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Autore: Adeia Di Elferas    13/12/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Il 22 luglio sotto un sole cocente, Cesare Borja lasciò Roma. La città, che si allontanava man mano diventando sempre più piccola pesava come un macigno alle sue spalle.

Il figlio del papa continuava a voltarsi, in sella al suo cavallo di rappresentanza, incapace di credere che dopo tanto tempo si stava di nuovo allontanando dalla sua famiglia.

L'Urbe, da quella distanza, pareva una minuscola gemma che riluceva al sole, priva di tutto il fango e di tutte le bassezze che la macchiavano. Stando così lontani, non si poteva nemmeno immaginare che dietro quell'agglomerato di tetti e di campanili si celasse un sottomondo fatto di inganni, cattiverie e ruberie.

Con un sospiro incerto, Cesare si strinse una mano sul petto, dove di solito portava il crocefisso da Cardinale, e si impose di non guardarsi più alle spalle.

Malgrado il malanimo che portava con sé, aveva capito che andare a Napoli era per lui una via di salvezza che forse suo padre gli aveva fornito in modo inconscio.

Una volta portata a termine la sua ambasceria, sarebbe tornato a casa e allora avrebbe potuto cominciare a pianificare la sua ascesa.

Ormai si era spinto troppo oltre e non poteva far altro che accelerare sempre di più. Sarebbe bastata una sola incertezza, e il suo volo – iniziato con una rincorsa tanto faticosa – sarebbe terminato improvvisamente, lasciandolo precipitare nel vuoto.

 

Caterina tamburellava le dita sul palo per i cavalli con nervosismo. Da quando si era svegliata, non era riuscita a trovare nemmeno un momento di requie.

Aveva avuto dei pessimi incubi e nemmeno le attenzioni di suo marito erano bastate a sviare i suoi pensieri che continuavano a tornare sempre e ossessivamente alle stesse immagini.

Ad aggravare la situazione, da quando si era svegliata le era entrato nella mente un tarlo continuo che le voleva ricordare come sua madre e suo figlio Livio fossero morti più o meno un anno prima.

I loro volti freddi e l'odore della morte che era entrata di prepotenza nella rocca che lei considerava un nido sicuro, erano rientrati nel suo cuore e pesavano come un'incudine tra un battito e l'altro.

Il cortile d'addestramento era illuminato dal sole caldo di fine luglio e la lezione che si stava tenendo aveva incuriosito molto gli abitanti della rocca che, chi assiepato sotto gli archi, chi alla finestra, stavano osservando con attenzione ogni mossa dei tre allievi.

Il maestro d'armi, sotto l'esigente occhio della Contessa, aveva messo in fila Bernardino, Galeazzo e Ottaviano e stava facendo fare loro degli esercizi molto semplici, di riscaldamento.

Il primogenito della Tigre, quando aveva saputo della decisione della madre di fargli riprendere l'addestramento con le armi, non aveva avuto la forza di ribellarsi e si era così trovato immerso in un impegno che aveva creduto di poter schivare per il resto dei suoi giorni.

“Ottimo, messer Galeazzo.” sorrise il maestro d'armi, correggendogli appena la posa e passando poi a Bernardino: “Se fate fatica a tenere alta una spada tanto grande – gli consigliò – provate con questa presa...”

Giovanni era poco distante dalla moglie, accanto al castellano e al Capitano Rossetti. Anche lui osservava, quasi con ansia, i tre figli di Caterina, sperando con tutto se stesso che Ottaviano si dimostrasse meno imbranato del previsto.

Dalla finestra, anche Bianca era allerta, con Sforzino al suo fianco che stava sulla punta dei piedi per potersi sporgere un po' e vedere meglio.

Solo Cesare non sembrava interessato all'esibizione dei fratelli, che aveva definito 'uno spettacolo da guitti'. Appena aveva saputo che gli allenamenti di Ottaviano sarebbero ripresi quel giorno, infatti, si era defilato ed era uscito dalla rocca, probabilmente diretto in Duomo.

“Adesso – disse dopo un po' il maestro d'armi – proviamo qualche duello semplice...”

Scelse tre soldati e li istruì su come battersi con i figli della Contessa. Per Bernardino era stata scelta una recluta di sì e no sedici anni, mingherlina e smunta, che, per quanto potesse impegnarsi, non avrebbe potuto far troppo male al bambino.

Galeazzo, ritenuto già più meritevole dal suo insegnante, dovette vedersela con un ragazzone abbastanza piazzato, mentre per Ottaviano la scelta ricadde su un uomo non più giovanissimo, più scaltro che non forte.

Caterina si tese un po' in avanti, appoggiando i gomiti sulla sbarra e stringendo gli occhi contro il sole.

Dopo i primi colpi fu chiaro a tutti che Bernardino era mosso da grande volontà d'animo, ma da scarsa prestanza fisica a causa della troppo giovane età, mentre Galeazzo tolse ogni dubbio sul fatto che tra i figli della Sforza lui fosse il più adatto all'uso delle armi.

La Tigre lasciò in fretta stare i due, che, uno più uno meno, le parevano abbastanza capaci, e si concentrò su Ottaviano.

Lo fissò, mentre schivava i colpi del suo avversario, senza nemmeno provare a pararne uno o a contrattaccare. I suoi capelli lunghi si agitavano a tempo con i suoi passi all'indietro e sul suo viso lungo poteva leggersi una seria paura, non commisurata al reale pericolo di quella situazione.

Per qualche istante, alla donna parve di avere la vista annebbiata. Da qualche giorno il suo dubbio di essere incinta stava lentamente diventando una certezza, e forse il caldo la stava mettendo troppo in difficoltà.

Scosse appena il capo, per ritrovare lucidità, ma alla sensazione di annebbiamento seguì una serie di ricordi che avrebbe voluto poter estirpare dalla propria anima. Più vedeva Ottaviano sgambettare sul posto, facendo anche improbabili corsette di evitamento, più rivedeva in lui Girolamo.

Avevano lo stesso viso, lo stesso fisico e lo stesso modo di muoversi. Anche se il giubbetto imbottito di Ottaviano tirava un po' sulla pancia – netta differenza rispetto al fisico asciutto del padre – le sue gambe e le sue braccia erano lunghe e secche, come erano state quelle di Girolamo.

A nulla servivano le raccomandazioni e gli appunti del maestro d'armi. Il suo primogenito si ostinava a non incrociare praticamente mai la spada con l'avversario.

Bernardino, ormai, aveva dichiarato la resa, ma con onore, e stava riprendendo fiato assieme al suo sfidante che si congratulava con lui per quello che era riuscito a fare benché fosse ancora un nanerottolo.

E anche Galeazzo aveva posto fine al suo duello puntando la spada alla gola del soldato che si addestrava con lui, risultando il vincitore del duello.

Solo Ottaviano erano ancora in alto mare e, sempre con minor titubanza, il pubblico cominciava a fare commenti acidi e divertiti e qualcuno rideva anche alle goffe manovre del sedicente Conte.

Caterina, la testa che cominciava a farle male, si premette un momento una mano sugli occhi, per trattenersi. Però, così facendo, il ricordo del suo primo marito si mescolava inesorabilmente con quello degli uomini che lei aveva ucciso per vendicare il secondo.

Quando le risate nel cortile si fecero sguaiate e addirittura lo sfidante di Ottaviano si mise a fare esclamazioni poco lusinghiere, la Sforza non resistette più.

Nel vederla muoversi di scatto, il cortile piombò nel silenzio, temendo subito una punizione per il comportamento irrispettoso nei confronti del giovane Riario.

Invece la furia della Tigre si concentrò tutta sul figlio. Strappò di mano la spada da allenamento al soldato che lo stava sfidando e con un fendente di piatto repentino e molto forte, Caterina colpì il figlio dietro le ginocchia, facendolo cadere in terra in ginocchio.

Ottaviano, terrorizzato, sollevò gli occhi su di lei, incapace di reagire e perfino di alzarsi. La sua espressione, così paurosa e patetica altro non fece se non accendere di più la madre.

“Cosa credi di fare? Di giocare?!” sbottò la Leonessa, puntando senza troppi complimenti la punta della spada verso il volto del primogenito: “Quando sarai in guerra, ti faranno a pezzi se combatterai così! Se vuoi morire, allora fai prima a buttarti da una torre! Non ti ho risparmiato per far sì che tu potessi gettare del ridicolo su di me!”

L'aria si stava facendo pesante e qualcuno dei presenti si defilò in silenzio. Bianca, che aveva convinto Sforzino a ritirarsi dalla finestra, sentiva il cuore battere all'impazzata nel petto. Temeva che sua madre facesse qualche gesto inconsulto e si chiedeva perché Giovanni non stesse facendo nulla.

Il Medici, infatti, era ancora vicino al muro, visibilmente in ansia, ma immobile. La giovane Riario si rifiutava di credere che non avesse il coraggio di fermare sua madre. Se stava aspettando a quel modo, forse, voleva solo evitare di farla arrabbiare di più mettendosi in mezzo.

“Alzati! Alzati, codardo!” sbottò Caterina, lasciando cadere la spada e sollevando di peso il figlio, agguantandolo per il colletto: “Dimostra di essere un uomo!”

Ottaviano, pallido e atterrito, si lasciò tirar su, ma rimase con le braccia lungo i fianchi, gli occhi sbarrati e la bocca mezza aperta.

“Non puoi aver paura adesso! Questa è un'esercitazione! Le spade sono spuntate! Nessuno cerca davvero di ammazzarti!” riprese la donna, mentre i presenti ricominciavano lentamente a fare qualche commento sottovoce, dando ragione alla loro signora: “Quando sarai in guerra non potrai nasconderti! Dovrai ammazzare o verrai ammazzato! È stato facile far ammazzare un uomo da altri, vero?”

Il figlio teneva gli occhi scuri puntati in quelli verdi della madre e per qualche istante la rivide identica a quando l'aveva condannato alla reclusione. Era tornata la stessa belva feroce che non l'aveva ucciso solo per fargli dispetto e farlo soffrire di più.

“Ammazzare qualcuno con le proprie mani è molto peggio, te lo posso giurare.” fece la Sforza, a voce più bassa, tanto che solo Ottaviano poté sentirla davvero: “E se lo so è per colpa tua. Sei tu che hai sporcato le mie mani di sangue. Ti ho odiato dal primo momento, mi hai reso la vita impossibile! Ti odio, Girolamo!”

Il ragazzo ebbe un momento di smarrimento e anche la Contessa, alla fine, si rese conto del suo errore. Spaventata da se stessa, lasciò andare il figlio di scatto e poi guardò un momento tutti quelli che li circondavano.

“Mio figlio ha bisogno di essere addestrato in modo molto rigido – decretò la Tigre, rivolgendosi al maestro d'armi – esigo che lo seguiate di persona tutti i giorni, tutto il giorno. Che sia in grado di affrontare un avversario senza farsela addosso prima dell'inverno.”

Il maestro d'armi annuì e, quando vide la sua signora che si allontanava ancora furiosa e a passo di marcia, facendo scostare con un solo sguardo tutti quelli che le intralciavano il cammino, batté le mani ed esclamò: “Avanti! L'avete sentita! Spade in mano, ricominciamo!”

Giovanni restò qualche secondo a guardare Bernardino e Galeazzo che, nemmeno troppo scossi dalla scenata della madre, riprendevano gli esercizi e Ottaviano che, decisamente più provato, ascoltava in silenzio una sfilza di ordini del maestro.

Appena si fu un minimo ripreso, fece un cenno a Cesare Feo e al Capitano Rossetti che stavano accanto a lui e andò, il più in fretta possibile, nella stessa direzione in cui era svanita sua moglie.

I passi veloci gli costavano una grande fatica, visto che i suoi piedi, quel giorno rigidi come non mai, rendevano la sua andatura un po' instabile e claudicante, ma riuscì comunque a raggiungerla.

La seduta sulla rampa di scale che portava al piano superiore, con la testa tra le mani. Le si avvicinò e si mise sul gradino accanto a lei, confidando che non arrivasse nessuno a disturbarli.

“Caterina...” cominciò a dire, mettendole un braccio attorno alle spalle e cercando di farle sollevare lo sguardo: “Non è successo nulla...”

La Contessa scosse il capo e si morse il labbro, incapace di esprimere a parole la confusione che aveva nel petto.

“Ottaviano si stava mettendo in ridicolo. Hai fatto bene a riprenderlo. Vedrai che adesso si impegnerà di più.” soggiunse il Medici, non riuscendo a capire l'effetto che il suo discorso stava avendo sulla donna.

“È uguale a suo padre.” sussurrò a quel punto la Tigre, coprendosi il viso con le mani.

Il fiorentino sollevò le sopracciglia e fece un nuovo tentativo per calmarla: “È solo inesperto. Se seguirà con attenzione le sue lezioni, vedrai che...”

“Ha la sua faccia. Ha il suo fisico.” lo fermò la Sforza, con il tono di chi spiega qualcosa di ovvio a qualcuno di molto ottuso: “È identico a lui.”

Giovanni non sapeva come ribattere a una simile affermazione. Lo aveva già sentito dire spesso, che quel figlio della Tigre assomigliasse in modo sempre più impressionante al defunto Conte, ma non si era ancora reso conto appieno di quanto quel fatto ferisse Caterina.

“Ogni volta che me lo trovo davanti – riprese la Leonessa, con la voce un po' incerta, togliendosi finalmente le mani dagli occhi e lanciando qualche occhiatina sfuggente al marito – rivedo in lui Girolamo e...”

Qualche passo in lontananza la fece tacere. Sia lei sia Giovanni attesero con pazienza che i due soldati di passaggio li oltrepassassero, guardandoli appena e salutandoli con un cenno, e sparissero dalla loro vista.

“È come se avessi ancora nove anni e avessi davanti lui.” disse in un sussurro la Contessa, scostandosi anche dal mezzo abbraccio del marito: “Mi sento piccola, debole e indifesa. È una cosa che non riesco a combattere.”

“È per questo che hai avuto quella reazione, in cortile?” chiese l'uomo, mentre gli tornava alla mente il racconto freddo e quasi distaccato che Caterina gli aveva fatto mesi addietro del suo matrimonio con Girolamo Riario.

La donna annuì e poi tirò su col naso: “Io non vorrei sentirmi così mai più, ma quando meno me lo aspetto, vengo ripiombata in quel limbo che mi ha tenuta in gabbia per anni. E la mia unica reazione è quella di attaccare. Rispondo al senso di debolezza che provo con l'aggressività...” sospirò e si massaggiò le tempie: “E poi, da quando ho cominciato a pensare che probabilmente aspetto un altro figlio, mi sono resa conto di essere più vulnerabile ai ricordi e...”

“Ma tu sei felice di aspettare un figlio da me?” le chiese Giovanni, in modo tanto diretto da sorprenderla.

“Sono felicissima di aspettare un figlio da te.” gli rispose subito, cercando la sua mano per rassicurarlo: “Ed è per questo che ho così tanta paura.”

Il Medici non capiva la logica che sottostava alle parole della moglie, ma accettò a scatola chiusa la sua validità.

“Voglio andare a caccia.” fece la Sforza, alzandosi abbastanza all'improvviso.

“Con me?” chiese il fiorentino, che sospettava di non essere incluso nella battuta che la moglie aveva in mente.

“Da sola. Ho bisogno di pensare.” disse infatti lei, cominciando a salire le scale.

Il marito le filò dietro e, sapendo che opporsi sarebbe stato del tutto inutile, le disse solo: “Cerca di stare attenta.”

Appena prima di lasciarla libera di andare in camera a cambiarsi per la battuta improvvisata, Giovani soggiunse: “Se preferisci, nei prossimi giorni posso dare un occhio io ai progressi di Ottaviano.”

Caterina, una mano già sulla maniglia, si voltò verso di lui e si specchiò nei suoi tranquilli occhi chiari. Vedeva nell'ombra del suo sorriso una mano tesa, come sempre.

Annuì e borbottò: “Immagino sia meglio...” e poi si eclissò nella loro stanza per infilarsi gli stivali e l'abito da caccia.

 

“Anche Vitellozzo è propenso a schierarsi con Firenze.” disse Giampaolo Baglioni, appoggiando i piedi al tavolino e prendendo il calice che la moglie Ippolita.

Questa si versò un po' da bere e poi si sedette accanto al marito, squadrandone la mascella volitiva e gli occhi un po' a mandorla, sormontati da sopracciglia quasi inesistenti: “Firenze potrebbe essere una buona scelta anche per noi?”

L'uomo sbuffò e vuotò in un unico colpo il suo bicchiere: “Quello che mi preme adesso è sapere se avremo dalla nostra quel gran cane di Bartolomeo d'Alviano in tempo per la guerra. Se avremo lui, potremo tirar su il prezzo della condotta.”

“Sua moglie non è ancora morta?” chiese, con tono gelido la donna.

Giampaolo imprecò a bassa voce e rispose: “Quella strega sembra una morta che cammina, a quanto dicono, ma respira ancora.”

“Siamo certi che suo marito sposerà tua sorella, quando resterà vedovo?” chiese Ippolita, rigirandosi tra le dita il nodo nuziale che da sette anni la legava al signore di Perugia.

“L'ho incontrato anche mentre combattevamo a Terni – confermò l'uomo – e mi ha detto chiaramente che appena sarà libero, vuole togliersi dai piedi tutti gli Orsini di questa terra.”

“Bene.” annuì la donna.

“A parte Paolo, quello gli ho detto di tenerselo buono.” precisò Giampaolo: “Adesso che ha le mani in pasta con Venezia...”

La moglie gli diede ragione e poi prese di nuovo la caraffa di vino e versò da bere a entrambi. Non appena i copiosi calici resero la donna sonnolente, benché fosse solo pomeriggio, Ippolita annunciò che sarebbe andata a dormire.

Giampaolo la salutò e disse che sarebbe andato da Pantasilea, per aggiornarla sulle trattative per il suo matrimonio.

“Bartolomeo d'Alviano non farà storie, per lei, vero?” chiese Ippolita, appena prima di congedarsi dal marito.

“Che ci provi. E poi è un vedovo, no? Che vuoi che gliene importi, della virtù di una seconda moglie...” biascicò il Baglioni, lasciando andare la moglie a riposarsi.

Quando arrivò alla stanza della sorella, l'uomo batté un paio di colpi sulla porta, fino a che non si sentì dare il permesso di entrare.

Pantasilea era come sempre bellissima, con il suo viso così fine e dai tratti leggeri da non sembrare nemmeno una parente del grosso e sgrezzo fratello.

Giampaolo le disse in fretta quel che doveva e quando la sorella, poco più che ventenne, gli si aggrappò al collo chiedendogli rassicurazioni, l'uomo le diede un lungo e profondo bacio sulle labbra e le assicurò: “Tu sarai sempre mia.”

Come sempre del tutto succube del fratello e della sua imponenza, la giovane donna lo prese per le forti mani e, con un sorriso invitante, gli disse: “Come gli Dei...”

Giampaolo, sorridendo a quella mezza frase, che gli ricordava di come lui stesso, le prime volte, avesse dovuto convincere quella sorella a unirsi a lui raccontandole favole sugli Dei e sugli antichi faraoni d'Egitto, che si sposavano tra fratelli, fece eco: “Come gli Dei.”

E così, ben felice di vedere che Pantasilea era pronta a concedersi a lui ancora una volta, anche se forse solo per cercare la sua protezione da un marito che non conosceva e su cui si diceva di tutto, Baglioni chiuse la porta con attenzione e si rammaricò solo del fatto che né le altre sue sorelle – che erano ancora impegnate nelle loro occupazioni giornaliere – né sua moglie – che era stata stesa dal vino – fossero lì per condividere con loro quel momento, come spesso capitava.

 

Caterina ancora non riusciva a credere di aver commesso un errore tanto grossolano. Aveva chiamato suo figlio 'Girolamo'. Quando l'aveva fatto, gli occhi di Ottaviano l'avevano scrutata sperduti e confusi, e lei era certa che avessero visto nei suoi le stesse identiche emozioni.

Smise per un momento di affilare il rametto che si era messa ad appuntire per noia con il coltello.

Aveva cacciato un paio di lepri, niente di che, e poi si era messa all'ombra di una pianta, per riposare e pensare.

In più, cavalcare a lungo le aveva dato un po' fastidio. Non si trattava proprio di nausea, né di giramenti di testa, ma era comunque qualcosa di spiacevole.

Così si era fermata, pensando che quel malessere fosse un modo ancestrale che la piccola creatura che portava dentro di sé avesse usato per chiederle di scendere di sella.

Aveva allora preso un rametto e con gesti monotoni e secchi aveva cominciato a spuntarlo, come fosse una piuma per scrivere.

Era arrabbiata con se stessa per la debolezza che aveva mostrato quel giorno. Non era stata sua intenzione mettersi in mostra a quel modo davanti a mezza rocca, ma non era riuscita a trattenersi.

Non riusciva mai a trattenersi, in nulla.

Da quando a nove anni la sua famiglia l'aveva venduta a Girolamo Riario, aveva sentito crescere dentro di sé un'ombra, proprio come quella che suo padre diceva di avere nel fondo della propria anima.

Se per anni era riuscita a tenerla a bada, prima fingendosi una figlia perfetta, poi fronteggiando come meglio poteva l'incapacità politica del suo primo marito, benché in privato si fosse sempre trovata a cedergli, esattamente come se a quindici, diciotto, venti e più anni fosse ancora la bambina terrorizzata che aveva subito le sue violenze in una delle stanze del palazzo di Porta Giovia.

Subito dopo la morte di Girolamo, nella sua vita era arrivato Giacomo e la passione per lui aveva spento un po' la sua rabbia, trasformandola in qualcosa di diverso.

Ucciso Giacomo, il mostro che albergava in lei era tornato a morderla e l'aveva spinta sull'orlo del baratro. Se non fosse arrivato Giovanni, probabilmente sarebbe precipitata nel gorgo in cui si stava per tuffare e non ne sarebbe riemersa più.

E ora, pur volendo mantenere la calma, pur cercando disperatamente di godersi quello che la vita le stava offrendo, l'ombra che la perseguitava continuava a riaffiorare dai meandri del suo cuore, oscurando perfino il sole splendente che il suo terzo marito era stato capace di accendere per lei.

Risentendo l'ira affiorare dal fondo del suo spirito, lasciò il coltello sull'erba e spezzò in due il bastoncino che stava limando da almeno mezz'ora, gettandone poi i due monconi lontani.

Abbandonò la testa all'indietro, appoggiando la nuca al tronco dell'albero e annusò con calma l'aria estiva che la circondava. Non mancava molto al tramonto e oltre al profumo dell'erba fresca e a quello delle fronde verdi che la sovrastavano, sentiva distintamente il sentore ferino delle due lepri che giacevano morte al suo fianco e quello più casalingo del cavallo che brucava tranquillo a pochi passi da lei.

Si mise con lentezza una mano sulla pancia. Aveva voluto essere cauta, ma ormai ne era certa. Era come quando aveva aspettato Bernardino. Aveva capito già dopo pochi giorni di essere incinta. Era una sensazione, nulla di più, ma era come avvertire un calore anomalo eppure piacevole nel mezzo del ventre.

Strinse i denti, mentre la sua memoria le riproponeva le emozioni ben diverse che aveva provato nello scoprirsi in attesa dei suoi primi sei figlio – perfino di Livio, per la cui morte poi aveva sofferto così tanto – e non seppe se vergognarsi o arrabbiarsi.

Quando si accorse che il cielo all'orizzonte iniziava a tingersi di rosso, si rimise in piedi e poi, prima di rimettersi a cavallo, legò le lepri alla sella e infine fece qualcosa che sorprese lei stessa per prima.

Accarezzandosi di nuovo il basso ventre disse: “Torniamo a casa.”

Mentre rimontava in groppa al suo purosangue preferito – irrequieto e battagliero quanto lei – si disse che avrebbe dovuto sentirsi stupida, a parlare a voce alta a un bambino non ancora nato.

E invece, sorridendo si rese conto che quel gesto le aveva ridato in parte un po' di pace e così, conducendo il cavallo a passo lento e cadenzato, continuò a parlare a quel figlio sconosciuto per quasi tutta la strada, passando da argomenti seri, a cose di poca importanza, ritornando in silenzio solo quando fu in vista della rocca.

 

Marchesino Stanga si passò una mano sugli occhi stanchi. La luce della candela ormai non gli bastava più per decifrare bene le parole vergate dalla mano del Duca in quella lettera che portava la data del 30 luglio.

Come segretario del Moro, era abituato a ricevere quel genere di missive, in cui il suo signore metteva per iscritto una serie pressoché interminabile di ordini. Quella volta, però, trovava assurdo che Ludovico avesse incluso anche delle esortazioni da rivolgere al domine magister.

Tutti sapevano che il Duca e Leonardo avevano un rapporto abbastanza amichevole, se non altro in riguardo alla stime che il maestro e la defunta moglie del Moro si erano portati a vicenda per anni.

Marchesino sospirò e rilesse, nella mente: 'Item sollicitare Leonardo fiorentino perché finischa l'opera del Refetorio delle Gratie principiata per attendere poy ad l'altra fazada d'esso Refetorio; et se faciano luy li capituli sottoscripti de mane sua che lo obligano ad finirlo in quello tempo se converrà con luy'.

Il segretario sbuffò ripetutamente davanti alle frasi che il Moro aveva scritto nel modo più formale che conosceva e poi, ripercorrendo ancora gli ordini, arrivò anche alla richiesta dei: 'più periti se trovino in architectura per examinare et fare uno modello per la fazada de Santa Maria delle Gratie.'

“Come se fosse facile.” sussurrò tra sé l'uomo, tirandosi su dalla sedia e soffiando sulla candela.

Aveva un gran sonno e il pensiero che il giorno dopo, il 31 luglio, per altro, uno dei giorni tra i più caldi e tormentati dalle zanzare che esistessero a Milano, avrebbe dovuto affrontare il domine magister gli faceva solo desiderare di mettersi a letto a dormire.

Solo il Duca poteva andare d'accordo con quello stravagante toscano che girava per il palazzo con due paggi al seguito e i capelli tinti di biondo. Perché Marchesino Stanga ne era certo: quel colore non poteva essere naturale alla sua età.

Passandosi una mano sulla testa quasi pelata, si vergognò nel trovarsi invidioso della chioma lunga, fluente e senza nemmeno un capello grigio di Leonardo da Vinci.

 
   
 
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