Angolo dell’autrice
Buongiorno
a tutti, come state?
Vi
chiedo scusa se aggiorno solo oggi, so di essere in ritardo di una settimana.
Quella appena passata è stata densa di impegni. Sono molto felice di dire che,
finalmente, la trama inizia ad avanzare con il primo, grande momento. Spero che
vi piaccia!
Un
grazie enorme alle due persone che mi hanno lasciato il loro parere, siete
stati meravigliosi. Spero che i lettori silenziosi abbiano voglia di lasciarmi
un parere, in caso contrario spero solamente che vi godiate la storia.
Un
saluto a tutti!
Nemamiah
Per
alcune settimane ogni momento fu per Verity pieno di gioia e allegria: i
pensieri tristi e i dubbi scivolarono nella nebbia più fitta e rimasero
invisibili a lungo.
Continuò
a vedersi con Victor quasi ogni giorno, osservandolo perdere via via imbarazzo
e timidezza. Si interessava alle sue esperienze, curiosando tra i ricordi di
vecchie gite e lezioni memorabili, divertendosi a coccolarla e ad ascoltarla
mentre raccontava. L’unico dispiacere che entrambi condividevano era la
mancanza di Eleonore: non erano riusciti a coinvolgerla nella loro relazione. Verity
non aveva neanche tentato in realtà, mentre Victor aveva provato a persuaderla
ad essere più partecipe ma aveva fallito senza ombra di dubbio.
Eppure
Verity si sentiva felice anche con un genitore solo anzi, per un po’ di tempo
sentì di non avere bisogno di null’altro per vivere appieno la sua vita,
relegando lontano l’essere stata costretta ad abbandonare gli studi per tornare
in quella casa vuota. Un giorno poi si chiese come stesse Scar e dove si
trovasse in quel momento.
Non
aveva più avuto sue notizie dalla fine del ballo, da quando lo aveva visto
eliminare tutti i suono dal mondo e tornare normale in pochi secondi.
Un
sera, distendendosi sul letto, affondò la testa nel cuscino, sbuffando: non era possibile sparire a quel modo. Nessuna persona, se di
persona si trattava, poteva esistere per una sera e scomparire completamente
dalla circolazione, pensava, soprattutto nell’ambiente scolastico dove si
sapeva sempre ogni dettaglio della vita di tutti. Ci pensò sopra per parecchie
sere dopo quella, sprecando il tempo prima di spegnere le luci con domande
senza risposta e congetture prive di logica.
Anche
la sera del sogno stava riflettendo: si addormentò prima di terminare anche un
solo ragionamento. Fu un sonno senza incubi, senza il volto di Lucifero a
popolarlo rendendo quasi reale il sogno precedente, ma risuonante di frasi per
lei incomprensibili.
‹‹Io penso che dobbiamo
imporre più regole… Non è possibile che non ci ascoltino. Dobbiamo intervenire
e non posso farlo da sola!››
Un’altra voce, più
squillante, replicò: ‹‹Ma sei tu che controlli l’Inferno. Lo conosci meglio di
chiunque altro…››
‹‹State zitte entrambe!
Mary, secondo te?››
‹‹Nulla, si aspetta. Senza
la terza guardiana è difficile anche per me capire cosa sia il caso di fare e cosa
no.››
‹‹Ma se sei tu la
guardiana!››
La
conversazione si interruppe in quel punto per Verity, lasciandola confusa e
spaventata al risveglio; in un luogo sconosciuto il dialogo continuava.
‹‹Non
sono più la custode di Eteria da una ventina d’anni carissime anzi, non ne ho
nemmeno più i poteri. Sono un banale, comune angelo… Con tutto il rispetto
possibile per i banali, comuni angeli del Paradiso.››
Un
angelo dalle ali simili alla tavolozza di un pittore, tanto erano colorate,
sgranò gli occhi e boccheggiò per lo stupore prima di rispondere: ‹‹Ma non
esistono angeli di nome Caliel! E non posso credere che lui sia nel giusto… Siamo senza guardiana e basta.››
‹‹Hariel!
Io non ero un angelo quando diventai guardiana, non lo fui per molti anni e
cara, lui ha un nome, è Lucifero, e sarebbe bello se tu lo usassi.››
Un
altro angelo, più tranquillo del primo, con i capelli neri prese la parola:
‹‹Potrebbe allora essere umana?››
‹‹Senza
dubbio… Care custodi, e tu in particolare Lelahel, vi decidete a svegliarvi?
Scar ne ha percepito l’aura appena questa si è fatta abbastanza forte, perché
voi no?››
‹‹Io
non sono brava a sentire le aure sulla Terra, sono troppe e così simili tra
loro che si confondono›› disse Hariel.
Lelahel
intanto fissava il bosco intorno alla radura, nel zona ombrosa e nascosta,
certa che Lucifero fosse lì ad ascoltarle, magari anche sorridendo soddisfatto.
Certo era strano che fosse umana, ma forse, considerando tutto, nemmeno poi
così tanto. Propose di chiedere a Scar, ma appena si avvicinò questo rivolse
loro un’espressione truce.
‹‹Lascia
perdere Scar, mia cara. Da quando ha scoperto che Lucifero le ha parlato, è di
quell’umore tetro e intrattabile.››
I
due angeli avrebbero volentieri replicato, ma l’arrivo di un angioletto con le
ali candide e uno sbuffo di neve sul naso fece loro rinunciare. Si sedette
sull’erba, lasciando intorno a sé un brina leggera e salutò la compagnia con un
sorriso cordiale: ‹‹Michele mi dice di richiamare la custode dell’Inferno e di
ricordarle che dovrebbe controllare i dannati e non chiacchierare qui... E che
i dannati stanno torturando alcuni Nephilim e vanno fermati.››
Lelahel
replicò che anche Lucifero sarebbe stato capace di porre fine alla tortura, ma
seguì lo stesso l’angioletto, facendo così terminare la conversazione.
Verity
si alzò di soprassalto, buttando le coperte da un lato del letto e respirando
affannosamente. Non bastava sognare che Lucifero le parlasse, doveva anche
sentire voci sconosciute nella sua testa‽ Camminò a piedi nudi sul
pavimento gelido e aprì la porta della camera, passandosi contemporaneamente
una mano tra i capelli per scostarli dal viso. Per poco non ruzzolò per tutta
la scalinata, mancò solo alcuni gradini. Tornò in stanza e premette più volte
l’interruttore, senza alcun risultato.
“Non c’è nessuno in casa e
non c’è la luce… Perché quando serve la magia non c’è mai‽”
Cercò
nei cassetti e nell’armadio una torcia per vedere qualcosa, ma si accontentò di
una candela e un paio di fiammiferi per accenderla. Scese di nuovo le scale con
le mani tremanti, la fiammella della candela illuminava debolmente i gradini
creando ombre sinistre in ogni angolo. Provò altri interruttori, ma nessuno sembrava
funzionare. Era strano…
Avrebbe
dovuto cavarsela da sola, ma in fondo, si disse, era solo un po’ di buio. E
allora… Cos’erano quel grattare leggero e quei mugolii bassi che provenivano
dalla cucina? Forse il suo cane?
La
luce della candela illuminava appena la porta della cucina e la cera le
gocciolava bollente sulle dita, doveva per forza entrare lì dentro per trovare
qualcosa su cui posarla, non avrebbe resistito molto al calore. Si accostò alla
porta e origliò. Quel rumore proveniva davvero dall’interno. Ebbe per un
secondo la tentazione di chiamare il suo cane ad alta voce, per assicurarsi
che, ovviamente, non ci fosse nulla da temere. Fu solo una tentazione perché
quando si rese conto che le stava leccando la mano, sentì il cuore fare una
capriola nel costato e salire fino in gola, bloccandosi.
Fissò
Kai con gli occhi spalancati dalla paura e mosse appena la mano libera,
poggiandosi l’indice sulle labbra nel chiaro segno di non fare alcun rumore.
Prese un respiro profondo, stringendo la presa delle dita sulla candela, e dopo
aver contato fino a tre entrò all’improvviso.
Se
non lo avesse visto con i suoi occhi, non avrebbe mai creduto al racconto
dell’esistenza di un essere simile. Sull’isola di marmo al centro della cucina era
seduta una piccola creatura con due ali minuscole che uscivano dalla schiena,
rosso porpora, con i bordi frastagliati e artigli arcuati e affilati. Appena si accorse di Verity, si alzò. Aveva
il corpo acerbo di una ragazzina, il viso ancora tondo circondato da una
criniera arruffata di capelli color cenere della stessa tonalità degli occhi in
cui si rifletteva la fiamma. Un lampo di crudeltà li attraversò. Si pulì le
mani dalle briciole nella canotta nera strappata e nei pantaloni.
Scese
con un piccolo saltello e la fissò curiosa, analizzandola come se potesse
vedere tutto di lei con una sola attenta occhiata. Piegava la testa a destra, a
sinistra, sovrappensiero, e sorrideva maligna mettendo in mostra i canini
brillanti.
‹‹La
mia preda è venuta da me… Il mio signore sarà felice di sapere che ti ho
eliminata tanto facilmente. Non muoverti, non soffrirai.››
La
candela scivolò dalla mano di Verity, spegnendosi, mentre lei correva fuori
dalla cucina e inciampava nel tappeto del corridoio. Nello stesso momento la
diavoletta le saltava addosso, facendole sbattere la nuca contro lo spigolo di
uno dei mobili in legno. Si azzuffarono, una cercando di liberarsi, l’altra
provando a catturarla. La ragazza demoniaca riuscì a sussurrare alcune parole
in una lingua sconosciuta e ammaliante nell’orecchio di Verity, che un secondo
dopo si ritrovò bloccata contro il muro, tenuta da una forza invisibile per il
collo.
‹‹Dimenati
pure, presto non riuscirai nemmeno più a respirare.››
Creò
una sfera concentrata di energia nel palmo della piccola mano e la scagliò
nella pancia di Verity, che urlando per il dolore si piegò su se stessa,
aumentando il senso di soffocamento. Fu solo il primo di una serie di attacchi
che lasciarono Verity esausta e senza fiato: ad ogni colpo emetteva un sospiro
sempre più sottile, un gemito sempre più flebile. Il petto era scosso da
singhiozzi sempre più forti per immettere aria nel corpo quando la stretta
mortale cessò.
Riuscì,
a fatica, ad alzare la testa quel tanto che bastava a vedere cosa fosse
successo.
Il
grosso cane peloso, che era scappato a nascondersi quando aveva aperto la porta,
era in quel momento seduto sopra la demone, scodinzolando a destra e a
sinistra, sbattendole la coda sulla sua faccia. Guardò a distanza, respirando
profondamente e a lungo. Kai si girò e iniziò a leccarle il viso e il collo
mentre lei si dimenava, cercando di spostarlo. Tremò sempre più forte, usando
tutta la forza bruta di cui disponeva, ma alla fine scoppiò in una risata
rauca.
‹‹Smettila
animale!›› Urlò tra una risata e l’altra ‹‹Lasciami andare, alzati!››
Anche
Verity rise debolmente e strisciando cercò di avvicinarsi. Sfiorò con la punta
delle dita la mano della diavoletta e questa si immobilizzò, rigida come una
statua di ghiaccio. Voltò la testa meccanicamente e la fissò negli occhi.
Un’infinità di emozioni li attraversavano, tali da dare a Verity la sensazione
di barcollare dal cornicione dell’ultimo piano di un grattacielo. C’erano
felicità e rimorso che si fondevano tra di loro, risentimento e gratitudine
bruciavano nella cenere delle iridi: sembravano gli occhi di un cieco che
vedesse il mare blu e la natura rigogliosa di un bosco per la prima volta, allo
stesso modo di chi dopo anni di oscurità finalmente tornava alla luce e alla
vita, alla pace. La diavoletta le prese la mano, stringendola appena, come se
fosse stata senza forze, e Verity si lasciò accarezzare, ipnotizzata dallo
sguardo calmo e agitato al tempo stesso.
‹‹Si
sbaglia… Non posso credere che si sia sbagliato per così tanti secoli.››
‹‹C-cosa?
Chi?››
‹‹Lui
ha paura di te, crede che lo imprigionerai di nuovo e invece tu… Tu mi fai
stare bene, mi fai sentire in armonia con me stessa e tutto il creato. Tu sei
Amore e nemmeno te ne rendi conto... Solo Lucifero ti ha vista per quello che
sei.››
La
diavoletta sorrideva, parlava lentamente scandendo le parole, scegliendole con
cura. Teneva la mano di Verity stretta nella sua e continuava a fissarla come per
rassicurarla, come per assicurarle che capiva perfettamente che le sue parole
non avevano senso per la ragazza.
‹‹Lui
ti aspetta da millenni: non lasciarlo solo.››
Una
lacrima rotolò sulla guancia di Verity e le cadde sulla mano, incontrando le
dita della diavoletta: in quel punto il corpo cominciò a sbriciolarsi. In pochi
secondi la carne si trasformò in cenere e scomparve con un inquietante
bagliore.
La
reazione di Dakota fu più che comprensibile, ritenne Verity, una volta finito
il racconto: occhi spalancati, bocca asciutta, respiro a scatti e totale
incapacità di articolare un pensiero razionale o di proferire parola per
qualche minuto. Le notizie più assurde, le avventure più spaventose e terribili
fanno sempre un effetto strano su chi le ascolta, se vengono raccontate con
calma e senza farsi prendere dall’ansia di dire tutto subito. Diventano come
fotografie di una storia dell’orrore, non lasciano niente sul momento ma bastano
pochi secondi per riconoscere e riconsiderare i particolari agghiaccianti. E
lei di particolari del genere ne aveva abbastanza.
Fiduciosa
nell’amica l’aveva chiamata: aveva bisogno di aiuto e cure e non poteva pensare
che sua madre o, peggio, suo padre potessero trovarla riversa a terra in quelle
condizioni. Dakota l’aveva guarita ma aveva anche preteso una spiegazione più
credibile di un banale “Sono caduta per tutte le rampe di scale della casa fino
al piano terra”.
‹‹Quindi,
tu mi stai dicendo che una diavoletta si è introdotta a casa tua, ha cercato di
ucciderti, sei sopravvissuta per puro miracolo, si è pentita e l’hai trasformata
in polvere?››
‹‹Direi
di sì, Dakota.››
‹‹Verity,
sarò sincera e non ti giudicherò, quali droghe hai provato? Non esistono, non
possono accadere cose del genere e tu… Tu sei senza magia, perché attaccare
te?››
Dakota
camminava avanti e indietro per la sala, agitando le mani: non riusciva a
parlare stando ferma né a controllare il volume della voce che aumentava di
parola in parola. La guardò negli occhi: ‹‹Ho dubbi sulla tua lucidità, tanti,
ma non mi hai mai mentito prima e io mi fido di te, ciecamente. Quindi mi sto
sforzando di crederti, ma spero davvero che non ci sia altro, non so se
riuscirei a sopportarlo.››
Verity
l’abbracciò goffamente, le braccia e le spalle doloranti nonostante le cure. Il
silenzio della ragazza stimolò le riflessioni di Dakota, che collegò tutti i
suoi dubbi: ‹‹Non dirmelo, non dirmelo! Non posso credere che ci sia davvero
altro!››
Verity
coprì le mani con le maniche della maglia, arrossendo a quell’accusa che sapeva
essere vera e accennò con un sussurro alla conversazione avuta con Lucifero in
sogno. Dakota respirava profondamente, ma gli occhi scagliavano fulmini e la
ragazza non riuscì a trattenere la rabbia. Urlò, furiosa come forse poche volte
era stata. Le aveva deliberatamente nascosto ogni cosa, ogni stranezza
accadutale solo perché aveva paura che l’avrebbe scambiata per una pazza
visionaria. Avrebbe dovuto sapere che i sogni, le visioni e le voci non erano
la normalità tra i maghi e che rappresentavano una preoccupante attività che da
tenere sotto controllo. Non le aveva confidato nulla delle sue ansie e
indecisioni quando invece le avrebbe accolte, come aveva fatto poco tempo prima
con la “finta caduta dalle scale” e avrebbe cercato di aiutarla. Erano amiche da
anni, si conoscevano meglio di chiunque altro e forse avrebbe potuto immaginare
che le stesse accadendo qualcosa di strano e particolare, ma mai l’avrebbe
forzata a rivelarlo. Avrebbe aspettato i suoi tempi se solo le avesse detto,
almeno, di avere dei problemi. Avevano vissuto insieme ogni genere di
esperienza tra dolori, speranze, allegrie, e poi i pianti, lo studio, le
risate, le porte chiuse contro cui si erano scontrate e quelle che avevano
aperto e spalancato insieme. Erano cresciute insieme; si erano corrette a
vicenda i difetti e lodati i pregi, confessandosi tutte le passioni e gli
hobby, anche quelli più assurdi e bizzarri che le facevano vergognare, e si
erano sempre accettate; avevano litigato altre volte per questioni stupide e
infantili ma mai, mai, si erano mentite. Dakota credeva fermamente che il loro
legame, il filo che avevano tessuto, fosse più resistente del diamante e non
effimero come il fumo del carbone.
‹‹Me
ne vado. Non ti ripresentare fino a che non avrai visto quanto sei falsa e
ipocrita, Verity! Non avremo mai più nulla da condividere fino a quel giorno.››
Costruire
qualcosa con le proprie mani è sempre difficile. Un lampadario di cristallo,
creato da un singolo artigiano, rappresenta un esempio di procedimento lungo e
complesso. Si deve creare un centro che regga il peso, che sia solido ma
piacevole alla vista; lavorare i bracci affinché siano eleganti e sembrino
leggeri e slanciati; inventare un intreccio dove verranno inserite le sfere di
cristallo più piccole che riflettano la luce omogeneamente; posizionare le
gocce e le sfere più grandi, pendenti, per ottenere la migliore illuminazione
possibile. Poi deve essere mantenuto: è necessario lucidarlo spesso perché
altrimenti la polvere coprirebbe gli arcobaleni e la rifrazione sarebbe come
sporca, contaminata, corrotta. Eppure basta un filo allentato, un punto fissato
male, un colpo accidentale e il lampadario precipita e con lui anche la
bellezza, la luce, la soddisfazione.
Anche
le amicizie possono incrinarsi e perdersi e precipitare. Si dice che sia raro,
che gli amici sinceri non si allontanino mai realmente e si portino via una
minuscola parte del nostro cuore che nemmeno sappiamo di possedere e quando
tornino la restituiscano. È vero, l’amicizia non termina mai. Per quanti torti
possiamo aver subito, per quante delusioni possiamo aver sopportato, per quante
manchevolezze possiamo aver ignorato, quella fiammella leggera che ci rende
caro chi sta andando via continua ad ardere. Niente sostituisce la vertigine,
la sensazione dell’oblio oscuro della solitudine che avevamo scordato in
compagnia e che si torna a sentire scorrere nelle vene; l’insicurezza mischiata
con l’orgoglio, la rabbia mista alla vergogna. Quando l’amico più caro che
abbiamo si allontana, nulla rimpiazza il vuoto, nemmeno la certezza che un
giorno tornerà per restituirci il cuore che ci ha rubato.
Verity
guardava Dakota mentre attraversava il giardino, inciampando sulle sporgenze
del terreno, e sentiva una corda tendersi tra le loro anime, diventandosi
sempre più tesa e dolorosa man mano che l’amica si allontanava. Si sorprese nel
non percepire il suono filaccioso della lacerazione e sospirò di sollievo, già
così era abbastanza doloroso, ma non riusciva a frenare le lacrime che
scendevano copiose dalle guance e si infilavano nel collo della maglia.
Per
alcuni le tempeste più spaventose sono interne, coinvolgono il cuore e la
mente; catturano lo stomaco, lo chiudono, mentre il cervello interrompe il
pensiero e i singhiozzi si susseguono togliendo il respiro.
Si
spostò dalla finestra e si raggomitolò sulla poltrona, poggiando la testa sulle
ginocchia e cingendole poi con le braccia. Si rimproverava di non aver detto
nulla, di non aver chiesto aiuto quando era ancora in tempo, quando avrebbe
potuto addirittura ottenere delle risposte soddisfacenti. Invece era di nuovo
sola con le sue domande. Certo, poteva confidarsi con il padre o con il nonno,
ma non voleva coinvolgere qualcun altro in quell’assurda esperienza né essere
giudicata a causa di essa. Non voleva altro che rimpiangere i propri errori e
consumarsi nel rimorso fino a che tutte le lacrime non fossero evaporate. Per
una volta fu contenta di essere a casa sola, senza nessuno che potesse
consolarla o condividere la sua sofferenza: quel dolore era solo suo e nessun altro
avrebbe dovuto conoscerlo. Si dondolò avanti e indietro, cullandosi con quel
lento ma ritmato ondeggiare, e si alzò solo quando si sentì abbastanza calma da
non scoppiare di nuovo in lacrime, tornando nella sua stanza. Sorrise solo per
un secondo quando sentì il primo tuono e una pioggia scrosciante cominciò a
cadere: il cielo, senza saperlo, era partecipe delle sue angosce.
Dakota
trascorse il resto della giornata in silenzio, arrabbiata con Verity e con il
mondo, ma la mattina seguente si svegliò con la testa pesante e un sapore amaro
in bocca, il gusto delle parole sbagliate e ingiuste, e decise di rimanere a
letto, facendo preoccupare suo padre per la sua salute.
Si
sentiva in colpa e un’amarezza di cui non riusciva a percepire la profondità le
appesantiva il cuore ripensando alla conversazione con l’amica. A mente lucida
riconosceva di aver commesso un errore che non sapeva come riparare.
Verity
era sempre stata restia a confidarsi e a condividere, anzi era molto
introversa. Preferiva chiudere i sentimenti a chiave nel cuore e nella mente
per metabolizzarli, lentamente ma dolorosamente, da sola e solo qualche volta
era riuscita a cogliere una sfumatura delle sue emozioni nei dipinti e nei
quadri. Certo piangeva, e anche tanto, ma, pur essendo lacrime sincere,
raramente erano quelle che aveva bisogno di versare per liberarsi. Però
rimaneva lo stesso la persona che la conosceva meglio di chiunque altro e anche
se si era sentita delusa, tradita, ferita nel profondo, non avrebbe dovuto
accusarla né allontanarsi da lei con una frase tanto definitiva quanto
pronunciata d’istinto. Doveva trovare un modo per riconciliarsi, ma nessuna
idea le pareva adatta. Verity non avrebbe mai accettato di rivederla e sarebbe
scappata via come un uccellino se l’avesse seguita e fermata per scusarsi.
Nei
giorni successivi, a scuola, non riuscì a prestare attenzione alle lezioni. Scrisse
idee e le cancellò prima di terminarle, scartandole: nessuna era abbastanza
efficace o soddisfacente o attuabile. Era sempre sovrappensiero, tanto che i
suoi compagni iniziarono a preoccuparsi, chiedendole spesso se stesse bene o
fosse invece ammalata. Camminando per i corridoi fissava insistentemente il
foglio su cui scriveva, pensierosa, o controllava se c’erano messaggi o chiamate
che non aveva sentito sul telefono. Non guardava neanche dove camminasse e
senza accorgersene inciampò nei piedi di Scar, che dormiva sempre nel cortile
interno e che era, stranamente, ricomparso. Alzandosi lo guardò stralunata e
pensò che lui potesse essere l’idea migliore di tutte: nell’arco di pochi
secondi pianificò qualcosa da cui Verity non sarebbe sicuramente potuta
scappare.
‹‹Scar,
ciao, sei libero sabato pomeriggio?››
‹‹Scusa,
ci conosciamo?››
Il
tono di lui era infastidito e scortese ma, in fondo, a chi piace essere
svegliato da qualcuno che inciampa nei tuoi piedi e che nemmeno conosci?
Dakota
lo prese per un braccio, tirandolo e obbligandolo ad alzarsi. Gli diede qualche
breve informazione su chi fosse e sul perché dovesse aiutarla. Gli raccontò a
grandi linee cosa fosse accaduto, tralasciando i dettagli, e gli spiegò la sua
improvvisa idea.
‹‹È
un’idea stupida, non funzionerà mai…››
‹‹Cosa
ti importa che sia stupida o meno? Deve solo funzionare e tu non dovrai
faticare così tanto, devi solo portarla fuori.››
Scar
sbuffò, ma alla fine acconsentì ad aiutarla, più che altro per non sentirla
parlare ancora. Dakota lo abbracciò e si allontanò di corsa, lasciando cadere
dalle mani i fogli delle idee scartate e tirando fuori il telefono per organizzare
ogni cosa. Scar però li raccolse e li lesse attento: erano tutte belle
proposte, anche più belle di quella che aveva accettato. Ognuna di loro avrebbe
avuto la stessa possibilità di successo e forse più di quell’ultima, ma era
interessante per lui vedere come gli umani cercassero sempre di ricostruire ciò
che essi stessi distruggevano. Avevano una perseveranza nelle relazioni che non
riusciva a comprendere, che per lungo tempo aveva creduto non potesse esistere.
Mise i fogli in una delle tasche posteriori dei pantaloni e andò a cercare
Verity in biblioteca, certo che si fosse nascosta lì.
Non
era particolarmente amante delle uscite anzi, da quando era sulla Terra non era
mai uscito con nessuno, ma sarebbe potuta rivelarsi una buona occasione per
studiare meglio la ragazza ed essere certo che fosse proprio lei. La trovò nel
punto più isolato, seduta sul davanzale della finestra, con la testa poggiata
sul vetro freddo: leggeva un libro sottile, con la copertina scura, ed era
tanto concentrata che non si sarebbe accorta di lui se non le avesse posato una
mano sulla spalla mentre la salutava.
‹‹Lasciami
sola. Ho litigato con un’amica e non voglio parlare con te, che riappari all’improvviso
senza nemmeno avere la decenza di scusarti.››
‹‹Non
avresti voglia di sfogarti con me? ››
Verity
mise un dito in mezzo al libro come segno e lo chiuse, voltandosi poi dalla sua
parte: ‹‹Preferirei delle scuse prima…››
‹‹Non
volevo scomparire, ma dovevo farlo per ragioni che non posso spiegarti. Scusami.
Ora… Come mai avete litigato?››
Verity
accennò una risata, trattenendosi: ‹‹Le tue scuse sono pessime, ma le accetto
lo stesso… Non le ho raccontato alcuni fatti strani che mi sono accaduti e lei
l’ha presa come falsità e mancanza di fiducia verso di lei.››
‹‹È
così?››
‹‹Assolutamente
no!›› si mise una mano sulla bocca, consapevole di aver alzato troppo la voce. ‹‹Ma
allo stesso tempo ho paura di confidare tutto perché temo il giudizio degli
altri. Non dovrei, lo so, ma non riesco ad evitarlo e allora sto zitta e mi
tengo ogni cosa dentro, cosicché nessuno si preoccupi per me.››
Scar,
in piedi, la fissava con interesse, chiedendosi come facesse un essere tanto
piccolo a contenere così tanta insicurezza. Era incredibile ai suoi occhi come,
nonostante la paura e la bassa autostima, andasse avanti con la vita,
affrontandola ogni giorno, senza affogare.
“Forse, un giorno, sarà un
buon angelo.”
Non
avrebbe dovuto pensarci, non avrebbe dovuto sperare o commentare, ma era sceso
lì espressamente per controllarla e capire se davvero poteva sostituire Mary. Ogni
tanto capitava che la paragonasse a qualcuno che conosceva, ma la trovava
sempre migliore. Guidò i suoi pensieri sulla missione che si era prefissato:
non doveva lasciarsi distrarre.
‹‹Devi
rilassarti e scordarti per un giorno della situazione›› disse ‹‹così ti
sentirai meglio. Perché non vieni con me all’inaugurazione del parco dei
divertimenti?››
Verity
si stupì dell’invito ma accettò, quasi convinta che avesse davvero bisogno di
svagarsi come diceva lui. Quel giorno si sarebbe divertita e avrebbe sommerso
Scar di domande camminando da un’attrazione all’altra. Lo ringraziò e riprese a
leggere.
Ritornò
a casa solo dopo essersi accordata con Scar per l’orario e si sorprese nel
trovare le luci accese e la porta aperta. Sperò che sua madre non stesse
tentando uno dei suoi esperimenti culinari, perché erano sempre finiti male.
Certe volte si era addirittura chiesta perché una persona dotata di magia
dovesse cucinare manualmente, ma probabilmente doveva essere un’abilità di cui
vantarsi con le amiche che non ne erano in grado. Poi aveva smesso di porsi
domande, vedendo che, nonostante tutti i tentativi falliti, non aveva imparato
nulla. In realtà, a parte suonare il piano, Eleonore non era capace di fare
altro.
Verity
aprì lentamente la porta della cucina, per non fare rumore, e sbirciando
riconobbe sua madre che cercava di impastare qualcosa. La richiuse e camminò in
punta di piedi fino alla soffitta, dove si concesse un sospiro di sollievo; non
aveva davvero voglia di rovinarsi la serata, e lo stomaco, con gli esprimenti
fallimentari della madre.