al limitare del piazzaforte. Alfonso stava dando disposizioni per l’avanzata della colonna. Gli uomini meglio equipaggiati, dotati di un’armatura più o meno completa, avrebbero proceduto innanzi, perché in caso di carica avrebbero potuto reggere un attacco frontale issando gli scudi. Nella retroguardia arcieri e balestrieri, con le loro cotte di maglia e gli elmi ovali incuneati sopra il capo.
Niente cavalli, nessun vessillo: il terreno sarebbe stato impervio, e non dovevano esserci impedimenti nel corso dell’avanzata. Carlo fu posto al fianco del suo Principe: in caso di imboscata avrebbe provveduto a metterlo al sicuro e proteggerlo da qualsivoglia attentato alla sua vita, anche a costa di sacrificare la propria. Era questo il dovere di uno scudiero.
Venne stabilito che una guarnigione di una decina di uomini sarebbe rimasta a sorvegliare l’inconsueto ospite, e avrebbe fornito assistenza nel remoto caso che vi fosse stata una ritirata. Ma chiunque avesse combattuto al servizio del Principe Alfonso, aveva imparato che la resa raramente era una opzione considerata.

La colonna procedette per l’ispido declivio che si propagava dal ventre della montagna. La via era di roccia grigia, irta di spuntoni acuminati ed erba stopposa, di quella che fuoriesce dalle cavità fra un costone e l’altro. Con un terreno così arido nei dintorni, nessuna sorpresa che gli armenti fossero portati attraverso questa pericolosa traversata. Le montagne, per quanto pericolose per animali e uomini, serbavano a più elevate altitudini pascoli e campi erbosi che avrebbero sfamato quattro greggi consistenti per almeno tre stagioni.
Intanto le pareti di roccia si andavano facendo più vicine l’una l’all’altra. La marcia, da quattro uomini l’uno di fianco all’altro, si restrinse e si allungò in una fila indiana di due a due. Nessuno sembrava avere molta voglia di spendersi in chiacchiere, non sarebbero servite ad allentare la tensione. L’aria sembrava essersi fatta più densa, più difficile da respirare e lo spazio ristretto non li aiutava.
Persino Alfonso, solitamente tanto gioviale, aveva assunto un’espressione tesa e guardinga: i suoi occhi azzurri spiccavano spesso verso su’, dove i due costoni erano soltanto a qualche metro dal toccarsi. Ad ogni rumore, ad ogni scalpiccio, ad ogni cader di sassolini, Carlo sentiva un brivido freddo corrergli lungo la schiena, e scuoteva un poco le spalle, sotto le protezioni di cuoio borchiato.
Di fronte a lui c’era il ragazzo dalla stoppa bionda che al bivacco s’era bello che ciuccato. Lo sciocco procedeva a capo nudo nella marcia. “Che inutile spavalderia” commentò Carlo, senza dar voce ai suoi pensieri.
Di lontano, un capriolo-mezzaluna compiva un balzo attraverso una rupe, contando sulla forza poderosa delle sue agili zampe. Il fitto vello sotto il ventre non gli fu d’impedimento, e balzava da una roccia all’altra senza mai cadere in fallo. Arturo gli aveva raccontato che nell’estremo nord c’erano popolazioni che cavalcavano quegli animali, uomini piccoli e tozzi che in sella a quelle bestie potevano travolgere in carica un uomo tre volte la loro statura. Carlo non era sicuro che esistessero, ma certo se esistevano dovevano essere un popolo parecchio ingegnoso…
Sentì qualcosa puntellargli il fianco sinistro, si voltò di scatto verso il suo Principe e notò che lo incideva con una sguardo duro, dritto nelle pupille.
«Ho bisogno di averti qui, resta concentrato.» Disse sottovoce, battendo indice e medio sullo scudo.
Carlo strinse la mano intorno all’impugnatura di corda e replicò con un cenno di assenso, tornando a guardare avanti a sé. Gli occhi li ricaddero nuovamente sul ragazzo con i capelli biondi che aveva davanti. Questo poco prima che un grido giungesse dalla retroguardia e lo schiocco di un quadrello scoccasse verso l’alto, alla sommità dei costoni. Ma era troppo tardi: uno spruzzo rosso e caldo si riversò sul viso di Carlo, mentre un rumore di ossa spezzate seguiva al cranio in frantumi dell’uomo di fronte a lui.
“Poveraccio, non ha avuto il tempo di urlare. Se avesse avuto un elmo, chissà, forse se la sarebbe cavata” pensò, con amarezza, o forse immaginò solo di pensarlo. Perché il primo istinto, quando capì che la colonna era sotto attacco, fu quello di alzare lo scudo per coprire la testa di Alfonso.
Dall’alto dei costoni di roccia, uomini vestiti di tuniche rattoppate, gilet di cuoio e vecchi cenci stavano bersagliando l’intero drappello con ciò che avevano a portata di mano. Il Principe sbraitò ordini, sputando goccioline di saliva dalla bocca spalancata: Avanti! Avanti! Avanti!
Quella che fino ad allora era stata una marcia lenta e silente, si trasformò in una corsa infernale verso la salvezza. Carlo scavalcò il ragazzo che era morto: “pochi centimetri più avanti e il masso buttato giù avrebbe spaccato la mia di testa”, piantandogli l’elmo direttamente all’interno delle cervella.
Le vibrazioni sullo scudo sollevato si ripetevano l’una dopo l’altra, ripercuotendosi contro il braccio: erano sassi per lo più, troppo piccoli per forzare la sua difesa, ma presto ciò che cadeva da lassù si fece più pesante: un’ascia sbeccata che  graffiò appena il cuoio di protezione. E persino un vecchio forcone smangiucchiato in più parti dal rosso della ruggine, che quando calò squarciò in un punto il cuoio, rivelando il castano sbiadito del vello sottostante.

Furono minuti d’inferno, minuti in cui l’aria entrava nella gola a grandi boccate. Carlo si sentiva quasi ubriaco per quanto ossigeno aveva respirato, pieno di quella fastidiosa sensazione d’affanno che si piazza fra il naso e il palato. Il braccio gli doleva, era ormai un quarto d’ora che lo teneva su’ a quel modo, ma non poteva abbassarlo. Doveva resistere, resistere per salvare la vita di Alfonso.

Finalmente la strettoia si allargò in uno spiazzo aperto. Non ci fu bisogno di ordini: la colonna si strinse in un cerchio, mentre dall’alto urla di battaglia seguivano il loro arrivo. Le voci del Clan delle Asce tremavano la terra, balzando da una roccia ad un’altra sino a trasformarsi in un unico ruggente grido di guerra.
Sembravano piovere da ogni direzione, vestiti con abiti malmessi, pelli di animali conciate alla meno peggio, con componenti d’armature in disarmonia fra loro. Sembravano partoriti dal ventre stesso della selvaggia montagna, ma era ad ovest che il loro vessillo sventolava, all’angolo di una spelonca: due asce incrociate, tracciate malamente con pece e sangue sopra un drappo di stoffa grigia e sbrindellata. I pochi sprazzi di vento che riuscivano a insediarsi nella Corona agitavano i lembi del tessuto, facendolo tremare languidamente.
La fanteria pesante fronteggiò la carica del nemico, opponendosi in uno schieramento serrato. Mentre frecce e balestre decimavano gli uomini intenti a scavalcare le rocce. Ma i pochi residui d’ordine si disfecero in fretta, e la battaglia che bagnava di sangue le rocce della Corona, si trasformò ben presto in una mischia furiosa e selvaggia. Carlo stette ben attento a non allontanarsi troppo dal suo Principe, doveva impedire che gli fosse arrecato qualunque danno: era il suo dovere.
Da parte sua Alfonso non credeva di aver bisogno d’aiuto: combatteva seguendo la Via del Colibrì. Si muoveva con grazia e precisione, non arrischiandosi subito ad un attacco ma eludendo quelli del nemico. Uno dei guitti cercò di infilzarlo con un forcone, ma in un passo di danza Alfonso gli scivolò accanto e con la spada disegnò uno squarcio profondo nella sua gola “Tutto nella via del Colibrì è affidato alla prontezza di riflessi”. E non si fermò, “la Via del Colibrì era un movimento continuo, scandito da una musica incalzante”: eluse un colpo di accetta diretto alla sua testa e segnò un taglio nel ventre, da cui gli intestini scivolarono con dolcezza. “Una perpetua scommessa con la morte”. Poi una spallata e la punta si conficcò nel cuore d’un altro guitto, riducendolo poi a brandelli con una secca torsione del polso. “Una danza in cui l’offensiva è rapida, paziente e letale”.
Non vide arrivare il brigante con la clava cosparsa di spuntoni, pronto a mandargli in pezzi la spina dorsale, ma altri occhi vegliavano su di lui: Carlo incassò con lo scudo la mazzata destinata al suo Principe e rispose conficcando la sua ascia in profondità, nel cranio del malcapitato. Il colpo lo fece contorcere per un poco prima di lasciarlo morire. Carlo liberò l’arma con un furioso calcio nel ventre e affiancò il suo signore.
Spalla contro spalla, il Principe e il suo scudiero procedettero come una macchina ben oliata. Come se i loro pensieri si fossero riuniti in un’unica mente, un’unica danza di sangue e acciaio.

«Te l’ho mai raccontata quella storia, del cavaliere e del suo scudiero?»  Chiese Carlo, mentre un rumore di denti spezzati seguiva una sua scudisciata.
«No, non credo.»  Rispose Alfonso, nell’ennesimo dei suoi letali affondi.
«Beh, non penso ci sarà bisogno di raccontarla: la stiamo vivendo.» Disse, sorridendo.
«Come va’ a finire?»
«Che insieme ne ammazzano trenta.»
«Per ora siamo a ventotto.» Contò il Principe, prima che la sua lama attraversasse una bocca spalancata, passandola da parte a parte.« Ventinove.»
«Ho una mezza idea di chi sarà il nostro trentesimo.» Rispose Carlo, voltandosi verso la spelonca, da cui un energumeno faceva il suo ingresso in battaglia.
Raramente a Clitalia s’erano mai visti uomini di una simile altezza. Il suo capo spiccava i due metri. Tutto il suo corpo era un fascio di muscoli rigonfi, segnato di lucide cicatrici e vecchie bruciature incrostate. Girava con il corpo completamente nudo, a parte un cencio di cuoio intorno ai genitali e due logori stivali di pelliccia probabilmente fatti costruire apposta per lui.
I suoi denti erano stati limati e lavorati, uno per uno, fino a renderli affilati come le zanne di un pescecane. Un cordone di pelle secca e cicatrizzata segnava quella che un tempo dovevano essere le sue labbra, labbra inesistenti che mettevano a nudo le gengive di un rosso vivo. Sulla sua fronte era stato marchiato a fuoco un occhio dall’iride vuota, senza pupille.
Fra le sue mani stava stretta una grossa scure, di quelle adoperate per le esecuzioni, la lama era ancora incrostata di sangue rappreso, filamenti di carne e tracce di capelli impiastricciati. La battaglia nello spiazzo della Corona sembrò placarsi al venir fuori di quello strano essere, gli uomini dell’Argona mirarono al gigante con la paura e il disgusto che tremava loro negli occhi, incespicando indietro di qualche passo. Le mani tentate di gettar via le armi e fuggire per mettere in salvo la propria vita.
I briganti del Clan delle Asce, d’altra parte, parvero galvanizzarsi: chi aveva uno scudo batté la propria arma su di esso, chi non ce l’aveva batteva un pugno sul proprio petto. Il coro di voci si riunì in un solo nome che colmò l’aria: Kron! Kron! Kron!
Carlo avvertì il guanto d’arme del suo signore gemere, quando egli strinse la mano intorno alla spada. Lo scudiero guardò alla creatura e dapprima sentì dentro di sé un terrore che non poteva essere descritto: il terrore che prende l’animo quando gli occhi si trovano dinanzi all’ignoto. Ma alla paura seguì qualcosa di diverso: quel Kron un tempo doveva essere stato un uomo, come ce ne sono tanti al mondo, quale oscena volontà poteva trasformare un essere umano in quella cosa? Quali dolori si celavano dietro le bruciature? Le cicatrici? Cosa aveva dovuto patire per diventare ciò che era adesso?
Ma la guerra non lascia spazio alla pietà: il Clan delle Asce era iniziata come una rivolta di schiavi delle miniere di Poro, schiavi che poi avevano coinvolto il popolino. Stando alle cronache, quando un villaggio veniva distrutto agli abitanti maschi erano lasciate due scelte: unirsi al Clan, e comprare così la salvezza della propria famiglia, o opporsi, e veder distrutto quanto di più caro si aveva al mondo. Le Asce si erano lasciate dietro un cumulo di uomini e bambini trucidati, donne violentate e poi sgozzate, e ceneri, ceneri che un tempo erano case, famiglie, villaggi e che adesso respiravano del solo fumo che si levava scuro verso il cielo.

Un quadrello scattò verso la spalla del gigante, ma lui sembrò non farvi caso e proseguì verso il Principe. La battaglia riprese a infuriare e l’Argona raccolse la sfida, mentre Carlo gli teneva dappresso.
Kron si slanciò in un fendente orizzontale, Alfonso si abbassò appena in tempo per salvarsi il collo, e portò a segno un colpo sul polpaccio. La pelle del gigante era più spessa e resistente della comune carne umana, ma comunque sanguinava. Il Principe si arrischiò in un affondo, ma Kron lo bloccò con il manico della scure e gli assestò una botta dritta sul volto, mandandolo a terra. La lama ricurva calò, ma impattò contro il terreno, sollevando una nube di polvere e zolle di terra.
Al gigante fu necessario un minimo sforzo per disincagliare l’arma e mulinarla contro il Principe: non colpì lui, ma la spada, che fu sbalzata lontana dalla sua mano: il tonfo metallico fu tutto ciò che servì perché Carlo entrasse nuovamente in azione. Alfonso aveva un proprio codice di onore, non avrebbe accettato che qualcuno si intromettesse in un duello, neanche il suo scudiero. Ma le leggi dell’onore erano estranee al gigante. Egli non avrebbe esitato a uccidere un uomo disarmato. Lo scudiero afferrò la sua ascia con due mani e la conficcò nella gamba di Kron, lì dove la spada del Principe aveva già indebolito la sua carne.
L’acciaio sceso a fondo, scavò nelle membra, attraverso i muscoli, spostando le ossa, spezzando le giunture. La gamba offesa del gigante non poté che cedere sotto il suo peso e il ginocchio si schiantò sul terreno con un tonfo sordo. Kron non gemette, non si lamentò, cercò soltanto di rialzarsi in piedi, ma Alfonso aveva recuperato la sua spada e lo scontro sarebbe terminato di lì a poco.

Il Clan delle Asce, veduto crollare il suo campione, offrì la propria resa in cambio della vita di quanti ancora non erano già caduti. Lo spiazzo della Corona si riempì del tintinnare del ferro. Delle esultanze degli uomini dell’Argona, felici e sollevati di poter continuare a vivere ancora per un giorno. Ma Alfonso non si unì al sollievo generale, né all’entusiasmo che ne seguì. Il suo sguardo si rivolse duro al suo scudiero, i muscoli del collo rigidi sotto la gorgiera. Carlo rispondeva al suo sguardo col viso ancora impiastricciato del sangue schizzato via al suo colpo d’ascia.
«Mio signore, io…» Cercò di giustificarsi.
«Inginocchiati.» Gli ordinò perentorio, senza più alcuna traccia dell’amicizia che li aveva sempre legati.
Senza spiccicare parola, lo scudiero lasciò che le sue ginocchia tremolanti e provate aderissero al terreno.
Il Principe levò la spada, con la lama incrostata di sangue e viscere. La puntò in direzione del collo del giovane. Appoggiò la punta sulla carne morbida della gola, sfiorandola appena. Prima di tirarla via in un gesto del polso.
«Tutti voi avete visto ciò che il nostro Carlo Cangramo ha fatto quest’oggi…» Esclamò, prendendo a girare intorno allo scudiero inginocchiato.
«Vi ha salvato la vita, mio signore!» Urlò uno dei soldati.
«Puttanate! Questo figlio di una sporca bagascia mi ha strappato una vittoria che doveva essere mia, e mia soltanto. E per quale motivo l’avresti fatto, Carlo? Sentiamo!»
L’allegria dei soldati era durata ben poco, persino i prigionieri osservavano incuriositi la scena.
«L-la vostra vita era in pericolo, mio signore, io-» Protestò Carlo, con le lacrime che già gli bagnavano gli occhi.
«È questo che credevi? È questo che credevi?!» Lo incalzò, con la rabbia che schiumava dalla bocca. «Ti sbagliavi, caro mio, non ero affatto in pericolo!»
«Chiedo perdono mio signore.»  Replicò Carlo, abbassando lo sguardo. Ingoiando ogni protesta come un boccone amaro.
«Pietà, mio signore! Pietà!» Esclamò uno dei suoi tenenti.
«Silenzio, o tu sarai il prossimo.» Gli intimò, con tono che non consentiva risposta. «Come dicevo, hai creduto che il tuo signore fosse in pericolo, insultando la fiducia che ogni scudiero dovrebbe tenere nelle doti del proprio cavaliere. Esiste un’unica punizione per la tua mancanza di lealtà, di discernimento, di disciplina. E che sia di esempio per tutti!» Sollevò la spada.
«Mio signore vi prego!» Protestarono in coro i soldati.
«Per avermi mancato di rispetto, per insubordinazione, per sprezzo dell’autorità. Io, Alfonso Argona, Principe ereditario di Argonia e prossimo sovrano della Costa Orientale. Ti infliggo la pena più dura che possa toccare ad un uomo»  il piatto della lama toccò la spalla destra, Carlo chiuse gli occhi. Il piatto della lama toccò la sua spalla sinistra e Carlo quegli occhi li spalancò. «Ti investo cavaliere del Regno di Clitalia, con tutti gli oneri e gli onori del tuo ruolo. In ogni tua azione perseguirai giustizia. I deboli e gli indifesi saranno il tuo popolo. Non compirai azione che rechi disonore a te o al tuo signore. Ti opporrai al male, in ogni sua forma, fin quando la vita non ti si estingua dentro il petto. Questo è il tuo giuramento?»
«Questo è il mio giuramento.» Confermò lo scudiero, mentre un entusiasmo confuso si faceva strada in ogni centimetro del suo corpo.
Alfonso gli assestò un sonoro ceffone sulla guancia sinistra. Il ragazzo sputò un grumo di sangue e saliva per terra, senza batter ciglio.
«E questo perché te ne ricordi. Alzati, da Cavaliere quale hai giurato di essere!» Gli disse, sollevandolo lui stesso per le spalle.
L’espressione sul volto di Alfonso si disciolse in una risata, mentre la tensione che si era creata andò via via scemando. Carlo tirò un sospiro di sollievo, cacciandosi via un po’ di sangue dalla faccia.
«Ah, figlio di puttana. Io ti devo la vita! Questo qui mi avrebbe tagliato in due.»
«Fosse la prima volta. Facciamo che mi offri una bevuta e siamo alla pari.» Rispose il ragazzo con un ghigno rosso.
«Per il Redivivo, erano anni che non vedevo uno di questi stronzi.» Esclamò, puntellando col piede la carcassa inerte del gigante. «Viene dall’Impero Sasan, nel lontano Est.»
«Era umano » disse Carlo, inquietato nel volgere gli occhi a quell’essere «ma come-?»
«Nessuno lo sa’, molti dicono che siano presi da infanti da una tribù di giganti, altri che siano il frutto di torture e incantesimi. Tutto ciò che è noto è che sono costosi da comprare e sono totalmente incapaci di provare dolore. Ora mi è chiaro come abbia fatto il Clan delle Asce a resistere così lungo.»
«Qualunque uomo sano di mente se la sarebbe data a gambe di fronte a un mostro del genere.» Ammise il cavaliere.
«Già, ma basta cianciare Ser, dobbiamo festeggiare!» Concluse il Principe, rinfoderando la spada e calando una pacca sulla spalla del neo-cavaliere.

Il gruppo si premurò di esplorare il rifugio dei guitti, ma non vi trovò nulla, se non i magri bottini che avevano accumulato nel corso delle loro razzie e scorte di cibo. Durante gli interrogatori, lungo la strada del ritorno, i briganti non seppero dir nulla su un pastore e il suo gregge. Questo portò Alfonso a insospettirsi nei riguardi dell’uomo misterioso che li aveva guidati nella Corona. Avrebbe certamente risposto delle sue menzogne, ma non appena la colonna ritornò al piazzaforte, gli uomini di scorta diedero avviso al loro signore che il vagabondo era sparito.
«Come sparito?» Chiese Alfonso, stupito e innervosito dalla notizia.
«Un attimo prima era lì, nella tenda, io stesso lo tenevo sotto sorveglianza. E poi, in un battito di ciglia, ecco che non c’era più.»
In circostanze normali le guardie sarebbero state punite e redarguite con durezza dal loro signore, ma quello era un giorno di festa. Sebbene il pastore avesse mentito sulla sua storia le sue informazioni si erano, al fine, rivelate essenziali per scovare il Clan delle Asce e mettere fine alle loro scorrerie. Quando la sera scese sul mondo, i fuochi dei bivacchi si levarono alti e i soldati intonarono canzoni e si ubriacarono come mai in vita loro, per quella che sarebbe stata ricordata come la battaglia della Corona.
Carlo, troppo stanco e affaticato per una notte di bagordi, s’era rifugiato nella sua tenda, lavandosi via lo sporco dal corpo, nella tinozza d’acqua calda fatta riempire dai servi. “Una bella novità poter lanciare ordini a destra e a manca, sarà meglio che non mi lasci prendere la mano”.
Terse con cura la pelle, grattò via la polvere e il sangue incrostato che gli riempivano i capelli e chiuse gli occhi, nell’acqua calda che lo avvolgeva. Respirò a fondo: era diventato finalmente un cavaliere. Suo padre sarebbe stato fiero di lui, magari avrebbe sorriso stavolta … era così difficile immaginarsi il solenne Conte Severo Cangramo che sorrideva. Quel pensiero lo divertì, ma uno scalpiccio di passi lo ridestò da quel sogno ad occhi aperti.
Erano passi che conosceva, passi famigliari.
Alfonso Argona si fece largo attraverso i drappi della tenda: il suo corpo asciutto era avvolto da una tunica di lino e i calzoni in morbida stoffa verde abbracciavano le gambe pulsanti di muscoli. Carlo si tirò a sedere nella vasca e si schiarì la voce, senza tuttavia parlare.
«Niente è meglio di un bagno dopo una battaglia, eh? La stanchezza sembra venir via insieme con il sangue e il sudore.»
Il cavaliere rispose con un cenno d’assenso, mentre la sua mente cominciava a correre verso alcune fantasticherie, frenata a stento dalle catene del raziocinio. Alfonso si sfilò la tunica e le braghe, lanciandole malamente in terra. Rimase nudo dinanzi a lui: il corpo magro, con nidi di peluria sule petto e in una striscia per il ventre. Il suo membro era ancora floscio, nel cespuglio crespo del pube. Rimase lì in piedi per qualche istante, prima di infilarsi nella tinozza con un sospiro di sollievo al calore dell’acqua.
Carlo sentì la sua virilità irrigidirsi pian piano, mentre la voce stentava un poco a uscirgli dalla bocca.
«I servi non hanno riempito la tua tinozza?» Chiese Carlo, con un ghigno provocatorio.
«Oh, sì che l’hanno riempita. E l’acqua era calda e avvolgente, cavaliere.» Rispose lui, flettendosi verso di lui.
«E allora perché ti infili nella mia?» Gli chiese, mentre appoggiava le braccia ai margini della tinozza e una mano scivolava verso il su membro, tirandolo con dolcezza su e giù.
«Beh, perché quest’acqua è più calda … più avvolgente.»  Rispose il Principe con un ghigno, e il suo viso si immerse giù, oltre l’acqua opaca.
Mentre la bocca aderiva intorno al pene, Carlo si sentì come preso e risucchiato verso una sensazione fumosa. Le spalle, le ginocchia, ogni giuntura tremava debolmente, mentre il suo respiro arrancava lungo la gola e scoccava rumoroso dalle narici. Il viso di Alfonso riemerse, con le gocce trasparenti che gli scivolavano lungo il naso e le guance magre.
«Cosa direbbe il Conte se sapesse che suo figlio è un sodomita?» Chiese il nobile, inarcando un sopracciglio, divertito. Carlo lo spinse indietro, con lo sguardo fattosi scuro. La bocca tesa in una smorfia di disprezzo.
«Sei un cretino se pensi che si tratti di questo.»  Gli andò incontro, afferrandolo per le guance. «Ho scopato fior fior di puttane, e solo perché mi piaceva il loro corpo.»  Afferrò il membro del Principe, trovandolo rigido fra le dita. « E anche giovinetti inesperti, in lungo e largo per la regione.»  La sua mandò andò su’ e giù, su e giù, con decisione ma senza stringere con troppa forza.« Ma quel che provo per te va’ oltre il tuo corpo, Principe.»
«E di cosa si tratta, allora?» Chiese lui, deglutendo a fatica, con un’espressione di ebete godimento in viso.
«È amore, idiota.»  Disse, baciandolo in un unico, intenso, scambio di lingua.
Alfonso lo spinse indietro, smuovendo l’acqua, cercando di imporsi sui di lui. Ma Carlo lo fermò, premendogli una mano sul petto e tirandoselo di dosso.
«No, non questa volta.»
Alfonso rimase interdetto, ma ben presto la sua aria stupita si mutò in una smorfia di eccitazione. Carlo voltò il Principe di schiena e gli entrò dentro in un colpo secco. Si chinò a baciargli la schiena, iniziò a muovere i fianchi, prima con dolcezza e poi con un po’ più di forza. Prima di accelerare il ritmo, compiva un piccolo moto circolare con il bacino e il Principe stringeva le mani al bordo della tinozza, mordendosi il labbro inferiore e cacciando un sospiro. Continuarono, continuarono per un tempo che pareva non voler finire mai, come loro volevano non finisse mai. Perché l’Amore, se ne ha volontà, può montare catene alla folle corsa del tempo e rallentarla, sino a quando non ritiene d’essersi compiuto appieno.
E così, quando il seme si liberò, seguito da un gemito appena accennato. Carlo si staccò dal suo amato, mentre l’aria gli gonfiava il petto, in prolungati e profondi sussulti. L’acqua si era fatta ormai tiepida, ma il sangue nel suo corpo era tutto il calore di cui necessitava.
Alfonso si levò in piedi, il suo seme premeva ancora per uscire e con esso riempì la bocca del cavaliere, che lo buttò giù di un fiato. Aveva un sapore dolce, mentre scendeva denso per la gola. Avrebbe voluto accoccolarsi con lui, per tutta la notte che sarebbe seguita. Sentire l’odore, il profumo che veniva dal suo petto, e osservare la quiete dei suoi occhi chiusi. Ma non fu così…
dopo essersi asciugati, il Principe fu costretto a lasciare la tenda, salutando il suo amante con un ultimo bacio, intenso ma fin troppo breve per una sera come quella.

Carlo amava, aveva sempre amato. Per lui il corpo non era altro che una forma in cui la bellezza si celava più o meno segreta. A lui stava soltanto di scavare e cercare. E ogni volta era diverso. Ma con il suo Principe non era solo diverso, no, con il suo Principe era anche unico e speciale.
Non sapeva come mai un amore fra due uomini dovesse celarsi segreto, da quanto gli aveva raccontato Arturo gli Elleni potevano amarsi senza distinzione alcuna, in una certa misura lo facevano anche i Rimli prima che i loro molti dei fossero sostituiti dal solo e unico: Redivivo.
Gli faceva male dover nascondere quell’amore, ma non era tanto sciocco da offendersi per questo. Alfonso era il rampollo di una nobile casata, doveva dar vita a una discendenza perché il nome degli Argona non si estinguesse dopo di lui, dopo la morte di suo padre. E certo nessuna donna si sarebbe lasciata maritare a un uomo che era un sodomita, né il Culto avrebbe preso bene quella che considerava come una “perversione”. Tutt’altro, molte voci parlavano di pubbliche fustigazioni per omosessuali ed effeminati, perfino torture e pubbliche esecuzioni in alcuni casi. Carlo era abbastanza sicuro che almeno per quanto riguardava Alfonso, simili minacce non erano all’orizzonte: il suo nome e i suoi titoli lo avrebbero difeso da qualsiasi attacco da parte del Culto. Ma per quanto riguardava lui, beh, non poteva averne certezza. Era abbastanza certo che suo padre l’avrebbe diseredato piuttosto che accettare e difendere un figlio che “reca un tale disonore alla sua famiglia”, pensò, mentre nella sua testa imitava quella voce borbottante che sapeva sempre di insindacabile sentenza.  
   
 
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