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Autore: Nemamiah    13/12/2017    1 recensioni
Dal testo:
Verity sorrise e rispose: ‹‹Io invece credo che ci sia sempre un motivo per il modo in cui si sceglie di agire, indipendentemente dall’essere buoni o cattivi.››
‹‹È un altro modo di vedere la vita, ma penso porti alla sofferenza. Chiunque può tradirti, fingere di essere in un modo e rivelarsi l’opposto. È necessario classificare le persone e scegliere chi non far avvicinare per essere felici.››
‹‹Anche la sofferenza può condurre alla felicità, non è sempre negativa.››
[...]
‹‹Forse è solo questione di scegliere quale rischio correre quando si conosce qualcuno, se tenerlo lontano dal tuo cuore o donarglielo anche se potrebbe distruggerlo, sapendo che significa concedergli la tua fiducia, saltare nel vuoto e sperare che ti prenda prima che tocchi il suolo.››
‹‹Un po’ come l’amore.››
‹‹No. L’amore è saltare nel vuoto e sapere che non toccherai il suolo perché qualcuno ti prenderà prima.››
[...]
‹‹Il problema è questo: fare la cosa giusta non è sinonimo di rendere tutti felici.››
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Sovrannaturale
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nero come il bianco - Raccolta'
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Angolo dell’autrice:

Buonasera a tutti, come state?

Io, nonostante i ritardi dei treni, i laboratori infattibili e la neve che cade sempre troppo lontana dal luogo in cui mi trovo, sto abbastanza bene. Il Natale si avvicina giorno dopo giorno e il mio migliora di conseguenza. Il 25 sarò un concentrato di euforia, allegria e cioccolata nelle vene al posto del sangue.

Mi spiace che gli ultimi due capitoli non abbiano ricevuto nemmeno una recensione, più che altro perché non so dove sto sbagliando, ma spero che questo vi piaccia e che abbiate voglia di lasciarmi un parere, per quanto piccolo.

Un saluto e un bacione a tutti voi che leggete!

 

Nemamiah

 

I giorni che la separavano dall’appuntamento con Scar trascorsero velocemente e Verity si ritrovò quasi senza accorgersene affacciata alla finestra in attesa del suo accompagnatore. Quando il campanello suonò aveva appena deciso che avrebbe mangiato qualcosa per colazione, ma rinunciò per non farlo aspettare.

Non credeva che avrebbero viaggiato con la smaterializzazione, ma le piacque molto come magia: era più veloce e meno fastidiosa per lo stomaco, anche se più pericolosa del teletrasporto perché poteva capitare di ritrovarsi con un braccio al posto della gamba, o con i capelli o gli occhi o addirittura i cervelli scambiati se il mago non era davvero abile. Per questo era vietata a tutti i maghi al di sotto dei trent’anni. Non chiese nulla a Scar, anche se era ovvio dal viso che lui ne avesse molti di meno.

Mentre Verity rifletteva sul caso, scambiando poche parole cortesi con Scar, questo osservava con attenzione la folla, sperando di trovare Dakota e di andare via il prima possibile: quel luogo non era per niente adatto a lui. Era troppo caotico, quasi tutti urlavano per poter parlare tra di loro e i bambini piangevano disperati, stanchi della coda.

Quando si videro a vicenda, la ragazza si avvicinò.

‹‹Scar, Verity, che sorpresa trovarvi qui!››

Dakota era in compagnia del suo fidanzato e gli stringeva la mano.

Se la voce squillante di Dakota non fosse bastata a far sì che Verity volesse allontanarsi, la faccia complice di Liam era un ottimo incentivo. Il ragazzo però si appiccicò a Scar, coinvolgendolo in una conversazione sulla magia cui Verity non avrebbe mai potuto partecipare. Lei aveva sperato, ogni secondo di ogni giorno successivo all’invito, in una giornata all’insegna del divertimento e dell’allegria, e invece si ritrovava bloccata in una melma di tensione: giocare alle “finte coppiette felici” non era mai stato il suo programma.

Nessuna attrazione sembrava minare la parlantina di Liam: si lamentò della nausea appena sceso dall’ottovolante ma continuò a parlare; la giostra delle tazze gli fece girare la testa ma non smise di porre domande a Scar. Non c’era verso di farlo smettere e la pazienza di Scar, nell’arco di poche ore, scomparve come fumo. Quando si fermarono di fronte alla ruota panoramica, Scar vide la sua opportunità di liberarsi di Liam e spinse le due ragazze dentro una delle cabine, abbandonando poi il ragazzo con un brusco saluto.

 

Entrambe guardavano fuori dal vetro, tese e allo stesso tempo imbarazzate: Dakota, che si era preparata un discorso, non sapeva come cominciare e ogni parola che avrebbe dovuto dire le sembrava sbagliata; Verity guardava fuori e basta, decisa ad aspettare e a passare l’intera mezz’ora del giro in silenzio se fosse stato necessario. Si sentiva morire dentro al pensiero di quello che stava facendo, a come la stesse ignorando, ma non avrebbe parlato quella volta: aveva la sua parte di colpa in quel litigio, ma di chiedere scusa per prima nemmeno a parlarne. Malediceva Scar nella mente, capendo che quell’uscita era stata programmata da Dakota e che non aveva nulla di spontaneo da parte sua, e si ripromise di vendicarsi in qualche modo, magari portandolo a fare qualcosa di triste e noioso.

Improvvisamente percepì un leggero profumo di cioccolata. Cercò di ignorarlo, ma piano piano diventò sempre più intenso e non voltarsi verso Dakota divenne sempre più complicato. Pensò che avrebbe potuto girarsi, non sarebbe sembrato un segno di resa o di perdono anzi, non avrebbe significato nulla.

Dakota le stava porgendo un terzo della tavoletta e lei la prese, voltandosi di nuovo verso il vetro, notando il suo viso riflesso, con le guance rosse e gli occhi lucidi.

‹‹È tutta opera mia. Ho obbligato Scar a invitarti, ma ha recitato molto bene, sembrava davvero felice di essere con te. Glielo si leggeva negli occhi. Però volevo trovare un modo per riappacificarmi e nessuno di quelli che avevo ideato sembrava efficace…››

‹‹Avrei dovuto immaginarlo.››

‹‹So che è stato un colpo basso coinvolgerlo, ma mettiti nei miei panni: non mi avresti mai parlato e questa ne è la dimostrazione. Preferisci guardare quel vetro che me.››

‹‹Almeno riflette.››

‹‹Questa freddura non è degna di te›› disse ridacchiando ‹‹ma è abbastanza vera. Non ho riflettuto. Non ho pensato che quelle parole avrebbero potuta ferirti così nel profondo; che non ti saresti avvicinata a me per giorni, ignorandomi anche quando scorgevi i miei occhi fissi nei tuoi. E avrei dovuto sapere che avresti reagito così, come avrei dovuto capire da sola che se non mi avevi detto nulla prima, era perché non ti sentivi pronta. Probabilmente nemmeno io ero pronta ad ascoltarti, ma potrei esserlo adesso: sarà difficile perché me la prenderò ogni volta che mi rivelerai un nuovo segreto, ma mi impegnerò a comprendere. Sarò nel posto giusto, al tuo fianco, ad aiutarti in ogni modo possibile, senza giudicarti né inveire contro di te. Ho sbagliato a scappare via dopo averti accusato di essere un’ipocrita, non lo sei e non serve che sia io a dirtelo, lo sai da te. Ho sbagliato e sono giorni che il senso di colpa mi tortura. Puoi perdonarmi?››

Verity si voltò verso di lei e la vide sconsolata come mai era stata: quando si era rifugiata da lei a causa dei litigi dei genitori era infuriata con il mondo, pronta ad esplodere con chiunque le desse fastidio. Adesso era diverso. Aveva gli occhi lucidi, come i suoi, e sapeva perfettamente che fosse pentita di ogni parola, di ogni gesto. Lo stesso provava lei, meno acuto e doloroso; diverso nella forma ma uguale nella sostanza. Era triste allo stesso modo, sola ugualmente.

‹‹Ti ho perdonata nel momento in cui mi hai voltato le spalle, lo sai, e una parte di colpa è mia. Ho preteso che tu comprendessi i miei dubbi e le mie paure quando nemmeno io ero in grado di dire con precisione perché non volessi parlarti di questa storia assurda. Possiamo dividere le colpe, anche se tu ne avrai sempre di più per me. Ma non posso evitare di volerti con me: sei tutto quello che di fisso sia mai esistito nella mia vita; l’unica che mi è sempre gravitata intorno nonostante in certi momenti diventassi insopportabile. Adesso però… Potremmo finire quello che avevamo iniziato, non credi?››

Dakota sorrise, saltando addosso a Verity, e quasi la stritolò nel suo abbraccio, chiedendole ancora scusa almeno un centinaio di volte, fino a quando non scesero dalla cabina della ruota.

All’ingresso trovarono Liam, che si lamentò di come Scar l’avesse abbandonato bruscamente lì ad aspettarle.

‹‹Amore, ascoltami, Verity ed io adesso dobbiamo proprio andare via. Ti spiace se ti lascio tutto solo a goderti le giostre mancanti?››

‹‹No, però...››

Dakota lo baciò su una guancia e si allontanò in fretta, prima che Liam capisse esattamente cosa implicassero le sue parole. Non che fosse uno sciocco, tutt’altro, ma alcune volte Dakota sfruttava la dolce tranquillità che lo faceva ragionare con calma. Finiva così per lasciarlo solo a pensare mentre lei era già molto lontana. Non si comportava spesso in quel modo, non le piaceva, ma l’amicizia con Verity era più importante dell’amore per Liam e se avesse speso il suo tempo a cercare di spiegargli il perché, avrebbe perso l’intero pomeriggio e forse anche la serata: l’elenco di tutte le motivazioni sarebbe stato troppo lungo.

Scar invece, nascosto nell’ombra, le osservò andare via.

Aveva pensato di scomparire subito dopo aver mollato Liam per strada, ma anche che sarebbe stato interessante vedere come si sarebbe risolto il litigio tra le due ragazze. Si scoprì a fissarle con invidia, rivedendo in quella coppia ciò che erano stati un tempo molto lontano lui e suo fratello. Erano stati affiatati, complici, fratelli e amici al tempo stesso; si erano confidati a vicenda ogni strana idea che avevano e proprio a causa di una confidenza si erano irrimediabilmente divisi.

Scosse la testa per scacciare tutti i ricordi, sia quelli felici che rimpiangeva sia quelli tristi, e si concentrò solo su Verity.

Umana a tutti gli effetti o angelo?

Pensandoci, somigliava davvero a Mary e forse era vero, aveva tutti i suoi poteri, ma allora perché non sentiva nulla di quello che si stava diffondendo sulla Terra?

Decise di aspettare ancora un poco, poi sarebbe intervenuto. Nel frattempo richiamò la sua scia magica e vi scomparve all’interno, certo che nessuno lo avrebbe notato.

 

Le ragazze erano uscite dal parco e con un semplice teletrasporto si erano ritrovate all’interno della camera di Dakota, e ancora una volta Verity espresse la sua invidia per quell’utile magia, aggiungendo però quanto fosse stata incredibile la smaterializzazione di Scar.

‹‹Ma non ha trent’anni.››

‹‹Questo non significa che non la sappia fare.››

‹‹Mio Dio, non voglio immaginare la tua testa sul corpo di Scar o quale altra assurda combinazione sarebbe potuta uscire se avesse fatto il minimo errore: sei stata fortunata ad uscirne tutta intera. Non voglio sentire parlare di quella magia, abbiamo ancora cinque anni di attesa e non ho intenzione di passarli a crogiolarmi nella depressione: finisci il tuo di racconto, invece.››

Verity annuì, anche se si dispiacque nel realizzare che lei, quella magia, non l’avrebbe mai eseguita.

Raccontò lentamente, ogni ricordo ma dosandone l’effetto: l’abito che indossava la sera della festa e la sensazione di gelido calore mentre era sola con Scar; la distesa di sangue e morte del sogno e i volti nella fossa; le lacrime di Lucifero e la donna che aveva le sue stesse sembianze; le voci che aveva sentito nell’altro sogno, che discutevano su una guardiana; la diavoletta che prima l’aveva attaccata per ucciderla e poi le aveva chiesto di non abbandonare Lucifero.

‹‹Cosa centri tu con tutto ciò? Sei senza magia, non ha senso.››

‹‹Nulla ha senso dell’intera storia, ma c’è un altro particolare, e questo è strano davvero, forse più di tutto il resto. Nel laboratorio, mio padre mi ha lasciato tenere in mano i due Ingranaggi contemporaneamente: ho sentito qualcosa. Emanavano vita, speranza, le sentivo scorrere nelle mie vene e, allo stesso tempo, c’era qualcosa di instabile, come se potessero esplodere da un momento all’altro in qualcosa di terribile.››

‹‹Ne hai parlato con tuo padre?››

Verity scosse la testa per negare: non voleva diventare parte dell’esperimento, non più di quanto già non fosse, quanto meno. Dakota si ritrovò d’accordo con lei, in parte, ma allo stesso tempo era spaventata all’idea di non dire nulla. Per quanto la situazione fosse assurda e incredibile, era anche spaventosa e innaturale: erano accadute troppe anomalie una dopo l’altra per essere solo una serie di coincidenze. Era paradossale e folle pensare che si fosse messo in moto un qualche strano meccanismo, ancora sconosciuto, ma non riusciva a eliminare quell’idea dalla mente, troppo ingombrante.

Pensò che se avesse esposto quel pensiero a Verity l’avrebbe fatta preoccupare e agitare più di quanto non fosse già, e allora lo tenne per sé, deviando l’attenzione sui piccoli cuscini nascosti dietro la schiena dell’amica. Ne sollevò uno in silenzio, continuando a fingere di riflettere e lo lanciò sulla nuca dell’amica. Certo, pensare era importante ma anche divertirsi e svagarsi sinceramente poteva rivelarsi utile.

‹‹Non vale attaccare mentre l’altro è distratto e di spalle però!››

Verity recuperò un cuscino da terra e provò a lanciarlo contro Dakota, ma questa si fece scudo con quello che teneva in mano, per poi colpirla contemporaneamente con altri due, facendoglieli volare addosso non troppo forte.

Iniziò una battaglia dove Verity capì subito di essere svantaggiata e cercò di sfruttare tutti i momenti in cui Dakota abbassava le difese magiche o la colpiva di sorpresa: fu l’unica a spostarsi per la camera, riparandosi dietro tutto quello che trovava, mentre l’amica rimaneva seduta comodamente sul letto. Le risate che nascevano ad ogni colpo andato a segno, dall’una o dall’altra parte, crebbero velocemente nel volume, rimbombando lungo la scala a chiocciola ed entrando nella sala, dove Erald stava disegnando nuovi modelli, fischiettando allegro.

Suonò il campanello ed Erald si mise la matita dietro l’orecchio, andando ad aprire.

‹‹Eleonore, cosa fai qui? Non ti si vede mai in questa parte della città.››

La donna batteva velocemente la punta del piede per terra. Si lisciò un lungo ciuffo, inserendolo con un dito nella complicata acconciatura.

‹‹Vivo in un quartiere completamente diverso da questo, è ovvio che non mi si veda mai. Comunque sono venuta a prendere mia figlia, lasciami entrare, Erald.››

‹‹Dai, Eleonore! Le loro risate si sentono fin dalla strada: lasciala dormire qui. La riporto a casa domani.››

La donna lo fulminò con gli occhi, prendendo un respiro profondo: ‹‹Non la lascerò qui consapevolmente: domani sera c’è la festa per la fondazione della città. Dobbiamo preparaci e anche tua figlia dovrebbe farlo, so che il sindaco l’ha invitata.››

‹‹Sì, un onore inaspettato ma gradito. Rimane il fatto che Verity non sia la tua bambola, lasciala divertire! So che desideri solo il meglio per lei, ma se ti continuerai a comportarti come so, finirà per credere il contrario.››

‹‹Fammi entrare, Erald. Non voglio litigare, non ora e non con la possibilità che tua figlia ci ascolti: ha già visto troppa violenza per essere così giovane.››

L’uomo sgranò gli occhi e si fece da parte per lasciarla passare, scuotendo la testa sconsolato quando la vide salire la scala a chiocciola ed entrare nella stanza della figlia.

Dakota e Verity interruppero la loro battaglia con i cuscini e la prima li liberò dalla magia con cui fluttuavano all’improvviso: sfortunatamente uno cadde in testa a Eleonore. La donna emise un gridolino di spavento, ma disse lo stesso a Verity di uscire dalla stanza e tornare a casa con lei. La ragazza salutò l’amica e si avviò fuori. Coprirono l’intera distanza tra le due case con un preciso teletrasporto che lasciò la giovane nella sua stanza.

Verity lesse sul biglietto lasciatole sul letto che avrebbe dovuto essere di fronte alla porta di casa la mattina successiva. Sbuffò irritata e lanciò il pezzo di carta nel cestino.

Perché sua madre si ostinava a cercare di manovrarla come un burattino? Era andata a prenderla solo perché ci sarebbe stata quella stupida festa, non perché fosse preoccupata per lei: allora perché avrebbero dovuto passare l’intera giornata insieme? L’avrebbe usata solo per fare una bella impressione sui ricchi maghi presenti, o magari l’avrebbe spinta a fare amicizia con i loro figli nonché eredi.

Alla fine riprese il biglietto stropicciato dal cestino e lo distese sulla gambe, lisciandolo e rileggendolo. Lamentarsi da sola non sarebbe servito a nulla e fare felice sua madre avrebbe diminuito l’irritazione per tutta quella mascherata.

 

Si fece trovare al piano terra con indosso il vestito azzurro pastello che era apparso nell’armadio quando lo aveva aperto e anche se non si era pettinata bene i capelli, lasciandoli un po’ disordinati, Eleonore sorrise quando la vide e poi la portò in un piccolo angolo di paradiso.

Erano in uno dei pochi caffè del centro dotati di un cortile interno, dove si poteva stare sia in estate che in inverno, quando il freddo diventava pungente e le dita rigide. Nelle fessure tra le piastrelle ruvide spuntava ancora qualche coraggiosa margherita, incurante del cambio di stagione, mentre i fiori più belli erano nascosti nella piccola serra dai vetri trasparenti. Verity vi entrò, fermandosi per annusare il profumo dei fiori e accarezzarne i petali. Erano setosi e morbidi ed emanavano una fragranza dolce e delicata.

Vide attraverso il vetro una donna dai capelli corvini chiedere a Eleonore qualcosa e decise di uscire per andare a sedersi al suo fianco. In pochi secondi tè e pasticcini si posarono delicatamente sul tavolo per magia e iniziarono a mangiare.

‹‹Allora Verity, come sai stasera il sindaco organizza il tradizionale ballo per la fondazione della città e quest’anno ti vorrei con noi. Quindi oggi cercheremo un vestito adatto e metteremo in ordine i tuoi capelli spettinati, che ho notato, e ci ritroveremo con tuo padre. Sperando che non si sia dimenticato dell’appuntamento…››

A Verity non andava di partecipare alla festa, men che meno di passare il pomeriggio tra i negozi e i parrucchieri. Aveva già tanti vestiti a casa e un colpo di spazzola sarebbe bastato per metterla in ordine. Però, contemporaneamente, non voleva litigare con la madre e sapeva che Dakota sarebbe stata lì. Non avrebbe potuto abbandonarla.

‹‹Che ruolo avrei in questo ballo, mamma?››

Eleonore le sorrise, socchiudendo leggermente gli occhi, e disse: ‹‹Tu scenderai le scale con il figlio del sindaco. Non hai idea della cortesia di quel ragazzo e della piacevolezza della sua compagnia. Cerca di piacergli almeno un po’, tesoro.››

Capì subito a cosa alludesse: una bella relazione, magari vantaggiosa per l’onore della famiglia. Sorrise, cercando di non mostrare il disgusto e la repulsione che si stavano diffondendo nelle vene, e finì il suo tè, rimanendo in silenzio per il resto della colazione, ascoltando sua madre parlare e riparlare.

Si prestò, sempre con un finto sorriso, ad entrare e uscire dai negozi senza comprare nulla per la maggior parte della mattina; a chiacchierare con maghi e streghe che non aveva mai visto o con cui, da sola, non avrebbe scambiato una parola, un po’ per l’imbarazzo e un po’ perché non avrebbe mai avuto argomenti di conversazione.

Dopo quattro negozi, Eleonore raggiunse il suo preferito e Verity sospirò di sollievo: finalmente si sarebbero fermate e avrebbe potuto riposare i suoi poveri piedi.

Appena entrate furono accolte da una giovane commessa e da un anziano signore che doveva essere il proprietario. Lui, settantenne, indossava un completo bianco e nero e dei gemelli brillanti sui polsi della camicia che spuntava dalla giacca; lei, appena trentenne, aveva un abito verde pastello, stretto sotto il seno con una fascia di seta.

Eleonore parlò brevemente con loro, voltandosi di tanto in tanto verso la figlia, gesticolando con le mani, poi si sedette su una delle poltrone e accavallò le gambe, in attesa.

La commessa, il cui nome era Vittoria, prese con gentilezza Verity per un braccio e l’accompagnò al camerino.

L’uomo aveva già preparato alcune scatole con abiti di varie forme e colori quando sentirono Eleonore urlare che voleva un abito vecchio stile.

La maggior parte degli stilisti creava gli abiti mediante la magia: muovevano forbici, gessetti, aghi, fili, macchine da cucire con la levitazione controllata o altre tecniche magiche più precise. I risultati erano ottimi, mai difetti nel tessuto, mai fili da strappare o cuciture imperfette.

Insieme a questo genere esistevano altri due tipi di stilisti: i Nostalgici e gli Innovatori.

I primi seguivano la via tracciata dagli antichi artigiani: cucivano a mano o a macchina, sceglievano attentamente i tessuti in base alla consistenza e, all’occasione, ricamavano le decorazioni a mano. La magia non veniva impiegata in nessuna delle fasi della produzione.

I secondi creavano abiti magici nel vero senso della parola. Non c’erano stoffe o fili, né strumenti di altro genere: ogni singola parte dell’abito era realizzata modellando la magia emanata dallo stilista in una forma solida e stabile, resistente ma, allo stesso tempo, abbastanza morbida da poter essere indossata. I maghi dell’aria e del fuoco erano i più quotati per questo genere di abiti, soprattutto perché erano le due magie più semplici da controllare. L’aria donava ai capi una leggerezza maggiore della seta più delicata; il fuoco li rendeva caldi e confortevoli più della lana e del cachemire ed erano in grado di scaldare o rinfrescare il corpo in base all’emissione magica di chi li indossava. Se si aveva freddo, bastava pensarlo e l’abito aumentava temperatura; se si aveva caldo, il contrario.

Quindi un abito vecchio stile era creato a mano dai Nostalgici.

L’uomo sbuffò e cacciò via con la mano alcune scatole che stavano arrivando e altre che, invece, erano già poggiate sul tavolo, sostituendole con pacchetti polverosi. Guardò prima Verity, poi i vestiti, e rise sommessamente, cercando di non farsi udire.

‹‹Sembrano vecchi e sporchi fuori, ma dentro saranno nuovi, non preoccuparti.››

La ragazza sorrise. In effetti, visto il dito di polvere che copriva i pacchetti, si era chiesta da quanto tempo quegli abiti fossero lì, ma aveva anche allontanato la domanda, pensando che la madre sapesse a cosa andasse in contro.

‹‹Immagino sia dura vivere con una donna simile…›› disse l’uomo scartando i vari pacchetti e lanciandole ogni volta un’occhiata veloce per misurarla con lo sguardo.

‹‹Dopo un po’ ci si abitua.››

‹‹Menti con chiunque, ma non con me. La vedo la faccia di Victor quando l’accompagna qui: vorrebbe solo andare via, magari nel suo laboratorio… Hai un colore che preferisci?>>

‹‹Va bene uno qualsiasi›› disse. ‹‹Non sapevo che mio padre venisse qui…››

‹‹Raramente, e mai molto volentieri mi è parso… Metti questo, dovrebbe andare bene: non ti farò provare mille vestiti. Credo che tu ti stia annoiando molto più di quanto dia a vedere.››

Verity sorrise, ancora. Non riusciva a fare altro che sorridere quando qualcuno vedeva ciò che cercava di nascondere. Prese il vestito e si cambiò in camerino.

Per la seconda volta nel giro di poco tempo stentò a riconoscersi nello specchio: prima l’abito di Erald, ora quello. Si sentiva diversa, come se non fosse più lei ma qualcun altro avesse preso il suo posto. E se da una parte quella sensazione le era scomoda e fastidiosa, simile a un sassolino nella scarpa, dall’altro lato le piaceva. Essere diversa dalla solita sé la inondava di una soddisfazione che non sperimentava spesso: si sentiva all’altezza di qualsiasi cosa si aspettassero da lei.

Verity uscì lentamente, camminando piano per timore di rovinare la gonna lunga, color panna, ricamata di roselline di velluto nero che risalivano dall’orlo fin quasi sulla vita, diminuendo nel numero. Il corpetto era liscio, sempre chiaro, e il bordo era rifinito con un pizzo nero arricciato. Era senza maniche e l’uomo le posò sulle spalle uno scialle, anch’esso di colore scuro.

Gli occhi di Eleonore si illuminarono nel vederla così bella e per qualche secondo non seppe cosa dire. Si riprese in fretta e si complimentò con il proprietario per il bellissimo modello e con Verity, dispensando apprezzamenti e gentilezze come l’abbraccio con cui la strinse.

‹‹Sei splendida tesoro, davvero splendida.››

Si cambiò con calma, cercando di trattenere tutto il calore che quella semplice frase le aveva provocato, poi si sedette sulla poltrona.

La sua ricerca era stata breve, ma quella della madre sarebbe durata molto di più. Sfogliò alcune pagine di una rivista, ma alla fine si decise a guardare gli abiti che uscivano da soli dalle scatole e che, sempre da soli, si infilavano su Eleonore, stringendo fiocchi e nastrini e chiudendo cerniere o bottoni. Solo alla fine delle prove realizzò che l’uomo non aveva usato la magia con lei e ne fu colpita: probabilmente doveva sapere della sua situazione e l’aveva tenuta in considerazione. Non lo fece notare a Eleonore, che si gongolava nel nuovo vestito, ma si prestò con più allegria al pranzo. La madre le diede consigli su come fosse meglio comportarsi ogni secondo; su quali argomenti si potessero affrontare e quali no, aggiungendo informazioni su tutte le famiglie famose della città che sarebbero state presenti e alle quali avrebbe dovuto presentarsi.

Fu un pranzo quasi insopportabile e quando credette di non riuscire più a resistere, Eleonore si alzò da tavola, trascinandola dal suo parrucchiere.

 

Era un uomo giovane, di non più di quarant’anni, alto e dal fisico asciutto. Aveva i capelli rossi, e furono la prima cosa che Verity notò: li teneva legati in una coda bassa che scendeva lungo le spalle per una buona spanna. Rimase colpita però dalla barba, lunga ma nera.

‹‹Daniel, ciao!›› lo salutò Eleonore con un sorriso che Verity non avrebbe mai pensato di poter vedere sul viso della madre.

 ‹‹Potresti riordinare i capelli di mia figlia? Stasera andremo alla festa del sindaco.››

‹‹Come desidera, madame. Le consiglio allora di fare una lunga passeggiata: la signorina e io impiegheremo molto tempo.››

Eleonore annuì e se ne andò; Verity seguì lentamente l’uomo, camminando dietro di lui e accomodandosi su una delle poltroncine di pelle. Daniel finì una signora anziana e, una volta che questa fu uscita, chiamò la ragazza e si occupò di lei sola.

Rimasero in silenzio per la maggior parte del tempo: il riflesso di Daniel allo specchio sembrava molto concentrato e la giovane non si sentì di interromperlo, anche se era curiosa del suo aspetto. Si beò delle sue dita, delicate come una cascata di petali di ciliegio, percependone appena il movimento. La pettinava lentamente, sciogliendo i nodi con dolcezza e le tagliò i capelli quasi senza fare rumore, come se fosse un rito sacro da compiere in silenzio. Trovò quasi commovente la dedizione con cui faceva il suo lavoro e pensò che dovesse piacergli molto e che gli desse un grande appagamento.

‹‹Continui a fissarmi nello specchio›› disse sorridendo ‹‹Sei curiosa vero? Sono i capelli o la barba?››

‹‹Entrambi in realtà…››

‹‹Beh, ovviamente i capelli sono tinti, ma li ho sempre desiderati rossi piuttosto che neri: li coloro dal primo anno di Accademia Magica, quindi sono parecchi anni.››

‹‹Non ti piacevano neri?››

‹‹Sì, e molto anche. Penso che si debba amare ciò che Dio ci ha dato, è quello di cui abbiamo bisogno ma, allo stesso tempo, ho sempre avuto una spiccata vena artistica e il rosso era il mio modo di parlare al mondo: secondo le ragazze ero un teppista e mi tenevano a distanza, ma questo isolamento mi ha permesso di avvicinarmi a persone incredibili. Senza di loro non sarei qui ora››.

‹‹È meraviglioso…››

‹‹No, tu lo sei e stasera, quando ti farò un’acconciatura bellissima con mille perline, lo sarai ancora di più.››

 

   
 
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