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Autore: Nemamiah    06/12/2017    1 recensioni
Dal testo:
Verity sorrise e rispose: ‹‹Io invece credo che ci sia sempre un motivo per il modo in cui si sceglie di agire, indipendentemente dall’essere buoni o cattivi.››
‹‹È un altro modo di vedere la vita, ma penso porti alla sofferenza. Chiunque può tradirti, fingere di essere in un modo e rivelarsi l’opposto. È necessario classificare le persone e scegliere chi non far avvicinare per essere felici.››
‹‹Anche la sofferenza può condurre alla felicità, non è sempre negativa.››
[...]
‹‹Forse è solo questione di scegliere quale rischio correre quando si conosce qualcuno, se tenerlo lontano dal tuo cuore o donarglielo anche se potrebbe distruggerlo, sapendo che significa concedergli la tua fiducia, saltare nel vuoto e sperare che ti prenda prima che tocchi il suolo.››
‹‹Un po’ come l’amore.››
‹‹No. L’amore è saltare nel vuoto e sapere che non toccherai il suolo perché qualcuno ti prenderà prima.››
[...]
‹‹Il problema è questo: fare la cosa giusta non è sinonimo di rendere tutti felici.››
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Sovrannaturale
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nero come il bianco - Raccolta'
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Angolo dell’autrice

Buongiorno a tutti, come state? 

Vi chiedo scusa se aggiorno solo oggi, so di essere in ritardo di una settimana. Quella appena passata è stata densa di impegni. Sono molto felice di dire che, finalmente, la trama inizia ad avanzare con il primo, grande momento. Spero che vi piaccia!

Un grazie enorme alle due persone che mi hanno lasciato il loro parere, siete stati meravigliosi. Spero che i lettori silenziosi abbiano voglia di lasciarmi un parere, in caso contrario spero solamente che vi godiate la storia.

Un saluto a tutti!

Nemamiah

 

 

 

 

Per alcune settimane ogni momento fu per Verity pieno di gioia e allegria: i pensieri tristi e i dubbi scivolarono nella nebbia più fitta e rimasero invisibili a lungo.

Continuò a vedersi con Victor quasi ogni giorno, osservandolo perdere via via imbarazzo e timidezza. Si interessava alle sue esperienze, curiosando tra i ricordi di vecchie gite e lezioni memorabili, divertendosi a coccolarla e ad ascoltarla mentre raccontava. L’unico dispiacere che entrambi condividevano era la mancanza di Eleonore: non erano riusciti a coinvolgerla nella loro relazione. Verity non aveva neanche tentato in realtà, mentre Victor aveva provato a persuaderla ad essere più partecipe ma aveva fallito senza ombra di dubbio.

Eppure Verity si sentiva felice anche con un genitore solo anzi, per un po’ di tempo sentì di non avere bisogno di null’altro per vivere appieno la sua vita, relegando lontano l’essere stata costretta ad abbandonare gli studi per tornare in quella casa vuota. Un giorno poi si chiese come stesse Scar e dove si trovasse in quel momento.

Non aveva più avuto sue notizie dalla fine del ballo, da quando lo aveva visto eliminare tutti i suono dal mondo e tornare normale in pochi secondi.

Un sera, distendendosi sul letto, affondò la testa nel cuscino, sbuffando: non era possibile sparire a quel modo. Nessuna persona, se di persona si trattava, poteva esistere per una sera e scomparire completamente dalla circolazione, pensava, soprattutto nell’ambiente scolastico dove si sapeva sempre ogni dettaglio della vita di tutti. Ci pensò sopra per parecchie sere dopo quella, sprecando il tempo prima di spegnere le luci con domande senza risposta e congetture prive di logica.

Anche la sera del sogno stava riflettendo: si addormentò prima di terminare anche un solo ragionamento. Fu un sonno senza incubi, senza il volto di Lucifero a popolarlo rendendo quasi reale il sogno precedente, ma risuonante di frasi per lei incomprensibili.

 

‹‹Io penso che dobbiamo imporre più regole… Non è possibile che non ci ascoltino. Dobbiamo intervenire e non posso farlo da sola!››

Un’altra voce, più squillante, replicò: ‹‹Ma sei tu che controlli l’Inferno. Lo conosci meglio di chiunque altro…››

‹‹State zitte entrambe! Mary, secondo te?››

‹‹Nulla, si aspetta. Senza la terza guardiana è difficile anche per me capire cosa sia il caso di fare e cosa no.››

‹‹Ma se sei tu la guardiana!››

 

La conversazione si interruppe in quel punto per Verity, lasciandola confusa e spaventata al risveglio; in un luogo sconosciuto il dialogo continuava.

 

‹‹Non sono più la custode di Eteria da una ventina d’anni carissime anzi, non ne ho nemmeno più i poteri. Sono un banale, comune angelo… Con tutto il rispetto possibile per i banali, comuni angeli del Paradiso.››

Un angelo dalle ali simili alla tavolozza di un pittore, tanto erano colorate, sgranò gli occhi e boccheggiò per lo stupore prima di rispondere: ‹‹Ma non esistono angeli di nome Caliel! E non posso credere che lui sia nel giusto… Siamo senza guardiana e basta.››

‹‹Hariel! Io non ero un angelo quando diventai guardiana, non lo fui per molti anni e cara, lui ha un nome, è Lucifero, e sarebbe bello se tu lo usassi.››

Un altro angelo, più tranquillo del primo, con i capelli neri prese la parola: ‹‹Potrebbe allora essere umana?››

‹‹Senza dubbio… Care custodi, e tu in particolare Lelahel, vi decidete a svegliarvi? Scar ne ha percepito l’aura appena questa si è fatta abbastanza forte, perché voi no?››

‹‹Io non sono brava a sentire le aure sulla Terra, sono troppe e così simili tra loro che si confondono›› disse Hariel.

Lelahel intanto fissava il bosco intorno alla radura, nel zona ombrosa e nascosta, certa che Lucifero fosse lì ad ascoltarle, magari anche sorridendo soddisfatto. Certo era strano che fosse umana, ma forse, considerando tutto, nemmeno poi così tanto. Propose di chiedere a Scar, ma appena si avvicinò questo rivolse loro un’espressione truce.

‹‹Lascia perdere Scar, mia cara. Da quando ha scoperto che Lucifero le ha parlato, è di quell’umore tetro e intrattabile.››

I due angeli avrebbero volentieri replicato, ma l’arrivo di un angioletto con le ali candide e uno sbuffo di neve sul naso fece loro rinunciare. Si sedette sull’erba, lasciando intorno a sé un brina leggera e salutò la compagnia con un sorriso cordiale: ‹‹Michele mi dice di richiamare la custode dell’Inferno e di ricordarle che dovrebbe controllare i dannati e non chiacchierare qui... E che i dannati stanno torturando alcuni Nephilim e vanno fermati.››

Lelahel replicò che anche Lucifero sarebbe stato capace di porre fine alla tortura, ma seguì lo stesso l’angioletto, facendo così terminare la conversazione.

 

Verity si alzò di soprassalto, buttando le coperte da un lato del letto e respirando affannosamente. Non bastava sognare che Lucifero le parlasse, doveva anche sentire voci sconosciute nella sua testa Camminò a piedi nudi sul pavimento gelido e aprì la porta della camera, passandosi contemporaneamente una mano tra i capelli per scostarli dal viso. Per poco non ruzzolò per tutta la scalinata, mancò solo alcuni gradini. Tornò in stanza e premette più volte l’interruttore, senza alcun risultato.

“Non c’è nessuno in casa e non c’è la luce… Perché quando serve la magia non c’è mai‽”

Cercò nei cassetti e nell’armadio una torcia per vedere qualcosa, ma si accontentò di una candela e un paio di fiammiferi per accenderla. Scese di nuovo le scale con le mani tremanti, la fiammella della candela illuminava debolmente i gradini creando ombre sinistre in ogni angolo. Provò altri interruttori, ma nessuno sembrava funzionare. Era strano…

Avrebbe dovuto cavarsela da sola, ma in fondo, si disse, era solo un po’ di buio. E allora… Cos’erano quel grattare leggero e quei mugolii bassi che provenivano dalla cucina? Forse il suo cane?

La luce della candela illuminava appena la porta della cucina e la cera le gocciolava bollente sulle dita, doveva per forza entrare lì dentro per trovare qualcosa su cui posarla, non avrebbe resistito molto al calore. Si accostò alla porta e origliò. Quel rumore proveniva davvero dall’interno. Ebbe per un secondo la tentazione di chiamare il suo cane ad alta voce, per assicurarsi che, ovviamente, non ci fosse nulla da temere. Fu solo una tentazione perché quando si rese conto che le stava leccando la mano, sentì il cuore fare una capriola nel costato e salire fino in gola, bloccandosi.

Fissò Kai con gli occhi spalancati dalla paura e mosse appena la mano libera, poggiandosi l’indice sulle labbra nel chiaro segno di non fare alcun rumore. Prese un respiro profondo, stringendo la presa delle dita sulla candela, e dopo aver contato fino a tre entrò all’improvviso.

Se non lo avesse visto con i suoi occhi, non avrebbe mai creduto al racconto dell’esistenza di un essere simile. Sull’isola di marmo al centro della cucina era seduta una piccola creatura con due ali minuscole che uscivano dalla schiena, rosso porpora, con i bordi frastagliati e artigli arcuati e affilati.  Appena si accorse di Verity, si alzò. Aveva il corpo acerbo di una ragazzina, il viso ancora tondo circondato da una criniera arruffata di capelli color cenere della stessa tonalità degli occhi in cui si rifletteva la fiamma. Un lampo di crudeltà li attraversò. Si pulì le mani dalle briciole nella canotta nera strappata e nei pantaloni.

Scese con un piccolo saltello e la fissò curiosa, analizzandola come se potesse vedere tutto di lei con una sola attenta occhiata. Piegava la testa a destra, a sinistra, sovrappensiero, e sorrideva maligna mettendo in mostra i canini brillanti.

‹‹La mia preda è venuta da me… Il mio signore sarà felice di sapere che ti ho eliminata tanto facilmente. Non muoverti, non soffrirai.››

La candela scivolò dalla mano di Verity, spegnendosi, mentre lei correva fuori dalla cucina e inciampava nel tappeto del corridoio. Nello stesso momento la diavoletta le saltava addosso, facendole sbattere la nuca contro lo spigolo di uno dei mobili in legno. Si azzuffarono, una cercando di liberarsi, l’altra provando a catturarla. La ragazza demoniaca riuscì a sussurrare alcune parole in una lingua sconosciuta e ammaliante nell’orecchio di Verity, che un secondo dopo si ritrovò bloccata contro il muro, tenuta da una forza invisibile per il collo.

‹‹Dimenati pure, presto non riuscirai nemmeno più a respirare.››

Creò una sfera concentrata di energia nel palmo della piccola mano e la scagliò nella pancia di Verity, che urlando per il dolore si piegò su se stessa, aumentando il senso di soffocamento. Fu solo il primo di una serie di attacchi che lasciarono Verity esausta e senza fiato: ad ogni colpo emetteva un sospiro sempre più sottile, un gemito sempre più flebile. Il petto era scosso da singhiozzi sempre più forti per immettere aria nel corpo quando la stretta mortale cessò.

Riuscì, a fatica, ad alzare la testa quel tanto che bastava a vedere cosa fosse successo.

Il grosso cane peloso, che era scappato a nascondersi quando aveva aperto la porta, era in quel momento seduto sopra la demone, scodinzolando a destra e a sinistra, sbattendole la coda sulla sua faccia. Guardò a distanza, respirando profondamente e a lungo. Kai si girò e iniziò a leccarle il viso e il collo mentre lei si dimenava, cercando di spostarlo. Tremò sempre più forte, usando tutta la forza bruta di cui disponeva, ma alla fine scoppiò in una risata rauca.

‹‹Smettila animale!›› Urlò tra una risata e l’altra ‹‹Lasciami andare, alzati!››

Anche Verity rise debolmente e strisciando cercò di avvicinarsi. Sfiorò con la punta delle dita la mano della diavoletta e questa si immobilizzò, rigida come una statua di ghiaccio. Voltò la testa meccanicamente e la fissò negli occhi. Un’infinità di emozioni li attraversavano, tali da dare a Verity la sensazione di barcollare dal cornicione dell’ultimo piano di un grattacielo. C’erano felicità e rimorso che si fondevano tra di loro, risentimento e gratitudine bruciavano nella cenere delle iridi: sembravano gli occhi di un cieco che vedesse il mare blu e la natura rigogliosa di un bosco per la prima volta, allo stesso modo di chi dopo anni di oscurità finalmente tornava alla luce e alla vita, alla pace. La diavoletta le prese la mano, stringendola appena, come se fosse stata senza forze, e Verity si lasciò accarezzare, ipnotizzata dallo sguardo calmo e agitato al tempo stesso.

‹‹Si sbaglia… Non posso credere che si sia sbagliato per così tanti secoli.››

‹‹C-cosa? Chi?››

‹‹Lui ha paura di te, crede che lo imprigionerai di nuovo e invece tu… Tu mi fai stare bene, mi fai sentire in armonia con me stessa e tutto il creato. Tu sei Amore e nemmeno te ne rendi conto... Solo Lucifero ti ha vista per quello che sei.››

La diavoletta sorrideva, parlava lentamente scandendo le parole, scegliendole con cura. Teneva la mano di Verity stretta nella sua e continuava a fissarla come per rassicurarla, come per assicurarle che capiva perfettamente che le sue parole non avevano senso per la ragazza.

‹‹Lui ti aspetta da millenni: non lasciarlo solo.››

Una lacrima rotolò sulla guancia di Verity e le cadde sulla mano, incontrando le dita della diavoletta: in quel punto il corpo cominciò a sbriciolarsi. In pochi secondi la carne si trasformò in cenere e scomparve con un inquietante bagliore.

 

La reazione di Dakota fu più che comprensibile, ritenne Verity, una volta finito il racconto: occhi spalancati, bocca asciutta, respiro a scatti e totale incapacità di articolare un pensiero razionale o di proferire parola per qualche minuto. Le notizie più assurde, le avventure più spaventose e terribili fanno sempre un effetto strano su chi le ascolta, se vengono raccontate con calma e senza farsi prendere dall’ansia di dire tutto subito. Diventano come fotografie di una storia dell’orrore, non lasciano niente sul momento ma bastano pochi secondi per riconoscere e riconsiderare i particolari agghiaccianti. E lei di particolari del genere ne aveva abbastanza.

Fiduciosa nell’amica l’aveva chiamata: aveva bisogno di aiuto e cure e non poteva pensare che sua madre o, peggio, suo padre potessero trovarla riversa a terra in quelle condizioni. Dakota l’aveva guarita ma aveva anche preteso una spiegazione più credibile di un banale “Sono caduta per tutte le rampe di scale della casa fino al piano terra”.

‹‹Quindi, tu mi stai dicendo che una diavoletta si è introdotta a casa tua, ha cercato di ucciderti, sei sopravvissuta per puro miracolo, si è pentita e l’hai trasformata in polvere?››

‹‹Direi di sì, Dakota.››

‹‹Verity, sarò sincera e non ti giudicherò, quali droghe hai provato? Non esistono, non possono accadere cose del genere e tu… Tu sei senza magia, perché attaccare te?››

Dakota camminava avanti e indietro per la sala, agitando le mani: non riusciva a parlare stando ferma né a controllare il volume della voce che aumentava di parola in parola. La guardò negli occhi: ‹‹Ho dubbi sulla tua lucidità, tanti, ma non mi hai mai mentito prima e io mi fido di te, ciecamente. Quindi mi sto sforzando di crederti, ma spero davvero che non ci sia altro, non so se riuscirei a sopportarlo.››

Verity l’abbracciò goffamente, le braccia e le spalle doloranti nonostante le cure. Il silenzio della ragazza stimolò le riflessioni di Dakota, che collegò tutti i suoi dubbi: ‹‹Non dirmelo, non dirmelo! Non posso credere che ci sia davvero altro!››

Verity coprì le mani con le maniche della maglia, arrossendo a quell’accusa che sapeva essere vera e accennò con un sussurro alla conversazione avuta con Lucifero in sogno. Dakota respirava profondamente, ma gli occhi scagliavano fulmini e la ragazza non riuscì a trattenere la rabbia. Urlò, furiosa come forse poche volte era stata. Le aveva deliberatamente nascosto ogni cosa, ogni stranezza accadutale solo perché aveva paura che l’avrebbe scambiata per una pazza visionaria. Avrebbe dovuto sapere che i sogni, le visioni e le voci non erano la normalità tra i maghi e che rappresentavano una preoccupante attività che da tenere sotto controllo. Non le aveva confidato nulla delle sue ansie e indecisioni quando invece le avrebbe accolte, come aveva fatto poco tempo prima con la “finta caduta dalle scale” e avrebbe cercato di aiutarla. Erano amiche da anni, si conoscevano meglio di chiunque altro e forse avrebbe potuto immaginare che le stesse accadendo qualcosa di strano e particolare, ma mai l’avrebbe forzata a rivelarlo. Avrebbe aspettato i suoi tempi se solo le avesse detto, almeno, di avere dei problemi. Avevano vissuto insieme ogni genere di esperienza tra dolori, speranze, allegrie, e poi i pianti, lo studio, le risate, le porte chiuse contro cui si erano scontrate e quelle che avevano aperto e spalancato insieme. Erano cresciute insieme; si erano corrette a vicenda i difetti e lodati i pregi, confessandosi tutte le passioni e gli hobby, anche quelli più assurdi e bizzarri che le facevano vergognare, e si erano sempre accettate; avevano litigato altre volte per questioni stupide e infantili ma mai, mai, si erano mentite. Dakota credeva fermamente che il loro legame, il filo che avevano tessuto, fosse più resistente del diamante e non effimero come il fumo del carbone.

‹‹Me ne vado. Non ti ripresentare fino a che non avrai visto quanto sei falsa e ipocrita, Verity! Non avremo mai più nulla da condividere fino a quel giorno.››

 

Costruire qualcosa con le proprie mani è sempre difficile. Un lampadario di cristallo, creato da un singolo artigiano, rappresenta un esempio di procedimento lungo e complesso. Si deve creare un centro che regga il peso, che sia solido ma piacevole alla vista; lavorare i bracci affinché siano eleganti e sembrino leggeri e slanciati; inventare un intreccio dove verranno inserite le sfere di cristallo più piccole che riflettano la luce omogeneamente; posizionare le gocce e le sfere più grandi, pendenti, per ottenere la migliore illuminazione possibile. Poi deve essere mantenuto: è necessario lucidarlo spesso perché altrimenti la polvere coprirebbe gli arcobaleni e la rifrazione sarebbe come sporca, contaminata, corrotta. Eppure basta un filo allentato, un punto fissato male, un colpo accidentale e il lampadario precipita e con lui anche la bellezza, la luce, la soddisfazione.

Anche le amicizie possono incrinarsi e perdersi e precipitare. Si dice che sia raro, che gli amici sinceri non si allontanino mai realmente e si portino via una minuscola parte del nostro cuore che nemmeno sappiamo di possedere e quando tornino la restituiscano. È vero, l’amicizia non termina mai. Per quanti torti possiamo aver subito, per quante delusioni possiamo aver sopportato, per quante manchevolezze possiamo aver ignorato, quella fiammella leggera che ci rende caro chi sta andando via continua ad ardere. Niente sostituisce la vertigine, la sensazione dell’oblio oscuro della solitudine che avevamo scordato in compagnia e che si torna a sentire scorrere nelle vene; l’insicurezza mischiata con l’orgoglio, la rabbia mista alla vergogna. Quando l’amico più caro che abbiamo si allontana, nulla rimpiazza il vuoto, nemmeno la certezza che un giorno tornerà per restituirci il cuore che ci ha rubato.

Verity guardava Dakota mentre attraversava il giardino, inciampando sulle sporgenze del terreno, e sentiva una corda tendersi tra le loro anime, diventandosi sempre più tesa e dolorosa man mano che l’amica si allontanava. Si sorprese nel non percepire il suono filaccioso della lacerazione e sospirò di sollievo, già così era abbastanza doloroso, ma non riusciva a frenare le lacrime che scendevano copiose dalle guance e si infilavano nel collo della maglia.

Per alcuni le tempeste più spaventose sono interne, coinvolgono il cuore e la mente; catturano lo stomaco, lo chiudono, mentre il cervello interrompe il pensiero e i singhiozzi si susseguono togliendo il respiro.

Si spostò dalla finestra e si raggomitolò sulla poltrona, poggiando la testa sulle ginocchia e cingendole poi con le braccia. Si rimproverava di non aver detto nulla, di non aver chiesto aiuto quando era ancora in tempo, quando avrebbe potuto addirittura ottenere delle risposte soddisfacenti. Invece era di nuovo sola con le sue domande. Certo, poteva confidarsi con il padre o con il nonno, ma non voleva coinvolgere qualcun altro in quell’assurda esperienza né essere giudicata a causa di essa. Non voleva altro che rimpiangere i propri errori e consumarsi nel rimorso fino a che tutte le lacrime non fossero evaporate. Per una volta fu contenta di essere a casa sola, senza nessuno che potesse consolarla o condividere la sua sofferenza: quel dolore era solo suo e nessun altro avrebbe dovuto conoscerlo. Si dondolò avanti e indietro, cullandosi con quel lento ma ritmato ondeggiare, e si alzò solo quando si sentì abbastanza calma da non scoppiare di nuovo in lacrime, tornando nella sua stanza. Sorrise solo per un secondo quando sentì il primo tuono e una pioggia scrosciante cominciò a cadere: il cielo, senza saperlo, era partecipe delle sue angosce.

 

Dakota trascorse il resto della giornata in silenzio, arrabbiata con Verity e con il mondo, ma la mattina seguente si svegliò con la testa pesante e un sapore amaro in bocca, il gusto delle parole sbagliate e ingiuste, e decise di rimanere a letto, facendo preoccupare suo padre per la sua salute.

Si sentiva in colpa e un’amarezza di cui non riusciva a percepire la profondità le appesantiva il cuore ripensando alla conversazione con l’amica. A mente lucida riconosceva di aver commesso un errore che non sapeva come riparare.

Verity era sempre stata restia a confidarsi e a condividere, anzi era molto introversa. Preferiva chiudere i sentimenti a chiave nel cuore e nella mente per metabolizzarli, lentamente ma dolorosamente, da sola e solo qualche volta era riuscita a cogliere una sfumatura delle sue emozioni nei dipinti e nei quadri. Certo piangeva, e anche tanto, ma, pur essendo lacrime sincere, raramente erano quelle che aveva bisogno di versare per liberarsi. Però rimaneva lo stesso la persona che la conosceva meglio di chiunque altro e anche se si era sentita delusa, tradita, ferita nel profondo, non avrebbe dovuto accusarla né allontanarsi da lei con una frase tanto definitiva quanto pronunciata d’istinto. Doveva trovare un modo per riconciliarsi, ma nessuna idea le pareva adatta. Verity non avrebbe mai accettato di rivederla e sarebbe scappata via come un uccellino se l’avesse seguita e fermata per scusarsi.

Nei giorni successivi, a scuola, non riuscì a prestare attenzione alle lezioni. Scrisse idee e le cancellò prima di terminarle, scartandole: nessuna era abbastanza efficace o soddisfacente o attuabile. Era sempre sovrappensiero, tanto che i suoi compagni iniziarono a preoccuparsi, chiedendole spesso se stesse bene o fosse invece ammalata. Camminando per i corridoi fissava insistentemente il foglio su cui scriveva, pensierosa, o controllava se c’erano messaggi o chiamate che non aveva sentito sul telefono. Non guardava neanche dove camminasse e senza accorgersene inciampò nei piedi di Scar, che dormiva sempre nel cortile interno e che era, stranamente, ricomparso. Alzandosi lo guardò stralunata e pensò che lui potesse essere l’idea migliore di tutte: nell’arco di pochi secondi pianificò qualcosa da cui Verity non sarebbe sicuramente potuta scappare.

‹‹Scar, ciao, sei libero sabato pomeriggio?››

‹‹Scusa, ci conosciamo?››

Il tono di lui era infastidito e scortese ma, in fondo, a chi piace essere svegliato da qualcuno che inciampa nei tuoi piedi e che nemmeno conosci?

Dakota lo prese per un braccio, tirandolo e obbligandolo ad alzarsi. Gli diede qualche breve informazione su chi fosse e sul perché dovesse aiutarla. Gli raccontò a grandi linee cosa fosse accaduto, tralasciando i dettagli, e gli spiegò la sua improvvisa idea.

‹‹È un’idea stupida, non funzionerà mai…››

‹‹Cosa ti importa che sia stupida o meno? Deve solo funzionare e tu non dovrai faticare così tanto, devi solo portarla fuori.››

Scar sbuffò, ma alla fine acconsentì ad aiutarla, più che altro per non sentirla parlare ancora. Dakota lo abbracciò e si allontanò di corsa, lasciando cadere dalle mani i fogli delle idee scartate e tirando fuori il telefono per organizzare ogni cosa. Scar però li raccolse e li lesse attento: erano tutte belle proposte, anche più belle di quella che aveva accettato. Ognuna di loro avrebbe avuto la stessa possibilità di successo e forse più di quell’ultima, ma era interessante per lui vedere come gli umani cercassero sempre di ricostruire ciò che essi stessi distruggevano. Avevano una perseveranza nelle relazioni che non riusciva a comprendere, che per lungo tempo aveva creduto non potesse esistere. Mise i fogli in una delle tasche posteriori dei pantaloni e andò a cercare Verity in biblioteca, certo che si fosse nascosta lì.

Non era particolarmente amante delle uscite anzi, da quando era sulla Terra non era mai uscito con nessuno, ma sarebbe potuta rivelarsi una buona occasione per studiare meglio la ragazza ed essere certo che fosse proprio lei. La trovò nel punto più isolato, seduta sul davanzale della finestra, con la testa poggiata sul vetro freddo: leggeva un libro sottile, con la copertina scura, ed era tanto concentrata che non si sarebbe accorta di lui se non le avesse posato una mano sulla spalla mentre la salutava.

‹‹Lasciami sola. Ho litigato con un’amica e non voglio parlare con te, che riappari all’improvviso senza nemmeno avere la decenza di scusarti.››

‹‹Non avresti voglia di sfogarti con me? ››

Verity mise un dito in mezzo al libro come segno e lo chiuse, voltandosi poi dalla sua parte: ‹‹Preferirei delle scuse prima…››

‹‹Non volevo scomparire, ma dovevo farlo per ragioni che non posso spiegarti. Scusami. Ora… Come mai avete litigato?››

Verity accennò una risata, trattenendosi: ‹‹Le tue scuse sono pessime, ma le accetto lo stesso… Non le ho raccontato alcuni fatti strani che mi sono accaduti e lei l’ha presa come falsità e mancanza di fiducia verso di lei.››

‹‹È così?››

‹‹Assolutamente no!›› si mise una mano sulla bocca, consapevole di aver alzato troppo la voce. ‹‹Ma allo stesso tempo ho paura di confidare tutto perché temo il giudizio degli altri. Non dovrei, lo so, ma non riesco ad evitarlo e allora sto zitta e mi tengo ogni cosa dentro, cosicché nessuno si preoccupi per me.››

Scar, in piedi, la fissava con interesse, chiedendosi come facesse un essere tanto piccolo a contenere così tanta insicurezza. Era incredibile ai suoi occhi come, nonostante la paura e la bassa autostima, andasse avanti con la vita, affrontandola ogni giorno, senza affogare.

“Forse, un giorno, sarà un buon angelo.”

Non avrebbe dovuto pensarci, non avrebbe dovuto sperare o commentare, ma era sceso lì espressamente per controllarla e capire se davvero poteva sostituire Mary. Ogni tanto capitava che la paragonasse a qualcuno che conosceva, ma la trovava sempre migliore. Guidò i suoi pensieri sulla missione che si era prefissato: non doveva lasciarsi distrarre.

‹‹Devi rilassarti e scordarti per un giorno della situazione›› disse ‹‹così ti sentirai meglio. Perché non vieni con me all’inaugurazione del parco dei divertimenti?››

Verity si stupì dell’invito ma accettò, quasi convinta che avesse davvero bisogno di svagarsi come diceva lui. Quel giorno si sarebbe divertita e avrebbe sommerso Scar di domande camminando da un’attrazione all’altra. Lo ringraziò e riprese a leggere.

 

Ritornò a casa solo dopo essersi accordata con Scar per l’orario e si sorprese nel trovare le luci accese e la porta aperta. Sperò che sua madre non stesse tentando uno dei suoi esperimenti culinari, perché erano sempre finiti male. Certe volte si era addirittura chiesta perché una persona dotata di magia dovesse cucinare manualmente, ma probabilmente doveva essere un’abilità di cui vantarsi con le amiche che non ne erano in grado. Poi aveva smesso di porsi domande, vedendo che, nonostante tutti i tentativi falliti, non aveva imparato nulla. In realtà, a parte suonare il piano, Eleonore non era capace di fare altro.

Verity aprì lentamente la porta della cucina, per non fare rumore, e sbirciando riconobbe sua madre che cercava di impastare qualcosa. La richiuse e camminò in punta di piedi fino alla soffitta, dove si concesse un sospiro di sollievo; non aveva davvero voglia di rovinarsi la serata, e lo stomaco, con gli esprimenti fallimentari della madre.

 


 

 

   
 
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