Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    06/12/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

La chiesa di Santa Maria Novella di Bracciano era fresca, benché fuori il primo sole di luglio stesse già scaldando l'aria.

“Avete fatto un lavoro egregio.” disse piano Bartolomeo, fissando il monumento sepolcrale che Gian Giordano Orsini aveva fatto costruire per il padre Virginio.

“C'è voluto del tempo, ma sono felice di averlo riportato qui.” disse il quarantenne erede del defunto Orsini: “In questa chiesa riposano tutti i nostri avi. È giusto che sia qui anche lui.”

D'Alviano annuì e congiunse le mani, in segno di una fugace preghiera. Ricordava bene il funerale di Virginio e il modo apparentemente troppo facile in cui aveva recuperato il suo corpo dai suoi carcerieri a Napoli.

Da quando suo cognato era stato ucciso, molte cose erano cambiate e per Bartolomeo era stato come trovarsi in un gorgo che lo spingeva sempre più giù, lasciandolo respirare solo a sprazzi.

“Sono stati giorni ruggenti, per la nostra famiglia, vero?” fece Gian Giordano, indicando la tomba del padre e poi quella del nonno: “Gli Orsini non saranno mai più grandi come lo sono stati ai loro tempi.”

A quel punto, Bartolomeo, che a sentir parlare di quelle cose provava un costante brivido lungo il collo, si trovò a pensare a come lui stesso fosse sul punto di lasciare gli Orsini al loro destino. Era vero, quando c'era ancora Napoleone e dopo di lui Virginio, la famiglia aveva vissuto il proprio tempo d'oro. Anche se con alterne vicende, il loro cognome era stato sulla bocca di tutti e non c'era Stato italiano che in fondo non li temesse almeno un po'.

Il tempo, però, era passato, e con lui Napoleone e poi Virginio, e presto sarebbe stato anche il turno di Bartolomea e Bartolomeo sarebbe salito sul carrozzone dei Baglioni, lasciando quella che era stata la sua famiglia per anni.

La nuova generazione, i figli di Virginio soprattutto, e ciò che restava della vecchia – come il mezzo traditore Paolo – non erano all'altezza del loro compito. Era triste dirlo, ma era l'amara verità.

“Mia zia come sta?” chiese Gian Giordano, che da quando era tornato a Bracciano non aveva ancora avuto il permesso da parte di Bartolomea di incontrarla.

Bartolomeo alzò un po' una spalle e non disse nulla. L'Orsini, allora, fece un sospiro e puntò gli occhi – vispi, ma non quanto lo erano stati quelli di Virginio – sulla tomba del padre e si chiuse anche lui in una preghiera silenziosa.

“Cosa intendete fare con Savelli?” s'informò Gian Giordano, mentre lui e Bartolomeo uscivano dalla chiesa per tornare al castello.

“Voglio trattare una pace.” fece quello, laconico: “Ma la distanza è un problema.”

“Casteltodino è a meno di un giorno da qui. Potreste andare e tornare agevolmente...” provò a dire l'Orsini, adeguando il passo a quello svelto e rigido del marito di sua zia.

Anche se tra loro c'erano solo un paio d'anni di differenza, Gian Giordano aveva sempre visto l'altro come molto più vecchio di lui. Forse averlo come zio glielo aveva sempre fatto considerare come una sorta di figura paterna.

“Io non voglio lasciare Bracciano.” rispose Bartolomeo, secco: “Voglio restare fino alla fine.”

L'Orsini capì subito che intendesse, così, con un sorriso un po' triste, gli diede una pacca sulla spalla e, al primo bivio, si congedò dicendo: “Ho delle cose da fare... Ci vediamo dopo al castello.”

Una pace, in quel momento, non aveva senso e Bartolomeo lo sapeva molto bene. Stava gettando all'aria una campagna militare che lo aveva visto protagonista quasi assoluto, ma non gliene importava. Non se lo sarebbe mai perdonato, se sua moglie fosse morta mentre era lontano.

Ci aveva pensato a lungo, e la sua risoluzione a starle accanto non era negoziabile. Anche recarsi solo un'oretta alla chiesa assieme a Gian Giordano gli era pesato.

Quando rientrò nella stanza della moglie, l'aria chiusa e poca luce ad accoglierlo, paradossalmente gli parve di tornare a respirare.

“Com'è la tomba?” chiese la donna, appena si accorse che il marito era tornato.

“Nostro nipote ha fatto costruire un sepolcro degno di Virginio.” assicurò l'uomo, prendendo una stoffa e tergendo un po' la fronte di Bartolomea, sempre imperlata di sudore freddo: “Gian Giordano è felice che suo padre sia insieme agli altri della famiglia. Lo fa sentire meglio.”

L'Orsini annuì, greve e si trattenne dal dire che presto anche lei avrebbe preso posto in mezzo ai morti della sua famiglia. Per non deprimere più del dovuto il marito, si sforzò invece di sorridere e lo ringraziò per essere andato a controllare che tutto fosse in ordine.

 

Giovanni si era svegliato pieno di energie. Quella parentesi di benessere pressoché totale lo stava facendo sentire euforico e Caterina, accettando perfino di accantonare le questioni di Stato, lo stava assecondando in tutte le sue iniziative.

Approfittando del fatto che fosse domenica, quella mattina, per prima cosa, avevano sfruttato il cielo terso e la temperatura ancora mite per andare a cavalcare. Non avevano portato appresso armi, scartando l'idea di una battuta di caccia e preferendo solo una corsa in mezzo alla campagna.

Il Medici aveva detto che quel genere di fughe dalla città erano state una delle sue passioni, quando era un ragazzino ospite alla corte dei cugini e alla Sforza era parsa un'ottima idea permettergli di ripetere l'esperienza, visto che stava meglio del solito.

Mentre sfidavano la velocità, gareggiando a tratti e a tratti riposandosi, la Contessa si trovò spesso persa nei suoi pensieri. Se il Popolano pareva alleggerito, la Tigre non riusciva a fare a meno di continuare a speculare su ogni cosa.

Tra i pensieri mesti, però, spiccava anche una consapevolezza che le scaldava il cuore. In quei giorni aveva ragionato molto su quello che c'era tra lei e Giovanni. Il loro era un amore pieno, un sentimento equilibrato, per quanto possibile, privo degli eccessi distruttivi e delle profonde carenze di cui era stata fatta la cieca passione che l'aveva consumata negli anni di matrimonio con Giacomo.

Di certo, si era detta, parte della differenza era dovuta al fatto che i due uomini in questioni fossero molto diversi sotto tanti aspetti. E poi era passato il tempo. Caterina non aveva più venticinque anni, ma ormai trentaquattro e in quel lasso di tempo, molte cose in lei erano cambiate.

Senza contare che far accettare questo nuovo marito ai suoi figli e anche alla sua città era stato incredibilmente più facile, quasi troppo. C'erano pettegolezzi e chiacchiere, ma non erano nulla in confronto alle cattiverie che erano state riversate su lei e Giacomo.

Mentre lo osservava ridere come un ragazzino, dopo aver fatto fare una rincorsa incredibile al suo cavallo per riuscire a raggiungere il purosangue della moglie, la Tigre si trovò a fare un altro confronto.

C'era qualcosa, in quello che provava per Giovanni, che era mancato del tutto nel suo sentimento verso Giacomo.

Per quanto, infatti, il suo secondo marito l'avesse attratta prepotentemente e avesse costantemente riempito ogni angolo della sua mente, in realtà non era mai riuscito a interessarla davvero, tanto meno a divertirla, se non per la parentesi di qualche facezia di pochi istanti, tra un incontro amoroso e l'altro.

Il Medici, invece, la divertiva e la interessava. Sapeva come fare, sapeva in che discorsi immergersi e sapeva che parole usare. La divertiva e la intrigava in un modo intelligente e vitale, qualcosa che sarebbe stato sempre fuori dalla portata di Giacomo.

Anche quando stavano semplicemente in silenzio, l'uno accanto all'altra, magari leggendo due libri diversi o pensando ai fatti loro, Caterina sentiva Giovanni vicino. Il semplice fatto di averlo accanto non la faceva sentire sola.

Mentre con Giacomo, si era sentita sola ogni volta in cui aveva cercato con lui una connessione che andasse oltre il piano prettamente fisico. La loro intesa era perfetta, fino a che non parlavano né si confrontavano su temi importanti. Appena avevano provato a esulare da ciò che facevano tra le lenzuola, erano subito andati in crisi.

Con il Medici, invece, l'intesa era completa, sia dal lato fisico sia da quello intellettuale e anche quando le loro opinioni divergevano, trovavano il modo di conciliarle senza allontanarsi.

Amava Giovanni, tanto da esserne sempre stupita, quando si rendeva conto della forza del suo amore. Malgrado ciò, però, concluse tra sé, mentre tornava con il marito verso Forlì, ancora si scopriva – a volte con vergogna – a chiedersi perché accanto a lei dovesse esserci quel fiorentino e non quello che per lei era stato l'uomo della sua vita.

Il resto della giornata trascorse altrettanto tranquillo, e man mano che si avvicinava la sera, Caterina era riuscita straordinariamente anche a scendere a patti con se stessa.

Mentre Giovanni era impegnato con della corrispondenza per parte di Firenze con alcuni Stati della Romagna, la Leonessa era andata alla chiesa di San Girolamo ed era rimasta per un po' davanti alla tomba di Giacomo.

Quando la lapida le parve solo un pezzo di marmo, la donna recitò un paio di preghiere, con voce monotona, come fossero una formula rassicurante, più che un'invocazione a Dio, e infine tornò a Ravaldino.

Nel tardo pomeriggio il cielo cominciò ad annuvolarsi, diventando già tutto grigio prima del tramonto. S'era alzato un vento foriero di tempesta e la Contessa aveva permesso agli armigeri di interrompere presto gli addestramenti. Anche i suoi figli si erano ritirati prima del solito e i più piccoli avrebbero mangiato in stanza, assieme alle balie, per sentire qualche racconto che conciliasse loro il sonno in una nottata di temporale.

“Sono mesi che non tiro di spada, sai?” fece Giovanni, mentre lui e la moglie mangiavano.

A tavola, a parte loro, c'erano solo un paio di soldati e il castellano. Siccome nessuno aveva dato segno di aver sentito il fiorentino, la Contessa si pulì gli angoli della bocca e poi fece un sorrisetto.

Anche se non aveva ritenuto prudente nulla di quello che il Medici aveva fatto quel giorno – aveva cavalcato, mangiato quel che gli pareva, bevuto vino e non era stato fermo un attimo – la tentazione era troppo forte.

“Se vuoi, puoi fare due tiri con me.” propose, poi alzò la voce e domandò al castellano: “Tanto per stasera il cortile è libero, no?”

Cesare Feo fece segno di sì e aggiunse anche: “Non vi disturberà nessuno, non temiate.”

Il Popolano era entusiasta dell'invito della moglie, tanto che finì in un sol colpo il bicchiere di vino e, battendo le mani tra loro, esclamò: “Io sono pronto!”

La Sforza non volle sentire storie e obbligò il Medici a indossare tutte le protezioni necessarie e altrettanto fece lei. Anche se avrebbero usato spade spuntate e smussate, non era il caso di rischiare di farsi male per nulla.

Il cortile era deserto e non c'era nemmeno nessuno sotto gli archi e affacciato alle finestre del primo piano. Se fosse o meno merito del castellano, Caterina non lo sapeva e non le importava.

L'aria era elettrica e il vento temporalesco sollevava piccoli refoli di polvere da terra. La luce delle torce gettava strane ombre su lei e Giovanni, e il silenzio quasi perfetto permetteva loro di sentire distintamente i propri passi sull'arena e i propri respiri.

Si studiarono per un po'. Il fiorentino l'aveva pregata di non fargli sconti e così la Tigre si mosse come se si trovasse davanti un avversario qualunque.

L'ambasciatore parò i primi colpi, ma si lasciò trovare impreparato da un piattone sulla spalla. Ben lungi dal farsi impensierire – conscia di aver usato poca forza nel colpirlo – la Contessa approfittò del momento di smarrimento del marito per mettergli la punta della lama appena sotto al mento.

“Sono fuori esercizio...” si scusò lui, rimettendosi subito in quadro e incitandola a riprendere.

Man mano che le schermaglie si susseguivano, in effetti, il fiorentino riacquistava sempre di più confidenza con le armi.

Non aveva un grande stile, e nemmeno troppi muscoli, ma Caterina fu comunque soddisfatta dal suo modo di combattere. Agiva in modo intelligente, più che impetuoso e un paio di volte era anche riuscito a metterla in difficoltà.

Con il fiato grosso, dopo aver vinto un assalto, la Tigre si tolse l'elmetto di cuoio per far respirare un po' la testa e, dopo un'occhiata al cielo scuro e collerico sopra di sé, disse: “Sei davvero in forma...”

“Sì, ma sprecare forze a cercare di battere una brava come te è proprio da sciocchi...” scosse il capo Giovanni, togliendosi anche lui il caschetto.

“In effetti ci sono anche modi migliori di impiegare le energie...” convenne lei, avvicinandosi.

A breve distanza dal marito, la donna lo guardò con attenzione. Lo sforzo gli aveva incollato i riccioli castani alla testa, ma poco importava. Il suo volto era illuminato da un guizzo di vita irrefrenabile e il brillare dei suoi occhi chiarissimi lo accendeva ancora di più.

Con addosso le protezioni da allenamento, le spalle larghe e dritte e la spada in mano, a Caterina parve un vero guerriero.

“Che ne dici se andiamo di sopra?” gli chiese, appena udibile.

Il Popolano chinò il capo, quasi in un inchino, e poi seguì la moglie nella sala delle armi, per mettere a posto quel che avevano usato.

Dopo aver sistemato con cura le spade, con lentezza, la Tigre si levò una protezione dopo l'altra, aiutando poi il marito a fare altrettanto.

Mentre Giovanni finiva di slacciarsi i guanti di cuoio, la Sforza andò ancora un momento alla teca delle armi e controllò che tutto fosse in ordine. Era una sua consolidata abitudine, e i soldati della rocca non scherzavano, quando dicevano che la Contessa si sarebbe accorta dell'assenza anche di una sola freccia nelle faretre.

La Leonessa stava ancora dando un'occhiata alle picche, quando il marito le arrivò alle spalle, cingendole i fianchi con le braccia: “Non immagini neanche quanto ti desideri.” le bisbigliò in un orecchio.

Caterina sorrise e si voltò verso di lui, restando stretta nel suo abbraccio. Dopo avergli messo le braccia al collo e averlo baciato, si rese conto di cosa avesse in mente suo marito.

La sala delle armi era silenziosa e immobile. Il temporale che stava per scoppiare soffiava dentro un po' di vento, e qualche raro tuono in lontananza cominciava a farsi sentire.

“Qui?” chiese la Tigre, sollevando un sopracciglio.

Le mani di Giovanni stavano scendendo su di lei sempre di più, ma a quella domanda si fermarono e lui chiese, iniziando a spingerla pian piano verso il tavolone che stava nel mezzo dell'armeria: “E perché no? Sei stata tu a dire che sei stanca di stare attenta...”

Seguendo i movimenti del fiorentino, già decisa ad assecondarlo, Caterina sorrise: “Sei un uomo davvero sorprendente...”

“E non sai quanti lati di me ancora non conosci...” le assicurò il Popolano, riprendendo poi subito a baciarla, incurante della pioggia che cominciava a scrosciare nel cortile.

 

La notte a Ferrara era limpida, anche se verso sud si vedevano nubi scure addensarsi sempre di più.

Anna Maria era alla finestra, una mano sulla pancia che cominciava a vedersi, e un'espressione tetra dipinta in volto.

Da quando era stata certa di essere incinta, suo suocero Ercole aveva cominciato a trattarla meglio, o meglio, a ignorarla ancora di più, il che per lei era solo un bene. Non aveva più fatto cenno alla sua schiava, né aveva più costretto lei e Alfonso a presentarsi insieme in pubblico.

Siccome i medici avevano allertato il Duca di Ferrara sulla precarietà dello stato della nuora, l'uomo aveva preferito usare quella condizione come scusa per recluderla nelle sue stanze, permettendole di uscire raramente e sempre per poco tempo.

In realtà Anna Maria si sentiva abbastanza bene. Aveva avuto nausee molto forti, all'inizio, ma ora che era più o meno al quarto mese, le pareva di stare meglio.

Tuttavia, pur non sopportando molto bene il divieto di andare a caccia che Ercole le aveva imposto, la giovane Sforza preferiva così, piuttosto che essere costretta a partecipare a ricevimenti e Messe pompose.

Finalmente, mentre esalava un sospiro assorto, Anna Maria sentì la porta aprirsi e chiudersi subito dopo e poi i passi leggeri della sua schiava. Si voltò per sorriderle e questa, che portava con sé la spazzola, le si mise subito accanto nell'alcova della finestra e cominciò a spazzolarla, come ogni sera.

La moglie di Alfonso Este continuava a passarsi le mani sul ventre, cercando di sondare la piccola vita che cresceva dentro di lei, mentre la sua schiava prediletta le accarezzava con lentezza la testa, sistemano di quando in quando una ciocca ribelle dietro l'orecchio.

La Sforza, in quel momento, era così concentrata a pensare a sé, che quasi non si accorgeva dei gesti affettuosi e protettivi della sua amante. Mentre si chiedeva dove fosse suo marito in quel momento – e rispondendosi che probabilmente era con qualche donnaccia di strada, una di quelle grasse, volgari e ignoranti, come piacevano a lui – Anna Maria sollevò pian piano lo sguardo, fino a incrociare quello della giovane donna dalla pelle scura che le stava davanti.

Le sue iridi erano come una notte buia e misteriosa. La sua pelle era liscia come seta e nera come l'ebano. Il suo corpo era flessuoso e guizzante, come quello di una ninfa, una di quelle così belle da essere concupite perfino dagli Dei, così desiderata da dover passare la vita a nascondersi tra cespugli di giunchi, come si raccontava nei miti degli antichi.

Anna Maria ricordava molto bene la prima volta in cui l'aveva vista. Aveva subito perso la testa per lei. Da come la schiava aveva ricambiato il suo sguardo, poi, aveva capito di essere, almeno in parte, ricambiata.

Quando poi aveva trovato il coraggio di farsi avanti, lottando contro se stessa e contro la paura di essere scoperta e punita, la schiavetta non l'aveva respinta, anzi.

“Sei mai stata insieme a un uomo?” chiese la Sforza, perdendosi nei riflessi infuocati che la luce delle candele gettava sul bellissimo volto della sua amante.

Questa abbassò gli occhi verso la mano della sua padrona, che continuava a passare sul piccolo rigonfiamento della sua pancia, ancora non abbastanza pronunciato da essere troppo facile da notare, e scosse il capo: “No, mia signora, e voi lo sapete meglio di chiunque.”

“E vorresti provare..?” chiese la Sforza, con un tono che la schiava non comprese.

“No.” rispose la giovinetta, scuotendo subito il capo, come se temesse di incorrere nelle sue ire a dire il contrario.

“Perché?” rilanciò Anna Maria, in cerca di una conferma alle sue domande più profonde.

“A voi piace, accompagnarvi a un uomo?” domandò la schiava di rimando, alzando un po' le spalle, come a dire che la questione era troppo ovvia per perdere tempo a discuterne.

A quelle parole la sua signora ripensò alla sua prima notte di nozze, quando aveva conosciuto per la prima volta suo marito Alfonso. Non poteva negare che le fosse piaciuto stare con lui, sia quella notte che quelle seguenti. Malgrado tutto, lui era stato capace di farla sentire bene.

Però, poco alla volta, Anna Maria aveva visto in Alfonso sempre meno interesse per lei e una sorta di distacco nei suo confronti che si approfondiva man mano che si conoscevano meglio.

Poco dopo, poi, la Sforza aveva conosciuto la sua schiava bellissima, giovanissima e dalla pelle nera come un abisso. E a quel punto per lei era cambiato tutto e Alfonso era diventato solo un peso, nella sua vita.

Evitando di mettere la sua amante a parte di tutto quel che aveva pensato, la donna disse solo: “Non sei nemmeno curiosa di sapere che si prova? Se vuoi, posso combinarti un incontro con...”

“Non voglio.” la interruppe l'altra, con fermezza: “Io non vostra. Solo vostra.” rimarcò, prendendo il viso della sua signora tra le piccole mani scure.

La moglie dell'erede di Ercole Este sentì il cuore battere più forte e annegò nello sguardo profondo e sicuro di quella ragazza, spegnendo ogni remora e ogni dubbio.

L'abbracciò con forza, quasi spezzandole il fiato in gola, poi si allontanò un po' e la baciò. Lo fece come se fosse la prima volta.

Dopo un po', lasciando l'alcova della finestra, la Sforza la fece stendere sul letto, decisa a godere ancora una volta di quello che la sua schiava sembrava così desiderosa di offrirle.

Se quello era un peccato grave come dicevano tutti, Anna Maria era pronta anche alla dannazione eterna. A suo avviso, l'inferno fino alla fine dei tempi era un prezzo equo, per quelle parentesi di pura gioia e completezza.

 

Il Capitano Rossetti, che aveva appena staccato il turno di ronda, stava andando nella sala delle armi per sistemare la sua mezza armatura, quando vide due persone uscire proprio dall'armeria, mano nella mano.

Appena fu un poco più vicino riconobbe la Contessa e l'ambasciatore di Firenze. Camminavano sotto gli archi, riparati dalla pioggia battente, e ridevano, parlottando tra loro.

“Mia signora...” fece l'uomo, un po' impacciato, quando se li trovò davanti: “Messer Medici...”

I due ricambiarono appena il saluto, continuando a concentrarsi solo l'uno sull'altra e lo superarono in fretta, diretti alle scale.

Rossetti si strinse un po' nelle spalle, chiedendosi che mai avessero tanto da ridere. Erano tutti e due in disordine, gli abiti sgualciti e il modo in cui erano corsi via gli aveva fatto pensare che avessero qualcosa di interessante da fare, al piano di sopra.

“Il Barone se lo teneva chiuso nel Paradiso, mentre questo lo mette in mostra...” arrivò la voce di Francesco Numai, dal buio.

Il Capitano si voltò e chiese: “Che intendete?”

“Che il poveraccio lo teneva sotto chiave, mentre con questo...” Numai sollevò gli angoli della bocca e poi sospirò, con un'aria abbastanza divertita: “Sono qui da un po'. Volevo mettere via la spada e l'elmo, ma...”

Rossetti ascoltò il racconto del suo commilitone, che era arrivato alla sala delle armi e aveva sentito dei suoni strani. Quando aveva capito chi c'era nell'armeria e cosa stava facendo, s'era messo in attesa in un punto riparato, e quando finalmente i due si erano rivestiti ed erano usciti, era arrivato anche il Capitano.

Grattandosi la nuca, tra l'ammirato e lo scandalizzato, Rossetti sbuffò: “Meglio questo di quello di prima, ma fossi in loro cercherei di limitarmi... La rocca ha mille occhi.”

Numai annuì e convenne: “E mille orecchie.”

 

“Se Dio vorrà darci un figlio – disse Caterina, mentre Giovanni le passava un braccio attorno ai fianchi e le sfiorava la spalla con le labbra – spero di averlo concepito oggi.”

Il Medici rise piano, la gabbia toracica che vibrava contro la schiena della moglie: “Non sarebbe niente male... È stata una giornata così bella...”

Dopo aver lasciato la sala delle armi, i due erano andati nella loro stanza e, ancora troppo eccitati per addormentarsi, avevano cominciato a leggere qualche poesia insieme, e alla fine si erano di nuovo trovati uno tra le braccia dell'altra, con Giovanni che di quando in quando tornava a declamare a memoria qualche verso che entrambi amavano.

“Però mi chiedo – soppesò il fiorentino, sentendosi addosso una stanchezza così piacevole da farlo sentire come cullato dal calore della moglie – nascerebbe un guerriero o un poeta?”

La Tigre capì il collegamento logico fatto dal marito e rise anche lei di rimando: “Quale che sia dei due, sarebbe comunque il migliore nel suo campo.”

“Spero solo di non passargli la mia malattia.” concluse il Medici, con voce appena meno allegra.

“Se avessimo un figlio – riprese Caterina, sottolineando il 'se', dato che il paragone con la facilità con cui era rimasta incinta in passato le stava insinuando il dubbio che il suo ventre fosse diventato ormai freddo – avrebbe anche il mio sangue. Stai tranquillo: prenderebbe solo il meglio da entrambi.”

Il fiorentino sospirò e poi, vinto finalmente dal sonno, sorrise e sospirò: “È stato il giorno più bello della mia vita.”

Quella considerazione, così semplice eppure così ricca di forza, colpì molto la Leonessa che intrecciò le proprie dita a quelle del marito e, sentendolo che si assopiva, si trovò a pensarla esattamente come lui.

 

“Se Bartolomeo d'Alviano non si presenterà a Roma entro metà mese – disse Alessandro VI, stringendo la mano sul petto e annuendo continuamente tra sé – allora scateneremo una guerra contro gli Orsini. Raderemo al suolo Bracciano. Devono pagare per la morte di Juan...”

Ascanio Sforza lanciò un'occhiata preoccupata a Raffaele Sansoni Riario, presente come lui a quell'ennesimo soliloquio del Santo Padre.

Cesare, nel suo angolo, ascoltava in apprensione. Sapeva benissimo che quella sarebbe stata una mossa del tutto insensata.

Muovere di nuovo l'esercito contro gli Orsini in quel momento sarebbe stato un suicidio politico.

Lasciò il padre libero di parlare ancora un po', mentre le sue parole inseguivano altre possibili mani colpevoli di aver pugnalato Juan. La sua mente vagava al convento di San Sisto, dove Lucrecia si era ritirata per scappare da tutta la confusione della sua vita.

L'ultima volta che si erano visti, avevano litigato. Perotto, che riferiva quotidianamente ogni cosa al Cardinale, gli aveva fatto sapere che Lucrecia era ancora risentita verso di lui, ma che non aveva mai detto apertamente di sospettarlo.

A dirla tutta, a Cesare cominciava a star stretto il pensiero che Pedro Calderon stesse tutto il giorno con lei. Se avesse dovuto seguire il suo istinto, l'avrebbe sollevato subito dal suo incarico. Però, l'unico altro uomo di cui si fidava ciecamente era Michelotto e lui era ancora in Spagna.

In più, l'amore di sua sorella gli era troppo caro per rischiare di incrinarlo ulteriormente lasciandole credere di essere geloso di una nullità come Perotto...

“Padre, posso parlarvi un momento?” fece Cesare, all'improvviso, azzittendo Rodrigo, che stava ancora elencando tutte le punizioni che avrebbe inflitto agli Orsini o a chi per loro.

Il papa gli fece segno di parlare pure, ma il Cardinale specificò che dovevano essere soli. Sua Santità allora, pur un po' sconcertato per tanta fretta, ordinò a tutti di uscire e rimase da solo con il figlio.

 

Con gli occhi lucidi, Alessandro VI allungò una mano verso la guancia del figlio. Cesare non si mosse di un millimetro e le dita del padre si posarono sul suo volto ruvido di barba con delicatezza.

Quello che era partito, nella sua mente, come un potente schiaffo, aveva finito per tramutarsi in un carezza piena di dolore.

“Non voglio parlarne mai più.” concluse il papa, deglutendo a fatica e sostenendo lo sguardo fermo del suo erede: “Mai più.”

Il Cardinale finalmente abbassò gli occhi e sussurrò: “Mai più.”

Rodrigo, il cuore spezzato, ma un nuovo fuoco acceso nel petto, abbassò la mano e, convinto che fosse la cosa giusta da fare, abbracciò il figlio e lo baciò in fronte.

Senza che nessuno potesse immaginare quello che si erano detti, il papa e il Cardinale uscirono dal salone dopo ore di una stretta conversazione terminata con un gesto affettuoso tra padre e figlio.

Quel 5 luglio, una ventina di giorni dopo l'omicidio di Juan, Alessandro VI diede ordine alle sue guardie di interrompere seduta stante la ricerca dell'assassino del suo figlio prediletto.

 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas