Angolo dell’autrice:
Buonasera
a tutti, come state?
Io,
nonostante i ritardi dei treni, i laboratori infattibili e la neve che cade
sempre troppo lontana dal luogo in cui mi trovo, sto abbastanza bene. Il Natale
si avvicina giorno dopo giorno e il mio migliora di conseguenza. Il 25 sarò un
concentrato di euforia, allegria e cioccolata nelle vene al posto del sangue.
Mi
spiace che gli ultimi due capitoli non abbiano ricevuto nemmeno una recensione,
più che altro perché non so dove sto sbagliando, ma spero che questo vi piaccia
e che abbiate voglia di lasciarmi un parere, per quanto piccolo.
Un
saluto e un bacione a tutti voi che leggete!
Nemamiah
I
giorni che la separavano dall’appuntamento con Scar trascorsero velocemente e
Verity si ritrovò quasi senza accorgersene affacciata alla finestra in attesa
del suo accompagnatore. Quando il campanello suonò aveva appena deciso che
avrebbe mangiato qualcosa per colazione, ma rinunciò per non farlo aspettare.
Non
credeva che avrebbero viaggiato con la smaterializzazione, ma le piacque molto come
magia: era più veloce e meno fastidiosa per lo stomaco, anche se più pericolosa
del teletrasporto perché poteva capitare di ritrovarsi con un braccio al posto
della gamba, o con i capelli o gli occhi o addirittura i cervelli scambiati se
il mago non era davvero abile. Per questo era vietata a tutti i maghi al di
sotto dei trent’anni. Non chiese nulla a Scar, anche se era ovvio dal viso che
lui ne avesse molti di meno.
Mentre
Verity rifletteva sul caso, scambiando poche parole cortesi con Scar, questo osservava
con attenzione la folla, sperando di trovare Dakota e di andare via il prima
possibile: quel luogo non era per niente adatto a lui. Era troppo caotico,
quasi tutti urlavano per poter parlare tra di loro e i bambini piangevano
disperati, stanchi della coda.
Quando
si videro a vicenda, la ragazza si avvicinò.
‹‹Scar,
Verity, che sorpresa trovarvi qui!››
Dakota
era in compagnia del suo fidanzato e gli stringeva la mano.
Se
la voce squillante di Dakota non fosse bastata a far sì che Verity volesse allontanarsi,
la faccia complice di Liam era un ottimo incentivo. Il ragazzo però si
appiccicò a Scar, coinvolgendolo in una conversazione sulla magia cui Verity
non avrebbe mai potuto partecipare. Lei aveva sperato, ogni secondo di ogni
giorno successivo all’invito, in una giornata all’insegna del divertimento e
dell’allegria, e invece si ritrovava bloccata in una melma di tensione: giocare
alle “finte coppiette felici” non era mai stato il suo programma.
Nessuna
attrazione sembrava minare la parlantina di Liam: si lamentò della nausea
appena sceso dall’ottovolante ma continuò a parlare; la giostra delle tazze gli
fece girare la testa ma non smise di porre domande a Scar. Non c’era verso di
farlo smettere e la pazienza di Scar, nell’arco di poche ore, scomparve come
fumo. Quando si fermarono di fronte alla ruota panoramica, Scar vide la sua
opportunità di liberarsi di Liam e spinse le due ragazze dentro una delle
cabine, abbandonando poi il ragazzo con un brusco saluto.
Entrambe
guardavano fuori dal vetro, tese e allo stesso tempo imbarazzate: Dakota, che
si era preparata un discorso, non sapeva come cominciare e ogni parola che
avrebbe dovuto dire le sembrava sbagliata; Verity guardava fuori e basta,
decisa ad aspettare e a passare l’intera mezz’ora del giro in silenzio se fosse
stato necessario. Si sentiva morire dentro al pensiero di quello che stava
facendo, a come la stesse ignorando, ma non avrebbe parlato quella volta: aveva
la sua parte di colpa in quel litigio, ma di chiedere scusa per prima nemmeno a
parlarne. Malediceva Scar nella mente, capendo che quell’uscita era stata
programmata da Dakota e che non aveva nulla di spontaneo da parte sua, e si
ripromise di vendicarsi in qualche modo, magari portandolo a fare qualcosa di
triste e noioso.
Improvvisamente
percepì un leggero profumo di cioccolata. Cercò di ignorarlo, ma piano piano
diventò sempre più intenso e non voltarsi verso Dakota divenne sempre più
complicato. Pensò che avrebbe potuto girarsi, non sarebbe sembrato un segno di
resa o di perdono anzi, non avrebbe significato nulla.
Dakota
le stava porgendo un terzo della tavoletta e lei la prese, voltandosi di nuovo
verso il vetro, notando il suo viso riflesso, con le guance rosse e gli occhi
lucidi.
‹‹È
tutta opera mia. Ho obbligato Scar a invitarti, ma ha recitato molto bene,
sembrava davvero felice di essere con te. Glielo si leggeva negli occhi. Però
volevo trovare un modo per riappacificarmi e nessuno di quelli che avevo ideato
sembrava efficace…››
‹‹Avrei
dovuto immaginarlo.››
‹‹So
che è stato un colpo basso coinvolgerlo, ma mettiti nei miei panni: non mi
avresti mai parlato e questa ne è la dimostrazione. Preferisci guardare quel
vetro che me.››
‹‹Almeno
riflette.››
‹‹Questa
freddura non è degna di te›› disse ridacchiando ‹‹ma è abbastanza vera. Non ho
riflettuto. Non ho pensato che quelle parole avrebbero potuta ferirti così nel
profondo; che non ti saresti avvicinata a me per giorni, ignorandomi anche
quando scorgevi i miei occhi fissi nei tuoi. E avrei dovuto sapere che avresti
reagito così, come avrei dovuto capire da sola che se non mi avevi detto nulla
prima, era perché non ti sentivi pronta. Probabilmente nemmeno io ero pronta ad
ascoltarti, ma potrei esserlo adesso: sarà difficile perché me la prenderò ogni
volta che mi rivelerai un nuovo segreto, ma mi impegnerò a comprendere. Sarò
nel posto giusto, al tuo fianco, ad aiutarti in ogni modo possibile, senza
giudicarti né inveire contro di te. Ho sbagliato a scappare via dopo averti
accusato di essere un’ipocrita, non lo sei e non serve che sia io a dirtelo, lo
sai da te. Ho sbagliato e sono giorni che il senso di colpa mi tortura. Puoi
perdonarmi?››
Verity
si voltò verso di lei e la vide sconsolata come mai era stata: quando si era
rifugiata da lei a causa dei litigi dei genitori era infuriata con il mondo,
pronta ad esplodere con chiunque le desse fastidio. Adesso era diverso. Aveva
gli occhi lucidi, come i suoi, e sapeva perfettamente che fosse pentita di ogni
parola, di ogni gesto. Lo stesso provava lei, meno acuto e doloroso; diverso nella
forma ma uguale nella sostanza. Era triste allo stesso modo, sola ugualmente.
‹‹Ti
ho perdonata nel momento in cui mi hai voltato le spalle, lo sai, e una parte
di colpa è mia. Ho preteso che tu comprendessi i miei dubbi e le mie paure
quando nemmeno io ero in grado di dire con precisione perché non volessi
parlarti di questa storia assurda. Possiamo dividere le colpe, anche se tu ne
avrai sempre di più per me. Ma non posso evitare di volerti con me: sei tutto
quello che di fisso sia mai esistito nella mia vita; l’unica che mi è sempre
gravitata intorno nonostante in certi momenti diventassi insopportabile. Adesso
però… Potremmo finire quello che avevamo iniziato, non credi?››
Dakota
sorrise, saltando addosso a Verity, e quasi la stritolò nel suo abbraccio,
chiedendole ancora scusa almeno un centinaio di volte, fino a quando non
scesero dalla cabina della ruota.
All’ingresso
trovarono Liam, che si lamentò di come Scar l’avesse abbandonato bruscamente lì
ad aspettarle.
‹‹Amore,
ascoltami, Verity ed io adesso dobbiamo proprio andare via. Ti spiace se ti
lascio tutto solo a goderti le giostre mancanti?››
‹‹No,
però...››
Dakota
lo baciò su una guancia e si allontanò in fretta, prima che Liam capisse
esattamente cosa implicassero le sue parole. Non che fosse uno sciocco,
tutt’altro, ma alcune volte Dakota sfruttava la dolce tranquillità che lo
faceva ragionare con calma. Finiva così per lasciarlo solo a pensare mentre lei
era già molto lontana. Non si comportava spesso in quel modo, non le piaceva,
ma l’amicizia con Verity era più importante dell’amore per Liam e se avesse
speso il suo tempo a cercare di spiegargli il perché, avrebbe perso l’intero
pomeriggio e forse anche la serata: l’elenco di tutte le motivazioni sarebbe
stato troppo lungo.
Scar
invece, nascosto nell’ombra, le osservò andare via.
Aveva
pensato di scomparire subito dopo aver mollato Liam per strada, ma anche che
sarebbe stato interessante vedere come si sarebbe risolto il litigio tra le due
ragazze. Si scoprì a fissarle con invidia, rivedendo in quella coppia ciò che
erano stati un tempo molto lontano lui e suo fratello. Erano stati affiatati,
complici, fratelli e amici al tempo stesso; si erano confidati a vicenda ogni
strana idea che avevano e proprio a causa di una confidenza si erano
irrimediabilmente divisi.
Scosse
la testa per scacciare tutti i ricordi, sia quelli felici che rimpiangeva sia
quelli tristi, e si concentrò solo su Verity.
Umana a tutti gli effetti
o angelo?
Pensandoci,
somigliava davvero a Mary e forse era vero, aveva tutti i suoi poteri, ma
allora perché non sentiva nulla di quello che si stava diffondendo sulla Terra?
Decise
di aspettare ancora un poco, poi sarebbe intervenuto. Nel frattempo richiamò la
sua scia magica e vi scomparve all’interno, certo che nessuno lo avrebbe
notato.
Le
ragazze erano uscite dal parco e con un semplice teletrasporto si erano
ritrovate all’interno della camera di Dakota, e ancora una volta Verity espresse
la sua invidia per quell’utile magia, aggiungendo però quanto fosse stata
incredibile la smaterializzazione di Scar.
‹‹Ma
non ha trent’anni.››
‹‹Questo
non significa che non la sappia fare.››
‹‹Mio
Dio, non voglio immaginare la tua testa sul corpo di Scar o quale altra assurda
combinazione sarebbe potuta uscire se avesse fatto il minimo errore: sei stata
fortunata ad uscirne tutta intera. Non voglio sentire parlare di quella magia,
abbiamo ancora cinque anni di attesa e non ho intenzione di passarli a
crogiolarmi nella depressione: finisci il tuo di racconto, invece.››
Verity
annuì, anche se si dispiacque nel realizzare che lei, quella magia, non
l’avrebbe mai eseguita.
Raccontò
lentamente, ogni ricordo ma dosandone l’effetto: l’abito che indossava la sera
della festa e la sensazione di gelido calore mentre era sola con Scar; la
distesa di sangue e morte del sogno e i volti nella fossa; le lacrime di
Lucifero e la donna che aveva le sue stesse sembianze; le voci che aveva
sentito nell’altro sogno, che discutevano su una guardiana; la diavoletta che
prima l’aveva attaccata per ucciderla e poi le aveva chiesto di non abbandonare
Lucifero.
‹‹Cosa
centri tu con tutto ciò? Sei senza magia, non ha senso.››
‹‹Nulla
ha senso dell’intera storia, ma c’è un altro particolare, e questo è strano
davvero, forse più di tutto il resto. Nel laboratorio, mio padre mi ha lasciato
tenere in mano i due Ingranaggi contemporaneamente: ho sentito qualcosa.
Emanavano vita, speranza, le sentivo scorrere nelle mie vene e, allo stesso
tempo, c’era qualcosa di instabile, come se potessero esplodere da un momento
all’altro in qualcosa di terribile.››
‹‹Ne
hai parlato con tuo padre?››
Verity
scosse la testa per negare: non voleva diventare parte dell’esperimento, non
più di quanto già non fosse, quanto meno. Dakota si ritrovò d’accordo con lei,
in parte, ma allo stesso tempo era spaventata all’idea di non dire nulla. Per
quanto la situazione fosse assurda e incredibile, era anche spaventosa e
innaturale: erano accadute troppe anomalie una dopo l’altra per essere solo una
serie di coincidenze. Era paradossale e folle pensare che si fosse messo in
moto un qualche strano meccanismo, ancora sconosciuto, ma non riusciva a
eliminare quell’idea dalla mente, troppo ingombrante.
Pensò
che se avesse esposto quel pensiero a Verity l’avrebbe fatta preoccupare e
agitare più di quanto non fosse già, e allora lo tenne per sé, deviando
l’attenzione sui piccoli cuscini nascosti dietro la schiena dell’amica. Ne
sollevò uno in silenzio, continuando a fingere di riflettere e lo lanciò sulla
nuca dell’amica. Certo, pensare era importante ma anche divertirsi e svagarsi
sinceramente poteva rivelarsi utile.
‹‹Non
vale attaccare mentre l’altro è distratto e di spalle però!››
Verity
recuperò un cuscino da terra e provò a lanciarlo contro Dakota, ma questa si
fece scudo con quello che teneva in mano, per poi colpirla contemporaneamente
con altri due, facendoglieli volare addosso non troppo forte.
Iniziò
una battaglia dove Verity capì subito di essere svantaggiata e cercò di
sfruttare tutti i momenti in cui Dakota abbassava le difese magiche o la
colpiva di sorpresa: fu l’unica a spostarsi per la camera, riparandosi dietro
tutto quello che trovava, mentre l’amica rimaneva seduta comodamente sul letto.
Le risate che nascevano ad ogni colpo andato a segno, dall’una o dall’altra
parte, crebbero velocemente nel volume, rimbombando lungo la scala a chiocciola
ed entrando nella sala, dove Erald stava disegnando nuovi modelli,
fischiettando allegro.
Suonò
il campanello ed Erald si mise la matita dietro l’orecchio, andando ad aprire.
‹‹Eleonore,
cosa fai qui? Non ti si vede mai in questa parte della città.››
La
donna batteva velocemente la punta del piede per terra. Si lisciò un lungo
ciuffo, inserendolo con un dito nella complicata acconciatura.
‹‹Vivo
in un quartiere completamente diverso da questo, è ovvio che non mi si veda
mai. Comunque sono venuta a prendere mia figlia, lasciami entrare, Erald.››
‹‹Dai,
Eleonore! Le loro risate si sentono fin dalla strada: lasciala dormire qui. La
riporto a casa domani.››
La
donna lo fulminò con gli occhi, prendendo un respiro profondo: ‹‹Non la lascerò
qui consapevolmente: domani sera c’è la festa per la fondazione della città.
Dobbiamo preparaci e anche tua figlia dovrebbe farlo, so che il sindaco l’ha invitata.››
‹‹Sì,
un onore inaspettato ma gradito. Rimane il fatto che Verity non sia la tua
bambola, lasciala divertire! So che desideri solo il meglio per lei, ma se ti
continuerai a comportarti come so, finirà per credere il contrario.››
‹‹Fammi
entrare, Erald. Non voglio litigare, non ora e non con la possibilità che tua
figlia ci ascolti: ha già visto troppa violenza per essere così giovane.››
L’uomo
sgranò gli occhi e si fece da parte per lasciarla passare, scuotendo la testa
sconsolato quando la vide salire la scala a chiocciola ed entrare nella stanza
della figlia.
Dakota
e Verity interruppero la loro battaglia con i cuscini e la prima li liberò
dalla magia con cui fluttuavano all’improvviso: sfortunatamente uno cadde in
testa a Eleonore. La donna emise un gridolino di spavento, ma disse lo stesso a
Verity di uscire dalla stanza e tornare a casa con lei. La ragazza salutò
l’amica e si avviò fuori. Coprirono l’intera distanza tra le due case con un
preciso teletrasporto che lasciò la giovane nella sua stanza.
Verity
lesse sul biglietto lasciatole sul letto che avrebbe dovuto essere di fronte
alla porta di casa la mattina successiva. Sbuffò irritata e lanciò il pezzo di
carta nel cestino.
Perché
sua madre si ostinava a cercare di manovrarla come un burattino? Era andata a
prenderla solo perché ci sarebbe stata quella stupida festa, non perché fosse
preoccupata per lei: allora perché avrebbero dovuto passare l’intera giornata
insieme? L’avrebbe usata solo per fare una bella impressione sui ricchi maghi
presenti, o magari l’avrebbe spinta a fare amicizia con i loro figli nonché
eredi.
Alla
fine riprese il biglietto stropicciato dal cestino e lo distese sulla gambe,
lisciandolo e rileggendolo. Lamentarsi da sola non sarebbe servito a nulla e
fare felice sua madre avrebbe diminuito l’irritazione per tutta quella
mascherata.
Si
fece trovare al piano terra con indosso il vestito azzurro pastello che era
apparso nell’armadio quando lo aveva aperto e anche se non si era pettinata
bene i capelli, lasciandoli un po’ disordinati, Eleonore sorrise quando la vide
e poi la portò in un piccolo angolo di paradiso.
Erano
in uno dei pochi caffè del centro dotati di un cortile interno, dove si poteva
stare sia in estate che in inverno, quando il freddo diventava pungente e le
dita rigide. Nelle fessure tra le piastrelle ruvide spuntava ancora qualche
coraggiosa margherita, incurante del cambio di stagione, mentre i fiori più
belli erano nascosti nella piccola serra dai vetri trasparenti. Verity vi entrò,
fermandosi per annusare il profumo dei fiori e accarezzarne i petali. Erano
setosi e morbidi ed emanavano una fragranza dolce e delicata.
Vide
attraverso il vetro una donna dai capelli corvini chiedere a Eleonore qualcosa
e decise di uscire per andare a sedersi al suo fianco. In pochi secondi tè e
pasticcini si posarono delicatamente sul tavolo per magia e iniziarono a
mangiare.
‹‹Allora
Verity, come sai stasera il sindaco organizza il tradizionale ballo per la
fondazione della città e quest’anno ti vorrei con noi. Quindi oggi cercheremo
un vestito adatto e metteremo in ordine i tuoi capelli spettinati, che ho
notato, e ci ritroveremo con tuo padre. Sperando che non si sia dimenticato
dell’appuntamento…››
A
Verity non andava di partecipare alla festa, men che meno di passare il
pomeriggio tra i negozi e i parrucchieri. Aveva già tanti vestiti a casa e un
colpo di spazzola sarebbe bastato per metterla in ordine. Però,
contemporaneamente, non voleva litigare con la madre e sapeva che Dakota
sarebbe stata lì. Non avrebbe potuto abbandonarla.
‹‹Che
ruolo avrei in questo ballo, mamma?››
Eleonore
le sorrise, socchiudendo leggermente gli occhi, e disse: ‹‹Tu scenderai le
scale con il figlio del sindaco. Non hai idea della cortesia di quel ragazzo e
della piacevolezza della sua compagnia. Cerca di piacergli almeno un po’,
tesoro.››
Capì
subito a cosa alludesse: una bella relazione, magari vantaggiosa per l’onore
della famiglia. Sorrise, cercando di non mostrare il disgusto e la repulsione
che si stavano diffondendo nelle vene, e finì il suo tè, rimanendo in silenzio
per il resto della colazione, ascoltando sua madre parlare e riparlare.
Si
prestò, sempre con un finto sorriso, ad entrare e uscire dai negozi senza
comprare nulla per la maggior parte della mattina; a chiacchierare con maghi e
streghe che non aveva mai visto o con cui, da sola, non avrebbe scambiato una
parola, un po’ per l’imbarazzo e un po’ perché non avrebbe mai avuto argomenti
di conversazione.
Dopo
quattro negozi, Eleonore raggiunse il suo preferito e Verity sospirò di sollievo:
finalmente si sarebbero fermate e avrebbe potuto riposare i suoi poveri piedi.
Appena
entrate furono accolte da una giovane commessa e da un anziano signore che
doveva essere il proprietario. Lui, settantenne, indossava un completo bianco e
nero e dei gemelli brillanti sui polsi della camicia che spuntava dalla giacca;
lei, appena trentenne, aveva un abito verde pastello, stretto sotto il seno con
una fascia di seta.
Eleonore
parlò brevemente con loro, voltandosi di tanto in tanto verso la figlia,
gesticolando con le mani, poi si sedette su una delle poltrone e accavallò le
gambe, in attesa.
La
commessa, il cui nome era Vittoria, prese con gentilezza Verity per un braccio
e l’accompagnò al camerino.
L’uomo
aveva già preparato alcune scatole con abiti di varie forme e colori quando
sentirono Eleonore urlare che voleva un abito vecchio stile.
La
maggior parte degli stilisti creava gli abiti mediante la magia: muovevano
forbici, gessetti, aghi, fili, macchine da cucire con la levitazione
controllata o altre tecniche magiche più precise. I risultati erano ottimi, mai
difetti nel tessuto, mai fili da strappare o cuciture imperfette.
Insieme
a questo genere esistevano altri due tipi di stilisti: i Nostalgici e gli Innovatori.
I
primi seguivano la via tracciata dagli antichi artigiani: cucivano a mano o a
macchina, sceglievano attentamente i tessuti in base alla consistenza e,
all’occasione, ricamavano le decorazioni a mano. La magia non veniva impiegata
in nessuna delle fasi della produzione.
I
secondi creavano abiti magici nel vero senso della parola. Non c’erano stoffe o
fili, né strumenti di altro genere: ogni singola parte dell’abito era
realizzata modellando la magia emanata dallo stilista in una forma solida e stabile,
resistente ma, allo stesso tempo, abbastanza morbida da poter essere indossata.
I maghi dell’aria e del fuoco erano i più quotati per questo genere di abiti,
soprattutto perché erano le due magie più semplici da controllare. L’aria
donava ai capi una leggerezza maggiore della seta più delicata; il fuoco li
rendeva caldi e confortevoli più della lana e del cachemire ed erano in grado
di scaldare o rinfrescare il corpo in base all’emissione magica di chi li
indossava. Se si aveva freddo, bastava pensarlo e l’abito aumentava
temperatura; se si aveva caldo, il contrario.
Quindi
un abito vecchio stile era creato a mano dai Nostalgici.
L’uomo
sbuffò e cacciò via con la mano alcune scatole che stavano arrivando e altre
che, invece, erano già poggiate sul tavolo, sostituendole con pacchetti
polverosi. Guardò prima Verity, poi i vestiti, e rise sommessamente, cercando
di non farsi udire.
‹‹Sembrano
vecchi e sporchi fuori, ma dentro saranno nuovi, non preoccuparti.››
La
ragazza sorrise. In effetti, visto il dito di polvere che copriva i pacchetti,
si era chiesta da quanto tempo quegli abiti fossero lì, ma aveva anche
allontanato la domanda, pensando che la madre sapesse a cosa andasse in contro.
‹‹Immagino
sia dura vivere con una donna simile…›› disse l’uomo scartando i vari pacchetti
e lanciandole ogni volta un’occhiata veloce per misurarla con lo sguardo.
‹‹Dopo
un po’ ci si abitua.››
‹‹Menti
con chiunque, ma non con me. La vedo la faccia di Victor quando l’accompagna
qui: vorrebbe solo andare via, magari nel suo laboratorio… Hai un colore che
preferisci?>>
‹‹Va
bene uno qualsiasi›› disse. ‹‹Non sapevo che mio padre venisse qui…››
‹‹Raramente,
e mai molto volentieri mi è parso… Metti questo, dovrebbe andare bene: non ti
farò provare mille vestiti. Credo che tu ti stia annoiando molto più di quanto
dia a vedere.››
Verity
sorrise, ancora. Non riusciva a fare altro che sorridere quando qualcuno vedeva
ciò che cercava di nascondere. Prese il vestito e si cambiò in camerino.
Per
la seconda volta nel giro di poco tempo stentò a riconoscersi nello specchio:
prima l’abito di Erald, ora quello. Si sentiva diversa, come se non fosse più
lei ma qualcun altro avesse preso il suo posto. E se da una parte quella
sensazione le era scomoda e fastidiosa, simile a un sassolino nella scarpa,
dall’altro lato le piaceva. Essere diversa dalla solita sé la inondava di una
soddisfazione che non sperimentava spesso: si sentiva all’altezza di qualsiasi
cosa si aspettassero da lei.
Verity
uscì lentamente, camminando piano per timore di rovinare la gonna lunga, color
panna, ricamata di roselline di velluto nero che risalivano dall’orlo fin quasi
sulla vita, diminuendo nel numero. Il corpetto era liscio, sempre chiaro, e il
bordo era rifinito con un pizzo nero arricciato. Era senza maniche e l’uomo le
posò sulle spalle uno scialle, anch’esso di colore scuro.
Gli
occhi di Eleonore si illuminarono nel vederla così bella e per qualche secondo
non seppe cosa dire. Si riprese in fretta e si complimentò con il proprietario
per il bellissimo modello e con Verity, dispensando apprezzamenti e gentilezze
come l’abbraccio con cui la strinse.
‹‹Sei
splendida tesoro, davvero splendida.››
Si
cambiò con calma, cercando di trattenere tutto il calore che quella semplice
frase le aveva provocato, poi si sedette sulla poltrona.
La
sua ricerca era stata breve, ma quella della madre sarebbe durata molto di più.
Sfogliò alcune pagine di una rivista, ma alla fine si decise a guardare gli
abiti che uscivano da soli dalle scatole e che, sempre da soli, si infilavano
su Eleonore, stringendo fiocchi e nastrini e chiudendo cerniere o bottoni. Solo
alla fine delle prove realizzò che l’uomo non aveva usato la magia con lei e ne
fu colpita: probabilmente doveva sapere della sua situazione e l’aveva tenuta
in considerazione. Non lo fece notare a Eleonore, che si gongolava nel nuovo
vestito, ma si prestò con più allegria al pranzo. La madre le diede consigli su
come fosse meglio comportarsi ogni secondo; su quali argomenti si potessero
affrontare e quali no, aggiungendo informazioni su tutte le famiglie famose
della città che sarebbero state presenti e alle quali avrebbe dovuto
presentarsi.
Fu
un pranzo quasi insopportabile e quando credette di non riuscire più a
resistere, Eleonore si alzò da tavola, trascinandola dal suo parrucchiere.
Era
un uomo giovane, di non più di quarant’anni, alto e dal fisico asciutto. Aveva
i capelli rossi, e furono la prima cosa che Verity notò: li teneva legati in
una coda bassa che scendeva lungo le spalle per una buona spanna. Rimase
colpita però dalla barba, lunga ma nera.
‹‹Daniel,
ciao!›› lo salutò Eleonore con un sorriso che Verity non avrebbe mai pensato di
poter vedere sul viso della madre.
‹‹Potresti riordinare i capelli di mia figlia?
Stasera andremo alla festa del sindaco.››
‹‹Come
desidera, madame. Le consiglio allora di fare una lunga passeggiata: la
signorina e io impiegheremo molto tempo.››
Eleonore
annuì e se ne andò; Verity seguì lentamente l’uomo, camminando dietro di lui e
accomodandosi su una delle poltroncine di pelle. Daniel finì una signora
anziana e, una volta che questa fu uscita, chiamò la ragazza e si occupò di lei
sola.
Rimasero
in silenzio per la maggior parte del tempo: il riflesso di Daniel allo specchio
sembrava molto concentrato e la giovane non si sentì di interromperlo, anche se
era curiosa del suo aspetto. Si beò delle sue dita, delicate come una cascata
di petali di ciliegio, percependone appena il movimento. La pettinava
lentamente, sciogliendo i nodi con dolcezza e le tagliò i capelli quasi senza
fare rumore, come se fosse un rito sacro da compiere in silenzio. Trovò quasi
commovente la dedizione con cui faceva il suo lavoro e pensò che dovesse
piacergli molto e che gli desse un grande appagamento.
‹‹Continui
a fissarmi nello specchio›› disse sorridendo ‹‹Sei curiosa vero? Sono i capelli
o la barba?››
‹‹Entrambi
in realtà…››
‹‹Beh,
ovviamente i capelli sono tinti, ma li ho sempre desiderati rossi piuttosto che
neri: li coloro dal primo anno di Accademia Magica, quindi sono parecchi anni.››
‹‹Non
ti piacevano neri?››
‹‹Sì,
e molto anche. Penso che si debba amare ciò che Dio ci ha dato, è quello di cui
abbiamo bisogno ma, allo stesso tempo, ho sempre avuto una spiccata vena
artistica e il rosso era il mio modo di parlare al mondo: secondo le ragazze
ero un teppista e mi tenevano a distanza, ma questo isolamento mi ha permesso
di avvicinarmi a persone incredibili. Senza di loro non sarei qui ora››.
‹‹È
meraviglioso…››
‹‹No,
tu lo sei e stasera, quando ti farò un’acconciatura bellissima con mille perline,
lo sarai ancora di più.››