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Autore: Adeia Di Elferas    24/12/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni sospirò, mentre si svegliava lentamente, voltandosi sul fianco. Allungò un braccio, per cercare la moglie, ma trovò solo il lenzuolo stropicciato.

Accigliandosi, si mise seduto e sbatté un paio di volte le palpebre. Il sole era già alto, ma non doveva essere molto tardi. Caterina non era in camera e a un secondo tocco il Medici si accorse che la sua parte del letto era fredda, quindi doveva essersene andata da un po'.

Buttò le gambe oltre il bordo del materasso e il pavimento di pietra freddo contro la pianta dei piedi lo fece rabbrividire.

Mosse con cautela le articolazioni dal ginocchio in giù e le trovò sempre più rigide. Anche se non aveva particolari dolori, quella difficoltà di movimento stava rendendo la sua claudicanza impossibile da mascherare.

Stancamente, chiedendosi come facesse a fare così caldo già a quell'ora, si tirò su e cominciò a vestirsi poco per volta, prendendosi i suoi tempi. Se si muoveva con cautela, gli sembrava di riuscire a gestire meglio la rigidità delle sue gambe.

Quando fu pronto, con addosso abiti leggeri, uscì dalla camera e andò a cercare Caterina. Lo fece con discrezione, ma quando, dopo aver vagato per tutta la rocca, fu stufo di camminare, preferì chiedere a qualcuno.

Anche se i suoi dolori non lo stavano tormentando in modo particolare, preferiva evitare lo sforzo inutile di andare in città, se per caso la Tigre era a Ravaldino e lui non l'aveva incrociata per puro caso.

“Avete visto mia moglie?” chiese, senza ragionare troppo sulla scelta delle parole, quando si imbatté nel castellano.

Cesare Feo restò un momento in silenzio, nel sentire il fiorentino riferirsi alla Contessa in quei termini, ma in fondo sapeva benissimo cosa li univa e quindi dopo quell'attimo di smarrimento, rispose: “Sì, sì, certo... È uscita a caccia questa mattina, poco prima dell'alba... Non ve l'ha detto?”

Il Popolano registrò la notizia e, notando in modo spiacevole l'occhiata che il castellano gli stava dedicando, rispose, fingendo di essersene ricordato solo in quel momento: “Ah, sì, sì, certo...”

Cesare Feo lo salutò con un cenno del capo e proseguì per la sua strada, mentre Giovanni si sedette su una delle panche del loggiato.

Caterina non era estranea a quelle decisioni repentine, e anche andare nei boschi da sola non era una cosa fuori dal comune, per lei.

Tuttavia, il Medici non poteva dimenticare che quel giorno ricorreva il secondo anniversario della morte di Giacomo Feo. E nemmeno che Caterina portava in grembo il loro bambino.

Se per caso avesse commesso qualche sciocchezza, a caccia, o anche solo qualche leggerezza, mettendosi a sfidare qualche bestia più feroce di lei...

Scuotendo il capo con forza, il Popolano si rimise in piedi e decise di sviare la mente lavorando a qualcosa. Benché non avesse alcuna intenzione di passare del tempo con il castellano che, con i suoi occhi scuri lo aveva tacitamente deriso, fissandolo come a dirgli che finalmente si rendeva conto di che significava essere il marito di una donna come la Sforza, andò nello studiolo e gli chiese di dargli qualche registro da controllare.

 

Caterina accarezzava in silenzio il collo setoso del suo purosangue. Quel mattino, molto presto, si era spinta fino ai prati di Cassirano, vicino al confine con Faenza, ed era ancora lì.

Anche se davanti a sé vedeva il verde prepotente della natura e sentiva sul suo viso il sole cocente d'agosto, la Contessa non riusciva a fare altro che tuffarsi nei ricordi.

Come aveva fatto già troppe volte, stava ripercorrendo il giorno che le aveva strappato Giacomo e più ci ripensava, più non si dava pace.

Il suo amatissimo secondo marito le aveva sempre detto di non fidarsi di Ottaviano. L'aveva capito subito che era pericoloso e non solo un incomodo.

Però Caterina non poteva accettare l'idea che suo figlio fosse realmente in grado di fare del male al suo Giacomo, e così aveva scartato sempre l'idea, salvo poi trovarsi dinnanzi al fatto compiuto.

L'aria pesante di umidità e calore che si sollevava a zaffate da terra le si infilò nelle narici, facendole sentire con arroganza la forza della vita.

Chiuse un momento gli occhi, tornando a sentire il sole su di sé e accorgendosi per la prima volta da ore di avere sete.

Prese dalla sella la fiasca che aveva portato con sé e bevve qualche sorso d'acqua. Quando ebbe soddisfatto quel bisogno primario, i suoi occhi tornarono sul panorama di Cassirano e quella volta fu davvero troppo.

Ricordava l'ultimo bacio che lei e Giacomo si erano scambiati e poi il tragitto verso casa. L'aveva lasciato solo, permettendogli di restare in fondo alla fila, assecondando la richiesta di Bianca che l'aveva voluta accanto a sé, pregandola di restare sul carretto con lei, invece che montare il suo cavallo.

Caterina strinse il pugno e i denti, mentre la consapevolezza che anche sua figlia fosse stata complice tornava nel suo animo.

Aveva deciso di dimenticarlo, di non includerla mai nell'elenco di quelli che avevano complottato contro Giacomo, ma la verità era che, o per ingenuità o per volontà, anche Bianca era stata complice.

Con rabbia, tirando repentinamente di lato le redini, indusse il suo purosangue a rimettersi in marcia, prima a passo vivace e poi correndo sempre più forte.

Non badò a dove stesse andando, stringendosi al collo della bestia e lasciando che fosse il suo istinto a guidare entrambi da qualche parte.

Quando il purosangue fu troppo stanco e sudato per continuare la cavalcata, la Sforza lo fece fermare e smontò di sella.

Erano in mezzo alla vegetazione, ma la donna, che in quegli anni aveva battuto palmo a palmo tutte le aree verdi che sorgevano attorno a Forlì, aveva capito dove si trovavano. Così legò il cavallo a un tronco e poi, preso l'arco e la faretra, si inoltrò nella vegetazione in cerca di una piccola preda da mettere sul fuoco.

Malgrado i pensieri, mezzogiorno era probabilmente passato da poco e il suo stomaco cominciava a brontolare.

 

Il Duomo era mezzo vuoto, come spesso capitava, da quando la Contessa Sforza aveva pubblicamente accusato i suoi preti di non essere servi fedeli né suoi né di Cristo, per via del rifiuto che fecero nel prendersi cura delle spoglie mortali di Girolamo Riario.

Essendo domenica, ed essendo solo, Giovanni aveva pensato di andare a messa proprio lì, per vedere che aria tirava e sentire quel che si diceva.

Restò in disparte, ma, malgrado ciò, in molti lo riconobbero e qualcuno scambiò con lui qualche chiacchiera.

Siccome usciva spesso in città assieme alla moglie, più di un forlivese ormai lo conosceva e così lo trattavano come usavano fare con Caterina. Gli esponevano i loro problemi, lo ringraziavano per eventuali migliorie fatte dalla Contessa, oppure si lamentavano delle soluzioni che ancora non erano state trovate.

“Tutte quelle donnacce...” gli disse un'anziana forlivese, avvicinandolo con circospezione, il capo coperto da un velo nero un po' rovinato e il naso a becco che faceva capolino tra due piccoli occhi chiari: “Io l'ho sempre detto che l'avrebbero guastata, alla fine...”

Il Medici aveva guardato la donna senza capire e così quella, scorgendo nel viso del fiorentino la confusione che l'aveva preso, aveva fatto un respiro profondo e, afferrandolo per un braccio, aveva spiegato: “La Contessa, che Dio l'assista, s'è riempita la rocca di donnacce di strada e le fa lavorare nelle cucine e chissà che altro!”

Finalmente il fiorentino comprese. Era vero, glielo aveva detto la stessa Caterina. Molte delle serve che lavoravano a Ravaldino erano o schiave liberate o ragazze strappate ai postriboli della città.

“Ricordatevi di Maria di Magdala.” fece allora Giovanni, guardando di sottinsù la vecchia con fare eloquente: “E chiedetevi chi ha compreso meglio le scritture, tra voi e la Contessa.”

La donna non parve capire, ma annuì lo stesso e finalmente lasciò il Medici libero di tornare ai suoi pensieri.

In realtà nemmeno a lui aveva fatto piacere, in un primo momento, scoprire la provenienza della maggior parte delle serve di Ravaldino. Così come gli era parso strano il taglio spartano che la Tigre aveva dato alla vita nella rocca.

Una volta aveva anche provato a chiederle come mai in tutta Ravaldino non vi fosse un letto normale, di quelli sul gradino rialzato, con il baldacchino per chiudere fuori il freddo d'inverno.

La Sforza era rimasta molto stupita da quel commento e gli aveva chiesto: “Perché, preferiresti un letto come quelli che dici tu?”

Il modo in cui gli aveva posto la domanda, seriamente stralunato, aveva fatto sì che Giovanni perdesse ogni desiderio di rendere un po' meno rustica la rocca, tanto che aveva ceduto: “No, preferisco anche io questi...”

Siccome i preti stavano cominciando a officiare il rito domenicale, il fiorentino cercò di seguire quel che dicevano, ricacciando indietro tutto quello che riguardava sua moglie e la sua complessa personalità.

Tuttavia, quando notò tra i chierici accanto all'altare anche Cesare, con la sua tonsura perfetta, tutte le belle parole latine spese per lodare Dio persero per lui ogni interesse e la sua mente si concentrò di nuovo su Caterina, con la stessa intensità con cui ci si concentra su un enigma irrisolvibile.

 

La carne della lepre si staccava dall'osso alla perfezione. Caterina assaporò il gusto deciso della piccola bestia che aveva appena cacciato con una soddisfazione inaudita.

Dopo essersi messa in cerca di una preda, le era venuta una grandissima voglia di carne di lepre e la fortuna gliene aveva fatta trovare quasi subito una.

L'aveva centrata in piena testa e poi l'aveva scuoiata in gran fretta, con la pancia che protestava e un desiderio quasi incontrollabile di addentarne le carni.

Aspettare che il fuoco prendesse e che poi la lepre cuocesse era stato quasi intollerabile, ma alla fine il pranzo era pronto e la Contessa aveva potuto placare la fame in pochi minuti.

Quando si sentì sazia, gettò gli ossi in mezzo al prato e trovò un tronco comodo a cui appoggiarsi.

Accarezzò con dolcezza il suo ventre, convinta che quell'improvvisa voglia fosse dovuta al piccolo che portava dentro di sé. Per quanto potesse essere valido come pronostico, la Tigre era certa che il figlio che aveva dentro di sé avrebbe avuto una personalità molto decisa, se era stato capace di guidarla a quel modo, pur essendo ancora tanto piccolo.

Assorta, sempre con una mano sulla pancia, la Leonessa iniziò a fantasticare sul bambino che aveva concepito con Giovanni. Più di tutto, sperava che prendesse da lui il carattere. Più ancora dell'intelligenza, dell'amore per le arti o della bellezza.

Mentre si immaginava il futuro di quel piccolo, maschio o femmina che fosse, le fu fatale ripensare all'attesa di Bernardino. Quando Giacomo aveva saputo di essere in procinto di diventare padre, era stato euforico.

E poi, quando il loro figlio era nato, un po' le circostanze, un po' la paura, aveva fatto prendere a entrambi solo decisioni sbagliate.

Sentendosi improvvisamente nauseata da tutto il verde che la circondava e dall'odore opprimente della terra calda e umida, Caterina si alzò di scatto e tornò al cavallo, pronta a vagare ancora per qualche ora, prima di tornare a casa.

 

“Lo sappiamo tutti che è un animo inquieto.” stava dicendo Luffo a Francesco Numai: “So che non a tutti piace l'idea di essere comandati da una donna, ma fino a oggi, quante volte possiamo dire che abbia davvero sbagliato qualche mossa politica?”

“Io dico solo che una nuova leva a tappeto potrebbe essere utile, certo, ma sarà una spesa per lo Stato e...” ribatté il Capitano, ma la voce gli morì in gola, quando vide arrivare Giovanni.

“Messer Medici...” salutò Luffo, inchinandosi al fiorentino.

Il Popolano gli fece segno di non incomodarsi e poi scambiò un rigido cenno del capo con Francesco, prima di dire: “Di cosa stavate parlando?”

I due Numai si scambiarono un'occhiata rapida, e quando il più vecchio dei due parlò, a Giovanni fu chiaro che in quello scambio silenzioso avessero deciso che era meglio dire la verità, non sapendo quanto l'ambasciatore avesse davvero sentito.

“Stavamo parlando della campagna militare che la Contessa sembra in procinto di iniziare...” disse Luffo, con tono guardingo: “Ci chiedevamo se attaccheremo Rimini presto e, soprattutto, se la spesa per il nuovo reclutamento a tappeto sia sostenibile...”

“I soldati vanno pagati bene, se si vuole che siano fedeli.” fece il Medici, ripetendo quasi alla perfezione una delle cose che sua moglie gli aveva detto mille volte.

“Lo sappiamo benissimo – fece allora Francesco, una mano sull'elsa della spada e un'altra sul fianco coperto dal cinturone di cuoio – anche se trovo che un vero uomo debba essere fedele al suo signore indipendentemente dal danaro.”

“In un mondo ideale, sarebbe come dite voi.” annuì piano Giovanni, che solo pochi mesi addietro avrebbe parlato esattamente come il Capitano.

“In ogni caso – riprese Luffo, visibilmente preoccupato – le paghe che la Contessa ha fissato per i soldati sono davvero alte, e adesso che la popolazione maschile di questo Stato è arruolata per più della sua metà...”

“I soldi li abbiamo.” chiuse in fretta il discorso il Popolano, rendendosi però conto che il ragionamento dei Numai aveva un solido fondamento: “E poi si possono fare mille economie, che la Contessa già fa.”

“Lo sappiamo bene...” fece a quel punto Francesco, distendendosi un po' e permettendosi una breve risata: “Una Sforza che non ha a corte nemmeno un Trinciatore...”

Giovanni si morse il labbro, trovando quel dettaglio meno divertente di quanto non lo trovasse il Capitano, ma alla fine convenne: “La Contessa sta dando prova di grande umiltà, con il suo stile di vita essenziale. I soldi risparmiati in questo modo basteranno per finanziare le truppe. E se non dovessero bastare, state tranquilli che sappiamo dove attingere.”

Prima Luffo e poi anche Francesco chinarono il capo in segno di rispetto e a quel punto il fiorentino decise di chiudere la discussione con un saluto frettoloso.

Quando stava per girare l'angolo, però, li sentì che riprendevano a parlottare e una frase lo colpì più delle altre.

Francesco Numai, infatti, dopo qualche parola che il Medici non era riuscito a cogliere, aveva detto, a mezza bocca: “Ma quali economie... Quella vive così perché le piace, mica perché deve...”

 

Il pomeriggio si stava tingendo di rosso, e Caterina aveva infine deciso di tornare in città.

Era già sera, ma il sole non era ancora tramontato. Era crudele, quanto quel giorno di fine agosto si stesse dimostrando lungo, proprio quando la Sforza avrebbe desiderato di vederlo passare in un lampo.

Passò in mezzo a Forlì scegliendo le strade meno in vista, sperando di non essere fermata da nessuno.

Non portava prede attaccate alla sella e le frecce che aveva portato con sé erano ancora quasi tutte nella faretra. Con la fama di cacciatrice che aveva, sarebbe stato chiaro a chiunque che quella battuta di caccia era stata tale solo di nome.

Si trovò davanti alla chiesa di San Girolamo e, senza nemmeno pensarci, legò il cavallo a uno dei cerchi del muro ed entrò.

L'odore pungente di incenso le riempì i polmoni e solo in quel momento si ricordò della commissione fatta ai preti di quella chiesa, a cui aveva chiesto di celebrare quel giorno almeno tre messe in ricordo di Giacomo.

Non c'era nessuno, però, e come orario era possibile che la terza funzione commissionata fosse finita da poco.

Caterina si trovò a pensare che probabilmente nessuno aveva assistito né a quella né alle altre due.

Se non fosse stato per la paura che provavano verso di lei, i forlivesi – così come gli imolesi – non avrebbero fatto alcunché per ricordare Giacomo.

Stringendosi nelle spalle e vedendo di sfuggita un paio di religiosi che sparivano dietro all'altare con in mano dei candelotti da sostituire, la Sforza andò fino alla pietra tombale del suo secondo marito.

Restò immobile a lungo, senza fare o pensare nulla. Non provò nemmeno a pregare.

Cogliendo di sorpresa perfino se stessa, un impulso improvviso la fece scoppiare di colpo. La rabbia, mescolata alla confusione e al dolore, mossero il suo braccio e le fecero dare un forte pugno alla lastra di marmo dietro cui riposavano i resti mortali di Giacomo.

Non sentì nemmeno la violento dell'impatto contro la pietra. Tutto quello che riuscì a fare da quel momento in poi, fu piangere.

Non si accorse neanche dei preti che le erano passati alle spalle. Erano accorsi, spaventati dal suono sordo e improvviso che era arrivato dalla cappella dei Feo, dove, notoriamente, non andava mai nessuno.

Quando avevano visto chi c'era, si erano affrettati a dileguarsi, per lasciare alla Contessa un po' di privatezza.

Con il fiato spezzato dal pianto, la Tigre si stava maledicendo per la propria debolezza e per la sua incapacità di arrendersi all'evidenza, dopo ben due anni.

Restando accucciata in terra vicino alla lapide del suo Giacomo, la Leonessa attese con pazienza che le lacrime diminuissero, fino ad asciugarsi. Non voleva uscire da quella chiesa con gli occhi arrossati e le guance rigate.

 

“Io proprio non capisco perché vi ostiniate a tenerli tanto corti...” fece Bernardi, prendendo un ricciolo del Medici e studiandolo alla luce calante della sera.

Giovanni era passato davanti alla barberia quasi per caso. Dopo aver badato ad alcuni affari alla rocca, siccome i figli della moglie di domenica non si esercitavano, aveva deciso di tirar sera vagando per Forlì.

Non sapendo dove fosse Caterina, aveva dovuto trovare un modo per placare l'ansia che a tratti lo coglieva. Si fidava ciecamente di lei, ma da quando erano sposati non era mai sparita per così tane ore senza nemmeno fargli sapere che sarebbe stata via per un po'.

“Capelli e barba lunga attirano le pulci e basta.” rispose il fiorentino, sollevando gli occhi chiari al cielo e poi, con un mezzo sorriso aggiunse una costatazione che aveva fatto sua moglie: “E danno maggior presa al nemico.”

Era stato un commento che Caterina aveva fatto una volta che si parlava di Ottaviano e dei suoi capelli lunghi, curati tanto quanto lo erano stati quelli del padre. La Sforza aveva subito criticato quella scelta non tanto per lo stile, quanto per la scarsa utilità in battaglia.

Il Novacula sospirò, chiedendosi perché mai un uomo raffinato come l'ambasciatore di Firenze si ostinasse a girare con un'acconciatura degna di un bracciante, ma, da bravo professionista, si mise a tacere da solo e cominciò a spuntare i ricci del suo cliente.

“La Contessa è più passata qui in barberia?” chiese il Medici, dopo un po'.

Andrea sollevò le spalle e scosse la testa: “No, è da un po' che non la vedo...”

Il Popolano strinse i denti, benché avesse già immaginato in partenza quella risposta, e poi soggiunse: “In effetti ha avuto molte cose di cui occuparsi...”

“Dicono che il signor Conte non si stia dimostrando molto abile con le armi...” fece il barbiere, con tono casuale, ritoccando gli ultimi riccioli di Giovanni, solleticandogli un po' il collo con il metallo freddo dei forbicioni.

“Ha altre doti...” minimizzò il Popolano: “Non tutti siamo nati per tenere la spada in mano.”

“Certo, certo...” convenne il barbiere che, con un'abile mossa, mise via i forbicioni per estrarre il rasoio e iniziare a sbarbare il suo illustre cliente: “Mentre madonna Bianca? In paese la gente comincia a chiedersi quando andrà a Faenza...”

“Suo marito Astorre è ancora un bambino. Sia la Contessa, sia Castagnino ritengono che sia meglio attendere ancora qualche tempo.” ribatté il Medici, che cominciava a infastidirsi per tutte quelle mezze insinuazioni.

“È ammirevole il modo in cui difendete costantemente vostra moglie e i suoi figli.” disse il Novacula, passando la lama del rasoio sulle guance del fiorentino, imponendogli a quel modo di non parlare: “Ma fossi in voi starei attento.”

“E perché mai?” chiese l'ambasciatore, appena il barbiere ebbe sollevato il filo dalla sua pelle.

“Perché per ora Forlì vi ama, ma se resterete un difensore troppo sordo della Contessa, rischierete di legarvi a lei a tal punto che se dovesse fare un altro scivolone – un mezzo sospiro ricordò a Giovanni la sanguinaria vendetta della Tigre contro la nobiltà che l'aveva tradita – allora questa volta anche voi finireste nel gorgo e il popolo si troverebbe a odiarvi.”

Siccome Bernardi gli aveva appena passato il panno imbevuto di essenze sul mento, segno che il suo lavoro era terminato, Giovanni si alzò in fretta dalla sedia e si sentì in dovere di specificare: “Io faccio quel che mi pare, senza bisogno del vostro consiglio, se questo consiglio è evitare di prendere le parti della donna che amo.”

Andrea, colto in fallo, strinse le labbra e poi allargò un po' le braccia, a mo' di scusa. In quel momento il fiorentino capì che il barbiere aveva parlato più per gelosia, che non a ragion veduta e così evitò di riprenderlo ulteriormente.

“Ho sentito che a Firenze c'è la peste...” disse il Novacula, mentre Giovanni cercava i soldi nella scarsella.

“Dio piacendo passerà presto.” ribatté il toscano, senza troppa enfasi.

“Spero che vostro fratello e la vostra famiglia siano tutti in salute.” fece Bernardi, intascando la moneta che il cliente gli aveva porto.

“Sono in campagna – spiegò il Medici – non rischiano il contagio.”

“Chi può, fa bene a scappare.” convenne lo storico, con un sorriso che diede molto fastidio a Giovanni che, tuttavia, salutò con gentilezza il barbiere e uscì dalla bottega con una nuova agitazione nel petto.

 

Dopo cena, Giovanni era andato in camera, sempre più teso. Non era normale che sua moglie non fosse ancora tornata.

Stava misurando ad ampi passi claudicanti la stanza, chiedendosi se fosse il caso di andarla a cercare, e, in tal caso, da dove cominciare, quando la maniglia della porta si abbassò e finalmente Caterina gli si profilò davanti.

Cedendo al sollievo improvviso che provò nel vederla sana e salva, il Popolano le corse incontro e la strinse a sé con forza, quasi togliendole il respiro.

“Avevi paura che non tornassi più?” chiese lei, piatta, benché nelle sue intenzioni quella domanda volesse essere ironica.

“Ero solo un po' in pensiero.” fece lui, staccandosi subito, nell'avvertire la freddezza con cui la moglie aveva accolto il suo abbraccio.

La guardò un momento e, malgrado la luce delle candele fosse abbastanza debole, scorse nei suoi occhi la chiara ombra di un lungo pianto.

“Ti sei fatto tagliare i capelli...” notò la Tigre, passandogli una mano tra i corti ricci castani.

Il Medici annuì e poi osservò la moglie mentre si toglieva il mantello leggero da caccia e si sfilava gli stivali.

La donna sfuggiva il suo sguardo e non diceva nulla. Era chiaro che non avesse alcuna voglia di interagire con lui.

Tuttavia, colpito come sempre dalla sua straordinaria bellezza, così evidente nonostante la stanchezza con cui si muoveva e il modo in cui i capelli biondi e bianchi le si erano arruffati, probabilmente a seguito di una giornata molto difficile, dopo un po' il fiorentino provò a riavvicinarsi a lei.

In un primo momento, Caterina accettò i suoi baci e lo scorrere delle sue mani sulla schiena, ma poi, quando ormai era chiaro che il marito la volesse, lo fece indietreggiare un po' e sussurrò: “No, stasera no.”

Senza pensarci troppo, Giovanni provò di nuovo a sfiorarle il viso con le dita, ma la donna si ritrasse in modo inequivocabile, così, un po' in imbarazzo, l'uomo chiese: “Preferisci che dorma nell'altra stanza, stanotte?”

Vergognandosi, la Tigre arrossì e poi annuì, senza dire nulla.

Il Medici deglutì un paio di volte. Malgrado tutto, non si era aspettato di vederla accettare quella proposta.

Sperando di non infastidirla troppo, le diede un rapido bacio sulla guancia e poi le sfiorò appena il ventre, come a salutare il loro figlio non ancora nato e poi uscì senza dire nulla.

Rimasta finalmente sola, Caterina si stese a letto, ancora con addosso l'abito di quel giorno e, ricominciando a piangere in silenzio, dopo un po' scivolò in un sonno sordo e senza sogni.

 

Giovanni ci mise parecchio ad addormentarsi. Era andato nella stanza che prima era stata di sua moglie e per la prima volta si era trovato a ragionare a fondo su tutti gli uomini che era passati di lì.

Non era una cosa che gli aveva mai dato particolarmente fastidio, ma quella notte gli sembrava che il materasso fosse fatto di spine, se solo provava a pensarci.

Quando alla fine il sonno era arrivato, il Medici aveva tirato dritto fin quasi all'alba senza svegliarsi nemmeno una volta.

E non si sarebbe svegliato tanto presto, se non fosse stato per un paio di colpi alla porta.

“Avanti...” disse, aprendo gli occhi, un po' confuso nel trovarsi in quella camera.

Caterina aprì la porta e la richiuse subito. Nella camera quasi del tutto buia, se non per la parsimoniosa luce del sole che stava per nascere, la Tigre si avvicinò titubante al letto, mentre il marito si puntellava sui gomiti per guardarla meglio.

Restando in silenzio, la donna si tolse l'abito che portava, lasciandolo in terra, e poi, dopo essersi infilata sotto il lenzuolo, si strinse al marito.

Il Medici provò un immediato sollievo, nel sentire il calore della moglie su di sé e, quando si accorse che la donna cercava da lui un conforto che, evidentemente, non era riuscita a trovare da sola, ricambiò l'abbraccio e cominciò a baciarla lentamente, prima sulle labbra, poi sul collo, sul seno e scendendo sempre di più.

Mentre il marito rispondeva così alla sua tacita richiesta, Caterina chiese ancora una volta perdono al suo amato Giacomo, perché ogni volta, per lei, era un po' come tradirlo.

Ma, mentre sentiva la voracità del marito farsi sempre più esigente e avvertiva lei stessa la fame crescere dentro di sé, si disse che essere fedele a un morto non era un mestiere adatto a lei.

E così, abbandonandosi agli assalti di Giovanni, la Tigre provò a dimenticare il dolore e la confusione che aveva provato per tutto il giorno e dopo un po', senza quasi avvedersene, tutto quanto sparì dalla sua mente, tranne la viva e sicura presenza del fiorentino, alla cui schiena Caterina si aggrappava come un naufrago a uno scoglio in mezzo al mare in tempesta.

 
   
 
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