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Autore: Adeia Di Elferas    15/12/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Sancha si stava facendo aria con un ventaglio a banderuola che le era stato gentilmente prestato da una delle altre nobildonne in attesa.

Non le sembrava una bella scelta, quella di tenere una cerimonia tanto solenne in piena estate. Il tanfo del sudore dei presenti sarebbe bastato da solo a guastare a tutti la festa.

“Se siete pronta...” disse Jofré, guardando titubante la moglie.

Sancha annuì e lasciò il divanetto, dopo aver restituito il ventaglio alla legittima proprietaria e aver salutato il salotto come si conveniva a una donna del suo calibro.

Le dame presenti, quasi tutte napoletane, ricambiarono più in riguardo al suo cognome, che non alla sua fama.

“Sappi che appena questa pagliacciata sarà finita – disse la diciannovenne al marito di tre anni più giovane – voglio tornare a Roma.”

Jofré deglutì, ricordando come suo padre li avesse praticamente cacciati dal Vaticano, quasi senza preavviso, decidendo all'ultimo di farli andare a Capua, prima che a Squillace, per assistere alla cerimonia dell'incoronazione di re Federico.

Poco importava, ad Alessandro VI, se il re di Napoli aveva la corona in testa da quasi un anno. Si era impuntato affinché ci fosse una nuova cerimonia e aveva deciso che a incoronare Federico sarebbe stato Cesare, in sua vece.

Jofré, in tutta sincerità, non capiva che ci facevano lui e sua moglie in quel carosello di gente a lui in gran parte sconosciuta. La maggior parte della nobiltà Napoletana era accorsa a Capua solo per quell'evento e l'aria, secondo il figlio del papa, si era fatta molto presto claustrofobica.

Una volta seguito lo stretto cerimoniale ed essere arrivati in chiesa, il Borja si permise di spegnere il cervello. Il caldo e il vociare dei presenti rischiavano di farlo addormentare, benché fosse in piedi.

La sua attenzione sarebbe ulteriormente andata spegnendosi, se non fosse stato per un dettaglio che lo ridestò del tutto.

Mentre suo fratello Cesare pronunciava visibilmente di malavoglia le formule religiose per incoronare ufficialmente re Federico, Sancha non aveva occhi che per lui.

Pur essendo ormai avvezzo suo malgrado a vedersi preferire il fratello – anzi, prima che morisse Juan, si vedeva preferire entrambi i fratelli – Jofré si sentì geloso come non mai e, per la prima volta da che era sposato, si permise un gesto di possessività.

Cercando di non farsi notare da quelli che gli stavano vicino, prese Sancha per un braccio e le sussurrò nell'orecchio: “Smettila subito di guardarlo così.”

La donna si scansò, infastidita e molto meno preoccupata del marito di dare nell'occhio e, guardandolo di sottinsù gli disse: “Non lo guardavo per quello che pensi tu.”

“E allora perché?” indagò Jofré, occhieggiando intanto i vicini, che cominciavano a rivolgere loro qualche attenzione di troppo.

“Non lo vedi?” fece allora l'Aragona, apparendo effettivamente preoccupata: “Tuo fratello ha la fronte sudata e si inciampa nel parlare...”

Il ragazzo sbuffò: “Abbiamo tutti caldo. Lui, vestito da Cardinale, ne avrà ancora di più...”

Tuttavia, mentre la moglie tornava a fissare Cesare, anche Juan lo fece e dovette darle ragione.

Anche se stava portando avanti il cerimoniale come si doveva, suo fratello era pallido, si ingarbugliava con il finale di alcune parole e sembrava far addirittura fatica a tenere alte le braccia per le benedizioni.

Accigliandosi, il giovane Borja si chiese se quell'evidente malessere potesse essere dovuto a una notte brava passata nei bordelli di Capua, oppure se si trattasse di qualcosa di serio che cominciava a dare le sue prime avvisaglie.

 

“La Contessa non c'è?” chiese Cesare Feo, rivolgendosi a Giovanni, che stava osservando i figli della moglie che si addestravano nel cortile.

Il Medici scosse la testa e così il castellano, non senza un momento di esitazione, porse la lettera a lui, dicendo: “Da Imola.”

Era stata la stessa Contessa a dirgli che, in sua assenza, la responsabilità di leggere le lettere e gestire le urgenze era del fiorentino, e dunque Cesare non stava facendo altro se non eseguire gli ordini.

Giovanni lo ringraziò e poi mise la missiva nella tasca della sua giacchetta smanicata, già deciso a non aprirla fino a che non fosse arrivata anche Caterina.

Il castellano si congedò e lasciò l'ambasciatore di Firenze libero di concentrarsi di nuovo su Bernardino, Galeazzo e Ottaviano.

Il Riario maggiore, dopo la sfuriata della madre, aveva cercato, con un inatteso moto di orgoglio, di rimettersi in carreggiata, ma il Medici, che lo osservava da giorni, si era già reso conto che il suo problema più grande era proprio un'incapacità di fondo che nemmeno il miglior maestro d'armi avrebbe saputo sanare.

Tuttavia, paziente, il fiorentino continuò a osservare, permettendosi di quando in quando di fare qualche appunto che, per convenienza o per buon senso, veniva accolto da Ottaviano senza proteste.

La Tigre era uscita dalla rocca presto, per andare in città. Giovanni le aveva consigliato di passare anche da Bernardi, ma dal modo sfuggente in cui la donna aveva detto che non era certa di fare in tempo ad andare anche alla barberia, Giovanni era quasi sicuro che alla fine non ci sarebbe andata.

Mentre Ottaviano veniva buttato per terra di malagrazia dal soldato con cui stava duellando, il Medici sospirò e riprese lo sgabello su cui si sedeva di solito quando le sue gambe iniziavano a cedere.

Nel suo angolino d'ombra, l'uomo incrociò le braccia sul petto, fino a che, stanco di tenere d'occhio il legnoso primogenito di sua moglie, si scoprì curioso di sapere che cosa mai avessero da dire quelli di Imola.

Con discrezione, un occhio sempre rivolto a quelli che duellavano, prese il messaggio e lo aprì.

Era stato scritto da Simone e, per fortuna, fin dalle prime righe il Medici poté tirare un sospiro di sollievo, scoprendo che si trattava di buone notizie.

Ridolfi faceva sapere loro che i lavori a Bubano erano cominciati e che i mastri costruttori si dicevano molto ottimisti, tanto da aggiungere che probabilmente almeno la chiesa sarebbe stata pronta prima del previsto.

Inoltre sosteneva che il cantiere aveva già dato modo a un buon numero di commercianti e non solo di stanziare presso le macerie della città, offrendo beni di consumo e servizi ai manovali impegnati nella costruzione.

'Creare lavoro dall'opera pubblica necessaria – aveva concluso Simone, con un malcelato orgoglio per far parte di un simile progetto – come Cosimo il Vecchio, parente onorandissimo di Giovanni, seppe fare al tempo suo'.

Il Medici ripiegò il messaggio, giusto quando il maestro d'armi stava dichiarando che la lezione, per quel giorno, poteva dirsi conclusa.

Senza aspettare altro, il fiorentino filò dietro ai figli della moglie, fin nella sala delle armi, per commentare come faceva sempre l'allenamento di quel giorno.

“Sei davvero bravissimo.” disse con Bernardino, aiutandolo a togliersi le protezioni e scompigliandogli i capelli castani: “Tua madre un giorno sarà fiera di te.”

“E voi?” chiese il bambino, guardandolo colmo di attesa.

Da quando Giovanni aveva dato mostra di volerlo prendere sotto la sua ala protettrice, Bernardino si era subito attaccato molto a lui e non passava giorno senza che ne cercasse l'approvazione.

“Io sono già molto fiero di te.” rispose il Medici, mentre i suoi occhi già correvano a Galeazzo, che, forte del chiaro sostegno della madre che lo voleva esplicitamente come erede, stava parlando con il maestro d'armi in merito a una delle spingarde dell'arsenale della rocca che, secondo lui, andava ricalibrata.

Giovanni scambiò con Galeazzo uno sguardo d'intesa, che stava a significare da parte sua che approvava il suo interesse per lo stato degli armamenti di Ravaldino, mentre da parte del ragazzo stava a indicare che accettava di buon grado la sua presenza.

Quando Bernardino e Galeazzo furono pronti e uscirono dall'armeria assieme agli altri soldati, restò solo Ottaviano.

Il Medici non lo guardava, immerso nei suoi pensieri. Ogni volta che entrava nella sala delle armi, non poteva fare a meno di ricordare quello che lui e la moglie avevano fatto lì. A tratti – quando i figli di lei erano presenti – il ricordo era quasi imbarazzante, mentre altre volte ripensarci gli faceva solo desiderare di farlo di nuovo.

“Dannati guanti...” sibilò Ottaviano, a voce appena udibile.

Giovanni, a quel punto, guardò il giovane Riario e vide che stava cercando di slacciarsi i nodi dei guanti in pelle, senza riuscirvi.

Le sua mani tremavano così forte che da solo probabilmente non ce l'avrebbe fatta mai. Così, mosso a pietà, il Popolano gli si avvicinò e, senza dire nulla, gli prese prima un polso e poi l'altro e sciolse lui i nodi che avevano fatto guerra al ragazzo.

Ottaviano non lo intralciò e sussurrò pure un 'grazie' finale. A vederlo così, il fiorentino provò una grande pena per lui. Anche se sapeva cosa era stato capace di fare, nei suoi occhi scuri e sul suo viso scavato leggeva solo una grande sofferenza.

Il suo fisico sarebbe stato adatto all'uso della spada. Era alto, slanciato, con gambe e braccia lunghe. Però, forse il rancore che covava o gli errori nel suo stile di vita gli avevano dato una foggia inadatta all'esercizio. Aveva pochi muscoli, un po' di pancia ed era chiaro a tutti che gli stava più a cuore la sua acconciatura che non imparare a tirare un fendente efficace.

“Lo so che non è semplice.” gli disse Giovanni, appoggiandosi un momento al tavolone su cui aveva lanciato i guanti di pelle: “Ma dovete provarci.”

Ottaviano strinse il morso. Lo guardò appena e poi, incrociando le braccia sul petto, sollevò il mento e si chiuse in ostinato mutismo, che, però, lasciò comunque un certo spiraglio di speranza al Medici.

Quel ragazzo assomigliava alla madre più di quanto entrambi non volessero, e Giovanni sapeva ormai per esperienza che se il giovane non se n'era andato, c'era ancora un margine per trovare un contatto con lui.

“Stiamo cercando di farvi offrire una condotta contro Pisa.” gli disse, con calma, i palmi contro la superficie scura del tavolo e li iridi chiarissime puntate sul volto del Riario: “Non dovrebbe essere nulla di tragico, ma potrebbe darvi prestigio, oltre che danaro, se voi vi impegnaste un po' di più.”

Ottaviano ancora taceva, però la sua espressione era cambiata. Adesso anche lui guardava il suo interlocutore e sembrava molto più interessato.

“Vi chiedo solo di provarci.” concluse Giovanni, con un sospiro: “Cercate di fare il meglio che potete, così che io possa dire a vostra madre che non la coprirete di ridicolo in guerra.”

“Mia madre ha già pensato da sola a coprirsi di ridicolo.” ribatté a quel punto il ragazzo, mostrando un'aggressività che aveva celato fino a quel momento della conversazione: “Accompagnandosi a tutti quegli uomini senza neanche cercare di non farlo sapere a tutti. E anche con voi...”

La voce gli morì in gola, ricordando i pettegolezzi che aveva sentito negli ultimi tempi e che volevano sua madre e il Medici intenti ad amoreggiare proprio lì, in quell'armeria, incuranti degli sguardi e delle orecchie tese della rocca.

“Io e vostra madre siamo sposati.” gli fece notare Giovanni, riuscendo a non perdere la calma.

“Mia madre...” riprese Ottaviano, ma non riuscì a continuare.

Stava per dire che sua madre era la vedova di Girolamo Riario, legittimo Conte di quelle terre e che avrebbe dovuto restare fedele alla sua memoria e non dimostrarsi così incline a trovarsi un uomo diverso non appena restava sola. Ma nello stesso momento si era anche ricordato della confessione che la Tigre gli aveva fatto e il dolore che aveva visto in lei mentre gli rivelava delle violenze che il suo primo marito le aveva inflitto.

Spinto da un istinto che per primo capiva poco, il Medici non riuscì più a sostenere lo sguardo sperso e confuso del ragazzo – identico a quello che offuscava a volte il viso di Caterina – e lo strinse a sé in un abbraccio.

Ottaviano rimase pietrificato da quel gesto, ma, pur provando un po' di vergogna, ricambiò la stretta, apprezzando come non mai quella silenziosa offerta di aiuto.

Si allontanò per primo, tirando un po' su col naso e poi, riacquistando in fretta il suo tono più spiacevole, si congedò dal fiorentino dicendo, appena prima di avviarsi all'uscita: “Adesso ho di meglio da fare, se volete scusarmi...”

Giovanni sospirò, rimanendo ancora per un po' lì dov'era. Alla fine, con la testa che si immaltanava nella confusione che Ottaviano gli aveva trasmesso, si grattò un momento la nuca, e poi, sperando che sua moglie tornasse presto alla rocca, andò nella sua stanza, per coricarsi un po' nella speranza che il fastidio alle gambe si acquietasse un minimo.

 

Dopo un primo momento di incredulità, Firenze nel corso di luglio aveva visto lentamente moltiplicarsi i casi di peste.

Dapprima, solo i senzatetto e i più debilitati si erano ammalati, poi, man mano che i giorni passavano, sempre più appestati venivano trasportati – quasi cadaveri – su dei cataletti all'ospedale più vicino.

Immerso come il resto della città in un clima di paura frammista a fanatismo religioso – Savonarola stava approfittando della peste per sostenere che Dio stesse punendo la città per aver creduto alla falsa scomunica – Lamberto Dell'Antella stava sorbendo un po'di brodo nel silenzio del suo palazzo.

Non era orario di mangiare, ma aveva passato la notte insonne, terrorizzato all'idea di prendere la peste, e poi aveva litigato con la sua famiglia, che si era rifiutata in blocco di lasciare la città per ritirarsi in campagna.

Quando sentì delle voci arrivare dall'ingresso principale della casa, il suo primo pensiero andò a un ordine di polizia di controllo, in caso stessero nascondendo dei malati.

Quando però sentì delle voci di uomo fare il suo nome e una delle serve gridare, allora comprese che la faccenda doveva essere molto più seria.

Ancora in abiti da camera, timidamente, si affacciò fuori dal salone e prima che se ne potesse rendere conto, due paia di forti braccia lo presero di peso, iniziando a trascinarlo verso il portone, con una voce di soldato che annunciava: “Lamberto Dell'Antella, siete in arresto e vi stiamo conducendo in carcere.”

 

Le questue di quel giorno erano particolarmente noiose. Caterina le stava presiedendo da qualche ora e non aspettava altro di sentirsi dire da Cardella che non c'era più nessuno in attesa.

E invece i contadini, gli artigiani e i mercanti si susseguivano senza posa, con le loro richieste e le loro recriminazioni.

Il più delle volte risolvere le loro controversie si dimostrava molto facile, visto che una delle due parti era chiaramente in torto. Quando la cosa si faceva più spinosa, la Contessa si limitava a scegliere una via di mezzo, in modo da risolvere il contenzioso senza far troppo danno a nessuna delle due parti.

Quando finalmente aveva posto fine anche all'ultima disputa – che vedeva fronteggiarsi due agricoltori che si accusavano vicendevolmente di aver invaso il territorio altrui – la Sforza tirò un sospiro di sollievo e fece per alzarsi.

Il caldo sempre più pesante – che non veniva mitigato neppure dalle sottili piogge che di quando in quando cadevano di notte – la stava stremando in modo incredibile.

“Mia signora – la fermò l'Oliva, che era appena entrato – l'oratore di Milano chiede di potervi parlare.”

“Che prenda un appuntamento in separata sede.” ribatté scontrosa la donna, che non avrebbe sopportato di restare lì un momento di più.

“Dice che ha urgenza di parlarvi, perché il suo signore gli fa molte pressioni...” fece il milanese, con lo sguardo di chi chiede soccorso.

Caterina sapeva che l'oratore di Milano stava dando il tormento all'Oliva da giorni. Voleva sfruttare le loro origini comuni per avere un'intercessione, ma il suo unico risultato era stato fare del povero conterraneo uno straccio con i nervi a fior di pelle.

“E va bene, ma per il tempo d'un rosario, non di più.” concesse la Leonessa, più per sollevare da un peso l'Oliva che non per riguardo all'emissario di suo zio Ludovico.

Quando l'oratore le fu davanti, titubante e incerto, la Contessa congedò il segretario, il cancelliere e tutti gli altri e rimase sola con lui.

“Che c'è stavolta?” gli chiese, stancamente, rimettendosi a sedere.

“Il mio signore – prese a dire l'uomo, la berretta tra le mani e il capo un po' chino – vuole sapere quanto c'è di vero sul fatto che voi e messer Medici siete sposati.”

La Tigre sollevò un sopracciglio, la mano destra che correva istintivamente al nodo nuziale che spiccava sull'anulare sinistro: “Come mai gli preme così tanto saperlo proprio ora?”

Aveva usato un tono abbastanza secco, e se ne pentì subito. Lei e Giovanni avevano parlato molto di come gestire la possibile alleanza con Ludovico e non poteva rischiare incidenti diplomatici per un motivo tanto stupido come l'orgoglio.

“Come sapete le tensioni tra Venezia e Firenze sono note in tutta la penisola.” fece l'oratore, le orecchie rosse e lo sguardo basso: “Il mio signore vorrebbe essere certo del fatto che voi siete libera da ogni alleanza forzata e dissennata con la repubblica fiorentina.”

La scelta delle parole fatta dal milanese non piacque per niente alla Sforza che, non riuscendo a dirlo con più gentilezza, ribatté: “Quand'è così, dite a mio zio di scrivermi in prima persona, se vuole spiegazioni.”

L'oratore aprì la bocca per controbattere, ma la Contessa si era già alzata e gli era passata accanto mancandolo per un pelo con la spalla.

“Sono stanca di trattare con portavoce tanto incapaci.” soggiunse la donna, appena prima di lasciare l'inviato del Moro da solo a riflettere sull'incidente che lui stesso aveva malauguratamente creato.

 

“Resta sempre fedele a te stesso.” sussurrò Bartolomea, con gli occhi chiusi e il respiro rapido che le mangiava quasi via le parole.

Il marito le stava accanto, seduto anche lui contro la testiera del letto. In pochi giorni, da buon soldato, aveva imparato a dormire anche messo a quel modo.

“Tu mi conosci.” le disse, stringendole la mano un po' fredda nella sua, che invece era ancora forte e calda.

La donna annuì appena e poi diede un paio di colpi di tosse. Quegli accessi erano sempre più sporadici e deboli. Bartolomeo aveva capito che non si trattava di un miglioramento, ma del suo esatto opposto. Il corpo di sua moglie non aveva più la forza di lottare e si stava spegnendo un poco alla volta.

Anche lei doveva averlo capito e accettato, tanto che quella mattina, per la prima volta da tempo, gli aveva parlato anche di Pantasilea Baglioni, mettendolo in guardia e pregandolo di fare come lei gli aveva detto.

“Sono una famiglia potente – gli aveva spiegato, tra un colpo di tosse e uno stridio di gola – ma non hanno le capacità che hai tu. Sfruttali per fare carriera e quando avrai una posizione solida, prenditi una signoria tua.”

Bartolomeo, pur non volendo far adombrare la moglie, aveva tentato un'ultima volta di tirarsi indietro, accennando al fatto che gli Orsini avevano ancora bisogno di lui, ma la moglie, dopo una smorfia per il dolore al costato, aveva chiuso la questione dicendo: “Basta vivere nella mia ombra, adesso devi diventare qualcuno.”

Così erano arrivati a sera senza più toccare l'argomento.

Fuori l'agosto imperversava su Bracciano e il sole splendeva fino a tardi, ma la camera dei coniugi era immersa nel buio e il camino era acceso, per far fronte al freddo costante che si accumulava nelle ossa rotte dell'Orsini.

“Ti conosco.” convenne Bartolomea, dopo qualche minuto: “So che non mi deluderai...” e dopo di ché scivolò nel sonno.

L'uomo la guardò un po', nella penombra data dalle fiamme del camino. Era sudato, ma non gli importava. Si era messo in abiti leggeri apposta per sopportare quel caldo.

Dopotutto, era stato in campi di battaglia peggiori, aveva dovuto passare la notte alla diaccio in mezzo alla neve o restare sotto il sole cocente del mezzogiorno con addosso l'armatura completa.

Almeno quella volta stava usando il suo resistente fisico da soldato per qualcosa che per lui era veramente importante.

Vinto dalla stanchezza – emotiva piuttosto che fisica – con ancora la mano stretta a quella ossuta della moglie, Bartolomeo fece un sospiro e si assopì.

 
   
 
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