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Autore: Adeia Di Elferas    22/12/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Ascanio sostiene che in Vaticano non si parli d'altro che di riforme.” disse Ludovico, guardando Giovanni Sforza con un'espressione annoiata: “Ha spedito i suoi figli al sud, togliendoseli di torno, come aveva promesso di fare.”

“Ma Lucrecia...” cominciò il pesarese, che aveva già i bagagli pronti per tornarsene a casa, ma che non accennava a dare ordine alla sua scorta di mettersi in marcia.

“Vostra moglie s'è chiusa in convento e per quanto ne sa Ascanio non ne uscirà tanto presto. Che abbia avuto la vocazione, o che il papa se la voglia tenere lontano per espiare le sue colpe non è dato a noi di saperlo.” fece il Moro, sbrigativo: “Fatto resto che Alessandro VI un mese fa ha scritto al re di Spagna dicendo che intende fare questa benedetta riforma e poi ritirarsi in un monastero a vita per pregare, lasciando perfino il suo scettro papale.”

“Non ci credo, non è possibile.” disse subito Giovanni che, durante i suoi soggiorni a Roma aveva imparato molto bene a capire quegli eccessi del papa: “Cambierà idea prima che sia autunno e a quel punto...”

“Ascanio sostiene che il Borja ha anche accettato una lettera di Savonarola che gli porgeva le sue condoglianze intimandogli di pentirsi per tutti i suoi peccati...” fece Ludovico, quasi sperando che quella notizia convincesse il parente della buona volontà del Santo Padre.

“Chiacchiere! Rodrigo Borja è capace di inchinarsi davanti a qualcuno al mattino e sgozzarlo alla sera!” s'infervorò Giovanni che con il caldo afoso che investiva Milano, quel giorno non faceva che sudare.

“Allora – riprese il Duca, che aveva trovato in un primo momento quasi divertente la presenza del parente alla sua corte, ma che ormai cominciava a non sopportarlo davvero più – se lo conoscete così bene non vedo perché vi ostiniate a tenere in piedi il matrimonio con sua figlia! Fate come dite lui! Dite a tutti di non averla mai conosciuta e fate dichiarare nullo il matrimonio! Ci libereremo tutti di un peso!”

“Ma...” riprese Giovanni, perdendo un po' della sua vivacità, mentre dalla porta entrava Bartolomeo Calco.

“Perdonatemi, devo fare cose di massima urgenza...” fece il Moro, liquidando il parente e avvicinandosi al cancelliere.

“Partirò domani mattina.” concluse Giovanni Sforza, che dopo quel breve scambio aveva capito che cercare aiuto tra i consanguinei non gli avrebbe giovato.

Nella lista gli restava solo la signora di Forlì, ma dopo gli screzi che negli anni avevano portato i pesaresi e i forlivesi a scontrarsi per la questione dei pedaggi, non era certo di trovare in lei un appoggio. E anche se l'avesse trovato, che poteva fare una donna con uno Stato tanto piccolo, per proteggerlo dal papa?

“Andate con Dio, Giovanni.” lo salutò il Duca, sollevando appena gli occhi dalle carte che Calco gli aveva messo in mano: “Non scomodatevi a salutarmi, prima di partire. Consideratela cosa fatta.”

 

Caterina stava guardando Bernardino duellare con le spade di legno assieme a Galeazzo. Le piaceva vedere come i due fratelli andassero d'accordo e quei momenti le davano un certo senso di pace.

Il cortile era deserto, a parte lei e i suoi due figli. Stava calando la sera e nell'aria si sentiva ancora l'odore pungente della giornata di solleone che aveva infiammato Forlì e le campagne che la circondavano.

Giovanni stava adempiendo a della corrispondenza e così la Sforza era scesa a vedere Galeazzo e Bernardino che, non paghi di un'intera giornata passata con i soldati, ancora si davano da fare, anche se con un tono molto più giocoso che non in presenza del maestro d'armi.

La Tigre aveva preso uno sgabello da campo e, stando nel punto più in ombra, si era messa in osservazione, facendo attenzione, di quando in quando, a quello che le sembrava di sentire dentro di sé.

Sapeva che era troppo presto per distinguere nettamente la piccola vita che cresceva dentro di sé, ma ormai era incinta più o meno da due mesi e quindi l'idea che nel suo ventre ci fosse un nuovo figlio si stava facendo spazio nella sua mente, diventando di giorno in giorno più concreta.

“Basta, basta, mi arrendo!” rise Galeazzo, alzando le braccia e permettendo al fratello minore di esultare.

A quel punto, dopo essersi stretti la mano, i due guardarono verso la madre, che fece loro segno di avvicinarsi.

“Sei davvero bravo, Galeazzo. Stai facendo molti progressi.” disse la donna, guardando il più grande e rammaricandosi che avesse appena undici anni e mezzo: “Continuando di questo passo, diventerai un condottiero di fama.”

Il ragazzino gonfiò il petto, colmo d'orgoglio e restò per qualche istante con gli occhi puntati in quelli della madre.

Nel vedere la fierezza che quel volto trasmetteva, Caterina si disse ancora una volta che solo Galeazzo fosse stato un po' più grande, avrebbe lasciato a lui lo Stato, ritirandosi finalmente a vita privata. Sarebbe rimasta nelle retrovie, nel caso lui avesse cercato il suo aiuto, ma lo avrebbe lasciato libero di agire come voleva.

E invece gli unici suoi figli che avessero già un'età compatibile con la carica di Conte erano un inetto come Ottaviano e un fanatico religioso come Cesare.

Stringendo appena le labbra, punta ancora una volta da quel pensiero amaro, la Contessa si rivolse a Bernardino che, in imitazione del fratello maggiore, stava in piedi rigido come un soldatino.

“Ti piace, tirare di spada?” chiese Caterina, guardando il più piccolo, anche se i suoi occhi continuavano a sfuggirlo, come sempre.

Bernardino annuì e aggiunse: “Un giorno voglio diventare un cavaliere, come mio padre.”

La Contessa sospirò. Non era la prima volta che il bambino esprimeva quel desiderio e come sempre la Sforza avrebbe voluto spiegargli che Giacomo non era stato un cavaliere come quelli che conosceva lui.

Anche se aveva ottenuto il titolo da niente meno che il Duca di Milano, suo padre era sempre e solo stato uno scansafatiche.

Poi, però, appena prima che le parole arrivassero da sole, la Tigre riusciva sempre a mordersi la lingua per tempo e, come fece anche quella volta, dire: “Sono certa che un giorno lo diventerai.”

Mentre si alzava dallo sgabello e dava una leggera pacca sulla spalla ai figli, l'attenzione le cadde su un piccolo ricamo della giacchetta di Bernardino. In filo dorato e rosso, qualcuno gli aveva impresso il simbolo della famiglia Sforza Riario: la rosa affiancata alla vipera.

“Chi te l'ha fatto, questo?” gli chiese, con una certa serietà, appoggiando le dita sul petto del figlio.

Bernardino deglutì, quasi temesse di aver fatto qualcosa di sbagliato e guardò il fratello in cerca di sostegno.

Galeazzo, sperando di non mettere nei guai nessuno, rispose: “È stata Bianca. Stava facendo esercizio con il ricamo e Bernardino le ha chiesto di abbellirgli il giubbetto.”

La Sforza annuì appena e poi si congedò dai figli abbastanza frettolosamente, con un sorriso appena accennato: “Rimettete tutto in ordine, mi raccomando.” soggiunse, indicando le spade di legno che avevano ancora in pugno.

 

Luigi Avogadro si era dimostrato un ospite eccellente, per Francesco Gonzaga. Quando aveva visto il Marchese di Mantova arrivargli davanti al portone di casa vestito in modo sobrio, e in cerca di qualcuno che lo accogliesse in incognito per permettergli di incontrare 'una certa persona', Luigi aveva accettato subito.

Francesco gli era così grato che, se avesse potuto, avrebbe scritto a Isabella per dirle di scegliere delle stoffe di pregio da inviare subito a Brescia per ripagarlo di quell'incomodo.

Ma se era lì era anche per via di sua moglie e dunque non poteva certo chiederle una cosa del genere senza scatenarne ulteriormente le ire.

Caterina Corner sarebbe arrivata quella sera, per vederlo eppure il Marchese non riusciva a pensare ad altro che a come aveva lasciato Isabella.

Il loro matrimonio gli stava sfuggendo di mano senza che riuscisse a far nulla per riafferrarlo. Più ci provava, più gli scivolava dalle dita.

Gli ultimi litigi avevano portato con loro qualcosa di insanabile che Gonzaga ancora non aveva colto pienamente, ma che sapeva avrebbe allontanato lui e Isabella sempre di più.

Se ripensava ai primi tempi, al modo in cui lui la cercava di continuo, quando era a Mantova, e l'entusiasmo con cui lei gli si concedeva...

Versando del vino nei calici che aveva già preparato per sé e per l'ex regina di Cipro, illustre figlia di Venezia, Francesco sospirò tra sé, rammaricandosi per i propri errori e sperando che quell'incontro fosse ciò che faceva al caso suo.

Se fosse riuscito a convincere la Corner a mettere una buona parola con il Doge – con cui lei era in rapporti ottimi – magari Barbarigo avrebbe rivalutato la situazione e avrebbe ancora una volta riaccolto l'incostante Marchese di Mantova come suo paladino.

“Mio signore, l'ospite che attendavate è qui.” annunciò un servo, affacciandosi sulla porta.

“Fatela entrare.” concesse Francesco, cercando di riscuotersi dai suoi tormentati ricordi.

Eppure, mentre Caterina Corner entrava nella stanza del Marchese, illuminata sia dalle candele sia dalla luce ancora tersa della sera d'estate che entrava dalle finestre, l'uomo continuava a rivedere il viso di Isabella, contratto dalla rabbia, mentre lo minacciava di lasciarlo per sempre.

“Non puoi.” aveva detto lui, con semplicità, sperando che mettere una donna pragmatica come sua moglie davanti a quell'ovvietà l'avrebbe placata.

“Posso invece – aveva ribattuto lei, stringendo i pugni – se voglio, me ne andrò e tu non saprai più nulla di me!”

“Marchese...” fece la veneziana, allungando la mano affinché Francesco gliela baciasse: “Che emozione... L'eroe di Fornovo!”

Mentre si piegava a quell'esigenza dell'etichetta con un sorriso di rappresentanza, Gonzaga guardò la donna che gli stava di fronte con lo stesso occhio critico che usava quando si sceglieva un'amante. Aveva passato i quaranta e i suoi lineamenti stavano un po' cedendo al peso del tempo, però nella sua postura e nei suoi capelli chiari e ben acconciati si respirava ancora benissimo l'aura che la Corner doveva aver portato con sé da giovane.

Malgrado la gradevole visione, però, la mente del Marchese stava ritornando ancora una volta a quell'ultima discussione. Senza sapere come, lui e Isabella avevano iniziato a parlare di figli, fino a rinfacciarsi il fatto che in tutti quegli anni di matrimonio non fossero ancora riusciti a concepire un maschio.

“Se solo passassi meno tempo tra le gonne delle tue amanti..!” aveva esclamato Isabella, sollevando le sopracciglia con tono eloquente.

“Da che mondo è mondo, è colpa della donna, se non nasce un maschio!” aveva contrattaccato lui, sentendosi incredibilmente simile a suo suocero, nel fare certi discorsi.

“Non lo credo davvero!” aveva ribattuto Isabella, fissandolo con aria di sfida.

“Stai allora dicendo che sarebbe colpa mia se mi date solo figlie femmine deboli o addirittura morte?!” si era acceso Francesco, rievocando in modo molto bieco lo spettro della loro bambina morta in fasce.

A quel punto il viso di Isabella s'era fatto di cenere e pietra e la sua voce era diventata una scheggia di ghiaccio: “Si raccoglie ciò che si semina.”

“Vi vedo pensieroso.” fece Caterina, sedendosi e facendo cenno all'uomo di fare altrettanto: “Patite per amore?”

Con quel semplice gesto, l'ex regina di Cipro aveva ristabilito in un attimo gli equilibri, facendo capire al mantovano chi era più alto in grado.

Convinto che con una persona apparentemente tanto perspicace come la Corner fosse necessario dimostrarsi schietti, Gonzaga si massaggiò la fronte e cominciò il suo discorso in un modo totalmente diverso da quello pensato all'inizio: “Ho bisogno del vostro aiuto, perché mi son cacciato in un guaio che mi sta portando anche ad aver mia moglie come prima nemica...”

 

Dopo cena, la famiglia si era riunita nella sala delle letture, dove Sforzino si era esibito, un po' riluttante, nella lettura di un pezzo di poema che aveva studiato quel giorno con il suo precettore e poi Bianca aveva cantato un paio di canzoni, proprio come faceva a suo tempo sua zia.

Giovanni aveva ascoltato entrambi i figli della moglie ed era stato quello, tra i presenti, ad applaudire più forte, quando avevano finito.

Malgrado, però, fosse apparso allegro per tutto il tempo, in realtà il Medici non aveva fatto altro che tenere d'occhio Caterina.

Quel giorno gli sembrava strana. Aveva qualcosa di diverso ed era ancor più pensierosa del solito.

Anche se pure lei aveva espresso la sua soddisfazione per le dimostrazioni di bravura di Sforzino e Bianca, era chiaro che la sua mente fosse immersa in tutt'altro.

Da un lato Giovanni si chiedeva se fosse per via del silenzio protratto di Simone, che non aveva ancora scritto, come invece lui si sarebbe aspettato.

Dall'altro si era reso conto che si stava avvicinando una brutta ricorrenza, per la Tigre di Forlì. Un paio di giorni dopo, infatti, sarebbe ricorso il secondo anniversario della morte di Giacomo.

Quando lo spettacolino serale fu terminato, la Sforza si congedò dai figli e disse a Giovanni di anticiparla in stanza. Benché si chiedesse il perché di quella richiesta, l'uomo eseguì senza fare domande.

“Bianca, puoi seguirmi un momento?” chiese la Contessa, raggiungendo la figlia.

Un po' tesa, com'era sempre, quando la madre le voleva parlare, la ragazzina tornò con lei nella sala delle letture e attese con ansia di sapere il motivo di quella convocazione.

“Ho visto il ricamo che hai fatto sulla giacchetta di Bernardino.” disse la Tigre, senza particolari intonazioni.

Bastò quella frase per agitare Bianca, che, diventando ancor più pallida del suo solito, si torse le mani l'una nell'altra, abbassando gli occhi blu scuro e scusandosi: “Lo so che non dovevo, ma me l'ha chiesto... Non sapevo che cosa ricamare... Messer Giacomo non aveva uno stemma e io...”

“Io non ti sto rimproverando.” fece Caterina, mortificata e attonita allo stesso tempo.

Non avrebbe mai creduto di scatenare quella reazione spaventata nella figlia. Le prese con decisione le mani, impedendole di continuare a tormentarsele e la invogliò a sollevare lo sguardo.

Quando finalmente la ragazzina riuscì a sostenere i suoi occhi, la Contessa riprese: “Volevo solo dirti che hai fatto un ottimo lavoro di ricamo.”

Bianca non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo e poi accennò anche un sorriso: “Davvero?”

“Sì.” confermò la madre, stringendo un po' di più le sue mani attorno a quelle della figlia, che si erano fatte gelide per l'agitazione: “Hai uno stile di ricamo molto leggero ed elegante. Sei veramente brava.”

Non abituata a sentirsi rivolgere certo complimenti, la ragazzina fece una mezza riverenza, facendo scivolare via le dita da quelle della Contessa e poi, senza sapere nemmeno lei perché, cercò di scappare da quella situazione che la stava mettendo un po' in imbarazzo dicendo: “Se permettete, Bernardino a volte mi chiede di leggergli qualcosa, prima di dormire...”

“Per quello ci sono le balie.” le ricordò la Leonessa, riacquistando senza volere il suo consueto tono brusco.

Bianca alzò un po' una spalla: “A me non dà alcun incomodo.”

“E allora non ci vedo nulla di male.” cercò di riparare Caterina e per la prima volta da tanto tempo, madre e figlia si scambiarono un sorriso che riusciva a parlare meglio di quanto non sapessero fare loro.

 

“Preparate tutto quanto.” stava dicendo Pandolfo, indicando i bauli ai servi che il Doge aveva lasciato al suo servizio.

“Che succede?” chiese Violante, arrivandogli alle spalle.

“Torniamo a Rimini.” rispose il marito, voltando appena il viso, tanto da permetterle di vedere il profilo affilato del suo lungo naso.

“Ah...” fece la donna, fissando impotente la servitù che cominciava a sistemare le loro cose.

Siccome il Malatesta stava per andarsene di nuovo senza dire altro, la donna lo inseguì fin fuori dalla stanza.

Il palazzo in cui erano alloggiati era tranquillo e in quella notte di fine agosto sembrava quasi un posto incantato.

Visto che Pandolfo passava gran parte delle sue giornate a fare bagordi con dei veneziani che riteneva amici e le notti a fare altrettanto con le cortigiane e le schiave che gli venivano offerte o che comprava di tasca propria, Violante aveva assaporato in quelle settimane una certa libertà.

La sfruttava per fare cose banali, per prendersi i suoi spazi e, soprattutto, per sfuggire la compagnia del marito.

“Come mai stiamo ripartendo?” chiese a Pandolfo, quando riuscì a farlo fermare.

Buttando gli occhi al cielo, l'uomo si passò una mano tra i lunghi capelli neri e poi sbuffò: “Stupida donna...”

In altri momenti Violante l'avrebbe affrontato, intimandogli di non apostrofarla mai più a quel modo, ma in quel momento le premeva solo avere risposte e dunque non voleva farlo arrabbiare.

“Il Doge ti ha dato ordine di...” iniziò a dire la donna, ma il marito la fece tacere alzando una mano in aria, come per mandarla a quel paese.

“Nessuno mi può ordinare niente!” esclamò, sporgendo in fuori le labbra sottili e passandosi indice e medio sulla seta del suo giustacuore: “Il Doge ha finalmente capito quel che andava fatto e mi ha rinnovato la condotta. Quattrocento cavalli. E mi ha anche evitato l'obbligo di rassegna.”

Violante assorbì da quelle informazioni molto più di quanto il marito non credesse e poi fece solo un cenno con il capo, prima di dire: “Bene, allora torniamo a Rimini.”

 

Simone lesse con attenzione quello che Lorenzo Medici gli aveva scritto e si chiese perché Giovanni non lo avesse avvertito per tempo.

Fino a quel momento nessuno si era preso il disturbo di dirgli che un suo parente era stato giustiziato, tanto meno che a Firenze era scoppiata la peste.

Si mise subito alla scrivania, sotto la luce delle candele, e iniziò immediatamente una missiva da consegnare alla Contessa Sforza.

Voleva prendere le distanze da quanto fatto da Niccolò Ridolfi e spiegare che non sapeva assolutamente nulla di quello che lui e gli altri giustiziati avevano combinato per finire con la testa recisa dal busto.

Lorenzo gli aveva scritto che non gli aveva fatto sapere nulla prima, perché voleva essere certo che Niccolò venisse giudicato colpevole, prima di allarmarlo, però a Simone quella reticenza non era piaciuta comunque....

“Sei ancora sveglio?” chiese Lucrezia Feo, entrando nella stanza del marito.

Ridolfi annuì appena, firmando la missiva che aveva appena terminato e poi la guardò. Sua moglie indossava un abito scuro bellissimo, che donava alle sue forme una gentilezza che a volte non avevano.

La bellezza prorompente di Lucrezia, a tratti, era quasi volgare, ma c'erano momenti, come quello, in cui a suo marito sembrava quasi una figura angelica.

“A chi scrivi?” chiese la donna, mettendosi sul divanetto vicino alla finestra, per togliersi la rete dai capelli scuri e prepararsi per la notte.

“Alla Sforza.” rispose laconico Simone, iniziando a piegare la pagina in quattro per chiudere il messaggio.

Lucrezia non fece altre domande, ma il marito si ricordò della solenne promessa che si erano scambiati e così, con un sospiro pesante, le spiegò quel che era successo.

“Dovresti andare da lei anche di persona, per spiegarle quello che hai spiegato a me.” disse la Feo, alzandosi e mettendosi alle sue spalle: “Le parole di una lettera non sono mai convincenti come quelle che escono dalle tue labbra. Non sei bravo, a scrivere.”

Ridolfi si lasciò andare a un mezzo sospiro di abbattimento, mentre Lucrezia cominciava a massaggiargli le spalle.

“Sei stata da Tommaso?” le chiese.

In realtà non voleva sapere dov'era stata. Da quando si erano giurati di non avere alcun segreto, sua moglie gli parlava a volte e senza pudori degli incontri con i suoi amanti.

Simone sopportava, sapendo benissimo che per Lucrezia il loro era solo un matrimonio di convenienza, così come lo era stato per lui all'inizio, e a volte riusciva anche a fare dello spirito su certi aneddoti.

La ripagava allo stesso modo, andando nei bordelli di Imola, dove ormai tutti lo conoscevano, ma non traeva più la stessa soddisfazione, da quegli incontri fugaci. Più passava il tempo, più si rendeva conto di stare bene solo quando era con Lucrezia.

“Sì, sono stata da Tommaso.” rispose la donna, sollevando le sopracciglia e stringendo le labbra, quasi contrariata.

Lasciò le spalle del marito, dopo un'ultima carezza, e si andò a sedere sul letto, le braccia incrociate e l'espressione abbattuta.

“Come sta?” provò a dire Simone, restandosene alla scrivania.

“Sta diventando un fantasma.” disse Lucrezia, sconfortata: “Si occupa degli affari del Bosco, ma è molto giù di morale.”

Seguì un breve silenzio, e Ridolfi finì di chiudere il suo messaggio, mentre la moglie si passava pensierosa le mani sulle ginocchia.

“Sai domani che giorno è?” chiese dopo un po' Lucrezia.

Il marito ci pensò e stava per rispondere con la data, quando si rese conto di cosa intendesse la moglie: il giorno seguente sarebbe stato l'anniversario della morte di Giacomo.

“Sì, so che giorno è.” fece allora l'uomo, alzandosi e andando finalmente a sedersi accanto alla moglie.

“Ecco, Tommaso non si dà pace.” spiegò Lucrezia.

“E tu?” chiese Simone, scostando una ciocca di capelli neri dal viso della moglie.

La donna sollevò le spalle: “Io e Giacomo eravamo quasi degli estranei.” fece un'espirazione fonda, una sorta di stacco per lasciar intendere il suo desiderio di cambiare argomento, e poi disse: “Tu, piuttosto, quando andrai a Forlì a spiegarti con la Sforza, stacci attento.”

Simone annuì e poi, cercando di liberare un po' la mente dagli impegni che lo stavano attanagliando, si avvicinò ancor di più alla moglie e la baciò.

Aggrappandosi all'ampia schiena muscolosa del marito, Lucrezia rispose al suo bacio e poi, ridendo, gli chiese: “Questa sera non esci?”

“Questa sera resto con te.” sussurrò lui, infilando una mano sotto le gonne della moglie: “Neppure se mi portassero via con la forza...”

La donna rise ancora e, mentre Simone la faceva stendere, si trovò a pensare che non era poi così male, essere la moglie del Governatore di Imola.

 
   
 
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