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Autore: Adeia Di Elferas    09/12/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ludovico sollevò il sopracciglio e poi guardò di traverso Calco e il nipote Ermes, cercando in loro una reazione ilare che avrebbe scusato anche la sua risata.

Siccome tanto il cancelliere quanto il diplomatico erano rimasti seri come statue, il Moro sbuffò e si rivolse di nuovo al messaggero che gli stava davanti, per chiedere: “Che cosa intendete, di preciso?”

L'uomo abbassò lo sguardo e rilesse le parole dell'oratore, così come erano state scritte, troppo imbarazzato per poter aggiungere considerazioni personali: “La Contessa e messer Medici di Firenze si danno grandi piacevolezze in ogni ambito della rocca loro, non dandosi cura alcuna che alcuno li veda o senta o per giunta interrompa.”

Non c'era nulla da fare, al Duca di Milano scappava da ridere e quella volta non riuscì più a trattenersi.

Mentre la risata fragorosa del loro signore ancora riempiva l'aria, Ermes e Calco assumevano un'espressione vaga e lo stesso faceva il messo che, arrossendo sempre di più, chiese il permesso di congedarsi.

“Un momento.” lo bloccò Ludovico, asciugandosi gli angoli degli occhi che lacrimavano per il troppo ridere.

Il messaggero restò al suo posto, porgendo però la lettera al cancelliere, affinché potesse farne quel che voleva.

“Secondo il nostro oratore, quindi – riprese il Moro, tornando finalmente serio – mia nipote l'avrebbe solo come amante o se lo sarebbe sposato?”

Il giovane era sul punto di dire che non ne aveva idea, tuttavia l'oratore milanese a Bologna, colui che l'aveva mandato a Milano in fretta e furia, aveva detto chiaramente cosa pensava.

Così, schiarendosi la voce, il messo disse: “Si ritiene probabile che loro si siano sposati, perché è questa la voce che gira nel loro Stato.”

“Andate pure.” lo congedò finalmente Ludovico.

Non appena fu solo con il nipote e con Calco, il Duca si lasciò andare a un gesto di impazienza e commentò, a denti stretti: “Ma che lo pago da fare, io, un oratore a Forlì, se poi queste cose le devo sapere dalle chiacchiere dei pettegoli di Bologna?!”

Il cancelliere, che aveva appena finito di rileggere la lettera, cercò di andare al sodo, tralasciando quei dettagli: “Quello che ci interessa – gli disse, cercando appoggio anche in Ermes – adesso è capire se si sono davvero uniti in matrimonio e perché.”

“Perché mia nipote è una Sforza, ecco perché!” sbottò il Moro, trovando quell'ultima frase assurda e pretenziosa: “Non cercate tanti motivi! Se si è incapricciata di quel fiorentino, ci credo che l'abbia sposato senza pensarci un momento! Vi ricordo che aveva sposato anche uno stalliere analfabeta, per lo stesso motivo!”

Ermes tossicchiò un paio di volte e provò a dire: “Questa volta è una cosa molto diversa, se mi permettete. Giovanni dei Medici rappresenta Firenze.”

Il Duca agitò una manona in aria e si trovò da solo a pensare che se sua nipote Caterina fosse stata un uomo, sarebbe stato tutto più semplice. Anche se, forse, sarebbe stato complicato tenerla a freno.

A ben pensarci, Ludovico era un uomo ed era molto più potente di lei, eppure nemmeno lui si azzardava a fare certe cose...

Con tono sbrigativo, il signore di Milano disse: “Ho bisogno di pensare un momento... Pensate voi alle udienze di oggi.”

“Io credo che dovreste farvi vedere più presente, con i milanesi... In molti vi criticano aspramente perché...” prese a dire Bartolomeo, ma il suo signore lo stava già mettendo a tacere con un'occhiataccia.

“Non state a dire a me quel che devo fare. Dite che sono indisposto. Oppure dite a tutti che sto spiegando al mio caro parente di Pesaro cosa deve fare con sua moglie. Sono convinto che i milanesi apprezzeranno questa nota di colore. Che si distraggano pensando alle sue disavventure amorose...” fece il Duca, già andando alla porta e lasciandosi alle spalle i suoi impegni di Stato.

Quella che aveva detto era una mezza verità. Mentre ascoltava le parole claudicanti dell'inviato dell'oratore di Bologna, Ludovico aveva escogitato un piano che riteneva infallibile.

Sua nipote Caterina, con la sua condotta sconsiderata gli aveva rimesso davanti al naso una delle peculiarità degli Sforza. Se Giovanni voleva essere all'altezza del cognome che portava, non poteva accettare di vedere un matrimonio annullato per mancanza di consumazione.

“Oh, eccovi, finalmente...” fece il Duca, prendendo per il braccio il parente che stava attraversando il loggiato del palazzo che dava sul cortile: “Venite con me.”

Lo portò in una stanza tranquilla e lo fece sedere, poi, andando avanti e indietro davanti a lui, ondeggiando le braccia come quando cercava di togliersi i dolori reumatici dalle spalle, iniziò il suo discorso con una domanda da cui poteva dipendere il buon esito dell'intera operazione: “Dite che vostra moglie sarebbe disposta a raggiungervi in un determinato posto, se voi le spiegaste che a tal modo risolvereste questa situazione?”

Giovanni, la barba sfatta e pesanti occhiaie, ci ragionò sopra con cognizione di causa e alla fine, in uno slancio di ottimismo, rispose: “Potrebbe essere, sì.”

“Ecco – sorrise trionfale Ludovico, i capelli scuri che arrivavano al collo che ondeggiavano a ogni passo – allora dite a vostra moglie di raggiungervi a Nepi. È una terra neutrale, è di Ascanio, lui sarà d'accordo a lasciarvi andare lì. La raggiungerete, con una scorta al seguito di soldati fidati che vi darò io stesso, e là avrete un convegno amoroso dimostrativo con madonna Lucrecia davanti a testimoni sia di noi Sforza, sia di loro Borja.”

A quelle parole Giovanni sbiancò. Ricordava anche troppo bene la prima volta che aveva dovuto giacere con la moglie e il pubblico assiepato attorno al letto, gli occhi voraci dei prelati romani e quelli rabbiosi di Cesare Borja. Aveva giurato a se stesso che non avrebbe mai più fatto una cosa tanto umiliante e perciò si alzò di scattò dal divanetto e cominciò a scuotere il capo.

“Non se ne parla, assolutamente no, voi siete un pazzo!” farfugliò il pesarese, torcendosi le mani l'una nell'altra e sentendosi mancare il fiato: “Non farò mai nulla del genere! Mai!”

Il Moro sospirò, esasperato da tanta pudicizia. Poi, cercando di mitigare l'ansia del suo parente, lo fece fermare e propose il piano di riserva.

“Il papa vi accusa di non essere riuscito a consumare il matrimonio.” gli ricordò, incontrando appena il suo sguardo sfuggente: “Ebbene, incontrate delle donne qui, a Milano, sotto gli occhi di un legato pontificio. Gli dimostreremo che non siete impotente e allora dovrà per forza...”

“Non voglio fare nulla del genere!” si incaponì di nuovo Giovanni, scuotendo con maggior forza la testa e scostando il Moro con uno strattone: “Io non devo dimostrare nulla a nessuno! Lui vuole annullare il matrimonio solo perché, oh, buon Dio, ve l'ho già detto il perché!”

Il Duca attese che il pesarese sbollisse un po' e infine borbottò: “Che poi, ha una bella faccia a muovervi certe accuse... Tutti sanno che la vostra prima moglie è morta di parto...”

“Mio suocero va in giro a dire che l'avessi fatta ingravidare da un altro.” spiegò Giovanni, stremato da quella conversazione.

Il modo in cui Ludovico lo fissò fu la cosa peggiore di quel confronto tra Sforza. Gli occhi tondi del Duca erano interrogativi, come a chiedere se quella voce fosse vera.

“S'è inventato tutto, questo è chiaro.” precisò il pesarese, offeso all'inverosimile per essersi dovuto difendere a quel modo.

“E va bene, e va bene...” concluse il Moro, ricominciando ad arrovellarsi: “Ci penserò ancora su e poi vi dirò se ho avuto idee migliori e che non vadano a urtare i vostri delicati sentimenti...”

Giovanni lo ringraziò, benché la luce divertita nelle pupille del suo parente lo facessero sentire privo di appoggi e dileggiato da chi credeva un amico.

 

Caterina era andata a incontrare i costruttori che avrebbero messo mano alle opere di Bubano e aveva detto al marito di aspettarla pure all'osteria o dove preferiva.

Giovanni avrebbe preferito stare al suo fianco, ma si era reso conto subito che era meglio evitarlo, in quel frangente. Anche se non avevano mai negato apertamente con nessun forlivese di essere sposati, un fiorentino accanto alla Contessa avrebbe messo delle domande ai muratori imolesi arrivati per discutere il progetto e il compenso.

Così il Medici si era ritirato in una delle locande più vicine al palazzo dei Riario e si era messo di buon animo ad attendere.

L'oste, riconoscendolo, gli aveva offerto qualcosa da bere e lui, per non essere scortese, aveva accettato, ma da un po' teneva il calice fermo davanti a sé senza bere nemmeno un goccio.

Dopo il temporale di qualche giorno addietro, era scoppiato un caldo torrido che aveva investito sia le campagne sia la città come l'alito rovente di un drago. Il Popolano preferiva il clima più freddo dell'inverno e, non sapendo se in realtà vi fosse una effettiva correlazione, stava già dando la colpa al caldo, per i suoi dolori.

Erano ripresi in modo subdolo, dapprima come una piccola puntura ogni tanto. Di notte, mentre la moglie dormiva, Giovanni si trovava a restare intere ore sveglio a sondare le sensazioni strane che gli arrivavano dai piedi e dalle ginocchia.

Da un paio di giorni, poi, gli era parso che i tofi si fossero fatti più grossi, anche se ancora non infiammati, e che le articolazioni delle dite e delle caviglie si fossero fatte più rigide.

“Messer Medici...” salutò il Capitano Mongardini, arrivando da un tavolo un po' nascosto che stava in fondo all'osteria: “Non vi avevo visto. Vi faccio compagnia?”

Il soldato, Giovanni se ne accorse al primo sguardo, era fortemente ubriaco. Imitando le consuetudini della moglie, il fiorentino aveva cercato di mettere a memoria tutti i turni di guardia della rocca – almeno quelli dei Capitani – perciò sapeva che era il giorno libero di Mongardini.

Malgrado ciò, vederlo in quello stato non gli fece comunque piacere.

“Prego – lo invitò, mentre l'uomo si era già seduto pesantemente davanti a lui, un boccale di birra mezzo vuoto in mano – non fate complimenti.”

Il Capitano cominciò a chiacchierare fondamentalmente da solo, ma il fiorentino lo lasciò fare. Era strano vedere un soldato tanto rigido sciogliersi a quel modo e ridere sguaiatamente a certe battute sconce fatte da lui stesso.

A un certo punto, senza che il Medici avesse fatto nulla per indirizzare il suo discorso, Mongardini sollevò il labbro, mostrando i piccoli denti bianchi, e iniziò a ricordare dei giorni che erano seguiti alla morte del Barone Feo.

Nell'osteria non c'era nessuno, a quell'ora, a parte loro. L'oste si era provvidenzialmente defilato e così Giovanni non interruppe il Capitano, nemmeno quando si mise a raccontare certi dettagli.

“Il castellano me l'ha detto, sapete...” stava dicendo l'uomo, ormai giunto all'ultimo sorso del suo boccale: “L'ha ammazzato a calci e pugni, come un animale rabbioso.”

Il soggetto del discorso era Ludovico Marcobelli. Mentre Mongardini proseguiva nel riferire ciò che Cesare Feo gli aveva raccontato, Giovanni sentiva un nodo allo stomaco. Per placare la leggera nausea che lo pervadeva, bevve qualche goccio del vino offerto dal locandiere, ma non gli servì a molto.

“Io, per lei – proseguì il Capitano, sottolineando le ultime parole con una gravità che fece rabbrividire il fiorentino – ho ammazzato anche un neonato.”

A quelle parole, il Popolano si ritrasse appena, guardando con occhi diversi l'uomo che gli stava davanti.

“L'ho decapitato.” sussurrò Mongardini, vuotando una volta per tutte il suo boccale: “Era il figlio più piccolo di Gian Antonio Ghetti.”

“Avete decapitato un neonato?” chiese il Medici, a cui la cosa sembrava tanto assurda da non poter essere vera.

“Non crediate che mi sia piaciuto.” ribatté subito il Capitano, facendosi aggressivo: “È stata una cosa schifosa, anche per uno come me. Una cosa che non avevo mai fatto prima e che mi auguro di non dover fare mai più. Ma era un ordine della Contessa, e io sono un soldato efficiente.”

Mentre finiva la frase, Mongardini cambiò espressione e si alzò, profondendosi in un inchino.

Giovanni si voltò e vide la moglie entrare nella locanda. Indossava un abito leggero, scollato, qualche gioiello e teneva i capelli sciolti.

“Vedo che sei in buona compagnia...” disse Caterina, raggiungendo il marito.

Il fiorentino annuì, incapace di parlare, e poi si congedò da Mongardini con un cenno del capo e attese che la Tigre decidesse di uscire.

“Di che stavate parlando?” chiese la Contessa, notando qualcosa di strano nel marito.

Il Capitano, che aveva davvero bevuto troppo, si scusò frettolosamente e corse fuori per andare a vomitare in strada.

Osservando di sfuggita l'espressione nauseata della Sforza, Giovanni si fece coraggio e disse la verità: “Mi stava raccontando di quando hai ucciso Ludovico Marcobelli. E di quando hai fatto uccidere a lui un bambino di pochi mesi.”

Caterina, istintivamente, occhieggiò verso l'oste, che stava pulendo assorto dei calici, e così si sedette e fece segno al marito di fare altrettanto.

Appena il Medici riprese posto sulla sua sedia, la Leonessa gli sussurrò: “Te ne avevo già parlato io.”

“Di Marcobelli, non del bambino.” disse piano Giovanni, che non riusciva a intravedere alcuna logica in un'azione tanto violenta.

“Quando Giacomo è stato ucciso, è morta molta gente.” tagliò corto la Contessa: “Non te l'ho mai nascosto. Quando ti ho detto che ho fatto uccidere anche tutti i figli dei congiurati, dovevi immaginare che ci fossero anche dei bambini.”

“Io...” cominciò a dire il fiorentino, ma quando incrociò le iridi verdi della moglie, tutto il suo slancio di recriminazione si spense.

Aveva già accettato a scatola chiusa tutto quello che Caterina aveva fatto e deciso prima di conoscerlo. Nel momento stesso in cui aveva deciso di cedere a quello che provava per lei, si era legato anima e corpo a quella donna.

Con un peso sullo sterno che gli accorciava il fiato, alla fine Giovanni chiese, cambiando argomento in modo tanto improvviso da sconcertare la Leonessa: “Com'è andata coi costruttori?”

“Bene, bene...” fece la donna, cercando di riprendersi da quella virata repentina: “Dicono che potranno iniziare i lavori già prima che finisca luglio. Hanno anche costi contenuti...”

Giovanni annuì, mentre la moglie si rianimava e cominciava a raccontargli per filo e per segno cosa si erano detti lei e gli imolesi e più la sentiva parlare, meno l'ascoltava, perdendosi nella confusione dei suoi pensieri, ritrovandosi in fine a ripetersi che ormai per lui non c'era alternativa a quella belva selvatica che tutti chiamavano Tigre.

 

“Questo broccato non mi piace.” disse Isabella Este, con un tono ruvido che raramente il suo sarto le aveva sentito uscire dalle labbra.

La Marchesa era molto tesa, quel giorno. Tutti se n'erano accorti. Stava aspettando il ritorno del marito. Nessuno era certo che il suo rientro fosse fissato per quel giorno, visto che Francesco Gonzaga, a quanto pareva, era partito da Venezia in sordina e non stava dando sue notizie da giorni, ma la tensione che si respirava nello stare nella stessa stanza della sua consorte non lasciava dubbi.

“Cercatene uno più fine. Fatelo arrivare da Milano, magari. O da Firenze. Anche se sono in mano a quel frate scomunicato, di certo avranno ancora qualcosa di bello da vendere, no?” chiese la Marchesa, spostando con un gesto stizzito lo scampolo che il sarto le aveva mostrato in esempio.

Isabella continuò a passare in rassegna le stoffe, certa che anche quell'estate la moda di tutte le corti italiane avrebbe guardato con ammirazione e curiosità alle sue scelte. Influire così tanto sulle tendenze del momento a volte era davvero estenuante.

“Mia signora – annunciò stando sulla porta una delle guardie che la donna si teneva vicine quando restava a Mantova da sola – vostro marito è qui e chiede se può entrare...”

L'Este smise subito di mettere in disordine broccati e sete e chiuse gli occhi. Dopo aver preso fiato un paio di volte, fece un cenno con il capo e sentì i passi pesanti di Francesco entrare nella stanza.

Lei gli dava le spalle e, per pura recita, continuò a parlare con il sarto, come se il marito non ci fosse.

“Avete sentito quel che si dice sulla Sforza di Forlì?” chiese Isabella, rivolgendosi sempre all'uomo che le stava mostrando le stoffe: “Dicono che amoreggi di continuo e dovunque con il suo nuovo amante, un Medici, di Firenze. La invidio per come sa prendersi le sue libertà. Almeno non deve sottostare al ruolo di moglie e di madre. Senza un marito che la tiene al suo giogo riempiendola di parole e poi agendo come un bambino...”

Francesco ascoltava solo con un orecchio. Anche lui aveva sentito le chiacchiere che si stavano spandendo a macchia d'olio circa la nipote del Moro, ma gli interessavano solo relativamente. Era, anzi, così concentrato sul pensiero di quello che voleva dire alla moglie, da non cogliere nemmeno la velata stoccata rivolta proprio a lui.

“Potete lasciarci soli?” chiese al sarto, con uno sguardo eloquente.

Questi guardò prima il Marchese e poi la Marchesa, che gli disse di restare, e non seppe a chi dar retta.

“Uscite di qui, o vi faccio mozzare le mani.” intimò Gonzaga, calmo, ma comunque temibile.

Isabella strinse i denti e poi permise tacitamente al servo di andarsene. Non appena fu sola con il marito, però, Francesco si pentì subito di non aver lasciato almeno un testimone nella stanza che fosse sufficiente a placare l'ira della moglie.

Prima che potesse mettersi a parlare, infatti, il Marchese si vide colpire in pieno volto da uno schiaffo, tanto forte da stentare a credere che arrivasse da una donna come sua moglie.

“Come hai potuto mandare tutto all'aria così?” fece Isabella, fronteggiandolo, le mani sui fianchi strette a pugno: “Ti rendi conto della fatica che avevo fatto a ridistendere i rapporti tra noi e il Doge? Si può sapere che hai fatto per...”

“Non ti permetto di parlarmi così.” la fermò Francesco, imperioso, afferrandola per un braccio in modo perentorio: “Resta al tuo posto. Se ho disfatto tutto con Venezia, la colpa è loro che mi accusavano senza motivo. Uno avrà pur la possibilità di difendersi, o no?”

La Marchesa vedeva il volto asimmetrico e bruttissimo del marito e mentre sentiva le sue dita stringerle il braccio, si diede della stupida per quello che cominciava a provare. Era stata lontana da suo marito per troppo tempo. Finché era stato a Venezia, era riuscita a ingannarsi e distrarsi, ma ora che lo aveva di nuovo davanti a sé, il suo fascino ruvido le stava facendo passare ogni buon proposito di mente.

Gonzaga se n'era accorto, riconoscendo nel vago tremito delle labbra della moglie il desiderio e così si convinse di averla avuta vinta: “Questa notte ti aspetto in camera mia.” le disse, piatto, allontanandosi un po': “So che non riesci a stare senza di me, ti si legge in faccia. Quindi, se mi vuoi, eviterai di parlarmi ancora di Venezia.”

“Io non ho alcuni bisogno di te.” lo contraddisse Isabella, ritirando il braccio di scatto e sollevando il mento.

“Certo...” fece Francesco, quasi ridendo: “Una donna come te non può resistere sola a lungo.”

“E infatti, chi ti dice che mentre eri via io non abbia avuto compagnia?” si arrischiò a insinuare la donna, sperando di non apparire terrorizzata quanto in realtà era.

Il Marchese la fissò attonito per qualche istante e poi, con una risata spezzettata e nervosa, esclamò: “Oh, figuriamoci! Stai mentendo.”

“Ne sei sicuro?” insistette la donna, che percepiva benissimo l'incertezza del marito: “Io sono uguale a te, Francesco.”

Il Marchese aveva l'espressione di qualcuno che avesse appena preso un pugno nello stomaco, tuttavia si riprese in fretta: “Se fosse così, dovrei ripudiarti. Non potrei sopportare di avere una moglie fedifraga.”

“Provaci pure a ripudiarmi, se vuoi.” lo prese in giro Isabella: “Sarei davvero curiosa di vedere quanto tempo dureresti senza di me.”

Il signore di Mantova aprì le labbra storte e prese fiato un paio di volte, poi, battendo un piede in terra in segno di frustrazione, andò verso la porta.

“Cercherò di riparare, con Venezia.” gli disse la moglie, appena prima che uscisse: “Ma da oggi sia chiaro che non ti permetterò più di prendere nessuna iniziativa.”

 

“Avanti, smettila di piangere...” stava dicendo Giovanni, mentre Bernardino si aggrappava a lui, in lacrime: “Dimmi che cosa è successo...”

Il bambino si asciugò un po' gli occhi, mentre il Popolano si accucciava accanto a lui per averlo ad altezza occhi. Anche se non era basso, per i suoi sei anni e mezzo, a guardarlo dall'alto a Giovanni pareva ancora più piccolo.

Stava camminando nel corridoio, quando aveva visto il figlio più piccolo di sua moglie correre e disperarsi e, prima che potesse capire che cosa fosse accaduto di preciso, se l'era trovato attaccato addosso.

Bernardino, dopo aver tirato su col naso molte volte, riuscì finalmente a raccontare quello che era successo. A quanto pareva, era entrato nella sala delle letture senza farsi sentire e vi aveva trovato i suoi fratelli Ottaviano e Bianca che parlavano.

Non aveva capito che cosa stessero dicendo, all'inizio, ma era certo che stessero litigando. Si era nascosto dietro alla poltrona, approfittando del fatto che loro fossero lontani, vicino alla finestra. A un certo punto aveva sentito fare il nome di suo padre.

“È vero che è stato mio fratello a ucciderlo?” chiese il bambino, specchiandosi negli occhi chiarissimi del fiorentino.

Il Medici non sapeva cosa rispondere. Una domanda così diretta lo metteva molto in difficoltà. Non sapeva dire cosa fosse meglio: una mezza bugia o una mezza verità?

Alla fine, accarezzando la testa di ampi ricci di Bernardino e squadrandone i lineamenti – a detta di tutti ogni giorno più simili a quelli del defunto Barone – sospirò: “Ottaviano ha commesso molti errori. Non ha ucciso lui tuo padre, ma ha lasciato che lo facessero. Era molto giovane e il suo errore è stato dettato dalla gelosia.”

Il bambino lo fissava, contrito. Giovanni non capiva se fosse perché non aveva capito le sue parole o se fosse perché non gli credeva.

In ogni caso, il fiorentino aggiunse: “Quello che è successo a tuo padre è orribile. Però con il tempo, forse capirai perché è successo. Non dico che arriverai a perdonare, ma a capire credo di sì.”

Bernardino sembrava ancora più confuso, ma questa volta l'ambasciatore seppe perfettamente che fare per lenire il dolore che traspariva dai suoi grandi occhi infantili.

Con un sorriso triste, il Popolano allargò le braccia e strinse a sé il piccolo con tutto il calore di cui era capace. Il bambino, affamato d'affetto, cinse il collo dell'uomo e, mostrando una certa forza di volontà, riuscì a non piangere più.

Caterina, che era appena arrivata in cima alle scale, vide la strana scena di suo marito che abbracciava Bernardino con dolcezza e per qualche istante ebbe l'istinto di restare in disparte e lasciarli in pace. Era palese che Giovanni se la cavasse meglio di lei in quelle cose.

“Madre!” esclamò però il piccolo, appena la intravide da sopra la spalla del fiorentino.

Il Medici, allora, lo lasciò subito libero e Bernardino corse dalla Contessa. Quando le arrivò vicino, però, rallentò il passo e trattenne lo slancio che l'aveva smosso.

Con discrezione, Giovanni andò fino a loro e affiancò Caterina, lanciandole un'occhiata molto chiara. La donna, allora, allungò una mano verso il figlio e gli accarezzò una guancia. Però, dopo quel primo contatto, il viso regolare e già di rara bellezza di Bernardino le fece tornare in mente con troppa irruenza quello di Giacomo.

Senza dire una parola, diede un rapido bacio sulla fronte al suo figlio più piccolo e riprese a camminare, facendo segno d Giovanni per fargli capire che lo aspettava.

Il Medici sospirò e poi, notando la mestizia che aveva ripreso possesso del bambino, gli propose, sforzandosi di suonare allegro: “Dimmi un po', ti piacciono di più le storie che parlano di re e regine o quelle che raccontano le gesta di nobili cavalieri?”

“I cavalieri...” rispose incerto Bernardino, squadrando l'uomo con un po' di sospetto, come a chiedersi il perché di una simile domanda.

“Oh, bene...” sorrise Giovanni, cominciando a scartabellare mentalmente tutte le storie cavalleresche che conosceva: “Che ne dici di andare un po' nella sala dei giochi, così te ne racconto qualcuna?”

Il bambino strabuzzò gli occhi, ormai asciutti e poi, facendo un mezzo salto sul posto accettò subito. Così il Popolano lo prese per mano e già prima di arrivare alla stanza dei giochi si trovò intento a raccontare le gesta di un cavaliere che a Bernardino sarebbe piaciuto moltissimo: il Duca Francesco, il primo Sforza di Milano.

 

Machiavelli sgomitava a fatica tra la folla che assisteva a quella concitatissima riunione della Signoria. Senza che vi fosse un reale motivo, quella seduta era partita malissimo e ora le due fazioni principali di Firenze si stavano dando battaglia con toni sempre più aspri.

“Noi Medici – stava dicendo Lorenzo il Popolano, alzando la voce così tanto da coprire perfino il campanello suonato con violenza dal Gonfaloniere di Giustizia – facciamo e abbiamo sempre fatto solo il bene di Firenze!”

“Avete sempre e solo fatto il bene del vostro portafoglio!” gridò uno degli Arrabbiati.

“Tiranni! Dal Magnifico al Fatuo, voi Popolani siete come loro!” urlò uno dei Piagnoni.

Niccolò si sentì spingere via e si trovò accanto Doffo Spini, il capo dei Compagnacci e quel giorno anche lui, per quanto fosse avverso a Savonarola, si mise a remar contro al Medici: “E che dite, messer Lorenzo?” chiese, mettendosi in mostra e suscitando molti commenti da parte dei fiorentini dabbene che erano accorsi alla Signoria: “Si vede come avete a cuore la nostra terra! Vostro fratello è in Romagna da oltre un anno e ancora non ci ha saputo dire se Forlì sarà dei nostri e dei veneziani!”

Il Medici stava per rispondere, quando i suoi detrattori ripresero a gridargli contro e solo per un momento il Popolano riuscì a riprendere la parola: “Mio fratello sta curando gli affari di noi tutti! In Romagna, lui sta contrattando e facendo gran lavori! Che ne sapete voi? Che di questi tempi, non fosse per lui, Venezia ci avrebbe già attaccati!”

Dopo l'ennesima ondata di insulti e improperi – che il Gonfaloniere non provò nemmeno più a tacitare – un Piagnone si mise in piedi sul tavolo del segretario che tentava disperatamente di stilare un riassunto della riunione e gridò: “Ma che c'avete preso tutti per fessi, Medici? Lo si sa che fa vostro fratello in Romagna! S'è venduto per una sottana!”

Un boato accolse quell'accusa e Lorenzo sembrò pietrificarsi là dov'era. Machiavelli restò con il fiato sospeso, mentre il Piagnone riprendeva la sua arringa.

“Quella, la Leonessa di Romagna, lo fa girare come le pare a lei!” sbraitò l'uomo, puntando il dito accusatore verso Lorenzo: “Quella virago si intrattiene con lui in pubblico, per far vedere a tutti, perché si sappia, perché tutti dicano che Firenze le sta sotto in tutti i sensi!”

A quel punto, il Medici non si trattenne più e, seguito dai Palleschi presenti, si avventò su quello che stava parlando, trascinandolo giù dal tavolo, mentre i suoi sostenitori iniziavano a menar le mani contro le altre fazioni.

Presto il pubblico si schierò un po' da un parte un po' dall'altra, con il Gonfaloniere che restava sul suo trespolo, gridando minacce vuote di quando in quando, ma intimamente sperando che nessuno si ricordasse di lui.

“Macchia, tagliate la corda?” ridacchiò Giovanbattista Ridolfi, tirandosi su le maniche.

Niccolò gli fece spazio e, stringendosi nelle spalle, si sistemò in un riflesso inconscio il ciuffo scomposto di ricci che aveva in testa e gli disse: “Non voglio immischiarmi in queste cose.”

“Prima o poi dovrete decidere da che parte stare.” gli fece Ridolfi, spintonando gli altri per riuscire a raggiungere il centro della mischia.

Lasciandolo andare laddove si stavano picchiando di santa ragione, Machiavelli si defilò, fino a guadagnare l'uscita e andare a rintanarsi nello studiolo in cui lavorava. Anche da lì si sentiva le urla che arrivavano dalla sala delle riunioni.

“Io sto dalla parte di Firenze.” disse tra sé, mesto, intingendo la penna nell'inchiostro e mettendosi a lavorare su alcune scartoffie che aveva lasciato da parte il giorno prima.

 
   
 
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