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Autore: Adeia Di Elferas    15/12/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quando si svegliò, Bartolomeo capì subito che nell'aria c'era qualcosa di strano. Con lentezza, aprì gli occhi e si guardò attorno.

Dalla luce che cercava di filtrare dalle spesse tende, era probabile che fosse già pieno mattino. Il camino era quasi spento e l'odore delle ceneri era ben riconoscibile nell'aria stantia della camera.

Sentendosi un po' tutto rotto per la posizione fissa e innaturale in cui aveva dormito, l'uomo cercò di sgranchirsi senza muoversi troppo.

Solo in quel momento un dettaglio attirò la sua attenzione, facendogli gelare il sangue nelle vene.

La mano della moglie, che stringeva ancora nella sua, non era più solo fredda, ma decisamente gelata e rigida.

Con il cuore che batteva più di un tamburo da guerra, Bartolomeo sollevò gli occhi verso il volto della sua donna e lo vide, anche con quella scarsa illuminazione, pallido come un cero e immobile.

Sapeva benissimo cos'era successo, ma il suo cervello si rifiutava di accettarlo. Deglutendo a fatica, la bocca tanto secca da avere la lingua completamente impaniata, riappoggiò la nuca alla testiera e cercò di respirare più lentamente.

Ora sentiva nettamente il corpo freddo e immobile di Bartolomea accanto a sé e sapeva che era morta.

La guardò di nuovo, questa volta quasi con paura, e si costrinse a studiare ogni dettaglio del suo volto. Il naso s'era fatto affilato, le labbra erano quasi blu e un po' aperte, secche e mute. La consapevolezza improvvisa che quelle labbra non avrebbero mai più fatto il suo nome, né l'avrebbero più baciato si aggrappò al suo cuore come una tenaglia, togliendogli il respiro.

Gli occhi erano rimasti chiusi e non aveva un'espressione sofferente. Quale che fosse l'ultimo colpo che l'aveva uccisa, non doveva averla fatta patire.

Con estrema delicatezza, Bartolomeo fece scivolare via la sua grande mano da quella marmorea della moglie e poi, con passo silenzioso, come se avesse paura di svegliarla, andò alla porta, continuando a voltarsi per guardarla.

Non appena fu fuori dalla loro stanza, non riuscì più a trattenersi e scoppiò in lacrime, accasciandosi al suolo.

Attirati dagli ululati che il loro padrone stava lanciando senza sosta, una mezza dozzina tra servi e domestiche arrivarono fino a lui e quando lo videro in quello stato di prostrazione, compresero cosa doveva essere accaduto e, mossi da un sincero senso di perdita, lo accompagnarono nel piangere la signora di Bracciano.

 

“Se però non dovesse scriverti – fece Giovanni, mandando giù un po' di verdure – allora forse dovremmo farlo noi.”

Caterina aveva riferito al marito il suo colloquio con l'oratore milanese con un paio di giorni di ritardo.

Da un alto aveva paura che il Medici la riprendesse, chiedendole perché mai non avesse seguito il piano iniziale che prevedeva una distensione dei rapporti con Milano e non un loro inasprimento. E dall'altro aveva voluto prima ragionarci un po' per conto suo.

“Hai notizie da Firenze?” gli chiese la Tigre, facendosi versare un po' di acqua.

Da un paio di settimane aveva una strana repulsione verso il vino. In altri momenti si sarebbe preoccupata di una variazione tanto repentina in se stessa, ma anche nelle sue passate gravidanze si era trovata a cercare o evitare cibi e bevande senza apparente motivo.

Giovanni scosse la testa: “No, mio fratello non mi ha più scritto. E non mi ha ancora nemmeno mandato i miei soldi.”

“Forse ha avuto dei contrattempi.” minimizzò Caterina, mentre Bianca e Galeazzo li raggiungevano a tavola.

Il Medici aveva provato a suggerire che alla rocca si seguisse una cadenza meno da caserma, almeno per i pasti, ma la moglie, con il castellano e un paio di Capitani che le davano ragione, aveva controbattuto dicendo che sarebbe stato impossibile conciliare i vari turni di guardia e di addestramento con un unico orario per i pasti.

“Non dico di imporre ai soldati di mangiare tutti assieme – aveva allora provato a dire il Popolano, già sapendo che la sua richiesta sarebbe caduta nel vuoto – ma almeno noi della famiglia...”

La Sforza aveva avuto un solo momento di esitazione, a cui poi aveva fatto seguire un chiaro diniego.

“Sì, può essere...” convenne Giovanni, dopo aver salutato Bianca e Galeazzo che avevano già cominciato a servirsi grosse porzioni di stufato.

In realtà Lorenzo gli aveva scritto, ma non per dire cose belle. Di Firenze non aveva fatto nemmeno cenno, ma si era concentrato solo ed esclusivamente sui suoi rimproveri verso di lui.

Lo accusava di star trascurando gli affari di famiglia per farsi quelli della famiglia 'della Lionessa di Romagna' e poi lo riprendeva più e più volte per i pettegolezzi che scaturivano dalla loro sconsiderata condotta amorosa.

'Più che alla meni son giunto per difendere la tua faccia a questi, che checché si creda a far certe cose con cotal donna, è l'uomo che si passa per conquistato e non per conquistatore', aveva voluto soggiungere.

Per la prima volta, dopo averla letta, Giovanni aveva gettato una lettera di suo fratello nel fuoco.

“Ancora non capisco che sta aspettando il Doge...” fece Caterina, risvegliando il marito dai suoi pensieri: “Insomma, mi aspettavo che rimandasse Pandolfo Malatesta a Rimini il prima possibile e invece se lo tiene ancora a Venezia. Di questo passo sembra fino che aspettino che sia Firenze a fare il primo passo.”

“Gli scontri a Pisa sono già cominciati però.” si intromise Galeazzo, che aveva sentito proprio la madre parlarne con il Capitano Numai quella mattina.

“Sì, ma al momento non è nulla di più che qualche tafferuglio...” minimizzò la donna, che comunque aveva apprezzato lo sforzo del figlio di prendere parte a quel genere di discorso.

“In ogni caso – fece Giovanni, cambiando un po' tono – sai che Galeazzo aveva ragione? La spingarda che aveva notato era davvero da ricalibrare...”

E per un po', con gran compiacimento del Medici, che ci teneva a vedere la moglie passare qualche momento di serenità coi figli, la Sforza si intrattenne con Galeazzo a discorrere di artiglieria.

Bianca fu un po' invidiosa del fratello, nel vedere come lui e la loro madre parlassero la stessa lingua, ma si rabbonì molto quando, mentre gli altri due si confrontavano sulle loro conoscenze in merito di bombarde, il fiorentino intavolò con lei, apparentemente per caso, un lungo discorso sulle poesie di Francesco Petrarca.

 

“Basta! Basta! Vi prego... Vi prego!” stava guaendo Lamberto Dell'Antella, le carni provate dalla tortura e gli occhi incapaci di guardare i ferri che erano appena stati arroventati per lui: “Parlo! Vi giuro, parlo!”

L'aguzzino fece segno al suo assistente di posare i ferri e così l'uomo che stava dirigendo l'interrogatorio – il cui naso era stato arricciato per tutto il tempo, per contrastare il tanfo che il prigioniero mandava – e si avvicinò un po': “Dunque, parlate.”

Lamberto, tra un gemito di dolore e uno di pentimento, vuotò completamente il sacco spiegando come gli stessi uomini che nel 1494, senza mai essere nemmeno sospettati, avevano cercato di far rientrare di forza Piero Medici a Firenze, sfruttando l'appoggio di Carlo VIII, adesso stavano per riprovarci, a distanza di circa tre anni.

Man mano che l'interrogatore segnava sul suo foglio di pergamena i nomi di quelli che andavano arrestati, la sua faccia si accendeva sempre di più di stupore.

Dell'Antella stava scomodando alcuni tra i notabili più notabili della città e molti di loro, per quel che se ne sapeva, avevano di recente sostenuto i Popolani a scapito del Fatuo.

Se la confessione si fosse rivelata attendibile, molte cose sarebbero cambiate negli equilibri della repubblica.

Quando l'interrogatorio fu concluso e si diede permesso al carcerato di tornare nel suo buco, in attesa del processo, la lista di nomi finì davanti al Gonfaloniere di Giustizia che, reagendo in modo molto simile a colui che aveva raccolto l'interrogatorio, cominciò a leggere.

Quando arrivò ai nomi più eclatanti, non riuscì a trattenere la voce e, partendo con un sussurro che si faceva sempre più altro, concluse l'elenco: “Giovanni e Lorenzo Tornabuoni, marito di Giovanna degli Albizi, Jacopo Pitti, Bernardo Del Nero e Niccolò Ridolfi.”

Dopo la peste, pensò, ci mancava solo quello.

“Procediamo con gli arresti?” chiese il bargello, guardando il Gonfaloniere in attesa.

L'uomo era ancora con le labbra spalancate, ma annuì e così il responsabile della sicurezza cittadina gridò qualcosa ai suoi e in men che non si dica uno squadrone di guardie uscì dal palazzo della Signoria per recarsi in molte onorate dimore, tra cui palazzo Ridolfi.

 

Giovanni passava con lentezza la punta delle dita sulla schiena nuda della moglie stesa vicino a lui.

La Sforza si sentiva tranquilla, in quel momento. L'uomo che le stava accanto l'aveva fatta sentire come sempre la donna più desiderata e più amata del mondo e il silenzio che aveva poi riempito la loro camera la stava cullando con dolcezza, facendola quasi assopire.

Il Medici, invece, non aveva sonno e sperava che la moglie presto si rimettesse a cercarlo, come aveva fatto appena erano saliti in stanza dopo cena.

Gli piaceva, quando era lei a proporsi in quel modo così vorace e semplice, come se non avesse aspettato altro per tutto il giorno.

“Il maestro d'armi mi ha detto che continui a seguire i progressi dei miei figli.” fece a un certo punto Caterina, il viso quasi del tutto affondato nel cuscino.

Il marito continuava ad accarezzarla, con appena più decisione, apprezzandone la pelle soffice e sempre calda, e preferì non prendersi troppi meriti, dicendo solo: “Faccio quel che posso. E loro stanno facendo altrettanto.”

“Tu sei bravo coi ragazzini e coi bambini.” fece Caterina, con ammirazione.

“Be', sai...” si schermì l'uomo: “Con i miei nipoti ho fatto molta esperienza. Vivendo con mio fratello, li ho visti nascere... Diciamo che ho imparato come è meglio comportarsi con i più piccoli...”

La Tigre, che era seriamente interessata a quell'argomento, ma non l'aveva ancora sfiorato perché temeva il giudizio del fiorentino – che era sempre molto gentile, ma che sapeva essere anche tremendamente franco – si voltò verso di lui.

Giovanni ne approfittò per spostare le sue attenzioni dalla schiena al profilo della spalla, poi del braccio, giù fino al fianco.

Benché quei movimento stessero quasi facendo passare di mente i propri figli alla Leonessa, la donna si impose di affrontare la questione, intanto che ne aveva il coraggio: “E dei miei figli? Cosa ne pensi di loro?”

Il Popolano, prima o poi se l'aspettava quella domanda. Così preferì essere del tutto sincero, focalizzandosi di più sull'idea generale che non sul suo giudizio in materia militare.

“Bernardino è un bambino sereno, malgrado tutto. Ha dei momenti di tristezza, ma per il resto ha un buon carattere.” disse, e la Sforza restò ad ascoltarlo senza fermarlo.

Forse, pensò Giovanni, era quello che voleva sapere davvero e non quanti avversari avessero disarmato o fossero stati disarmati dai suoi figli.

“E poi è veramente bello. Quando sarà un giovanotto, farà innamorare tutte le ragazze di Forlì, ci puoi scommettere – ridacchiò il Medici – e sarà divertente, vederlo conteso dalle giovani di tutta la città...”

Caterina fece un debole sorriso. Anche se nell'intento del fiorentino quelle frasi erano allegre e ottimiste, per lei rievocavano ancora troppo Giacomo. Anche lui, quando era suo, attirava gli sguardi di tutte le donne di Forlì.

“Galeazzo, invece, è già un gran signore adesso.” continuò l'uomo, mentre la sua mano si fermava con più decisione sul fianco della moglie: “Quando sarà adulto, sono certo che si potrà contare su di lui.”

La Sforza conveniva su quel punto e attese con pazienza che il marito proseguisse, ma Giovanni sembrava intenzionato a non aggiungere altro.

Così fu lei a chiedere: “E Ottaviano?”

Per la prima volta da quando avevano iniziato a parlare, la mano del Medici fu attraversata da un leggero tremito, ma quando parlò, lo fece con voce distesa: “È molto solo.”

“Se l'è voluto lui.” ribatté la moglie, piccata.

“Io credo che sia stato solo fin dall'inizio.” provò a precisare Giovanni.

Caterina stava già scuotendo la testa, pronta a cercare qualche scusa che la sottraesse a quell'accusa implicita, quando qualcuno bussò con insistenza alla porta.

“Chi è?” chiese Giovanni, alzandosi subito e infilandosi le brache per andare ad aprire.

“Sono io.” fece sapere il castellano.

Appena il fiorentino aprì un po' la porta, Cesare Feo gli porse una lettera, senza nemmeno accorgersi della Contessa, che se ne stava incurante stesa sul letto, senza alcun vestito addosso.

“Da dove arriva?” chiese il Popolano, che alla luce della torcia portata dal castellano era rimasto così accecato da non distinguere bene il sigillo.

“Da Firenze, è di vostro fratello, credo.” spiegò Cesare: “Mi hanno detto che era urgente, ecco perché mi sono permesso...”

“Avete fatto bene...” fece Giovanni, annuendo e poi salutandolo con un cenno del capo, mentre già richiudeva la porta.

L'uomo si sedette sul letto e guardò un momento Caterina, prima di spezzare il sigillo e cominciare a leggere.

Incerta se fosse un messaggio diretto anche a lei o meno, la Sforza attese con pazienza che il marito finisse.

Senza che vi fosse il bisogno di chiedergli spiegazioni, il Popolano le porse il messaggio e, mentre lei cominciava a scorrere le prime righe le anticipò: “A Firenze è scoppiata la peste e in più hanno arrestato un parente di Simone.”

La Tigre, allora, lesse con ancor più fretta quello che Lorenzo aveva scritto e poi ripiegò la lettera e guardò il viso di Giovanni, che lasciava trasparire tutta la sua preoccupazione: “Credi che anche Simone potesse essere coinvolto in una delle congiure ai vostri danni?”

Il marito fece subito segno di no e poi aggiunse: “Io affiderei la mia stessa vita, anzi, perfino la tua o quella di nostro figlio – e per sottolineare la cosa appoggiò una mano sul ventre della moglie – a Simone.”

“Come possiamo essere certi della sua buonafede, ora che hanno arrestato un suo congiunto con un'accusa così grave?” chiese la donna, accigliandosi.

“Credi che, uccidendo tutti i parenti dei congiurati che hanno assassinato il tuo Giacomo non abbia colpito anche degli innocenti?” chiese, retorico, il Medici, alzandosi: “Ecco, così dubitando di Simone, colpiremmo senza motivo un innocente.”

“Ma...” fece la Sforza.

“Vedrai, sarà lui il primo a scriverci per smentire la sua possibile connivenza.” assicurò l'uomo, andando alla scrivania.

“Chi più si giustifica, più sembra colpevole.” gli ricordò Caterina, restando a letto, ma protesa in avanti, come se volesse vedere che cosa il marito stava scrivendo.

“Tu non lo conosci. Se fosse in qualche misura colpevole, a una notizia simile scapperebbe, nascondendosi chissà dove.” spiegò il fiorentino.

“A chi scrivi?” chiese la Tigre.

“A mio fratello. Voglio saperne di più.” rispose il Medici.

Con un sospiro pesante, Caterina si rimise coricata, sul fianco e attese con pazienza che suo marito finisse di vergare la sua importante missiva.

 

Ercole d'Este rilesse ancora una volta la lettera che il suo ambasciatore a Milano, Antonio Costabili, gli aveva fatto recapitare quel giorno.

Era piena notte e non riusciva a dormire. Suo figlio Alfonso non era stato bene e bruciava per la febbre, così il Duca di Ferrara aveva seguito qualche ora di veglia in preghiera e poi si era ritirato nei suoi appartamenti.

Però, la sua testa non gli aveva permesso di riposare e così era ancora lì a rimuginare sulle parole di Costabili.

Gli aveva riferito che l'Arcivescovo di Milano era seriamente malato e che tutti si aspettavano che morisse da un momento all'altro.

Con il suo solito tatto, il Moro aveva proposto subito uno dei suoi figli – 'Cesare suo fiolo naturale nato da madonna Cecilia' aveva specificato l'ambasciatore – benché avesse sì e no sei anni.

Per fortuna, Vincenzo Bandello, priore di Santa Maria delle Grazie, si era subito opposto.

Ludovico, che si riteneva il maggior – e non a torto – benefattore di quella specifica chiesa, si era offeso molto, in un primo momento, ma poi il priore, lavorando d'astuzia, lo aveva dissuaso a seguito di un interminabile colloquio privato, convincendolo infine che un ruolo simile non si confaceva in alcun modo a un bambino tanto piccolo.

“Manderanno la cristianità in malore...” biascicò tra sé l'Este, gettando la lettera sulla scrivania e sbuffando: “Il Moro, il papa, tutti quei cani...”

Alzando le mani in una simbolica resa, il Duca di Ferrara si mise finalmente a letto, ma, più cercava di dormire, più la situazione caotica che lo circondava gli faceva desiderare di ritirarsi a vivere in eremitaggio sulla cima di una montagna.

 

Giovanni aveva finalmente finito di scrivere e aveva chiesto il permesso alla moglie di chiudere la lettera con il suo sigillo.

Caterina glielo aveva concesso, tanto sapeva che era ormai una sua consolidata abitudine, e poi lo aveva accolto accanto a sé nel letto.

Benché fosse piena estate, il lenzuolo era piacevole e stare uno accanto all'altra serviva a entrambi per acquietare l'animo dopo una serie di notizie tanto destabilizzanti.

Nel buio quasi perfetto – visto che ricoricandosi il Medici aveva spento anche le ultime candele e a parte qualche raggio di luna, nulla filtrava dalla finestra – La tigre e il Popolano si abbracciarono in silenzio, sfiorandosi a vicenda il volto e il collo con le labbra, fino a trovarsi in un bacio.

Come spesso le capitava quando qualcosa le faceva avvertire la precarietà della sua situazione, Caterina sentì crescere di nuovo dentro di sé una fame selvaggia, diversa da quella più placida che la prendeva quando a fine giornata cercava la compagnia del marito.

Il fiorentino ormai conosceva la differenza tra quelle due differenti reazioni della moglie, ma in quel momento anche lui provava il suo stesso bisogno.

Così, quando sentì le mani di Caterina scendere fino a sfilargli le brache che ancora portava, non la fermò, al contrario, l'anticipò nelle sue intenzioni e nel buio della notte la fece sua.

 

Il sole batteva sul palazzo del bargello, quel 21 agosto. La giustizia era stata incredibilmente rapida, quasi quanto lo era la peste nel divorare le carni dei fiorentini.

Lorenzo Tornabuoni, Giannozzo Pucci, Bernardo Del Nero, e Niccolò Ridolfi, a cui era stato negato l'appello al Consiglio Grande, erano stati condannati a morte, assieme ad altri, dal Gonfaloniere di Giustizia Francesco Valori.

Il boia, quel giorno, ebbe un gran da fare. Davanti a un pubblico esiguo, decimato dal morbo che si stava disseminando con violenza in tutta Firenze, aveva mozzato la testa a un condannato dopo l'altro.

Quando ebbe finito, si asciugò la fronte con il dorso della mano guantata di nero e schizzata di sangue e poi si ritirò, lasciando che altri ritirassero cadaveri e teste e cercasse di pulire un po' in terra.

Lorenzo Medici, uno straccio su bocca e narici, sia per proteggersi dalla peste – per quel che poteva servire – sia per non sentire con troppa forza il tanfo del sangue, guardò fino alla fine la testa di Niccolò Ridolfi.

Quando la vide sparire con le altre in un grosso cesto, represse a stento un conato di vomito, ricordandosi come quella, fino a poco tempo prima, fosse sul collo di un uomo con cui lui aveva parlato e a volte discusso.

Il volto scuro, imbronciato più del solito, Lorenzo si fece con discrezione il segno della croce e poi lasciò, mesto, il palazzo del bargello, diretto a casa.

Mai come quel giorno si faceva strada in lui il desiderio di ritirarsi in campagna, in attesa che la peste passasse. Tanto, con quel pendizio sulla testa, nessuno a Firenze stava più pensando alla guerra con Venezia, men che meno a rovesciare quella cornacchia di Savonarola.

 
   
 
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