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Autore: AveAtqueVale    21/12/2017    8 recensioni
Alexander Lightwood è un giovane uomo di ventitré anni costretto dai suoi genitori a frequentare, settimanalmente, un noto psicologo che in qualche modo gli capovolgerà l'esistenza.
Magnus Bane è un brillante e ricercato psicologo incapace di affezionarsi ai propri pazienti -per lui semplici casi da comprendere e rimettere in sesto come fossero puzzle da ricostruire- che si ritroverà ad avere Alexander in cura, ritrovandosi spiazzato dalle loro stesse sedute.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Magnus Bane, Maryse Lightwood, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Penserai che sono matto.

Probabilmente lo sono.

Non importa.

Non sono mai stato molto bravo nel fare i regali, in realtà non sono mai stato il tipo che amasse farli. Mi piace prendermi cura delle persone a cui tengo, esserci per loro, ma regalare qualcosa... è sempre stato qualcosa nel quale sono negato. Beh te ne sarai appena accorto, immagino.

Ma nonostante tutto volevo fare qualcosa per te, oggi.

Volevo fare qualcosa per il tuo compleanno.

Non ci conosciamo molto, per assurdo potremmo dire che non ci conosciamo affatto, per cui non sapevo cosa avrebbe potuto farti piacere ricevere; ho chiesto consiglio a mia sorella e le sue parole mi hanno fatto pensare che, magari, questo poteva essere un buon regalo per te.

Poco tempo fa hai detto che volevi conoscermi. Mi hai chiesto di aiutarti a capirmi.

Bene.

Eccomi qui. Nero su bianco.

Non so perchè voglio darti questa lettera, se devo essere totalmente onesto, ma sento di volerlo fare. Sento che, se c'è una sola persona al mondo alla quale sento che potrei finire con il parlare davvero, quella sei tu. Tu... sei diverso.

Per tutta la vita mi sono sentito sotto controllo anche se non in un senso totalmente negativo. I miei genitori si sono sempre aspettati molto da me perchè sono il figlio maggiore, avevano molte speranze per me ed io ho cercato di non deluderli. Ci ho provato davvero. Ma a volte è come se qualunque cosa faccia non è mai abbastanza.

E' come se questo mio aver sempre cercato di compiacerli fosse divenuto una condanna, come se per loro fosse impensabile che io possa avere desideri miei, sogni miei, gusti miei... Ed ogni volta che cerco di uscire dagli schemi che hanno organizzato per me mi sento quasi in fallo. Ho iniziato ad abituarmi a questa sensazione, ogni giorno.

Ma con te è diverso.

Non hai mai cercato di dirmi cosa dovessi fare, cosa volessi che io facessi. Mi hai sempre offerto una scelta, mi hai sempre spinto a fare quello che io desideravo fare. Mi hai fatto sentire libero. Per una breve ora, durante le nostre sedute, mi sento in pace. E per questo ti ringrazio. E lo so che deve essere snervante per te avere a che fare con me e per questo mi dispiace. Perchè sono noioso e assolutamente ordinario e non sono capace a stare con la gente. Mi riesce difficile parlare e odio dover mostrare quello che sento dentro, qualcosa che per qualcuno come te dev'essere un bel problema. Mi dispiace. Ma... credo che stiamo facendo progressi, vero?

Sì, che sciocco, lo hai detto anche tu l'altro giorno.

E mi rendo conto solo ora che invece di farti scoprire qualcosa su di me sto divagando terribilmente. Oddio. Più che una lettera sembra una pagina di diario. Questo regalo è un disastro. Ma te l'ho detto che non sono capace a parlare con la gente. Nemmeno a scrivere. E' proprio il concetto di rapporto sociale che non va molto d'accordo con me. Scusami.

E mi sento uno stupido ma sono sicuro che in questo momento starai ridendo di quanto sono imbranato, sono sicuro che diresti che devo smetterla di scusarmi, che va bene così, perchè è quello che fai: quando le cose non vanno riesci a farle andare bene lo stesso. E se mi sento perso o confuso o disorientato mi dai una strada da seguire. E io non lo so questa strada dove possa portare, non lo so se sarò in grado di seguirla fino alla fine, se riuscirò a fare i conti con me stesso alla fine di questo viaggio, ma so che ci sto provando. Ci sto provando davvero. Ed è merito tuo.

Non sono mai stato un sognatore. Non mi è mai piaciuto credere davvero nelle cose perchè sono convinto che i nostri desideri siano alla base tutte illusioni fino a quando non riesci a realizzarli e Dio solo sa quanto male può fare una illusione. Credo di poter dire di aver paura di sognare.

Paura di desiderare qualcosa al punto da non sopportare l'idea di non poterla avere.

Ho paura di rimanere deluso, di rimanere con la mano tesa verso un obiettivo troppo distante.

Questo fa di me un codardo?

Mi è sempre piaciuto credere di essere solo una persona cauta, coi piedi per terra. Ma forse era solo un modo gentile per dire la stessa cosa. Chissà?

La verità è che da qualche giorno, nonostante tutto, ho iniziato a credere che forse le cose possano andare meglio davvero. Ho iniziato a credere che forse non è solamente una illusione, forse si tratta solamente di un progetto a lungo termine. E'... una cosa nuova per me. Non so bene come comportarmi nei riguardi di questa idea. No. Di questa speranza. Ma ci sto provando. Grazie a te.

Mi rendo conto adesso di non sapere bene cosa potrei farti conoscere di me.

Non c'è molto da sapere.

Non c'è nulla di interessante da scoprire.

E' tutto qui.

Io sono... tutto qui. E sono sempre più convinto che questa lettera non dovrebbe arrivarti, che è una sciocchezza, che non servirà a nulla. Ma... so anche che non riuscirò mai a dire tutte queste cose guardandoti in faccia, con la forza della mia voce. E so che in qualche modo voglio che tu le sappia.

Voglio riuscire a ringraziarti.

Voglio riuscire a farti sapere che cambi delle vite. E le cambi davvero. E che le persone lo sanno.

Io lo so. Non che questo conti chissà che.

Quindi... sì. Penso che te la darò lo stesso.

E penso che poi me ne pentirò.

E penso di non avere idea di come concludere una lettera. Realizzo solo ora che è la prima volta che ne scrivo una, quindi penso che la finirò qui e basta.

 

Buon compleanno, Magnus.

E grazie.

 

 

Alexander

 

 

Il cuore di Magnus stava battendo all'impazzata nel suo petto mentre i suoi occhi correvano su e giù per quella lettera.

Non aveva potuto attendere, non aveva potuto aspettare.

Non appena si era chiuso la porta alle spalle aveva dovuto aprire quella busta. Poco importava che Ragnor e Raphael fossero nell'altra stanza, lo avrebbero atteso per un po'.

Più leggeva quelle righe più sentiva qualcosa esplodere dentro, il suo cuore contrarsi deliziosamente in strette calde, leggere, che inviavano piccole dolcissime scariche sottopelle. Sentiva un calore travolgente permearlo dall'interno, riempirlo, riverberarsi dal centro del suo petto fino alla punta dei capelli. Più andava avanti nella lettura più le ginocchia gli si facevano molli e deboli.

Gli sembrava di poter vedere il viso di Alexander sotto gli occhi mentre scriveva quelle parole, mentre arrossiva e si scompigliava i capelli nervosamente per timore di star sbagliando qualcosa. Il suo sguardo s'intenerì mentre una nuova speranza nasceva prepotentemente ed incontrollata nel suo cuore. Con tutto se stesso stava cercando di non illudersi, di dirsi che Alexander voleva solo essere gentile e che non nascondeva niente di più dietro quelle parole se non dei semplici ringraziamenti nei riguardi del suo terapeuta; ma quella piccola vocina veniva sovrastata da urla e canti di giubilo ogni volta che Alexander sottolineava come per lui Magnus fosse diverso dagli altri, come fosse capace di farlo sentire meglio, di farlo sentire libero. Poteva rivedere nelle sue parole le sue stesse sensazioni e non poteva fare a meno di credere... di sperare...

E poi quelle ultime parole.

Magnus.

Era la prima volta che lo chiamava per nome. La prima volta che lo diceva chiaramente, apertamente, suscitando nell'altro il desiderio sfacciato di voler sentire il proprio nome uscire dalle sue labbra. Come sarebbe suonato con la sua voce? Che effetto gli avrebbe fatto sentirlo chiamare per nome? Il solo immaginarlo gli provocò un brivido spontaneo lungo la schiena.

Magnus si strinse la lettera contro il cuore sentendo il battito accelerare violentemente. Si sentiva stordito, leggero, ubriaco di felicità.

Cercava di imporsi di non illudersi ma la verità era che una ondata di speranza lo aveva appena travolto. Poteva davvero credere che Alexander lo considerasse solo un medico? Poteva davvero credere, dopo tutto questo, che non ci fosse possibilità che lui l'avrebbe voluto al suo fianco al di fuori del suo ruolo? Forse... Forse Catarina aveva ragione. Forse poteva davvero osare interrompere le loro sedute per limitarsi a rimanere al suo fianco come Magnus. Avrebbe potuto aiutarlo comunque, avrebbe potuto farlo come amico oppure come...

Il cuore si contrasse un'altra volta al sol pensiero con una scarica di paura.

Okay, forse era meglio andare per gradi. Forse ora stava sognando troppo.

Decise che quella sera l'avrebbe riletta prima di andare a dormire per assicurarsi che non fosse solo un sogno e si impose di tornare nell'altra stanza per non essere scortese coi suoi amici. Per la prima volta in vita sua avrebbe voluto mandarli via per rimanere da solo con quella lettera. Ma non lo avrebbe mai fatto, non importa quanto emozionato fosse all'idea di poter stringere a sé quelle parole.

Rimise il foglio nella busta e la ripose in un cassetto al sicuro da qualsiasi minaccia. Inspirando a fondo per calmarsi attese qualche attimo per lasciar svanire il probabile rossore sulle sue guance e stabilizzare il battito cardiaco prima di uscire dalla sua camera e tornare nell'altra stanza praticamente volando a mezzo metro da terra.

Ragnor e Raphael erano intenti ad intrattenere il Presidente Meow.

O meglio, Presidente cercava le coccole di Raphael che, infastidito da lui era nascosto dietro Ragnor che invece non riusciva ad afferrare Presidente.

«Davvero Raphael questa cosa non ha senso» osservò Ragnor rialzandosi in piedi con le mani sui fianchi e l'espressione stralunata, i brillanti occhi scuri ad osservare il piccolo micio bianco e grigio di Magnus che annusava le gambe dell'amico. «Non ho mai conosciuto nessuno che schivasse gli animali più di te e al tempo stesso li attirasse in questo modo»

«Che culo...» brontolò Raphael con la solita espressione seccata incrociando le braccia al petto.

I due si accorsero in quel momento della presenza di Magnus che, allegramente, si accucciò al fianco di Presidente e lo tirò su, abbracciandolo al petto e carezzandolo dietro le orecchie con l'espressione più sognante e felice che i due gli avessero visto in volto in molti, molti anni.

«Raphael, modera il linguaggio davanti a Presidente. Non vogliamo mica che si offenda, vero?» disse avvicinando il viso all'animale per strofinare il proprio naso a quello di lui che, per tutta risposta, arricciò il muso e si allontanò soffiando appena, infastidito, ma senza cercare di scendere dalle sue braccia.

Raphael e Ragnor si scambiarono una occhiata ricca di sottintesi prima di tornare ad osservare l'amico.

«Okay. O nella tua stanza ti sei tirato qualche droga pesante oppure è successo qualcosa con il ragazzo che è uscito di qui poco fa...» osservò Ragnor assottigliando appena lo sguardo con un mezzo sospiro, come se avesse visto e rivisto quella scena un milione di volte.

Raphael si lasciò cadere su di una poltrona sbuffando.

«Non glielo chiedere, per carità di Dio. Potrebbe parlarcene!»

Ragnor ridacchiò a mezza voce mentre Magnus gli dedicò una linguaccia falsamente offesa.

«E invece no» ribattè Magnus lasciandosi cadere a sua volta su uno dei divani in mezzo alla stanza, le gambe ad accavallarsi con un unico fluido movimento e Presidente ad acciambellarsi sulle sue cosce con fare rilassato. «Non c'è niente di cui parlare»

Catarina uscì in quel momento dalla sua stanza dove doveva aver sistemato il borsone con le sue cose per la notte, chiudendosi la camera alle spalle, passandosi una mano fra i capelli. Aveva un'espressione strana in volto, sembrava come se fosse pronta a vomitare da un momento all'altro.

«Di che state parlando?» domandò cercando di mettere su uno dei suoi sorrisi.

«Niente»

«Del ragazzo di Magnus»

Magnus e Raphael risposero all'unisono portando il silenzio a cadere per un attimo nella stanza, denso ed elettrico. Magnus portò lo sguardo -colpevole- su Catarina la quale sbattè le palpebre schiudendo le labbra con fare confuso, lo sguardo ad assottigliarsi appena.

«Ragazzo?» ripetè guardando ora Magnus.

«Sai il bel bocconcino che è uscito di qui poco fa? Alto, magro, capelli neri» disse Ragnor servendosi da bere con fare divertito. «Se l'abbiamo notato noi, devi averlo notato per forza anche tu»

Catarina strinse la mascella con fare rigido deglutendo e Magnus sapeva che stava cercando con tutta se stessa di rimanere calma e di non mostrare agli altri che sapeva molto più di quanto loro non immaginassero.

La ragazza allora liberò una piccola risata andando a lasciarsi cadere sul divano accanto a Magnus, una gamba piegata sotto il corpo un gomito a puntellarsi sullo schienale del divano mentre si reggeva il viso con la testa.

«Ma è ridicolo» disse fingendo naturalezza. «E' un suo paziente» disse come se la sola cosa potesse mettere fine all'argomento. E, effettivamente, in teoria era così che sarebbe dovuta andare.

Magnus deglutì silenziosamente fermando la mano che stava carezzando Presidente avvertendo un vago senso di fastidio riempirlo dall'interno.

Ragnor poggiò il bicchiere sul tavolo e mise su una espressione pensosa.

«Uhm. Effettivamente non ci avevo pensato» osservò con una mano sul mento. «Per quanto senza vergogna, non ha mai allungato le mani sui pazienti prima...»

«Vorrei vedere» commentò lei rivolgendo uno sguardo carico di sottintesi verso Magnus che, a sua volta, ricambiò con uno palesemente irritato.

«Okay, fantastico, ma pensavo che oggi foste venuti qui per festeggiare il mio compleanno, non per torturarmi» disse d'un tratto cercando di chiudere all'istante la conversazione.

Raphael, dalla sua poltrona si lasciò sfuggire una risatina roca. «Ogni occasione è buona per torturarti un po'»

Catarina e Ragnor risero lanciandosi in un revival di ricordi che avevano per protagonista lo stesso Magnus. Parlarono di vecchie feste di compleanno, del periodo in cui avevano vissuto tutti sullo stesso pianerottolo, delle serate passate assieme, delle liti, i guai, le risate. Rimembrarono figuracce e successi di ognuno di loro senza mai mancare di sfottere e provocare lo sventurato di turno perchè in feste come quelle non poteva mai mancare una bella dose d'imbarazzo.

Per lo più, ovviamente, si concentrarono su vicende che avevano Magnus per protagonista essendo lui al centro dell'attenzione per quella serata.

E se ad un occhio esterno potesse apparire come un modo innocente di scherzare, per chi li conosceva un po' meglio quello non era altro che un modo per celebrare, tutti assieme, gli anni che avevano trascorso l'uno accanto all'altra. Tutti quegli anni passati a ridere, giocare, sfottersi e cacciarsi anche in grossi guai. Anni passati da amici, da fratelli, senza mai perdersi di vista e allontanarsi. Anni passati immersi nei soliti problemi della vita, ma che erano un po' più semplici da sopportare quando non dovevi sopportarli da solo. E nessuno di loro, da quando si erano conosciuti, aveva mai dovuto occuparsi di niente da sé.

Tutti erano sempre, immancabilmente pronti a dare una mano.

Si dice che gli amici sono la famiglia che ti scegli e Magnus non avrebbe mai potuto trovare una definizione migliore per quel piccolo gruppetto di gente che, in quel momento, si stava litigando l'ultima fetta di pizza mentre lui era dietro al bancone della cucina a prendere altre birre dal frigo. Si fermò un istante soltanto, con le bottiglie fra le mani, ad osservare la scena nel suo soggiorno. Catarina e Ragnor si stavano litigando l'ultimo trancio di pizza al pomodoro mentre Raphael, in silenzio, gliel'aveva già fregata da sotto al naso e se la stava beatamente gustando al suo posto in mezzo ai due seduti l'uno di fronte all'altra. Magnus già sapeva che nell'esatto istante in cui si fossero accorti della fetta scomparsa avrebbero unito le forze per prendersela con lui, ma ormai a quel punto la pizza sarebbe già stata digerita. La scena gli trasmise un calore incredibile. Casa sua aveva preso ad essere piuttosto silenziosa ormai ed era in qualche modo triste per lui tornare ogni giorno al loft sapendo che non avrebbe trovato nessuno a salutarlo una volta in casa. Nessuno dotato di parola, almeno. Sentire tutte quelle voci, quelle risate e quell'allegria lo riempì di tenerezza.

Ma sentiva che mancava qualcosa.

Una parte di lui, ingenuamente, continuava a pensare a quella lettera.

Se Alexander fosse stato lì, come si sarebbe inserito nella scena?

Avrebbe riso del gesto di Raphael, probabilmente, oppure avrebbe cercato di risolvere la questione ordinando un'altra pizza al pomodoro. Probabilmente avrebbe fatto qualcosa per far sì che alla fine fossero rimasti tutti contenti.

Ma ad una parte di Magnus piaceva immaginarlo proprio lì, al suo fianco. In piedi alle sue spalle con le braccia avvolte attorno al suo addome e il viso poggiato sulla sua spalla, lasciandogli un bacio sulla guancia. Una stretta dolce, rassicurante, atta a tenere insieme tutti i pezzi che componevano quello che oggi era Magnus. Un mosaico di ricordi ed esperienze incollate l'un l'altra con forza di volontà e tenacia.

Alexander sarebbe potuto perfettamente essere l'oro liquido versato nelle crepe fra i minuscoli frammenti di quel mosaico, il collante che avrebbe tenuto tutto insieme rendendo il risultato finale ancora più prezioso. Improvvisamente sentì una fitta di tristezza nel rendersi conto che Alexander non era lì.

 

*

 

«E' stata una bella festa, non è vero?» mormorò Magnus seduto sul divano reggendo un bicchiere di vino rosso, la camicia leggermente sbottonata per via del calore che sentiva dentro. Avevano bevuto abbastanza quella sera e si erano divertiti come succedeva sempre.

Catarina sorrise con fare malinconico seduta accanto a lui sul divano, le ginocchia tirate al petto ed il viso poggiato su di esse, il capo rivolto verso di lui. «Sì, lo è stata» confermò a bassa voce.

Ragnor e Raphael se n'erano andati da poco e Magnus e Catarina si erano messi a ripulire la stanza buttando i cartoni della pizza e i sacchetti degli stuzzichini ormai vuoti nell'immondizia, assieme alle bottiglie di birra finite e i piatti di plastica dove avevano consumato la torta.

Avevano dato una sistemata prima di abbandonarsi con calma sul divano, stanchi, sentendo gravare nel silenzio della stanza l'argomento che -adesso- nessuno dei due voleva tirar fuori.

Si guardarono negli occhi ben sapendo cosa entrambi stavano pensando.

Nessuno dei due voleva essere il primo a spezzare quel silenzio, ma sapevano che prima o poi -in qualche modo- avrebbero dovuto affrontare la cosa.

Catarina schiuse le labbra con fare incerto. «Magnus...»

Il ragazzo mise su un sorriso triste, l'espressione stanca.

«Lo so.» disse a bassa voce osservando il bicchiere fra le sue mani, lo stelo lungo e stretto a scivolare in mezzo l'indice e il medio, il vino a roteare lentamente sbattendo contro i confini del cristallo. «So cosa vuoi dirmi Cat. E' tutto il giorno che ci penso» disse con lo sguardo basso e la voce esausta.

«E alla fine ho pensato che forse avevi ragione, sai?»

Il viso di Catarina si alzò di colpo dalle ginocchia, totalmente presa alla sprovvista da quelle parole.

«Sì?» domandò, cauta ed incredula, sbattendo le lunghe ciglia.

Magnus annuì.

«Sì. Insomma... forse penso troppo sulle cose. Forse è tutto più semplice di quanto non pensassi...» disse Magnus stringendosi nelle spalle, mordendosi il labbro inferiore con fare pacato.

Alla luce di quella serata, dopo gli eventi di quel giorno e il ricordo ancora fresco delle parole di quella lettera nel cuore, gli sembrava semplicemente assurdo il pensiero che fino a quella mattina si sentisse così confuso e turbato su ciò che stava accadendo fra loro. Qualunque cosa stesse effettivamente accadendo fra loro.

«Cosa intendi dire?» domandò lei ancora più confusa.

Magnus inspirò a fondo e rialzò solo in quel momento lo sguardo.

«Ero convinto di non poter lasciare il mio ruolo di psicologo per lui perchè non mi avrebbe voluto al suo fianco in altri modi ma ora credo... sì, insomma, credo che potrei aver sbagliato. Credo che potrei avere una possibilità con lui» ammise Magnus incurvando dolcemente verso l'alto gli angoli della bocca in un sorriso ripieno di speranza e calore.

Dopo averlo visto giungere fin lì solo per dargli un regalo, dopo aver visto il modo in cui si era abbandonato a quella sua carezza, dopo aver letto quelle parole gelosamente custodite nel cassetto in camera sua, come poteva ancora credere che, davvero, Alexander lo vedesse solo come il suo terapeuta? Come poteva impedirsi di credere che, se solo avesse colto l'occasione di rischiare, magari questa volta sarebbe potuto essere felice davvero? Era una possibilità spaventosa per lui. Era sempre stato convinto che nessuno al mondo avrebbe potuto amarlo davvero e poi si era illuso quando aveva conosciuto Camille. Era una donna bellissima, elegante, forte e lui aveva trovato in lei la felicità per un breve periodo. Accecato dal suo amore per lei non si era accorto di quanto lei non lo amasse allo stesso modo fino a quando le di lei mancanze non erano divenute troppo evidenti e la sua noia l'aveva portato a mollarlo con una rapida conversazione molto fredda ed una breve scrollata di spalle.

L'aveva lasciato con una scrollata di spalle.

La cosa ebbe l'effetto di una pugnalata per lui che immediatamente ritornò a rinchiudersi in se stesso e a crogiolarsi nella convinzione di partenza che nessuno avrebbe potuto mai davvero amare uno come lui. Si era ripromesso di non crederci più, di non sperarci neppure, perchè essere smentito ogni volta faceva sempre più male e sapeva che prima o poi sarebbe giunto il giorno in cui non avrebbe potuto più gestire quel tipo di dolore spezzafiato. E poi era arrivato Alexander. Era arrivato lui e la speranza, poco a poco, si era riaccesa nonostante i mille e più tentativi da parte sua di tenerla a bada, di fornire spiegazioni logiche secondo le quali l'altro non vedeva in lui nient'altro che il suo mestiere. E poi... la lettera. Leggere di come lui stesso soffrisse della stessa paura aveva annientato ogni resistenza che aveva tentato -vanamente, di tenere alta fino a quel momento. Non c'era modo per trattenersi dal provare qualcosa per lui, non c'era modo di tornare indietro. Era fatta e forse, solo forse, questa volta non ne sarebbe uscito distrutto.

Catarina schiuse le labbra nel sentire quelle parole e le sembrò quasi di aver appena ricevuto una doccia fredda. Nei suoi occhi si poteva vedere il panico, il turbamento e Magnus cercò subito di fermarla prima che potesse, in qualche modo, lasciare che quella serata si concludesse fra pianti e tormenti.

Si allungò verso di lei e poggiò un dito sulle sue labbra per impedirle di dire qualsiasi cosa. Le sorrise con candore poggiando il bicchiere sul basso tavolino da caffè al suo fianco. «Sh» sorrise lasciando scivolare via il dito dalle sue labbra e carezzando il suo volto con la stessa dolcezza che aveva riservato ad Alexander solo poche ore prima.

«Lo so. So che sei preoccupata per me e so che secondo te mi sto facendo del male. So che... tutto questo non è da me. Lo so» disse Magnus inspirando e guardandola negli occhi. «Ma non posso tirarmi indietro. Non più. E se c'è anche solo una piccola possibilità che questa volta le cose possano andare bene.. io voglio rischiare. Alexander non è Camille, non è come nessuno di quelli che ho incontrato prima. Lui è speciale. E voglio fare per lui tutto ciò che posso perchè è tutto quel che merita. Che qualcuno faccia il possibile per lui»

Catarina aveva su un'espressione turbata e ferita come mai gliene aveva viste in viso.

Sembrava che da un momento all'altro potesse scoppiare in lacrime, che ci fosse qualcosa incastrato nella sua gola nel modo in cui boccheggiava senza riuscire a parlare.

«Ma tu...»

«A me va bene così. Non chiedo niente in cambio, non voglio niente in cambio. Non ne ho bisogno» la rassicurò lui sorridendo, cercando di trasmetterle la sua stessa calma con quel gesto.

Catarina risucchiò dell'aria e deglutì a fondo con difficoltà. «Magnus io devo--»

«Calmarti» concluse Magnus con un occhiolino ed un pizzicotto sulla sua guancia. «Sono davvero felice che tu voglia prenderti cura di me, Catarina. Sapere quanto tenga a me mi rende davvero felice. Ma devo fare le mie scelte e questa volta... questa volta credo di essere sicuro. Voglio provare» disse lui gonfiando il petto e sentendosi improvvisamente ricolmo di un brivido elettrizzante, quella deliziosa scossa che bruciava sottopelle quando si era impazienti di fare qualcosa. «Perciò adesso mi fai un bel sorriso e andiamo a dormire, mh? Come regalo di compleanno?»

La ragazza si sentì sprofondare ed investire da una ondata di sensazioni contrastanti.

Avrebbe voluto dirgli mille cose, avrebbe voluto dirgli quello che era successo, quello che aveva fatto, ma il sorriso che lui ora le stava mostrando le impedì di fare ognuna di quelle cose. Non lo aveva visto così speranzoso da una vita e pensare di strappargli dal viso quell'espressione sapendo di essere la causa della sua tristezza le tolse il respiro. Non poteva... non ce la faceva.

Una lacrima scivolò fuori dall'occhio sinistro percorrendone il viso, la gota, fino a cadere sulla sua coscia. I suoi occhi si riempirono di lacrime di fuoco mentre le labbra le tremarono forte.

Magnus sgranò gli occhi sentendo una fitta di dolore nel vedere la sua amica in quelle condizioni.

«Cat... tesoro mio, cosa succede?» le domandò, preoccupato, allungandosi verso di lei e stringendola forte in un abbraccio avvolgente, protettivo, la man destra a compiere dei movimenti circolari sulla sua schiena per tentare di placare la di lei sofferenza.

Catarina avvertì quel gesto con la forza di uno schiaffo.

«Magnus... i—io...» singhiozzò contro la sua spalla, lasciandosi andare ad un pianto colpevole. «Mi dispiace...»

Magnus le carezzò i capelli stringendola con dolcezza improvvisamente preoccupato.

Stralunato, confuso, non riusciva a capire il motivo per cui la sua amica si comportasse a quel modo. In nessun modo avrebbe mai potuto immaginare cosa stava logorando la ragazza dall'interno fino a ridurla in quello stato.

«Per cosa? Che succede?» le domandò lui col suo tono rassicurante e morbido, quello che usava ogni volta che Cat era giù e aveva bisogno che, per una volta, ci fosse qualcun altro ad essere forte per lei. «Puoi dirmi tutto, lo sai»

Ma ogni gentilezza che Magnus le rivolgeva scatenava un nuovo singhiozzo, apriva una nuova ferita nel di lei petto. Cosa aveva fatto?

«Tu... tu lo sai che sei un fratello per me, vero?» disse lei scostandosi dal suo abbraccio e guardandolo negli occhi, le lacrime a fluire colpevoli lungo il viso mentre tirava su col naso e cercava di frenare l'eccesso di singhiozzi e rantoli. «Sai che l'unica cosa che voglio al mondo è la tua felicità, vero? La tua sicurezza»

Magnus aggrottò le sopracciglia guardandola stranito. Un brivido freddo gli percorse le braccia mentre una sensazione spiacevole si annidava nel fondo del suo stomaco. Temeva l'idea di affrontare quel discorso, avrebbe voluto allontanarsi e non sentire quello che -sapeva- stava per arrivare. Ma era come paralizzato.

«Cat.» La sua voce, ora, era come raggelata. «Cos'hai fatto?»

La ragazza deglutì e liberò un respiro tremante.

«Ho parlato con Alexander» ammise in un soffio fragile e basso, un suono talmente lieve che sarebbe bastato un respiro a coprirne la sostanza.

Magnus sentì qualcosa rompersi dentro di sé, una paura senza nome farsi largo nel suo petto diramandosi lungo tutto il corpo come falangi di ghiaccio a stringere e contorcere ogni singolo nervo presente sottopelle.

«Cos'hai fatto...» La sua voce venne fuori in un respiro rotto, l'incredulità ad impedirgli persino di realizzare davvero cosa stava succedendo. Sentiva la testa leggera, ogni pensiero sfuggiva al suo tentativo di aggrapparsi a qualcosa. Sentiva che qualcosa di irreparabile era avvenuta ma non riusciva razionalmente ad accettarlo. Non quando fino a pochi istanti prima era così ricolmo di speranza, non fino a quando aveva ancora marchiate a fuoco nella mente le parole di quella lettera che adesso avrebbe voluto stringere forte al cuore per riuscire di nuovo a respirare.

Catarina stava tremando, le braccia di Magnus avevano lasciato la presa scivolando come morte lungo i suoi fianchi.

«Gli ho chiesto di lasciarti andare.» rivelò lei senza osare guardarlo in faccia, il viso pallido fino ad essere quasi grigio, le lacrime a scintillare negllo sguardo mentre la voce tremava impaurita. «Gli ho chiesto di farlo se... se tiene a te. Stasera volevo parlare con te... volevo farti capire... ma poi vi ho visti lì e—e ho capito che non saresti tornato indietro! Dovevo f—»

Magnus si alzò in piedi di scatto, tremante, fissandola con orrore, gli occhi sgrandi di sorpresa e lucidi di lacrime trattenute. «Come hai potuto?!» tuonò livido di rabbia, sconvolto, semplicemente incredulo per quanto aveva appena sentito. Inconsciamente non poteva ancora davvero credere che Catarina gli stesse dicendo la verità, non poteva accettare il fatto che la sua migliore amica, sua sorella, avesse potuto fare una cosa del genere alle sue spalle.

«Cosa ti è saltato in mente?! Parlargli senza neanche aver prima parlato con me? Senza neanche CONOSCERLO, per Dio!» La sua voce si fece forte, alta, quasi un grido. Era la prima volta che gridava così contro di lei, la prima volta che provava autentica rabbia nei suoi riguardi. La prima volta che avevano un reale litigio. Magnus la guardò come se fosse un'estranea perchè, in quel momento, chiunque ci fosse sotto i suoi occhi non corrispondeva alla sua Catarina. Non poteva semplicemente credere che avesse potuto fare una cosa simile, lei che non l'avrebbe mai ferito... gli aveva appena spezzato il cuore. «Hai idea di quello che hai fatto?!»

Catarina si alzò a sua volta dal divano guardandolo con fare disperato, le braccia larghe a gesticolare ampiamente ed in modo spontaneo e involontario.

«Ho cercato di aiutarti!» esclamò lei con disperazione, la sincerità a brillare bruciante nel suo sguardo rendendo tutto ancora più difficile agli occhi di Magnus. Sentiva la bocca secca, un saporaccio di bile risalirgli la gola come acido e lo stomaco chiuso. Sentiva un freddo interno riverberarsi per tutto il corpo come se il sangue nelle sue venne si fosse cristallizzato, le gambe deboli e al tempo stesso pesanti come piombo. La guardava stralunato, iniziando a sperare di aver bevuto troppo vino e di star capendo tutto terribilmente male.

«Magnus non vedi cosa sta succedendo? Quando hai iniziato a fare questo lavoro avevi detto che volevi fare del bene. Avevi detto che volevi riscattare le tue colpe dedicando la tua vita a salvare gente nell'unico modo che conoscevi. Avevi detto che sarebbe stato perfetto visto quanto sembrassi incapace di legarti davvero a chiunque, così non saresti rimasto coinvolto da loro. Ma quel ragazzo... quel ragazzo ti ha stregato!» esclamò lei tirando su col naso, trattenendo il pianto con forza, la voce incrinata per via del dolore che la stava lentamente consumando. «E' come se avesse sbloccato qualcosa dentro di te e questa cosa mi terrorizza

Magnus si rabbuiò e diede in un verso di incredulo scherno.

«E quindi hai deciso di farmi questo perchè tu avevi paura?!» ribattè duramente portandosi le mani alle tempie stringendosi i capelli, incredulo, furioso.

«No! L'ho fatto perchè quel ragazzo ha sconvolto la tua vita! Sei talmente coinvolto da non vederlo neanche! Continui a dire che siete simili, che puoi capirlo e che lui capisce te, che siete legati... Continui a dire di doverlo salvare, di essere l'unico a poterlo fare. E più lo dici più lui ha il potere di distruggerti! Non riesci a vederlo?»

Le parole giunsero come uno schiaffo.

Magnus schiuse le labbra facendo un passo indietro, fissandola sgomento.

«Hai passato anni della tua vita a cercare di trovare un equilibrio. Hai combattuto per anni il tuo dolore per cercare di non annaspare più. Per andare avanti con la tua vita al meglio possibile. E ora mi dici che questo ragazzo ti capisce, che ha perso qualcuno...» La ragazza si fermò deglutendo, umettandosi le labbra con fare combattuto. Aveva sempre avuto paura di affrontare così direttamente questo discorso con lui, aveva sempre cercato di essere gentile quando si trattava di quell'argomento. L'unico caso in cui metteva da parte la sua spietata sincerità in favore di una cauta dolcezza. «Continui a dire che grazie a questo puoi salvarlo. Ma se succedesse il contrario? Se invece di riportarlo alla luce fosse lui a farti sprofondare con sé?» domandò con occhi infinitamente tristi e spaventati, le spalle ad abbassarsi prive di qualsiasi tipo di sostegno e tensione, improvvisamente esauste. «Se il suo dolore, i suoi dubbi, la sua stanchezza dovessero risvegliare i tuoi? Cosa succederebbe allora?»

Magnus sbuffò esasperato combattendo con tutto se stesso contro quelle parole, contro quello che la sua amica gli stava dicendo. No. Non voleva sentire, non voleva stare ad ascoltare nessuna scusa o giustificazione. Aveva sbagliato. Aveva solo sbagliato. Non avrebbe dovuto, non avrebbe dovuto, non avrebbe dovuto! Lei non capiva, lei non sapeva... Alexander non avrebbe mai potuto fare una cosa simile, non avrebbe mai potuto far sì che le tenebre lo avvolgessero perchè lui era pura luce! In quel mondo marcio e senza speranza, lui era calore e salvezza. E lei non avrebbe potuto capire...

«Smettila! SMETTILA!» le gridò contro con rabbia, con ira, stringendo i denti in una morsa, la fiamma della furia a risvegliarsi nel suo ventre scontrandosi con il gelo della tristezza. Ghiaccio e fuoco danzavano fianco a fianco in lui scontrandosi e fondendosi in una sensazione spiacevole e terribile di confusione e disorientamento. Si sentiva in grado di abbattere un muro a mani nude e troppo stanco persino per respirare al tempo stesso. «Continui a tirar fuori questa storia ad ogni occasione! E ogni volta ti ripeto che è passato! Sto bene Catarina! Smettila di--»

«PIANTALA DI DIRE STRONZATE!» Questa volta fu Catarina a gridare. Il suo urlo straziante si sovrappose alla sua voce facendo cadere un silenzio denso e nervoso per tutto il loft. La ragazza tremava, le lacrime stillavano come piccole perle dai suoi occhi inondandole il viso. Le labbra non la smettevano di tremare mentre il respiro le si era fatto instabile e usciva quasi a singhiozzi fra i denti.

«Tu stai bene? Davvero?» domandò lei e la sua voce fu sfumata questa volta di un amaro tono canzonatorio e poco convinto. «Allora perchè continui a rifiutarti di chiamare nostra madre mamma? Ti abbiamo preso in casa che eri un bambino, sei cresciuto con noi eppure non sei mai riuscito a chiamarla in quel modo! Se stai così bene perchè continui a ripetermi di non meritare amore? Perchè continui a credere di essere maledetto? Di essere una disgrazia?»

Ogni domanda arrivò con la violenza di un uragano.

Era la prima volta che Catarina parlava così. La prima volta che gli sbatteva così violentemente contro quella verità. La prima volta che non accoglieva il suo dolore con dolcezza ma con forza.

Si sentì rinfacciare i suoi stessi sentimenti sentendo qualcosa rompersi dentro di sé, un argine che aveva con così tanta fatica cercato di tenere in vita per così tanto tempo...

«Credi che non me ne accorga? Credi che non l'abbia mai visto? Il modo in cui eviti di guardarti allo specchio, il modo in cui distogli lo sguardo da ogni famiglia felice che vedi per strada?» Improvvisamente la sua voce si fece stanca. Si abbassò di volume riducendosi quasi ad un sussurro distrutto. «Credi che non sappia che soffri ancora? Ogni giorno?» Nuove lacrime vennero fuori dopo quel breve attimo di pausa, facendola sentire stremata al pensiero di quell'improvvisa lite. «Ma io lo vedo, Magnus... lo vedo sempre. E farei qualsiasi cosa per cambiare le cose. Per proteggerti da qualsiasi tipo di minaccia a quell'equilibrio che avevi trovato con così tanta fatica...»

Magnus venne travolto da una ondata di sensazioni e sentimenti contrastanti.

Era furibondo, disperato e distrutto.

Una parte di sé, violenta e istintiva, credette persino di odiarla in quel momento per quello che gli aveva fatto.

Ma un'altra parte avrebbe voluto correre da lei, abbracciarla, e frenare le sue lacrime ringraziarla per il suo amore per lui. Una parte di lui si sentiva persino in colpa per non riuscire ad accettare il suo gesto, il suo estremo tentativo di salvarlo da se stesso. Ma era una parte estremamente piccola e remota, una parte non abbastanza forte da poter sovrastare le urla ben più logoranti e rumorose del suo cuore infranto.

«Alexander non è una minaccia.» replicò soltanto, meccanicamente, come un bambino che cercava di imporre il suo pensiero e le sue convinzioni davanti alle prove che gli venivano mostrate del contrario. Aveva i denti stretti, il tono piatto e vuoto di chi si sentiva privato di ogni cosa. La festa, la lettera, le risate, la gioia di quella serata, tutto sembrava essere improvvisamente lontano mille anni da lui. «Lui non potrebbe mai farmi del male»

Catarina lo guardò quasi con pena, come se volesse dirgli con lo sguardo “guarda come sei ridotto”.

Magnus non la prese bene.

«No. Non ci provare neanche a guardarmi così, Catarina» replicò scuotendo la testa, stringendo la mascella e i denti al punto da sentire il fastidioso rumore delle ossa che stridevano le une contro le altre nella sua bocca. «Non è Alexander ad avermi fatto questo. Sei stata tu. Tu mi hai spezzato il cuore. Tu mi hai tradito.» Ogni parola era intrisa di veleno e di accusa, ogni parola era quasi sputata con rabbia e disprezzo e dolore e... colpa. Avrebbe voluto fermarsi. Avrebbe voluto tacere, trattenere tutta quella furia perchè sapeva che ogni parola era una coltellata nel cuore della sua amica. Poteva vedere nel suo sguardo ogni singola stilettata affondare sempre più nel suo cuore martoriato. Ma non ci riusciva. Gli argini erano stati spezzati e le parole fluivano come un fiume in piena dalle sue labbra, incontrollate.

«Lui mi aveva dato speranza. Lui mi ha fatto sentire come se avessi uno scopo. Salvarlo era tutto quello che volevo, restituirgli il sorriso, cercare di restituirgli la sua vita così com'era. Saperlo felice mi sarebbe bastato a sentire di aver fatto qualcosa di buono nella mia vita, l'unica cosa buona. E. Tu. Me. Lo. Hai. Tolto.» ringhiò sentendo il petto tremare, il respiro rompersi e una nuova lacrima scivolare via. «Mi hai privato dell'unica cosa bella che avessi trovato per me. Lo hai fatto senza neppure pensare a cosa questo avrebbe potuto fare a lui. Lo hai trattato come se fosse una specie di infezione...»

«No. Non è così» disse Catarina scuotendo il capo, la voce sottile e devastata. «Mi dispiace per lui. E sono sicura che non meriti di soffrire perchè mi sembra una brava persona. Ma... tu lasceresti che un drogato aiuti un altro drogato a disintossicarsi?» domandò lei aggrappandosi con la forza della sua disperazione ad ogni modo possibile per tentare di fargli vedere la sua verità. «O lasceresti che due alcolizzati si spronassero a vicenda a smettere di bere? E cosa credi che succederebbe se uno dei due vacillasse? Se uno dei due avesse un dubbio?»

Magnus era incredulo, come se l'altra stesse dicendo qualcosa di assurdo ed incredibile.

«Cosa?! Credi che potremmo uccidere qualcuno?!» domandò esasperato con espressione accigliata, attonita. «Perchè è questa la 'dipendenza' che ci accomuna stando alla tua analogia e--»

Catarina sbiancò di colpo, fissandolo con espressione scandalizzata.

«Magnus» La sua voce era vuota e atona come non lo era mai stata prima. «Mi prendi in giro?» domandò, scioccata, sentendo ora le mani tremare, l'espressione -per la prima volta- virare da un'espressione disperata e colpevole ad una furiosa e violenta.

«Mi prendi in giro?!» ripetè urlando chinandosi verso il divano per afferrare un cuscino e lanciarglielo con violenza in pieno volto. «HAI CERCATO DI UCCIDERTI!» gridò facendosi bruciare la gola, come se unghie affilate avessero graffiato l'interno della sua carne ricavandone tagli profondi e sanguinanti.

Magnus fermò il cuscino con le mani con fare meccanico e istintivo, paralizzandosi sul posto poco dopo.

Mai. Mai prima di allora Catarina aveva tirato fuori quella storia, mai avevano parlato di quell'episodio della sua vita lasciandolo sospeso fra loro come un sottinteso da cui entrambi cercavano di fuggire. O forse l'unico che stava scappando era sempre stato lui.

«Tu forse puoi riuscire a far finta di niente, ma io non dimentico! Non potrei mai dimenticare!» gridò lei con una tale veemenza che Magnus pensò che da un momento all'altro avrebbe potuto saltargli addosso e colpirlo. E lui, pietrificato com'era, probabilmente gliel'avrebbe persino lasciato fare. «Ti ho tenuto fra le braccia mentre correvamo al pronto soccorso. Ti ho tenuto il polso per assicurarmi che il tuo cuore continuasse a battere. L'ho sentito farsi sempre più debole finché non si è quasi fermato. MI SEI QUASI MORTO FRA LE BRACCIA!»

Catarina esplose e pianse tutte le lacrime che non aveva pianto in anni di sforzi. Cadde in ginocchio con le mani sul viso e le spalle scosse dai singhiozzi mentre quasi sembrava mancarle l'aria. Pianse a dirotto per un tempo indefinibile ai piedi di Magnus che, paralizzato, l'osservò dall'alto come un angelo guerriero od un giudice divino. La guardò dall'alto incapace di dire qualsiasi cosa.

Si sentì contorcere le budella per vederla in quello stato, per aver visto coi suoi occhi cosa quel suo gesto aveva causato nella gente che aveva attorno, la gente che lo aveva salvato dalla solitudine e dalla strada. Ma nonostante sentisse la colpa divorarlo dall'interno non poteva comunque fare a meno di sentire il risentimento e la rabbia per il tradimento che, ancora, bruciava ardente sottopelle.

«E non hai pensato che quello che hai fatto potrebbe far quasi morire lui fra le braccia di sua sorella?»

Dopo infiniti, lunghi attimi di silenzio, Magnus riuscì a trovare la forza di parlare.

Quella frase uscì gelida e tagliente dalle sue labbra, un sussurro carico di rabbia e frustrazione, di paura e preoccupazione.

Ricordava perfettamente quel periodo.

Era un ragazzino, era così giovane che fu ancora più scioccante per chi gli stava attorno scoprire cosa avesse tentato di fare. Si sentiva solo, solo in una maniera definitiva e irrecuperabile. Aveva attorno a sé pochi ma veri amici ed una nuova famiglia che teneva sinceramente a lui abbastanza da accoglierlo in casa nonostante fosse già un bambino cresciuto e con nessun legame di vera parentela con loro. Era sempre andato d'accordo con Catarina fin da quando avevano pochi anni di vita e i suoi genitori lo avevano visto crescere assieme a lei. Era stata una decisione gentile da parte loro decidere di prendersi cura di lui quando ne aveva avuto bisogno.

Nonostante questo però sapeva che nessuno di loro poteva davvero capire il suo dolore e quello che provava. Nessuno sapeva cosa significasse essere un mostro, sentirsi maledetto fin dentro le ossa, fin dentro il sangue. Non sapevano cosa volesse dire sentirsi le mani grondanti di sangue: erano brave persone, loro. E il fatto che nessuno potesse comprendere il suo stato d'animo lo portava a sentirsi solo in mezzo a tanti. Erano tutti lì, a un passo da lui, eppure irraggiungibili. Cosa non avrebbe dato per poter essere come loro...

Tutto era semplicemente troppo.

Alla fine aveva capito che non poteva farcela, che quella vita era troppo sfiancante e dolorosa per lui. Nulla aveva senso, lui non aveva diritto di vivere e perciò avrebbe fatto un favore alle grandi leggi dell'universo riequilibrando i conti e togliendosi la vita.

Aveva afferrato un taglierino dalla sua scrivania e con quello si era tagliato un polso. Il dolore era stato lancinante, il bruciore indescrivibile. Vide la lama tingersi di una tinta cremisi e il sangue sgorgare scarlatto dalla sua pelle caramellata. Colava lungo il braccio, cadeva in terra in gocce pesanti macchiando il pavimento, i vestiti. Ci volle poco perchè si sentisse stordito, debole. Usciva in fretta. Molto in fretta. E al tempo stesso lentamente.

Salì al cuore la paura. Aveva paura, faceva male.

Tutto faceva così incredibilmente male.

Perchè non era ancora finita?

Non aveva mai pensato che il tempo intercorso fra il tentativo di morire e la sua attuale morte sarebbe stato così atroce. Non ci aveva riflettuto bene. Era una sensazione insopportabile. Debole, così debole da non riuscire a muoversi, prigioniero del suo corpo, sentì le gambe cedere e cadde a terra incosciente tirando giù la sedia al suo fianco con un fracasso che non udì mai.

Catarina sentì il rumore e entrò nella stanza per assicurarsi che andasse tutto bene.

Un qualche distante angolo del suo subconscio sentì il suo urlo straziante.

Il solo pensiero che Alexander potesse provare tutto quello fece salire un violento senso di nausea a chiudergli la gola. Il solo pensiero che Alexander potesse pensare di fare una cosa simile lo fece sentire debole, esattamente come allora. Alexander si era sentito come lui per anni. Solo, senza nessuno che capisse, che comprendesse, a convivere col vuoto di una perdita che non avrebbe mai potuto risanare. Aveva trovato qualcuno che poteva aiutarlo e poi gli era stato intimato di lasciarlo perdere. Gli era stato portato via. Quali conseguenze avrebbe potuto portare un simile atto nella sua fragile, meravigliosa psiche?

Magnus non voleva pensarci.

Con sdegno superò il punto dove la sua amica piangeva sul pavimento e raggiunse la sua stanza col cuore a battergli in gola e il cellulare fra le mani.

 

*

 

Le strade sotto i suoi occhi sembrarono improvvisamente tutte uguali.

Stava camminando senza una vera e propria meta sotto gli occhi sapendo soltanto che aveva bisogno di allontanarsi dal loft. Era arrivato fin lì con le gambe tremanti di emozione ed il cuore vibrante di eccitazione, il sangue a ribollirgli nelle vene con quel delizioso brivido che sapeva di anticipazione ed ora se ne andava distrutto, col cuore in frantumi e un senso di vuoto avvolgente a stringerlo in una morsa gelida.

Sentiva le mani ghiacciate, la gola chiusa.

Aveva voglia di vomitare.

Non riusciva a capacitarsi di ciò che era successo, di quanto stupido fosse stato a credere davvero che potesse meritare un simile dono del cielo.

Magnus era troppo per lui.

Era una persona buona, era una persona gentile e donava pace al prossimo.

Una pace che lui non meritava, una pace che non era fatta per lui. E lui aveva rovinato tutto. Aveva distrutto ogni cosa. Lo aveva ferito. Catarina sembrava distrutta mentre gli aveva parlato. Le sue parole erano dure, brutali, ma il suo sguardo... c'era qualcosa che non avrebbe mai potuto dimenticare nel suo sguardo, quella preoccupazione che aveva sempre visto negli occhi di sua madre e sua sorella. Quella preoccupazione che non si poteva fingere, che non si poteva confondere. Era davvero spaventata per qualcosa, credeva sul serio che Magnus fosse in pericolo al suo fianco.

E come poteva lui, che neppure praticamente lo conosceva, mettere in dubbio i pensieri e le convinzioni di qualcuno che, invece, lo conosceva da tutta una vita?

Come avrebbe potuto dirle di no? Continuare a cercare la di lui compagnia solo per non lasciarsi sfuggire la pace dalle dita? Non sarebbe mai potuto essere egoista fino a quel punto.

L'ultima cosa al mondo che avrebbe voluto era sapere di farlo soffrire.

Sapere di essere la causa del suo dolore, essere una minaccia per lui.

A questo avrebbe preferito tornare a rimanere solo, ricadere nell'oblio.

E così sarebbe stato.

Col cuore pesante aveva preso a vagare per la città senza una meta. Non poteva tornare a casa, non voleva tornare a casa, là dove lo avrebbero guardato e avrebbero visto. Ne era certo, lo sapeva. Sulla sua faccia doveva essere chiaramente leggibile che il suo cuore, se un tempo ne avesse mai avuto uno, non avrebbe fatto ritorno. Era andato. Lasciato ai piedi delle scale di un loft che non avrebbe rivisto mai più, distrutto in frantumi tanto piccoli da potersi disperdere al vento come mille coriandoli scarlatti. No. Doveva rimanere solo, doveva aspettare, doveva...

Si fermò nel bel mezzo di un marciapiede affollato sentendo la gente riversarsi attorno a lui nella sua frenetica corsa serale. Le macchine sfrecciavano accanto a sé, le luci degli addobbi natalizi brillavano come stelle cadenti tutt'attorno ed ogni suono lo raggiungeva distante ed ovattato. Era immerso in una fiumana di gente, circondato di persone eppure non si era mai sentito così irrimediabilmente solo.

Non riusciva a camminare, non riusciva a muoversi, osservava la gente ridere e parlare attorno a lui. Uomini armati di valigetta e auricolari a parlare di affari che avrebbero dovuto assolutamente concludere, ragazze sorridenti e giovani a chiacchierare fra loro mangiando delle crepes calde, ragazzi adolescenti che le osservavano poco distanti commentando fra loro e sfottendosi perchè nessuno avrebbe avuto il coraggio -fra loro- di farsi avanti e rivolgere la parola ad una di quelle. Ogni cosa scorreva attorno ad Alec senza mai toccarlo. Era come se attorno a lui ci fosse una campana di vetro che impediva allo scorrere incessante della vita di sfiorarlo. Era fuori dal tempo, fuori dallo spazio. Fuori luogo.

Non c'era un posto per lui in quel mondo, non c'era spazio per lui.

Credeva di averlo trovato, per poche settimane nella sua vita.

Credeva di aver trovato il suo angolino di pace, l'alloggio perfetto in quel puzzle così complesso che era la sua vita. Ma si era sbagliato.

Il freddo lo strinse in una morsa tagliente stringendogli le viscere, le ossa, come se tutto il suo sangue fosse stato drenato via. Non aveva più forze, non aveva più energie. Stanco. Infinitamente stanco.

Era come se ogni cosa avesse perso di significato adesso.

Di tutta la speranza e la voglia di migliorare che lo avevano guidato fino a poco prima adesso non c'era più alcuna traccia.

Ripensò alla lettera che gli aveva scritto.

Ripensò a tutto quello che gli aveva confidato, ai sentimenti che aveva impresso su carta.

Si sentì mancare il respiro.

Magnus era parso così contento di ricevere qualcosa da lui...

Ma ora, suppose, non l'avrebbe saputo mai.


 

Aveva camminato senza meta per quelle che potevano essere ore o, per quanto gli riguardava, persino settimane. Avanzava senza vedere davvero quello che aveva attorno. Il suo sguardo era perso, il passo strascicato. Si muoveva per inerzia, perchè c'era una piccola voce dentro di lui a dirgli di muoversi, di andare avanti nonostante tutto.

E lui, stanco, andava avanti. Strisciando e urlando, sentendo artigli graffiare l'interno del suo petto facendolo sanguinare ad ogni istante che passava.

Cosa ne sarebbe stato di lui ora?

Alec si rese conto di sentirsi perduto adesso che aveva perso Magnus.

Aveva mai davvero realizzato quanto importante lui fosse divenuto per lui? Aveva mai davvero capito quanto dipendesse da lui? Quanta pace e quanta forza la sua sola presenza gli avessero donato? Probabilmente no. Ma adesso capiva... perchè il vero significato delle cose si mostrava a noi solo una volta che queste erano perdute per sempre e lui sapeva che Magnus non sarebbe più stato alla sua portata.

Doveva proteggerlo. Doveva difenderlo.

Doveva lasciarlo.


 

Alla fine ritornò a casa.

Scombussolato, stravolto e nauseato, ma un po' più in controllo di sé.

Era ancora piuttosto pallido e la sua espressione poco rassicurante ma quanto meno sarebbe stato capace di parlare se ce ne fosse stato bisogno.

Aprì la porta e venne travolto dal calore interno dell'abitazione.

Un brivido lo percorse da capo a piedi per via della differenza di temperatura. Non si era accorto di quanto freddo sentisse fino a quando non avvertì quel calore avvolgerlo come una coperta.

Si richiuse la porta alle spalle e si diresse verso le scale che conducevano al piano di sopra. Sua madre lo vide passare davanti il passaggio ad arco della cucina e lo salutò.

«Bentornato» disse stranita, colpita dal fatto che Alec fosse tornato così tardi da dovunque fosse andato. Era qualcosa di piuttosto insolito da parte sua.

Alec si irrigidì sul posto e arretrò di pochi passi affacciandosi nella cucina. «Ciao mamma» salutò abbozzando un sorriso. Gli riusciva così difficile che era piuttosto certo avesse mostrato solamente una smorfia.

Tornò alle scale e salì al piano di sopra quasi scappando dallo sguardo indagatore della donna.

Si richiuse in camera poggiando la schiena contro la porta di legno, la testa reclinata all'indietro, gli occhi chiusi. Nel buio e nella solitudine della sua camera si sentì mortalmente stanco.

Sì spogliò rapidamente quasi strappandosi gli abiti di dosso. Si sentì stupido ad essersi vestito a quel modo per lui. Cosa aveva sperato di fare? Come se sarebbe potuto mai servire a qualcosa! Lanciò tutto per terra e si infilò il suo vecchio pigiama scolorito rannicchiandosi a letto, col cellulare fra le mani. Aveva preso l'abitudine, nei giorni precedenti, di addormentarsi con quello fra le dita dopo aver parlato con Magnus prima di dormire. Adesso non sarebbe più successo e il solo pensiero era come un pugno in pieno stomaco. Faceva male.

Faceva male realizzare quante cose non sarebbero più tornare.

Quante cose non sarebbero mai più state le stesse...

E poi il telefono vibrò.

 

Da: Magnus Bane.

Alexander. Catarina mi ha detto tutto, mi ha detto quello che ha fatto.

Sono mortificato, non avrebbe dovuto.

Ti prego di non credere a quello che ha detto, di non darle ascolto.

Non stava a lei giudicare le cose e sicuramente non aveva alcun diritto di parlarti a quel modo.

 

Alec strinse il telefono con forza fra le dita.

Era così da Magnus... cercare di confortarlo anche quando era lui quello che stava soffrendo. A causa sua. Avrebbe voluto rispondergli, avrebbe voluto dirgli qualsiasi cosa, aggrapparsi a quel messaggio per mantenere un contatto con lui, per strappare un altro istante del suo tempo e conservarlo per sé. Trattanere dentro di lui una nuova piccola parte di Magnus alla quale richiedere forza per andare avanti. Ma non poteva. Sapeva che se solo avesse risposto non avrebbe più trovato la forza di smettere e se non avesse smesso avrebbe continuato a fargli del male, a ferirlo, perchè Magnus gli avrebbe concesso di farlo. Avrebbe dovuto resistere. Doveva ignorare.

 

Da: Magnus Bane.

Alexander, ti prego, rispondi.

 

Alec chiuse gli occhi stringendo la mascella.

Avrebbe dovuto bloccarlo, probabilmente.

Avrebbe dovuto immaginare che non si sarebbe fatto fermare dal suo silenzio, che avrebbe continuato a scrivergli, a cercarlo.

Avrebbe dovuto sapere che avrebbe cercato di sistemare le cose.

Leggere i suoi messaggi sarebbe stata una tentazione immensa per rispondergli e temeva che prima o poi avrebbe ceduto. Ma al tempo stesso non riusciva a sopportare l'idea che Magnus potesse scrivergli e che lui non avrebbe mai saputo cosa gli avrebbe scritto. Voleva leggere quei messaggi, crogiolarsi nell'idea che Magnus stesse pensando a lui, almeno per un po', per attenuare quel senso di vuoto che gli toglieva il respiro.

Ma poi realizzava che era un pensiero dannatamente egoista.

Magnus era lì a cercare di sistemare qualcosa che non avrebbe potuto sistemare.

Alec non si sarebbe concesso di fargli nuovamente del male.

Aveva già rovinato abbastanza vite, non avrebbe rovinato anche la sua.

Mai la sua.

E continuare a ricevere i suoi messaggi lasciando aperto quel canale di comunicazione era come dargli la speranza che, prima o poi, una risposta sarebbe arrivata. Avrebbe dovuto troncare tutto. Avrebbe dovuto rendergli chiaro che era finita. Che era tutto finito.

Avrebbe dovuto liberarlo da sé, proprio come aveva chiesto Catarina.

Ad ogni messaggio che giungeva una nuova fitta colpiva e pugnalava il cuore del ragazzo con straordinaria forza. Non credeva di poter sentire ancora dolore ad un organo che era certo di non avere più con sé ma, a quanto pare, si sbagliava.

Lesse i vari disperati tentativi di Magnus di fargli cambiare idea ritrovandosi a schiudere le labbra in un'espressione di dolorosa sorpresa quando, alla fine, le sue ultime parole lampeggiarono sullo schermo.

 

Da: Magnus Bane.

Catarina ti ha detto che mi hai fatto del male.

Ma non sa quanto invece tu mi abbia fatto del bene.

Non sa della lettera.

E' una cosa che voglio tenere per me. Un segreto fra noi.

Non sa quanto bene quelle parole mi abbiano fatto, quanto felice tu mi abbia reso, Alexander.

Lei non sa e non avrebbe dovuto parlare per me.

Posso parlare da solo e quello che voglio dire è che ho bisogno di te, Alexander.

E che il tuo regalo è stato semplicemente perfetto.

Il più bello della mia vita.

 

Ho bisogno di te, Alexander.

Ho bisogno di te.

Alec sentì il corpo tremare, il respiro farsi corto. Si sentiva sull'orlo di un precipizio. Non sapeva cosa fare. La parte di lui che ancora osava sperava, che ancora si aggrappava al ricordo di quello che c'era stato fra loro fino a quel momento gli diceva di dargli retta, di ascoltarlo, di fare ciò che il suo cuore voleva.

Ma poi la parte razionale della sua mente lo frenava e gli ricordava come il suo cuore fosse malato. Voleva cose che non avrebbe dovuto mai desiderare, lo portava a fare scelte sbagliate, lo portava a ferire e distruggere chiunque e tutto ciò che avesse attorno.

Aveva ferito molta gente, aveva distrutto abbastanza. Non avrebbe fatto lo stesso con Magnus. Non lui. Non. Lui.

Trattenendo il respiro e con quell'opprimente senso di vuoto a riempirlo ed avvolgerlo, Alec guardò per l'ultima volta la di lui foto tenendo il dito, in attesa, al di sopra della parola 'Blocca'.

Cercò la forza di procedere, cercò la forza per essere coraggioso una volta ancora e fare, per una volta nella vita, la cosa giusta.

Strinse i denti e posò lo sguardo su quello distante e triste di Magnus nell'immagine, cercando di marchiare a fuoco ogni dettaglio di lui nella sua mente.

E lo liberò da sé.  

   
 
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