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Autore: Adeia Di Elferas    02/12/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ludovico stava ascoltando attonito quello che il suo messo gli stava riferendo. La sceneggiata che Francesco Gonzaga aveva fatto a Venezia aveva qualcosa di assurdo.

Prima aveva cercato di rifiutare le accuse mosse contro di sè addossando ogni colpa a lui e a Galeazzo San Severino. Poi, quando il Doge aveva dato segni di impazienza, aveva accettato di malagrazia il licenziamento e si era vestito a lutto per dimostrare la sua contrarietà. Infine, prima di tornarsene dalla moglie con la coda tra le gambe e indebitato con Venezia che rivoleva i ventimila ducati della condotta versati in anticipo, di cui almeno ottomila erano già stati sperperati dal Gonzaga per comprare il sale per Mantova, aveva addossato la colpa di ogni possibile complotto a Piero Gentile, che era ancora in Francia. Una mossa da vero vigliacco.

“Che faccia tosta...” sbuffò il Duca, battendosi un pugno: “Sarei curioso di vedere la faccia della povera Isabella quando se lo vedrà tornare a casa senza lavoro e senza soldi...”

Il messo fece qualche commento molto vago, indeciso se assecondare il tono di scherno del suo signore. Mentre stava per riprendere il discorso, dalla porta del salone fece capolino Ermes, che andò subito accanto allo zio per riferirgli qualcosa all'orecchio.

Il Moro sgranò gli occhi e fissò il nipote: “Sei sicuro?”

Quello annuì e così il Duca disse a tutti i presenti: “Perdonatemi, ho una questione urgente da...” e lasciò la stanza senza dare altre spiegazioni.

Ermes condusse lo zio fino a una delle stanze di servizio, dove li attendeva un uomo che Ludovico riconobbe subito come Giovanni Sforza, signore di Pesaro.

Indossava abiti dimessi e si guardava attorno nervosamente, come se avesse paura che alle spalle del suo parente vi fosse nascosta qualche guardia vaticana.

“Che ci fate qui?” chiese il Duca, teso.

Ermes li lasciò soli, avendo però cura di restare dietro alla porta socchiusa, potendo quindi sentire tutto.

“Sono qui in incognito. Ho paura che il papa...” cominciò a dire Giovanni, ma poi la sua voce si spense, affranta e terrorizzata.

Il Moro lo riscosse e, comprendendo al volo la gravità della situazione, gli ordinò: “Se vorrete restare qui anche solo un giorno, dovrete abbandonare questa buffonata dell'incognita. Vi ripresenterete domani a palazzo con le insegne di famiglia e tutto il resto. Non voglio che si dica che do ospitalità a fuggiaschi...”

L'altro Sforza, a malincuore, accettò subito e dopo qualche domanda del padrone di casa che voleva sapere che cosa mai lo avesse davvero portato lì, il discorso cadde ineluttabilmente sul matrimonio e sul suo possibile scioglimento.

“Oh, fate tante storie, ma come per lettera vi ostinate a tacere sul vero motivo della vostra fuga da Roma!” sbottò a un certo punto Ludovico, stanco di sentire alludere a 'cose orribili' e 'cose non da cristiani'.

“Sapete, vero – disse allora Giovanni, asciugandosi il sudore dal volto e spostando ripetutamente il peso da un piede all'altro – sapete, dico, che il papa vuole che io sostenga che il matrimonio non è valido perché...”

“Perché non avete consumato, lo sa tutta Italia, ormai.” fece il Moro, quasi annoiato.

“E invece è stato consumato! Eccome! E non solo una volta!” si infervorò il signore di Pesaro.

“Ne siete certo? Perchè ho sentito dire che il papa è pronto a dimostrare l'innocenza della figlia facendola visitare da...” cominciò a dire Ludovico, che vedeva nella rabbiosa autodifesa del parente qualcosa che non quadrava.

“Innocenza?!” sbraitò, ancor più rabbioso Giovanni: “Mia moglie non era innocente nemmeno la prima volta che me l'hanno messa nel letto! E quella serpe di suo fratello lo sapeva benissimo e...”

Lo Sforza di Pesaro agitò il capo, come a togliersi dalla testa qualcosa di estremamente spiacevole, così il Duca, che cominciava a chiedersi se si stesse avvicinando alla verità, circa la fuga da Roma, insistette: “Perché il papa vuole annullare le nozze tra voi e sua figlia?”

“Perché vuole tenersi Lucrecia solo per sé!” esplose finalmente il pesarese: “E così suo fratello Cesare! Il papa vuole sua figlia per tenersela lui, per le sue voglie!”

Ermes, che era sempre con l'orecchio teso, si scompose per la prima volta da tempo immemorabile e, mentre sentiva suo zio e Giovanni Sforza che proseguivano il discorso con voce più bassa e toni ancora molto concitati, si fece il segno della croce e sussurrò: “Il papa! Dio ci scampi...”

 

Caterina stava alla luce della candela, assorta davanti alle parole che Savonarola le aveva scritto in risposta alla sua lettera.

La data della stesura della missiva del domenicano era il 18 giugno. Aveva risposto all'istante. Era strano vedere il ritardo che c'era stato nella consegna.

Anche Giovanni quel giorno aveva ricevuto posta. Si trattava di una lettera di suo fratello Lorenzo, senza dubbio. La Sforza aveva visto il simbolo stampigliato sulla chiusura e non aveva avuto problemi a riconoscere le palle medicee.

Non appena gliel'avevano messa sotto al naso, il fiorentino l'aveva agguantata e se l'era messa nella tasca interna del farsetto.

La moglie era rimasta un po' stupita, se non proprio offesa, nel vedere la rapidità con cui l'aveva sottratta alla sua vista. Era come se Giovanni temesse che lei volesse leggerla.

Con un sospiro un po' rotto, la Contessa strizzò un po' gli occhi e si abbandonò contro lo schienale rigido della sua sedia. Era nelle sua vecchia stanza e aveva voglia di raggiungere il marito in quella accanto, ma voleva farlo attendere ancora un po'.

Non le piaceva essere vendicativa, tanto meno apprezzava il lato di sé che metteva l'orgoglio davanti a tutti, ma quella volta non riusciva a trattenersi. Voleva fargli capire che qualcosa l'aveva infastidita, senza, però, dirgli apertamente che si era trattato del modo in cui aveva nascosto la lettera di Lorenzo.

Immaginava che suo marito avesse qualcosa da nasconderle. Probabilmente, aveva solo paura che suo fratello avesse scritto qualcosa di offensivo in merito a Caterina.

La Tigre capiva anche quello. In fondo, la sua nomina non era certo delle migliori e se Giovanni aveva anche chiesto dei soldi, nella sua ultima missiva a Firenze, era verosimile credere che Lorenzo avesse usato parole poco lusinghiere per descriverla.

Gli occhi verdi della Contessa caddero di nuovo sulle lettere vergate dalla mano nodosa del domenicano.

'Illustrissima et excellentissima Domina honoranda' cominciava la lettera, con un tono così amichevole che all'inizio la Sforza aveva temuto si non essere la vera destinataria di tale messaggio.

La cosa continuava in modo appena più formale, ma la Tigre aveva trovato peculiare il modo di esprimersi del frate e anche ora che si rimetteva a leggere per interno il breve messaggio, si chiedeva quanto ci fosse di recita e quanto di sincero appoggio.

'Desiderando la Signoria Vostra, come la dimostra per suo lettere, avere refugio a Dio et essere da lui adiutata, maxime in questi tempi pericolosi che instano, delli quali non mancharà una lotta di quanto è stato predicto: parmi che la sia ben consigliata, et mossa da Dio, dal qual procede ogni buona ispiratione, e perhò a mettere questo in effecto, conforto quella ad avere buona et vera contritione de li suoi peccati, redimendo quelli cum opere pie, cioè cum fare elemosine a poveri: perchè la elemosina non altrimenti extingue li peccati, che faccia l'acqua el fuocho, et sopra tutto metta ogni cura et solicitudine a ministrare iustitia alti suoi subditi, et con tutto el cuore suo ricorri al clementissimo Dio, pregandolo di continuo che la illumini a far la sua volontà, perchè facendo in questo modo et abstenendosi da li peccati, senza dubio la Signoria Vostra sarà exaudita, et cognoscerà dì per dì meglio quanta sia la divina bonitade; poi se la considerarà la miseria et brevità di questa vita, et che presto bisognerà presentarsi nani ad uno iustissimo Judice dove saranno examinate tutte le opere passate, sono certo che la cercarà mentre che la può acquistarlo facilmente, di farselo propilio, perchè tutto el resto vanità, et così conforto quanto più posso che Vostra Signoria faccia: la qual ringratio della sua buona dispositione verso me, et quando mi parerà tempo, forse che per sua consolatio gli mandare qualcuno dei nostri discipuli et fratelli; al presente non saria opportuno, ma pregarò di continuo Dio per essa: a la quale mi offero et raccomando.'

Caterina strinse le labbra e riappoggiò la lettera alla scrivania. Savonarola le consigliava, in sintesi, di pregare, fare elemosine e amministrare la giustizia in modo equo.

Tutte cose che, seppur con fatica, aveva sempre cercato di fare. Aveva commesso errori gravissimi, negli anni, ma alla fine aveva sempre fatto il possibile per tornare in carreggiata.

Se quello che il frate le aveva detto era vero, allora significava che Dio, per lei, semplicemente non aveva tempo.

“Mandare qualcuno dei nostri discipuli et fratelli...” lesse ad alta voce la Tigre, con un mezzo sorrisetto di scherno: “Ti piacerebbe, corvo.”

Sospirò e richiuse la missiva, ripromettendosi di rispondere, se non altro per ringraziarlo. Se dietro il suo tono apparentemente molto pacato si nascondeva solo della strategia, fingere di esserci cascata avrebbe solo giocato a suo favore. Lasciare tutti nel dubbio circa la sua fedeltà a questa o quella fazione era stata già un'arma vincente in passato, per la Sforza.

Dopo qualche minuto, dato che trovarsi nella sua vecchia stanza cominciava a far riaffiorare ricordi scomodi, la Contessa si risolse a tornare in quella che divideva con il marito.

Lo trovò seduto alla scrivania, in abiti da camera, un sacco di candele accese e un foglio spiegato davanti a sé.

“Mio fratello dice che mi farà avere i soldi appena gli sarà possibile.” disse Giovanni, un po' mesto, mentre la moglie chiudeva la porta.

Caterina fece un cenno con il capo e non disse nulla. Con fare metodico, requisì lo specchio del marito e cominciò a sciogliersi i capelli, controllandone meticolosamente le ciocche bianche, sempre più numerose.

“E c'è dell'altro.” sospirò il Medici, prendendo il foglio che aveva davanti e raggiungendo la moglie che si era messa accanto alla finestra.

La Tigre si trovò la missiva davanti al naso e guardò interrogativa il fiorentino che, con aria tetra, le disse: “Leggi.”

Quell'invito stupì la Sforza. All'improvviso, il rancore che aveva provato fino a poco prima era sparito, ma stava già lasciando spazio a una sensazione non meno spiacevole.

“Scusa se non te l'ho fatta leggere prima, ma avevo paura che Lorenzo...” fece Giovanni, mentre la donna cominciava a passare in rassegna le parole scritte dal Popolano più vecchio: “Però penso che anche tu debba sapere quello che ha scritto. Non si sa mai. Se dovessi restare senza di me, penso che tu debba sapere cosa lui e mia cognata pensano di te.”

La Sforza era quasi a metà messaggio e capiva che cosa intendeva dire il fiorentino. Lorenzo aveva sprecato molte righe per mettere in guardia il fratello su di lei.

Lo invogliava addirittura ad annullare le nozze 'finché si è in tempo' e a tornare presto a Firenze, mettendosi al sicuro, lontano 'da ella che è belva, più che donna'.

“Ho capito...” sussurrò la Contessa, senza riuscire ad arrivare in fondo.

Le invettive del Medici maggiore l'avevano affossata come non mai, soprattutto perché molte delle accuse verso di lei potevano dirsi fondate.

“Perdonalo, lui...” cominciò a dire Giovanni, mettendosi a sedere sul letto e allargando le braccia in segno di sconfitta: “Anzi, non è da perdonare. Sta sbagliando tutto.”

“Non dire così. Tuo fratello non può sapere che...” iniziò a dire la milanese, incartandosi subito con le sue stesse parole.

“È che da mio fratello mi sarei aspettato sostegno, non giudizi facili.” spiegò il Popolano, scuotendo il capo e cercando la moglie con i suoi occhi chiarissimi, quella sera arrossati, come se stesse trattenendo le lacrime: “Lui dovrebbe essere felice per me. A che serve scrivergli quanto ti amo e che sono in paradiso, quando sono con te, se poi non mi crede e pensa che io sia solo uno stupido che si è lasciato ammaliare da una Circe?”

Caterina strinse le labbra e sollevò le spalle: “Prendi la questione a parti invertite. Tu come l'avresti presa? Sai bene che cosa si dice di me. E sai che molte cose sono vere. È comprensibile che tuo fratello non mi voglia come cognata e che abbia paura per te.”

Giovanni agitò una mano in aria e poi, facendole un cenno, le disse: “Finisci di leggerla, comunque. In fondo ci sono notizie che potrebbero interessarti.”

Accigliandosi, la donna riprese la missiva e terminò la lettura. Prima della chiusura, Lorenzo informava il fratello del fatto che Savonarola aveva ricevuto una scomunica papale. Il frate sosteneva che non fosse vero, che Alessandro VI in persona avesse smentito, via lettera. Fatto restava che la bolla ufficiale non era stata smentita in modo legale e che quindi, sotto tutti i punti di vista, Savonarola non era più un uomo di Dio, benché continuasse a predicare in Duomo.

“Questo è il momento di rovesciarlo.” commentò a denti stretti la Sforza: “Il partito che sostiene la tua famiglia deve appigliarsi in tutti i modi a questa scomunica e invocare la pena di morte per eresia.”

“Non sei tu, quella che gli ha scritto per chiedere consigli spirituali?” domandò l'uomo, guardandola di sottecchi.

“Che c'entra... Questa è politica. È con la guerra che si governano gli Stati, non con le confessioni di fede.” lo liquidò la moglie.

“Comunque, che ti ha detto Savonarola? Ho visto la lettera che ti è arrivata...” fece il Medici, cercando di apparire meno interessato di quanto in realtà non fosse.

“Le solite cose da prete.” rispose seccamente la moglie, decidendo che per quella sera era stanca di sentir parlare dei problemi del mondo.

Giovanni comprese che la moglie non aveva alcuna intenzione di dar seguito ulteriore a quella conversazione, così preferì assecondarla e mettersi sotto le coperte assieme a lei.

Dopo qualche ora, svegliandosi di soprassalto all'inizio di un incubo che la stava riportando per l'ennesima volta nelle segrete della rocca, Caterina sentì il bisogno di alzarsi un momento per riprendere fiato.

Per fortuna suo marito non l'aveva sentita ed era andato avanti a dormire come nulla fosse. Non sopportava di risvegliarlo ogni volta.

Gettandosi sulle spalle la vestaglia, la Contessa si mise a vagare in silenzio per la camera, sentendo sotto ai piedi nudi a tratti il freddo pavimento di pietra, a tratti il pesante tappeto.

Solo un paio di candele erano ancora accese, prossime, però, a esaurirsi. Occhieggiando verso il fiorentino, Caterina venne colta da una curiosità improvvisa.

Si era appena resa conto di non aver letto proprio per intero la missiva di Lorenzo. Si era fermata prima dei saluti finali e adesso le sarebbe piaciuto vedere in che modo il fratello maggiore di suo marito si era congedato.

Con delicatezza, recuperò la lettera, rimasta sulla scrivania, e la riaprì.

'Se non altro – aveva concluso Lorenzo – son lieto di sapere che da molti mesi ormai la tua malattia t'ha fatto libero e che da allora sei sempre stato in salute.'

La Tigre si accigliò. Scorrendo fino alla firma del Popolano più vecchio, si domandò perché Giovanni non avesse parlato anche del suo ultimo attacco di gotta, che risaliva a ben meno tempo che non 'parecchi mesi'.

Sollevando appena l'angolo delle labbra, contrariata, la Sforza si voltò ancora verso il suo uomo, profondamente addormentato e pensò: 'tu critichi tuo fratello perché è troppo apprensivo, ma tu, per non farlo preoccupare, gli stai nascondendo una cosa molto importante...'

Involontariamente, la donna cominciò a chiedersi come l'avrebbe presa Lorenzo, se avesse un giorno saputo di un aggravamento improvviso di un fratello che lui, in buonafede, credeva pressoché guarito.

'Probabilmente darebbe la colpa a me.' si disse la Sforza, voltando le spalle a Giovanni e portandosi una mano alle labbra, preoccupata.

“Non mi ero accorto che ti fossi svegliata...” sbadigliò il Medici, rigirandosi tra le coperte e guardando con gli occhi stretti dal sonno la moglie.

Caterina si sforzò di sorridergli e tornò subito accanto a lui: “I soliti incubi. Non riuscivo a riaddormentarmi...”

Giovanni l'accolse tra le sua braccia, tuttavia, quando sembrava in procinto di riaddormentarsi, le chiese: “Perché hai scritto a Savonarola?”

“Te l'ho già detto.” rispose la donna: “Per avere un consiglio spirituale.”

“Questo l'ho capito.” ribatté il fiorentino, ormai del tutto sveglio: “Ma io vorrei sapere perché ti serviva proprio adesso.”

La Leonessa non disse nulla. Sentiva le braccia del marito attorno a sé stringersi un po' di più e i suoi muscoli tendersi appena, come se si aspettasse chissà quale risposta.

Stava per dirgli di lasciar perdere, quando ripensò a quanto lui fosse stato leale, nel farle leggere la lettera di Lorenzo e così confessò: “Perché i sensi di colpa non mi danno tregua. A volte ho paura di non riuscire a sopportarli più.”

Il Medici si sistemò un po', apparentemente colto alla sprovvista da tanta franchezza, tuttavia, dopo essersi schiarito appena la voce, sussurrò: “Non dovresti... Sei stata brutale, questo è vero, ma alla fin fine hai solo messo in pratica le leggi. Hai vendicato il tuo Giacomo seguendo ciò che la legge ti permetteva di...”

“Non è solo per quello.” si sentì in dovere di precisare Caterina: “Io mi sento in colpa per molte altre cose.”

Giovanni non sapeva se fosse il caso di continuare o meno, conoscendo la tendenza a ritrarsi della moglie davanti a certe cose.

I suoi dubbi, però, furono inutili, perchè fu proprio lei ad andare avanti, senza bisogno di essere incoraggiata: “Mi sento in colpa per i miei figli, per tutti e sette. Per Livio, perché non sono riuscita a tenerlo in vita, per Bernardino, che ho sempre tenuto a distanza, e per gli altri, che non sono mai riuscita ad accet...”

La voce di Caterina si spezzò per un momento, durante il quale la donna cercò una mano del marito per stringerla nella propria.

Giovanni aprì le labbra, per dirle che la capiva e che, se voleva, avrebbe cercato di aiutarla come poteva, ma la Contessa aveva ancora altro da dire: “E mi sento in colpa per mia madre, per il modo in cui si è incrinato il nostro rapporto. Per mia sorella Bianca, che ha avuto un matrimonio infelice per colpa mia. Ah, perfino per mio padre mi sento in colpa... Pensa che stupida, che sono. Mi sento in colpa perché è morto prima che potessi riappacificarmi con lui. Come se fossi stata io la causa della nostra distanza...”

Il Popolano stringeva a sé Caterina con forza, le dita intrecciate alle sue e il viso immerso nei suoi capelli, incapace di consolarla in altro modo se non facendole sentire la sua vicinanza.

“E poi mi sento in colpa anche per te.” aggiunse la donna, che aveva deciso di non nascondergli più nulla.

“Perché?” la sollecitò lui, visto che si era azzittita di colpo.

La Contessa si morse il labbro e poi, come se un barbiere le stesse cavando le parole di bocca a una a una come fossero denti, proseguì: “Perché ti ho sposato, anche se...” ma la voce le si spense ancora una volta in gola.

“Anche se ami ancora un morto.” concluse Giovanni, piatto.

Caterina non smentì quella chiusura di frase e così il fiorentino si sentì mancare il fiato nei polmoni per qualche istante. Era difficile, accettare una simile verità, quando gli veniva messa davanti con tanta semplicità.

“Io mi rendo conto che tu sei un uomo mille volte migliore di lui.” bisbigliò dopo un po' la Sforza, avvertendo una strana tensione nell'abbraccio del marito, che ancora non l'aveva lasciata: “Però non posso cancellarlo. Giacomo c'è sempre. È stato troppo, per poterlo dimenticare.”

“Lo so.” soffiò il Medici, con la voce un po' rotta: “Ma mi basta sapere che nella tua anima c'è un po' di posto anche per me.”

Lentamente, Caterina si girò tra le braccia del fiorentino, fino a fronteggiarlo e, nella speranza di alleviare le pene del suo cuore, gli diede un lungo bacio e gli assicurò: “Una vita può bastare, per amare due uomini, anche se molto diversi tra loro.”

 

Infischiandosene di come fosse andata la battaglia – che lui riteneva quella finale – con gli uomini di Savelli, Bartolomeo d'Alviano aveva spostato il campo a Casteltodino e aveva lasciato in comando il suo secondo.

Aveva preso il cavallo più veloce e in mezza giornata era giunto al castello di Bracciano. Aveva sorpreso tutto, con il suo arrivo improvviso, tanto che quando aveva chiesto dove poteva trovare sua moglie, i servi che lo avevano accolto si erano guardati affranti, indecisi se permettergli o meno di correre da Bartolomea.

La signora di Bracciano era stata abbastanza chiara con loro. Non voleva che il marito la vedesse nelle condizioni in cui versava. Faticava a stare sdraiata e quindi ormai passava le sue giornate nel letto, ma seduta contro la testiera, coperta il più possibile, per far fronte al freddo che non la lasciava mai.

Mangiava pochissimo e beveva ancora meno. Dormiva a tratti e per la maggior parte del tempo tossiva – spesso schizzando di sangue la stoffa che usava per coprirsi la bocca – e pativa per il dolore che ormai non aveva nemmeno più una localizzazione precisa.

Bartolomeo, davanti al mutismo dei domestici, aveva temuto il peggio, ma per fortuna uno di loro si era deciso infine a dire: “Nella vostra camera, ma...”

L'uomo non stette a sentire l'avversativa del servo, ma percorse la strada che lo divideva dalla moglie con passo svelto, fino ad arrivare alla porta della stanza chiusa. Fece un profondo respiro ed entrò.

Bartolomea era nella penombra. Il suo respiro era pesante, rumoroso, tanto da sentirsi fin da stare sull'uscio. Si accorse che era arrivato qualcuno, ma non parlò, per timore di cominciare di nuovo a tossire.

Aprì appena gli occhi e quando vide Bartolomeo, ancora in armatura e sporco dal viaggio, per un attimo credette di essere morta e che quello fosse uno strano scherzo di Dio, che voleva farle vedere ancora qualche immagine della sua vita terrena.

Quante volte suo marito era tornato dalla guerra conciato a quel modo ed era subito corso in camera con lei per recuperare il tempo perso? Al solo ricordo, Bartolomea sentì un sorriso affiorare sulle labbra.

“Quanto mi sei mancata...” disse Bartolomeo, avvicinandosi al letto e sedendovisi sopra.

Il peso dell'uomo e dell'armatura avvallò il materasso e proprio quella fisicità fece capire all'Orsini che non era morta e che quello non era nemmeno un sogno.

“Sei qui...” sussurrò, appena udibile, trattenendo un nuovo accesso di tosse.

Bartolomeo fissava il volto della moglie. Gonfio, pallido, quasi irriconoscibile. Ma non gli importava: lui l'amava e ai suoi occhi restava la creatura più straordinaria del mondo.

“Perché sei qui?” chiese la moglie, accigliandosi appena.

Lui le spiegò in fretta della battaglia e della pace che voleva chiedere e poi spiegò anche che non era andato a Roma, come gli aveva suggerito lei e che non aveva intenzione di lasciare più Bracciano.

Bartolomea non ebbe la forza di opporsi. Guardò il marito cavarsi l'armatura un pezzo alla volta e poi fu felice di vederlo mentre si rimetteva accanto a lei, investendola con l'odore del viaggio che ancora si portava addosso.

Restarono fino a sera così, vicini, la mano del condottiero su quella senza forza della sua signora, e dopo cena - un po' di brodo per l'Orsini e appena qualcosa di più per il marito – Bartolomea gli chiese notizie dei Borja.

Dopo averle detto quel che sapeva sulla morte di Juan, Bartolomeo le rimboccò un po' le coperte, dato che l'aveva vista rabbrividire e sussurrò: “Potevamo ucciderli noi. Tutti e due, Juan e Cesare. Ti rendi conto? Tu potevi uccidere Juan, quel giorno, quando l'hai ferito durante l'assedio... E io potevo ammazzare suo fratello Cesare quando me lo sono trovato davanti mentre era a caccia... Se ci fossimo riusciti...”

“Non angustiarti, adesso.” lo fece tacere Bartolomea, che non voleva vedere il marito arrabbiato, né preda dei sensi di colpa: “Quel che è stato, è stato.”

Bartolomeo annuì piano, cogliendo la vera richiesta della sua donna e così, dopo un breve bacio sulla guancia, si arrischiò a stringerle un po' le spalle, sperando di non smuoverle ancora l'aria nei polmoni fino a farla tossire e cambiò decisamente argomento.

Non era un grande oratore, non lo era mai stato, ma con sua moglie riusciva a sciogliersi abbastanza da essere in grado di portare avanti una narrazione per conto proprio.

Così, sperando di farle cosa gradita – e vedendo i suoi occhi acquosi di febbre brillare di riconoscenza fu certo che fosse così – cominciò a dire: “Ti ricordi la prima volta che mi hai lasciato entrare in questa stanza? Io stavo per partire per il fronte assieme a tuo fratello e quando mi hai chiamato dalla finestra... Non sapevo che cosa potessi volere da me, ma poter restare anche solo un attimo assieme a te da solo era tutto quello che volevo...” e per il resto della serata, fino a che Bartolomea non si addormentò, Bartolomeo continuò a farle rivivere i loro primi momenti passati insieme come due innamorati.

 
   
 
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