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Autore: Nanas    14/12/2017    4 recensioni
“[…] Perché Gotham è, prima di tutto, i suoi cittadini.
Cittadini che continuano a portarla sull’orlo del baratro solo per tirarla all’ultimo nuovamente via, desiderosi di combattere per l’anima di quella città che si ritrova ad essere ancora una volta appagata del caos che la compone, soddisfatta della consapevolezza che il vivere le sue ombre comporta.
Poiché tutti sono parte della sua esistenza, tutti sono sangue che scorre caldo nelle sue vene e che rende possibile la sopravvivenza al freddo della notte:
Tutti sono criminali, a loro modo. E finché vivono, così vive la città.
E poiché la città vive, così vive Batman.”
_________________________________
Hint: [KuroKen] [BokuAka] [DaiSuga] [IwaOi]
[Batman AU] [WARNING: Slow Build Fanfiction!]
Genere: Azione, Dark, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Daichi Sawamura, Hajime Iwaizumi, Morisuke Yaku, Tetsurou Kuroo
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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11. Death may be the greatest of all human blessings
(yet men fear it as if they knew that it is the greatest of evils)

 

 

Socrates

 

 

 

 

GOTHAM CITY Gotham Center Police Department (GCPD)

22/12/1976 – Ore 12:30 circa

 

Da quando il commissario Yaku ne era diventato a tutti gli effetti la maggiore figura di spicco, l’interno del Dipartimento di Polizia di Gotham City era diventato l’esempio più lampante di decoro e lustro di una città un tempo assoggettata dal crimine e dalla malavita.

Per quanto ci fossero ancora possibilità di trovare esempi di poliziotti venduti o di ispettori corrotti non ancora stanati ed allontanati, infatti, era indubbio come la presenza di una personalità come quella di Morisuke Yaku, arrivato a occupare la carica di commissario dopo una lunga gavetta fatta all’interno e all’esterno di Gotham, avesse aiutato molto le sorti di quella che al presente era la struttura meglio organizzata dell’intera città. La prevenzione e la repressione del crimine e dei suoi criminali, umani e metaumani che fossero, così come la tutela dell’ordine pubblico e la condanna dei soggetti ritenuti responsabili di illecito, era in qualche modo parallelo con la concezione sempre più fiduciosa che alcuni cittadini iniziavano ad avere nei confronti delle forze dell’ordine, iniziando ad associarli a degli alleati, piuttosto che a criminali in possesso dell’enorme vantaggio fornito dalla legge.

 

 

 

Eppure adesso, mentre Batman osserva gli interni confusi, i fogli sparsi sulle mattonelle lisce e le scrivanie ribaltate, mentre supera le porte spalancate circumnavigando sedie rotte e macchine da scrivere riverse sul pavimento, non riesce a vedere nulla del lustro costruito con impegno e perseveranza nell’arco di anni da Yaku, nulla che non sia stato distrutto in appena qualche minuto di follia generale. Gli interni del Dipartimento non sembrano neppure discostarsi troppo dagli esterni ad essere sinceri, dalla Gotham ormai inselvatichita e dalle sue strade sporche, dai parcheggi all’aperto che Daichi ha avuto modo di osservare di sfuggita o dai parchi colmi di quelle persone – non sa più nemmeno se definirle tali – intente a scavare nel terriccio sino a far sanguinare le dita o ad arrampicarsi sugli alberi, scrostando le cortecce o cercando di graffiare via le reti di perimetro.

Daichi fa qualche passo in avanti, inserendosi nella parte centrale dell’enorme sala mentre tenta di destreggiarsi al meglio in quel labirinto di documenti e mobilio.

È tutto incredibilmente, assolutamente silenzioso. Il fruscio delle carte contro le altre è ovattato, il chiacchiericcio costante dei poliziotti del tutto assente, il rumore metallico dei tasti delle macchine da scrivere che sembrano appartenere ormai solo ad un ricordo, o quasi ad un’allucinazione. Perché è tutto ancora incredibilmente vivo lì dentro, dalle sedie spostate dalle scrivanie ai documenti impilati disordinatamente sulle mensole ai lati, eppure tutto – distante. Quasi come se fosse stata messa in atto una recitazione, lì dentro, che abbia mimato perfettamente la realtà senza imprimervisi veramente, abbassando le sue tende appena qualche secondo prima del suo arrivo.

Una farsa.

Deve trovare Yaku.

Daichi fa qualche passo in avanti, gli stivali che scricchiolano contro dei resti di vetri di una lampada ormai frantumata a terra, ma non riesce neppure ad arrivare alle scale che qualcosa di incredibilmente caldo e ruvido si posa sulla spalla, imprimendovi una forza inaspettata e tentando di scavare con le unghie annerite oltre la dura corazza del costume che indossa.

 

Una mano.

 

Daichi non fa in tempo a girarsi che il peso di un altro corpo va ad unirsi a quello già pressante del primo attentatore, e un braccio si alza in maniera protettiva quando uno dei due cerca di puntare in avanti la mascella, aprendo e chiudendo in maniera sconnessa i denti mentre più rivoli di saliva scivolano dalla sua bocca verso l’avambraccio teso. Hanno entrambi uno sguardo alienato mentre continuano a gettarsi contro di lui a più ondate, ma le bocche di entrambi saggiano solo l’aria mentre il pavimento si avvicina irrimediabilmente al loro cadere rovinosamente a terra, impreparati alla celerità con la quale Batman scivola invece inaspettatamente dietro, piegandosi da un lato e uscendo fuori dalla loro traiettoria.

La caduta è impressionante, e nella baldoria del legno delle scrivanie che viene distrutto e delle pile di carte che scivolano via lo scricchiolio indistinto di qualcosa di interno che si spezza rompe la monotonia del caos uditivo in cui sono immersi. Un urlo squarcia una pausa tra quei rantoli di rabbia, e quando uno dei due si alza Daichi può vedere distintamente la posa innaturale che il braccio del più giovane adotta, rimanendo inerme e penzoloni anche quando questo apre le braccia per riprendere l’equilibrio dopo la disastrosa caduta; nessun braccio sano potrebbe creare quell’angolazione, e nessun umano potrebbe rimanere cosciente davanti al dolore che un osso per metà sporgente dalle carni dovrebbe provocargli. Eppure Daichi non fa appena in tempo a leggere Goshiki Shirabu sulla divisa del giovane prima che questo si avventi nuovamente su di lui, le mascelle contratte ed il piccolo viso contrito in una espressione di delirante irritazione.

Legamenti e e tendini sembrano essersi mescolati all’interno di quel braccio deformato dalla caduta e sempre più gonfio a causa dei versamenti interni che sta accumulando, ed ogni secondo che passa i nervi che collegano il cervello alla mano sembrano andare sempre più in confusione, facendo contrarre le dita in maniera casuale o tendere il palmo quasi fino a spezzare il polso per la torsione.

Quel ragazzo ha bisogno di cure mediche, se vuole sperare di avere l’avambraccio ancora con sé tra qualche anno. Eppure, sembra che neppure gli estremi spasmi ai quali l’arto è obbligato siano capaci di riportare coscienza nella sua mente annebbiata, mentre la mano ancora funzionante va a muoversi freneticamente davanti al volto di Daichi nel disperato tentativo di artigliarlo. La risposta di Batman è veloce, e mentre si fa scudo con un braccio la mano guantata va ad afferrare il collo dell’altro, spingendolo via e tenendolo lontano da lui mentre gli occhi calano intanto sul secondo agente, trovandolo ancora urlante a qualche metro da lui ma in qualche modo completamente disinteressato alla sua persona.

Lo vede agitarsi, rialzarsi in piedi, iniziare a correre, inciampare e finire infine contro una delle colonne della sala, portandosi davanti ad essa ed iniziando a sbattere con forza la testa contro il marmo duro, ampi fiotti di sangue che presto iniziano ad aggiungersi alla saliva trasparente che scivola via ad ogni botta dalla sua bocca. Daichi aggrotta le sopracciglia, portando la testa indietro quando la mano di Goshiki sembra riuscire a sfiorare la sua maschera in metallo nel tentativo di tirarla via, e trae un sospiro rimasto a mezz’aria quando si rende conto di averla ancora fortunatamente integra e funzionante al suo posto, i filtri che continuano a pulire l’aria rendendola respirabile senza effetti collaterali.

«Non costringermi a farti del male.»

Dice solo, le iridi celate dalla maschera che si fissano su quelle castane del minore forse in un ultimo, strenue tentativo di vedere di nuovo un segno, una sfumatura di consapevolezza tornare su quel volto sfigurato dalla pazzia di quel lunedì mattina. Ma le pupille sono dilatate, nere come la pece ed espanse al punto tale che l’iride quasi risulta scomparsa, mentre la sclera – normalmente bianca o arrossata dalla carenza di sonno – esplode in una ramificazione di macchie e capillari che immergono l’iride in un bagno di sangue.

«Guardia Goshiki.»

Tenta un’ultima volta, ma invano. Le labbra dell’altro continuano ad aprirsi in maniera innaturale, scoprendo dei denti regolari e stretti in una morsa digrignante, mentre l’esasperazione di non riuscire a raggiungere il suo viso come bramerebbe porta una grande vena al lato del suo viso ad ingrossarsi enormemente, tanto in rilievo da risultare visibile anche oltre il taglio netto della frangetta scura.

Daichi non si ripete un’altra volta. Sapeva sarebbe stato inutile sin dal primo tentativo in fin dei conti, eppure la sua parte umana – che dovrebbe cercare di celare il più possibile in quelle vesti – non ha potuto evitare di esporsi spontaneamente davanti all’espressione esaltata di un ragazzo così giovane, sicuramente novizio alla carica stampata sulla sua uniforme sporca. Osserva un’ultima volta il sangue già parzialmente coagulato del braccio dismesso mentre questo scende a rivoli, creando macchie sempre più scure sopra la parte sfibrata della manica, mentre da oltre lo strappo del tessuto ormai pregno di liquidi un ematoma denso e violaceo va a formarsi sottopelle, esplodendo in fiumi ancora aperti lì dove la carne ha ceduto e l’osso sporge esposto.

Si tende un’ultima volta in avanti, e mentre il ragazzo si sbilancia a causa della variazione di peso improvvisa Daichi lo fa scendere velocemente con il busto, portando il collo tra il suo petto e il suo braccio ed iniziando a stringere con forza, premurandosi nel frattempo di evitare le unghie che il giovane tenta intanto di indirizzare verso la sua testa, alla cieca. Il tempo di attesa sembra infinito, ma alla fine Batman vede l’arto dell’altro farsi più pesante, i gesti più lenti, finché il ragazzo non smette di muoversi del tutto, lasciando cadere verso il basso il braccio mentre il ringhio diventa un gorgoglio iracondo e poi un silenzio innaturale.

Daichi fa attenzione nel posarlo a terra, controllando che respiri ancora e che il ragazzo sia solamente svenuto a seguito del principio di asfissia, prima di alzare gli occhi verso l’altro, ora preso a strappare i documenti tenuti su una serie di portariviste da parete che circondano una delle colonne centrali della sala d’ingresso. Nella distruzione del grande atrio disseminato di fogli, documenti ed incartamenti recanti il simbolo della GCPD, Batman non può fare a meno di notare come quella bestia dotata solo di istinto e rancore sembri essere parte essenziale dell’apocalisse che sembra svilupparsi nella città di Gotham. L’uomo sulla quarantina urla qualcosa, e con un ultimo graffio lasciato sulla superficie ruvida del cemento posto tra un portariviste e l’altro un paio di unghie si staccano completamente dalle dita, il sangue che macchia le mani sporche mentre i denti dell’arcata superiore ed inferiore digrignano con forza gli uni contro gli altri. Qualcosa sembra scattare nella testa di quell’uomo a quella nuova sensazione, e mentre il sangue denso scorre sopra la sua pelle screpolata e arrossata il viso viene gettato, con forza e tensione da parte di tutto il corpo, contro i vetri più esposti delle portariviste frantumate nel frattempo.

Batman fa un passo in avanti, ma è già troppo tardi. Lo vede accasciarsi lentamente addosso alla colonna mentre l’emorragia sviluppatasi dalla bocca e dai continui tagli procurati dalle schegge di vetro ancora sottopelle lo rendono via via più debole, sino a quando esso non si siede a terra, in silenzio, lo sguardo basso e un lungo filo di sangue e saliva che scivolano verso il pavimento, macchiandogli i pantaloni marroni scuri e il distintivo incorniciato sulla cintura in pelle.

Non può fare nulla per lui, non adesso.

Dopo avergli gettato un ultimo sguardo per capire se possa essere ancora un pericolo, e dopo essersi convinto della risposta negativa, Daichi si gira nuovamente verso le scale, ed è solo in quel momento che nota un particolare che prima, concentrato nella lotta, non ha avuto modo di notare: le inferriate di sicurezza, normalmente alzate a delimitare il pianerottolo da cui si ramificano le gradinate verso il sotterraneo e i piani successivi, sono abbassate sino al pavimento, offrendo un blocco di protezione contro le possibili infiltrazioni che qualcuno, dall’interno della struttura, ha cercato di arginare. Una contromisura, quindi, che quel qualcuno deve avere attivato; un qualcuno che forse è ancora lì, da qualche parte.

Daichi posa una mano su uno dei livelli della grata, facendone scivolare i polpastrelli sul ferro freddo, e le sopracciglia si aggrottano mentre rimane immobile qualche secondo, immerso nei suoi pensieri. Potrebbe davvero essere stato il commissario a chiuderla? In effetti non sa in quanti abbiano le credenziali per accedere a simili misure di sicurezza, ma se non fosse stato lui, chi altri potrebbe essere stato? E soprattutto: se questa ipotetica persona ha dato l’allarme quando tutto ciò è cominciato, non vuol dire forse che si trovava in un luogo ove tale aria tossica non arrivava, e dal quale era possibile prendere provvedimenti senza rischiare di essere infettato?

Non è molto, ma forse può lavorare con quell’informazione; dopo tutto, lui è arrivato fino a lì per chiedere supporto a Yaku – o a chiunque del dipartimento possa aiutare i civili, in generale – quindi non pensa di essere nelle condizioni di poter ignorare ci sia qualcuno ancora sano in quella struttura, per quanto minima possa essere tale possibilità. L’unico problema è: come può raggiungere questo possibile individuo, senza sapere dove sia?

Lo sguardo si alza, rincorrendo l’inferriata che serpeggia verticalmente sino al soffitto, e quando raggiunge l’estremità superiore continua a seguire la cornice che si allarga su ambo i lati, portandosi a destra e pedinando il lungo tragitto compiuto dalla stessa fino a raggiungere il muro che divide l’ambiente della scala da quello della sala di ingresso.

È allora che lo vede.

Non sembra essere più grande di una sessantina di centimetri per lato, l’aspetto di un piccolo quadrato posto a circa tre metri e mezzo dal terreno e coperto da una grata collegata alla parete da quattro chiodi fissati agli angoli. Daichi arretra, la mano che va a scivolare sul bat-artiglio che tiene legato in vita, e tende il braccio mentre lo tira verso una delle sbarre, assicurandosi che sia fissato ad essa prima di tirarlo via e far cedere così i piccoli chiodi. La grata cade con un tonfo sordo, rivelando un condotto di areazione abbastanza grande per passarvi all’interno, ma prima di sollevarsi Batman si prende un istante per voltarsi un’ultima volta verso le guardie, osservandole silente e in attesa.

Non sembrano tuttavia essere ancora nelle capacità di lasciare le loro posizioni, per quanto l’uomo dal viso rovinato dalle schegge di vetro si lasci andare di tanto in tanto a convulsioni involontarie delle braccia e delle gambe, così il rampino viene attivato e Daichi si inserisce all’interno dello stretto canale, percorrendolo sino ad arrivare ad una seconda grata. Apre anche questa, e quando arriva nuovamente sul pavimento si volta verso le inferriate ora alla sua sinistra, notando di averle sorpassate attraverso quella stretta deviazione e di essere ora dall’altra parte, ove una rampa devia forzatamente verso i sotterranei adibiti alla Scientifica.

 

Batman si rende conto solo mentre scende i gradini in cemento di come siano state rare le volte in cui ha visto quel piano: la zona che sta passando è completamente fuori portata per un civile, ed anche come Cavaliere Oscuro è capitato assai di rado abbia messo piede in quella porzione di GCPD; solo quando il commissario ha pensato fosse oltre ogni misura fondamentale fargli vedere prove impossibilitate, per qualche motivo, a lasciare il tavolo di laboratorio.

Yaku passa molto tempo lì sotto, o almeno, questo è ciò che ha avuto modo di sentirgli dire dopo qualche bicchiere di troppo – trangugiati sempre durante quello stesso tipo di feste dalla quale sono scappati solo ventiquattro ore prima.

Si domanda istintivamente quante siano le possibilità trovi veramente lui, una volta giunto.

 

 

°°°°

 

 

Il piano sotterraneo del Dipartimento di Polizia di Gotham City era un ambiente sterile, bianco come il latte e intriso fin dalle fondamenta dal perpetuo odore forte e pungente del disinfettante.

Per lo più ramificato in lunghi corridoi e tende in plastica che ne delimitavano le varie zone a diverso grado di sicurezza, ogni sezione interna era a sua volta suddivisa in una serie di piccole stanze al cui interno si potevano individuare oggetti da laboratorio di qualsiasi genere e dimensione. L’agitatore termico, la centrifuga, la buretta, l’ebullioscopio, i becher e le provette erano solo alcuni degli attrezzi appartenenti all’immensa gamma che si poteva trovare, e seppure Daichi non facesse più esperimenti chimici da moltissimi anni – dall’ultima lezione al college, probabilmente – ricordava ancora bene gli odori legati a quelle sostanze che vedeva sfilare da oltre le vetrate delle porte sigillate, primo fra tutti quello di quel famoso disinfettante che veniva utilizzato per ripulire a fondo qualsiasi cosa e che gli pareva di sentire anche oltre la maschera che indossava, tanto era forte il ricordo ad esso associato.

 

 

Non appena Batman arriva al piano, dunque, è proprio quell’odore caratteristico e pungente il primo inquilino che si presenta ad accoglierlo, rimanendo tuttavia intrappolato nella prigionia di quella maschera scura mentre gli occhi slittano attorno, alla ricerca di figure in movimento che possano successivamente rivelarsi un pericolo. Ma tutto tace, quindi alla fine Daichi fa qualche passo in avanti, la suola degli stivali rinforzati che batte sulla lucente e liscia pavimentazione chiara che si allarga a macchia d’olio per tutti gli ambienti del piano. Sulle pareti del lungo corridoio si susseguono porte, etichette, vetrate alte e strette che mostrano spicchi visivi dei laboratori che vi si nascondo dietro; e poi ancora armadi, scrivanie, banconi ricolmi di documenti, mensole con fotografie e attestati sparsi lungo le pareti e teche in vetro, al cui interno oggetti di laboratorio ormai piuttosto datati accumulano polvere mentre osservano inattivi il mondo che scorre davanti a loro.

Batman cammina, e tra quelle pareti bianche come un foglio di carta la sua figura è quasi una macchia di inchiostro in silenzioso movimento, una goccia di petrolio che scivola sulla neve disturbando quel monocromatismo ed imponendosi nella sua prepotenza visiva. Le piante da interni sembrano essere le uniche porzioni di arredamento che i lavoratori di quel piano sembrano aver accettato come contrasto, e il verde smeraldo si impone come unico metodo di differenziazione tra un corridoio e l’altro, portando Daichi a tenere inconsapevolmente conto del loro aspetto e a usarli quasi come fossero segnali atti a testimoniare la distanza percorsa nel frattempo.

Il termine di quel corridoio sembra essere una sala del tutto simile a quelle d’attesa negli ospedali.

Batman si guarda attorno, posando gli occhi sulle poltrone singole e a due posti che sono disseminate ai lati della piccola camera, portandoli poi dall’altra parte della stanza, dove un dispensatore colmo di acqua refrigerata dona con il suo blu appena accentuato una sfumatura di colore freddo accanto alla parete lattea; cartelline di vari colori sono posate su un lungo tavolino in legno chiaro posto dinanzi ad un paio di panche, mentre nella parte superiore della parete affiorano delle lunghe lavagne luminose su cui sono poste delle ecografie di busti e crani di grandezze variabili, piccole note e frecce poste ai lati ad indicarne le zone su cui porre l’attenzione. Su una scrivania in fondo alla parte destra della sala, una macchinetta da caffè fa da compagna ad una probabilmente atta a scaldare l’acqua, mentre una serie di cestini in miniatura racchiudono tisane e frutti di stagione a completare quello che Daichi immagina essere l’angolo per la pausa dei dipendenti della scientifica. In alto, infine, una pesante televisione a tubo catodico posta accanto ad un’enorme porta a vetri barricata manda in onda la proiezione un po’ disturbata e a tratti sgranata del logo della GCPD, ed al suo lato una piccola telecamera nera si muove a scatti, calibrando la grandezza dell’obiettivo mentre una spia rossa illumina fiocamente uno degli angoli del macchinario, segnandone lo stato attivo.

Stato attivo?

«Batman?!»

«… Commissario?»

Daichi ci mette un secondo in più del necessario a rispondere, e nonostante rimanga esternamente impassibile non può evitare che quella leggera pausa rifletta in minima misura quanto il sentire la voce Yaku uscire dagli altoparlanti della televisione giunga incredibilmente inaspettato.

«In persona, se mi ved– Dio, sembri la versione pipistrello di Bane con quella roba addosso.»

E nel mentre la voce continua ad uscire dagli altoparlanti Batman può vedere lo schermo sopra la sua testa iniziare a mandare in onda delle linee di disturbo visivo, la sigla della GCPD che inizia a tremare prima che il viso del commissario faccia la sua comparsa, inizialmente troppo vicino per essere inquadrato del tutto.

«La vedo.»

Non risponderà all’altro commento.

«Sì? Aspetta solo che– Ushijima tu sapevi come usare questo oggetto, giusto?»

Lo sente domandare a qualcuno esterno all’inquadratura, e mentre si volta a parlare con lo sconosciuto Batman rimane in silenzio, a fissare il collo e l’orecchio di Yaku che si muovono nello schermo. Alla fine in qualche modo l’ondeggiare della cinepresa sembra fermarsi, ed una grande mano dalla pelle olivastra compare per qualche secondo davanti la visuale, rendendo lo schermo nero per una manciata di istanti prima di lasciare nuovamente posto al viso del commissario.

«Dicevo, scusa. Sei riuscito a superare le barriere? Dio, spero che le persone che ci sono al piano terra siano meno perspicaci– Siamo alla fine del corridoio che si trova davanti a te, ma prima dovrai passare una cabina di decontaminazione; aspetta–»

Un suono acuto, e la luce rossa presente sopra la porta a vetri viene sostituita da una verde, il rumore metallico di una serie di meccanismi disattivati che rimbombano nella piccola sala d’attesa.

«Fatto, è aperta. Ti aspettiamo qui.»

Termina, facendo un segno di assenso al saluto silenzioso di Batman prima che questo faccia come gli è stato detto, avvicinandosi alla porta e vedendo di sfuggita il commissario chiudere la conversazione video. Quando le vetrate si aprono le attraversa, aspettando si richiudano prima di guardare verso l’alto, dove il sistema di decontaminazione è già pronto ad entrare in funzione.

Riconosce subito il progetto, seppure vederne il lavoro terminato sia naturalmente un’esperienza ben diversa dal vedersi presentate le bozze per avere i finanziamenti atti a renderle realtà. È stato uno dei suoi clienti a sviluppare quella cabina di bio-decontaminazione ambientale, e al vedere il risultato finale Daichi sente un moto di soddisfazione farsi spazio all’interno della tuta; quando infatti quello scienziato aveva chiesto di essere finanziato dalla Sawamura Enterprises molti dei soci interni avevano espresso chiaramente il loro disaccordo, così Daichi aveva deciso – piuttosto che limare il progetto – di finanziarlo come civile. Non passava giorno non fosse d’accordo con la scelta presa in passato: l’idea si era rivelata non solo molto intuitiva, ma soprattutto rapida, ecologica ed efficace, nonché un prodotto unico e fondamentale per una città come Gotham, ove veleni e tossicità erano all’ordine del giorno – come lo stesso Poison aveva dimostrato mesi prima.

La determinazione, il raggiungimento ed il mantenimento qualitativo di un risultato ottimale di abbattimento biologico non avviene in quella cabina mediante l’utilizzo di sostanze tossiche o nocive per la salute umana, bensì attraverso l’atomizzazione di un prodotto chimico a base di perossido d’idrogeno, espandibile per via aerea sotto forma di nebbia secca; tutto quello che Batman deve fare è attendere che il prodotto chimico erogato finisca di lavorare sul suo corpo, e rimane immobile mentre aspetta che la voce automatica all’interno della cabina gli spieghi cose che già sa, come tempi di attesa e sviluppo della sterilizzazione. È passato nemmeno un minuto quando delle seconde porte si aprono, e Daichi muove i suoi passi decisi lungo il corridoio che si è aperto avanti a lui, arrivando al termine e spingendo una grande porta in metallo.

 

«Ehi.»

Lo sguardo del commissario è appesantito da due scure lune sotto agli occhi che denotano una vistosa carenza di riposo, ma per il resto Batman non può fare a meno di pensare a come sia inatteso vederlo cosciente e in sé, al contrario di molti suoi dipendenti fuori e dentro l’edificio. Fa un cenno mentre si avvicina ancora, guardandolo fare lo stesso prima che gli occhi vadano a scrutare per qualche istante attorno a sé, lanciando uno sguardo alle altre – poche – persone presenti nel laboratorio, alcuni visi conosciuti ed altri completamente estranei.

Vi è un uomo dalla statura imponente e l’aspetto robusto, i capelli di un verde primavera scuro e lo sguardo in un complicato limbo tra il severo ed il disinteressato. Alla destra di Yaku ve ne è un secondo, più alto del commissario ma decisamente più basso di quello al lato, i capelli corti e indomabili e le sopracciglia che creano un taglio netto ed esigente, creando un’ombra estesa su quegli occhi cupi che Batman ricorda aver visto sul tetto della GCPD qualche notte prima. Di poliziotti attivi devono essere rimasti soltanto loro tre, poiché le altre due persone presenti nella stanza, poste più a lato e accanto ad un bancone bianco ricolmo di provette e becher dalle varie forme e dimensioni, non sembrano avere né la divisa né il distintivo in mostra, i vestiti che indossano nascosti da un lungo camice bianco sul cui taschino sinistro è esposto un tesserino di riconoscimento con sopra riportati nome, cognome e qualifica.

La prima è una donna: Alta, elegante, occhiali dalla montatura stretta e capelli lunghi e leggermente raccolti in una treccia morbida che scende di lato, le lunghe ciocche blu notte ai lati del viso che creano riflessi di luce e contornano tratti morbidi e longilinei.
Kiyoko Shimizu, recita il suo tesserino.

Il secondo è un ragazzo sulla trentina. Lunghe ciglia sembrano nascondere due occhi grandi ed espressivi, dalle iridi strette e del colore delle olive appena colte; i capelli, di un colore del tutto simile a quello dell’uomo dall’enorme statura accanto a Yaku, sono però lunghi almeno fino al collo, morbidamente scalati e pronti ad incorniciare un volto piccolo, equilibrato e costellato di lentiggini, che danno alla pelle un aspetto giovanile ed innocente – se non si considera il tangente stato di panico presente nella sua espressione.
Yamaguchi Tadashi, sempre dal tesserino.

 

«Cosa succede.»

Daichi sposta nuovamente lo sguardo su Yaku, portando nel contempo le mani sulla maschera di acciaio, smontandola dai lati delle orecchie e liberando nuovamente la parte inferiore del viso. L’odore del disinfettante diventa quasi oppressivo quando la resistenza offerta dai filtri viene a mancare, ma l’espressione non muta nel mentre si riabitua velocemente all’insieme di percezioni olfattive che si ritrova a dover contrastare da un momento all’altro.

«Sarebbe bello saperlo.»

Lo sguardo di Yaku è una maschera di stanchezza mentre la mano va a portarsi alla tempia, le dita che premono sulla sinistra mentre le sopracciglia vanno ad aggrottarsi maggiormente, ad esplicitare una emicrania quasi scontata dopo aver passato più di ventiquattro ore costantemente sveglio.

Probabilmente, pure laver visto cadere la propria città nel caos deve aver fatto la sua parte.

«Non abbiamo ancora capito cosa sia successo. La dottoressa Kiyoko ci ha mandati a chiamare per presentarci i risultati delle analisi svolte sulle formule dei profumi rubati, sono sceso insieme all’ispettore Iwaizumi ed all’agente Ushijima e poi– non saprei.»

Alza un braccio, andando a muovere la mano libera per aria mentre il polso fa rotazioni circolari, a dimostrazione di una confusione mentale che fatica a rimettere in ordine.

«Credo che sia iniziato con i rumori? Dio, è tutto maledettamente confuso– abbiamo sentito forti urla, e subito dopo ho ricevuto un messaggio radio dagli agenti di sicurezza del piano terra. Hanno iniziato a farfugliare qualcosa– »

Un sospiro, le palpebre che vengono strette maggiormente nel tentativo di concentrarsi maggiormente sul ricordo di quel minuti salienti.

«Ma si sono fermati presto, perché poi ho sentito una richiesta di identificarsi, le urla sul tenere qualcuno a distanza, poi c’è stato qualcosa del tipo, cito ‘ha preso Kein, gli sta strappando– Oh Dio salvami, vedo le sue ossa–!’ e dopo qualche sparo ed altre urla è caduto il collegamento...»

Le palpebre si rialzano, e gli occhi tondi e castani di Yaku sono in un secondo nuovamente su di lui, l’espressione buia e la voce resa roca dallo sconcerto e dalla necessità di non credere veramente a quello che sta per dire, probabilmente.

«Dalle fotocamere abbiamo potuto vedere un uomo sfondare una finestra, e subito dopo tutti i miei poliziotti hanno iniziato a muoversi convulsamente e a dare testate al muro, a graffiarsi le carni a sangue– e il resto lo hai visto presumo, se sei entrato dall’ingresso principale.»

Batman rimane in silenzio, lo sguardo puntato in maniera imperscrutabile su quello dell’altro; solo quando l’altro scuote la testa, abbassando successivamente il volto nella decisione improvvisa di prendersi un momento per cercare di recuperare la razionalità che il sonno e lo stato di emergenza stanno mettendo a dura prova, Daichi decide di alzare lo sguardo su quello degli altri presenti. Il primo che incontra è quello dell’uomo dai capelli nero pece e l’espressione grave, che ipotizza non abbia mai distolto lo sguardo da lui da quando è entrato minuti prima.

«C’era Joker la scorsa sera.»

Dichiara, ed a quella frase pronunciata con inconsapevole autorità Iwaizumi aggrotta maggiormente le sopracciglia, incrociando le braccia al petto e portando il peso a spostarsi esclusivamente su una gamba.

«Lo sappiamo già. Molti uomini sono caduti sotto le armi sue e di Harlee Quinn.»

«Mi spiace per le vostre perdite.»

A quelle due parole l’aggressività dell’ispettore cala appena, probabilmente trovando inatteso quell’esempio di umanità da parte di Batman. In verità, avendo soprattutto contatti – sporadici, tra le altre cose – con il commissario Yaku ed i suoi dipendenti più stretti, Daichi non sente di conoscere abbastanza poliziotti che lavorano nella GCPD da giustificare alcun senso di dispiacere verso gli uomini caduti. Ma è una frase che molte persone vogliono sentirsi dire, e l’uomo ha imparato da molto giovane quanto l’avidità nella speranza e nell’attesa di anche solo una singola frase possa muovere il mondo intero, se abbastanza convincente.

«… Grazie.»

Mormora infine l’altro di risposta, sciogliendo le braccia e portando le mani dentro le tasche dei pantaloni, guardandolo ancora leggermente scettico ma più propenso al dialogo.

«Parlavi di Joker.»

«È opera sua, probabilmente.»

«Vuol dire che Serpe–»

«No.»

Batman lo guarda negli occhi, vedendolo indurire la mascella alla sua risposta secca, gli occhi che vanno a rabbuiarsi nuovamente nell’insoddisfazione di una frase obbligata al silenzio.

«C’erano anche Poison e Due Facce con lui, e non possiamo sapere quanti altri ne abbia coinvolti. Il fatto che Joker fosse lì vuol dire che è probabilmente l’ideatore del piano, ma non è raro vederlo lavorare con altri.»

«Poison? Ma lui–»

Lui non lavora con altri criminali, è anche quello che pensa Daichi nei riguardi del metaumano, ed è un ragionamento che fino a quel momento non ha mai avuto motivo di mettere in dubbio. Nonostante ciò, non gli è tuttavia impossibile immaginare Poison capace di inserirsi in contesti anche scabrosi pur di risolvere un debito che senta di avere verso qualcuno; è indubbio che preferisca lavorare in singolo, come Batman stesso ha avuto modo di constatare negli anni, tuttavia considera l’onestà e la propria parola ancora valori con i quali valga la pena pagare un debito, a quanto pare.

Ironico, trovare tanto onore in un criminale.

«… Quindi come facciamo a fermarlo?»

Yaku sta guardando entrambi arrivati a questo punto, e Daichi posa nuovamente le iridi su di lui, le labbra che si schiudono nel rispondergli.

«Credo il problema non sia fermarlo. Se anche lo facessimo, non sapremmo probabilmente come bloccare l’epidemia. Ci serve sapere con cosa abbiamo a che fare per sapere come neutralizzarlo.»

«Per quello posso dare aiutarvi io.»

Una nuova voce entra nel campo uditivo di Batman, e non ha ancora finito di parlare che gli sguardi di tutti gli interlocutori si posano alla loro destra, andando a puntarsi sulla donna in camice ancora accanto al tavolo da lavoro, immobile ad indicare con raffinatezza la centrifuga delle provette in funzione.

«Forse esiste un modo, lo sto testando proprio adesso.»

«Siamo scesi anche per questo»

Yaku torna a parlare, andando a fare qualche passo per la stanza, le mani unite dietro la schiena all’altezza del coccige ed il nervosismo esplicitato chiaramente da passi veloci e cadenzati.

«Da quando ha ricevuto le varie composizioni dei profumi con nomi dei batteri annessi, la dottoressa Kiyoko ha iniziato a fare delle prove di neutralizzazione per cercare di capire quale fosse l’agente antibatterico più efficace per cercare di eliminare l’intossicazione. Anche il dottor Yamaguchi si è spostato dal suo reparto per questo, lo abbiamo incontrato sulle scale mentre arrivavamo qui.»

Una pausa, gli occhi caldi di Yaku che gravitano verso quelli del ragazzo poco distante prima di tornare a camminare avanti ed indietro.

«Sembra la dottoressa sia arrivata ad un buon punto, anche se– »

«Anche se le mie ricerche potrebbero essere inutili, se non conosco il ceppo specifico usato e le modifiche apportate. Perché nessun batterio lasciato in natura avrebbe effetti così devastanti.»

È un riflesso naturale forse, ma alle parole di Kiyoko tutti si voltano a guardare verso uno degli schermi televisivi ancora aperti nella stanza, scisso in quattro quadranti che espongono registrazioni in tempo reale di quattro zone diverse – esterne ed interne – del dipartimento della CGPD.

«Per avere effettivamente qualche speranza di neutralizzarlo dovrei avere un campione del composto che hanno usato per renderlo così violento.»

Alle parole della donna cala un lungo istante di silenzio, gli occhi di tutti loro che rimango puntati a guardare quegli umanoidi registrati dalle telecamere esterne mentre questi sono impegnati ad urlare piegati per terra, staccarsi i capelli dalla cute, andare a sbattere contro mura e volanti parcheggiate o a cercare di azzannarsi a vicenda.

Tutti loro sanno cosa la dottoressa stia proponendo, eppure nessuno di loro parla, seppure tutti per motivi diversi fra loro. Paura, incertezza, ma anche concentrazione nella ricerca di una strada meno pericolosa.

Così tante possibilità, così poche persone per provarle tutte.

«… In questo– penso che potrei aiutare io, forse–?»

Quasi divenuto invisibile nella conversazione, sia a causa della lontananza effettiva che si è creata rispetto al resto del gruppo sia per la riservatezza con la quale è rimasto appartato dietro quel grande bancone lungo e liscio, la voce del secondo scienziato risulta essere flebile ed incerta mentre quelle poche parole vengono pronunciate in quegli istanti di silenzio, impalpabili e leggermente tremolanti.

Ecco perché all’inizio esse rischiano quasi di non venire colte, mentre i presenti rimangono ognuno chiuso nei propri pensieri, i volti abbassati e l’espressione di alcuni di loro concentrata nel pitturarne la preoccupazione sui tratti facciali. Dopo qualche secondo però Yaku alza gli occhi, voltandosi a guardarlo non senza un pizzico di sconcerto, dovuto probabilmente alla novità di vedere quel giovane dai capelli di un mirto scuro interrompere quella sua assenza fonetica adottata sino ad ora.

«… Yamaguchi? In che senso?»

Domanda dopo qualche istante di perplessità, attirando il questo modo anche l’attenzione degli altri che a quelle parole si voltano a loro volta, posando gli occhi sullo scienziato ancora in disparte. Yamaguchi infossa leggermente la testa fra le spalle, facendosi istintivamente più piccolo dinanzi all’aspettativa chiaramente presente negli occhi di tutti loro– O di quasi tutti loro, almeno. Yamaguchi non crede di aver mai visto Ushijima servirsi di un’espressione diversa da quella attuale, mentre la maschera di Batman rende impossibile vederne la parte superiore del volto, nascondendone le rughe espressive.

«Nel senso– cioè, io lavoro in un altro reparto, ma ero venuto qui per dare una mano alla dottoressa Kiyoko, perché– ecco, ho già visto quel tipo di reazione in passato. Non su degli umani ovviamente, ma avevo studiato un caso simile per la mia tesi di specialistica e, cioè, non so se posso–»

«Dottor Yamaguchi.»

Tadashi chiude le labbra, cercando di tornare a respirare in maniera normale mentre sente le guance imporporarsi naturalmente, l’imbarazzo e l’impaccio del parlare davanti ad un numero così alto di persone che portano il suo cuore a battere freneticamente nel petto. Le iridi olivastre si alzano e si abbassano incerte, andando a puntarsi ed a scappare da quelle del commissario, il cui sconcerto ha lasciato posto ad uno sguardo severo ed pragmatico.

«Sì, scusate–! Ecco, dicevo– avevo fatto questo esperimento con un mio collega di corso che forse conoscete, il dottor Tsukishima Kei, non so se– ha dato le dimissioni un anno fa.»

Si illumina appena nel dire il nome del collega, ma l’entusiasmo si oscura subito nel fare riferimento all’allontanamento voluto dall’altro, il viso che si abbassa mentre le sopracciglia prendono una piega distesa e triste, il ricordo di quel giorno ancora presente nella sua memoria. Ci era rimasto male e non aveva senso dire il contrario. Non era riuscito a dire nulla, non si era sentito in diritto né abbastanza per chiedere a Tsukishima di restare, e tutto quello che era riuscito a fare era stato l’abbassare il capo, i pugni chiusi dentro le tasche del laboratorio e la lunga frangia a cadergli davanti il viso, a nascondere l’espressione di vergogna nata da quella mancanza di coraggio di puntarsi contro le spalle di Kei e dirgli di non lasciare lui e quel laboratorio in cui entrambi erano stati ammessi anni prima.

«Ma dovrebbe tornare a Gotham presto– Cioè, mi aveva promesso mi avrebbe portato a vedere le stell–»

Ok, questo può decisamente risparmiarselo. Scuote la testa, prima di alzare nuovamente gli occhi.

«In ogni caso, ho riconosciuto i batteri che avevamo usato nella nostra ricerca–»

E mentre lo dice va ad abbassare lo sguardo verso il banco da lavoro, muovendo gli innumerevoli fogli sparsi per tutto il ripiano e facendo slittare le iridi strette e concentrate sulle lunghe file di composti chimici che si susseguono gli uni dietro gli altri, arrivando infine ad indicarne con l’indice lungo prima uno, poi un altro, poi un terzo.

«È una composizione nata dall’unione tra questi tre.»

Kiyoko fa qualche passo, andando ad avvicinarsi al collega mentre le dita vanno ad accompagnare un paio di ciocche dietro l’orecchio sinistro, rimanendo in quella posizione per evitare di far scivolare la treccia in avanti. Va a studiare con le iridi scure i ceppi indicati da Yamaguchi, mentre questo rimane ad osservare con occhi attenti e svegli quelle tre sole, non un minimo di dubbio presente sulla sua espressione nonostante le migliaia di altre formule sparse nei restanti fogli posati sul tavolo; come se non vi fosse nulla di più naturale al mondo di riconoscere la percentuale precisa di ogni singolo elemento presente all’interno di una lunga costruzione polinomiale di un composto chimico studiato più di cinque anni prima.

«Non ne posso essere assolutamente sicuro, ma vedendo gli effetti che sta avendo, credo– un novanta per cento sicuro? Forse qualcuno ha rubato o letto la tesi, e l’ha usata per testarla sugli umani invece che sui topi. Dovrebbe ancora essere accessibile pubblicamente nella biblioteca universitaria, in fondo–»

Non ha ancora finito di parlare che Yaku alza un braccio, indicando Ushijima ed Iwaizumi e lanciando loro uno sguardo, aspettando loro annuiscano brevemente mentre iniziano ad allacciarsi le giacche imbottite. Torna poi a guardare Yamaguchi, riassumendo brevemente le notizie ricevute.

«Ottimo, allora basterà andarla a riprendere per scoprire la configurazione completa e lavorare per trovare un test di neutralizzazione che funzioni, giusto?»

«Oh, a dire il vero– quella la so già.»

Silenzio. Migliaia di sguardi che si puntano in contemporanea verso Yamaguchi mentre il ragazzo si rende improvvisamente più piccolo, una punta di sconcerto all’idea di essere improvvisamente divenuto il bersaglio di così tante occhiate focalizzate interamente su di lui.

«… Cosa?»

 

 

 

 

- - - - -

Ho fatto talmente tanto ritardo che non merito perdono. Ammetto che per un po’ ho anche avuto una mezza idea di mettere in hiatus questa storia, ma alla fine ho deciso di provare comunque a pubblicare almeno per le poche persone che la seguono…! Sono un po’ giù in questo periodo e questo ha portato un eccessivo rallentamento negli aggiornamenti, oltre che una mia latitanza generale dalla vita sociale. (…) Spero questo capitolo vi sia piaciuto in ogni caso, come al solito: fatemi sapere che ne pensate! Non siate timidi. (?)

  
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