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Autore: Alchimista    25/12/2017    3 recensioni
Shirabu non lo aveva mai detto a nessuno, ma gli spogliatoi avevano in qualche modo il potere di rilassarlo. Tutto pareva restare sigillato al di fuori di essi: la folla che li acclamava, la frenesia del campo, l’agitazione e l’adrenalina della sfida, ogni cosa entrava in pausa per tutto il tempo in cui lui restava negli spogliatoi e il giovane alzatore poteva prendersi qualche istante per pensare in maniera rilassata, senza la pressione del gioco, senza il costante pensiero di dover essere perfetto.
«È ora, Shirabu», si sentì chiamare dal capitano.
No. Aveva bisogno ancora di qualche istante, solo un paio, il tempo necessario a pensare ancora una volta, magari da solo…
«Solo un secondo, vi raggiungo subito».
Quarta soulmate della raccolta | Ushishira | Semiten | IwaOi
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eita Semi, Kenjiro Shirabu, Tendo Satori, Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fate don't know you like I do'
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PairingUshishira | TenSemi |IwaOi

Parte: 8/9.

AvvertimentiSoulmates!AU in cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno. | Angst | Malattia | Non odiatemi troppo | Per le parti in cui saranno coinvolti gli IwaOi è necessario leggere la prima soulmate, che trovate qui.

Alla mia parabatai Luna.

 

Don’t let me be gone.

 

Parte ottava.

 

 

Permisero a Wakatoshi di accompagnare Kenjirou fino all’ingresso della sala operatoria. I due ragazzi non aggiunsero nulla alle parole che s’erano detti e non si salutarono. Tennero gli sguardi fissi l’uno sull’altro per tutto il tempo, anche quando Shirabu abbracciò i suoi genitori e quando ad Ushijima non rimase che guardare il corridoio vuoto che si intravedeva dalla porta a cui era stato fermato anche diverso tempo dopo che Kenjirou era stato portato via.

Il resto della Shiratorizawa era dietro di lui. Come nel giorno in cui Shirabu era stato ricoverato, nessuno aveva davvero pensato che quella mattina ci fosse un altro posto in cui essere. Non s’erano dovuti mettere d’accordo, avevano semplicemente lasciato ognuno la propria stanza con la precisa intenzione di andare in ospedale e l’intima consapevolezza che non sarebbero stati da soli.

Non parlavano. Nessuno provava a dire che sarebbe andato tutto bene - Reon solamente lo aveva fatto, ma s’era rivolto ai genitori di Kenjirou, quindi non contava. Fra di loro c’era un mutuo silenzio, una consapevole e condivisa sensazione che le parole non servissero, che non potessero fare nulla in quel momento. Le presenze bastavano, le presente avevano più significato di qualsiasi altra cosa. Ushijima ascoltava il silenzio alle sue spalle e si sentiva forte.

Yotaro era sceso poco dopo l’arrivo degli altri e si teneva in disparte, approfittando del fatto che nessuno l’aveva ancora notato. Se ne stava seduto e sorrideva, a dispetto della situazione, perché nonostante tutto era fatto in quel modo e ora, più che in qualunque altro momento, gli piaceva pensare che Shirabu aveva tante belle persone al suo fianco, persone che si sarebbero prese cura di lui in qualunque circostanza. Lo invidiava, non aveva remore a pensarlo - o a dirlo; lo invidiava perché quei ragazzi gli stavano accanto con semplicità e a prescindere da ciò che Shirabu pensava di sé. Una volta anche lui aveva avuto delle persone così, prima di restare solo con la musica.

Wakatoshi smise quasi subito di controllare l’orologio perché sapeva che l’operazione avrebbe richiesto molto tempo e che non esisteva un termine prestabilito da attendere, ma la lancetta dei secondi continuava a scandire la sua attesa con un distacco che lo innervosiva.

«Farò una passeggiata», disse, rivolgendosi soprattutto ai genitori del compagno «Ho il cellulare con me, per qualunque evenienza».

Cercò di apparire calmo come sempre, ma il battito del cuore così come i movimenti più rapidi del solito tradivano il suo nervosismo: ora che era rimasto da solo, la paura lo aveva raggiunto. Ushijima aveva scoperto di non aver paura del dolore: lo aveva già provato, sapeva che cosa aspettarsi e per quanto avesse fatto male non sarebbe stata una novità. Ushijima aveva paura di ciò che sarebbe venuto dopo il dolore, perché era sopravvissuto la prima volta, pur desiderando così tanto perdersi nell’incoscienza e ritrovare Shirabu, ovunque fosse, e probabilmente stavolta sarebbe successa la stessa cosa. Si sarebbe salvato, sarebbe sopravvissuto: il legame perfetto non era sufficiente ad ucciderlo.

«Vuoi che ti accompagni, Wakatoshi?» si offrì Tendou - Semi poteva sentire quanto fosse preoccupato: la sua pelle pizzicava come se fosse attraversata da energia cinetica.

Ushijima stette a pensarci per qualche istante, fissando il suo migliore amico senza vederlo davvero; poi negò con la testa. Voleva stare da solo, anche se aveva paura, anche se in questo modo i pensieri non gli avrebbero dato pace. E voleva anche che gli altri stessero vicini a Shirabu, quanto più vicini possibile.

«Sto bene, Satori. Voglio solo camminare un po’».

Tendou non disse nulla e lo osservò lasciare lentamente il corridoio; solo in quel momento vide Yotaro, in disparte.

Ushijima non aveva una meta precisa: la sua connessione con Kenjirou sarebbe stata forte ovunque fosse andato e quindi prese a camminare con lentezza, ciondolando quasi, lungo i corridoi, seguendo di tanto in tanto le linee colorate che, sul pavimento, segnavano i diversi percorsi di emergenza. Salì e scese rampe di scale diverse in diverse ale del grosso ospedale, attraversò qualche piccolo giardino aperto che faceva da connessione fra un reparto e l’altro e si fermò a prendere una bottiglina d’acqua ad un distributore automatico lungo il percorso. Nell’attesa, gli pareva di vedere la propria vita scorrere dall’esterno, senza essere davvero lui a muoverne le fila e tutte le sensazioni di ansia e di paura si mescolavano con uno strano distacco, alla consapevolezza di essere completamente impotente. Pur essendo compagni, gli esseri umani restavano limitati.

Quando si trovò nel reparto di maternità, Wakatoshi aveva già dimenticato gran parte del percorso che aveva fatto. Non aveva mai davvero visitato quel posto e, entrando, fu pervaso da una strana atmosfera, così intensa da sembrare che potesse pizzicargli la pelle. Tendou avrebbe detto che era il miracolo della vita ciò che riempiva l’aria di quei corridoi, anche se Ushijima avrebbe giurato che fosse solo disinfettante e odore di latte materno.

Camminando, si accorse che quel posto, più di qualunque altro avesse visto nell’ospedale, racchiudeva l’ironia più profonda della vita umana: tra quelle mura si consumava una delle gioie più grandi e la disperazione più assoluta ed entrambe erano sensazioni così pure che il ragazzo pensò di essersi avvicinato un po’ di più al mistero che era la conoscenza dell’essere umano.

Si fermò davanti ad una grossa stanza dalle vetrate trasparenti e istintivamente prese a guardare al suo interno, sebbene non fosse la cosa più discreta da fare. Non c’erano molte persone dentro e l’attenzione del ragazzo fu catturata da una donna che, con addosso un camice sterile verdino ed una mascherina, tendeva la mano a qualcosa che Ushijima non riuscì subito ad identificare. Dovette avvicinarsi di più al vetro e guardare bene per capire che quella accanto alla donna era un’incubatrice e che all’interno un bambino che avrebbe potuto avere pochi giorni di vita era ricoperto da tubicini. Il ragazzo non aveva molte conoscenze a riguardo, ma doveva trattarsi di un parto prematuro.

«A guardarlo, non diresti mai quanto è forte».

La voce di un uomo lo raggiunse mentre questi si fermava accanto a lui davanti al vetro. Ushijima si voltò di scatto e pensò di essere stato davvero scortese ad invadere in quel modo la privacy di due sconosciuti.

«Mi spiace, non volevo-».

«Non c’è problema», gli sorrise l’uomo, prima che Wakatoshi potesse finire «Non hai fatto niente di male».

Il ragazzo annuì, prima di tornare a guardare davanti a sé - la donna non pareva essersi accorta di loro.

«Ha bisogno di molte cure», riprese l’uomo, riferendosi al neonato «Ma i medici dicono che migliora giorno dopo giorno. Dopotutto, il suo nome è Katashi».

«Resistenza», sussurrò Ushijima. C’era qualcosa nella voce di quell’uomo che lo agitava: il modo in cui parlava, la fiducia con cui osservava sua moglie e suo figlio, senza mostrare il minimo dubbio che le cose sarebbero andate per il meglio, lo disorientavano. Anche lui era stato così? Non lo ricordava più: ora si sentiva solo stanco e spaventato, come un cane randagio appena cacciato di casa.

«Tu sei qui per far visita a qualcuno? Mi sembri disorientato, se vuoi ti mostro dove andare...».

Wakatoshi lo guardò per qualche istante interdetto, poi scosse la testa.

«Avevo solo bisogno di fare una passeggiata», si scusò «E attraverso il reparto di maternità si può arrivare alla sala della pet therapy», spiegò.

«Sei preoccupato per qualcosa?»

Ushijima deglutì, in difficoltà: non aveva voglia di parlare di Shirabu, di quello che stava succedendo, di come si sentisse - aveva l’impressione che anche solo provare a farlo lo avrebbe messo così a dura prova da rischiare di crollare.

«Scusami», rise l’uomo, guardandolo davvero negli occhi per la prima volta - ora a Wakatoshi non pareva così privo di paura, ma anzi era evidentemente stanco «Dimentico che non tutti sono così disposti a parlare di sé. Ho solo pensato che gli animali potessero essere uno dei migliori rimedi allo stress o al cattivo umore».

Ushijima annuì ancora, senza però aggiungere niente e l’uomo gli sorrise con una gentilezza che il ragazzo non si aspettava.

«Sei bello grosso, forse le persone dimenticano che sei ancora un bambino. Spero che vada tutto per il meglio».

Il capitano della Shiratorizawa lo guardò indossare un camice sterile ed entrare nella stanza delle incubatrici per poi fargli un cenno dall’interno e raggiungere la sua famiglia. Il sorriso che gli aveva rivolto quasi bruciava sulla pelle e Ushijima si allontanò da quel posto in fretta, ferito. C’era una speranza, in quei corridoi, a cui non voleva abbandonarsi del tutto e se ne rendeva conto solo adesso che era da solo, ora che Kenjirou non era accanto a lui: non aveva mai sperato con tutto se stesso, aveva sempre e solo cercato di resistere, di andare avanti, inconsapevole di ciò che lo ricordava. Era come quel bambino che ancora non aveva aperto gli occhi e già lottava. La resistenza era tutto ciò che gli era rimasto e nessuno poteva essere davvero certo che gli sarebbe bastata.

La sala della pet therapy era calma come la ricordava e Ushijima riuscì a riprendere fiato solo una volta che, entrato, riconobbe l’odore degli animali che vi erano ospitati. Quella mattina alcuni bambini erano alle prese con due Terranova, mentre un’anziana donna accarezzava con dolcezza un Collie. In un angolo della sala diverse gabbiette ospitavano dei cuccioli di coniglio e poco lontano un paio di Pastori Tedeschi attendevano le visite giornaliere.

«Oh, Ushijima! Buongiorno!», lo salutò Nyoko, una delle ragazze addette alla cura degli animali «Sei venuto a prendere Kutasagi?».

Ushijima cercò in automatico con lo sguardo il coniglietto beige che la ragazza aveva chiamato Kutasagi - il piccolino se ne stava in un angolo della gabbietta, probabilmente a dormire.

«In realtà no. Shirabu è in sala operatoria», affermò, forse con troppa libertà a giudicare dall’espressione sul volto di Nyoko. Non ci badò. «Mi chiedevo però se potessi comunque stare un po’ con Kuta...».

Non sapeva con precisione per quale motivo cercasse l’animaletto, ma sperava che accarezzarlo e giocare con lui lo avrebbe potuto aiutare a non pensare, almeno per un po’. La ragazza annuì, aprendo la gabbietta e prendendo con cura il cucciolo che, intontito dal sonno, non fece alcuna resistenza.

«Resta pure con lui per tutto il tempo che vuoi, Ushijima», gli disse; Wakatoshi non notò il tono preoccupato e lievemente accondiscendente di Nyoko – uno dei motivi per cui Shirabu piuttosto che scendere nella sala preferiva che fosse qualcuno a portare su il coniglietto – e prese Kutasagi tra le mani, portandoselo in grembo. Si allontanò dalla ragazza, sedendosi su una delle poltrone della stanza e cominciò ad accarezzare il cucciolo con lentezza; il coniglietto non sembrava troppo d’accordo con quella situazione: probabilmente, ora che era completamente sveglio, risentiva del brusco cambiamento d’ambiente e fissava Wakatoshi con un’aria che chiunque avrebbe facilmente definito seccata.

A voler essere sinceri, Ushijima non aveva mai capito davvero quali benefici potesse offrire quella semplice azione. Al di là della piacevole sensazione del pelo morbido a contatto con le sue mani, il ragazzo non trovava alcun sollievo nel guardare il musino per nulla simpatico di quel coniglietto. Shirabu lo aveva scelto, distrattamente, la prima volta che il suo medico curante gli aveva consigliato la pet therapy, al secondo ciclo di chemio; l’alzatore aveva escluso i cani ed aveva puntato su qualcosa di più piccolo e gestibile, per poi guardare le gabbiette nell’angolo e scegliere Kutasagi, senza una vera ragione. Tendou aveva detto che avevano lo stesso cipiglio seccato dal mondo e Goshiki lo aveva trovato adorabile, sebbene il piccolino avesse provato a morderlo non appena il ragazzo lo aveva preso in mano.

Ushijima prese un pezzetto di carota da una bustina e la offrì al coniglietto che prese a sgranocchiarla senza fare troppe cerimonie. Stette a guardarlo, mentre col musetto faceva smorfie di ogni tipo e tremolava tutto nella foga di mangiare quanto più velocemente possibile.

«Guarda che non vado da nessuna parte, non c’è bisogno di affannarsi», sussurrò Ushijima – era la prima volta che si trovava a parlare con Kutasagi: normalmente, non avrebbe trovato senso in una simile azione, sebbene fosse il solo a pensarla in quel modo e persino Shirabu di tanto in tanto indirizzava all’animaletto qualche commento, ma adesso gli era parso naturale e il coniglietto si fermò al suono della sua voce così vicino.

«Sei sorpreso di non vedere la faccia di Shirabu?» gli chiese con una certa serietà, cercando di immaginare a cosa stesse pensando quel cervellino, ma Kutasagi lo fissò ancora solo per qualche istante e poi riprese a mangiare, nuovamente indifferente a ciò che lo circondava.

Ushijima lo accarezzò di nuovo con la mano libera, sebbene avesse imparato che al piccolo non piaceva,  e sospirò, tirando la testa all’indietro e chiudendo gli occhi, appena cosciente del fatto che il coniglietto fosse ancora sulle sue gambe. No, la pet therapy non faceva per lui, ma in quel momento non aveva neanche la forza di alzarsi, quindi stare lì era la sola opzione che gli restava.

«Ushiwaka?».

Wakatoshi riconobbe subito la voce di Yotaro e si mise dritto, vedendolo arrivare verso di lui.

«C’è una poltrona proprio davanti a te», gli disse con tono neutrale, guardandolo mentre gli si sedeva accanto. Per un attimo era stato sul punto di agitarsi, nel vederlo, ma sapeva che non era successo nulla a Kenjirou.

«Ero abbastanza sicuro di trovarti qui», gli disse quello, con un sorriso.

«Davvero?» Ushijima era sinceramente sorpreso.

«Sei sempre tu a scendere per prendere Kutasagi, anche se poi non giochi mai con lui: ho pensato che oggi potesse essere diverso», spiegò Yotaro:  parlare con Wakatoshi gli faceva sempre uno strano effetto – la sua spontaneità e ingenuità, così come la decisione con cui diceva qualunque cosa pensasse a rischio di poter essere frainteso, erano qualità che apprezzava molto e che, in più di un’occasione, gli avevano permesso di aprirsi con lui più che con chiunque altro, incluso Shirabu.

«È sulle tue gambe che sgranocchia qualcosa?» continuò il ragazzo.

«Sì, gli ho dato un pezzetto di carota», spiegò Ushijima, senza aggiungere altro – si rendeva conto, soprattutto con Yotaro, che il suo essere laconico non aiutava a portare avanti una qualunque conversazione, ma allo stesso tempo non aveva alcuna voglia di parlare.

Il ragazzo accanto a lui allungò una mano ad accarezzare il piccoletto, sperando che non lo mordesse come aveva fatto anche con lui la prima volta – per essere un coniglietto della pet therapy, Kutasagi aveva un caratterino niente male – ma il cucciolo non smise di mangiare, lasciandolo fare o forse ignorandolo.

«Sei quello che lo coccola di meno, eppure non sta così calmo neanche con Shirabu», osservò divertito, ma Ushijima non lo stava ascoltando davvero e Yotaro se ne accorse anche senza poterlo vedere.

Cercò una delle sue mani e trovandola libera la strinse fra le sue. La verità era che non sapeva per quale motivo avesse deciso di andarlo a cercare – s’era detto che non voleva lasciare Ushijima da solo in un momento simile e che magari avrebbe potuto gradire la sua compagnia, ma la verità era che quello a non voler restare solo era lui. Improvvisamente, nel corridoio di chirurgia, si era sentito solo come non era stato da anni, da quando aveva perso la vista e con essa tutti i suoi legami. Era tanto tempo che Yotaro non si legava a qualcuno nel modo semplice e naturale con cui s’era legato a Shirabu e quella mattina, nel silenzio dell’attesa, aveva realizzato per la prima volta che esisteva una concreta possibilità per Kenjirou di non uscire vivo da quella storia. La sola idea, s’era accorto, lo terrorizzava e per questo aveva cercato Wakatoshi – poteva essere forte se doveva occuparsi di qualcun altro.

«Sai, andrà bene».

Quelle parole spiazzarono Yotaro. Perché stava per pronunciarle lui, perché era la sua battuta sul copione, ciò che il ruolo di supporto che gli era stato assegnato in quella storia chiedeva che dicesse in un momento del genere. E invece era stato Ushijima a parlare, con una naturalezza che aveva quasi ferito il violinista.

«Come fai a-».

«Non lo so. Non ne sono sicuro, non posso esserne. Ma devo pensare che andrà tutto bene. E dovresti farlo anche tu – lo posso vedere, sai, sul tuo viso, che ti stai lasciando andare alla paura».

Ecco a cosa si riferiva Yotaro quando diceva che la sincerità di Ushijima poteva toccarlo nel profondo. Aveva cinque anni in più di lui e quel ragazzo gli parlava come si parla ad un fratello più piccolo a cui si spiegano con semplicità concetti difficili.

«La musica per me è sempre stato qualcosa di solitario, sai?» Yotaro riprese ad accarezzare Kutasagi conscio dello sguardo di Wakatoshi addosso. «Anche durante gli anni che ho trascorso al conservatorio, anche quando ho suonato in un’orchestra, ho sempre avuto la sensazione che la musica fosse qualcosa di solitario – eravamo io ed il mio violino. Certo, quando frequenti quell’ambiente incontri molta gente che riesce a capire davvero che cosa significhi per te suonare, eppure… eppure non ho mai avuto qualcosa che potessi chiamare gruppo o squadra, qualcuno che ti guardasse le spalle qualunque fosse la circostanza».

Ushijima lo ascoltava parlare, senza interromperlo: aveva capito che aveva bisogno di dire quelle cose e in un momento del genere per lui era più facile stare a sentire qualcuno che esporsi parlando di sé.

«Quando… quando è successo» e il violinista si portò una mano al viso, sfiorando gli occhi ormai liberi delle bende e semplicemente chiusi «Quando è successo, non volevo accettarlo. Non volevo accettare che tutto dovesse cambiare, che non avessi la possibilità di tornare indietro. E ho fatto delle scelte, ho detto delle cose… nessuno è rimasto con me: degli amici che consideravo più cari tutti, uno ad uno, se ne sono andati. Ed io ero così furioso, così dannatamente frustrato che alle volte mi pareva semplicemente di poter esplodere da un momento all’altro. Ho tagliato i ponti con la mia vita passata, ho persino cambiato città. Quando ho visto Shirabu per la prima volta, non avevo una persona con cui parlare da molto tempo».

Yotaro si rimise dritto, smettendo di accarezzare il coniglietto, e pensò che avrebbe potuto star zitto e non continuare, che, per quanto ne avesse bisogno probabilmente, quello non era il migliore dei momenti per aggiungere nuovi pensieri a situazione che stavano affrontando. Ushijima lo guardava in attesa invece e quando questi smise di parlare, strinse un po’ la prese della sua mano che era ancora stretta in una di quelle del ragazzo.

«Ho paura di perderlo», sussurrò allora il violinista, d’un tratto completamente esausto «E tutta la sua squadra è lì e mi sento così sporco, ma invidio il rapporto che avete».

Poi si ritrovò in lacrime: tutti i pensieri che in quei giorni aveva trattenuto, la preoccupazione e l’ansia che lo avevano scovato nei momenti in cui non era impegno a fare qualcosa, ora si scioglievano in quella confessione egoista e sincera. La mano libera di Wakatoshi gli sfiorò la testa con affetto. Doveva essere lui a consolarlo e invece era Ushijima a fargli forza. Che ironia.

«Una delle prime volte che ti ho visto, mi sono chiesto se potessi ancora piangere», sussurrò Ushijima - qualcosa stava cominciando a cambiare, sentiva una strana stanchezza renderlo pesante ed aveva paura di sapere a chi apparteneva realmente «Mi fa piacere sapere che... puoi farlo». Le ultime parole uscirono strozzate dalla sua bocca e Ushijima si piegò in avanti.

«Ushijima? Che succede?»

Le lacrime di Yotaro s’erano fermate, la preoccupazione aveva preso il sopravvento su qualunque altro sentimento potesse provare.

«Portami da Kenjirou… per favore...».

Il violinista cercò di farlo tirare su, avendo cura di spostare velocemente Kutasagi - il coniglietto cercò di scappare, allarmato da quei movimenti improvvisi, ma Nyoko, accortasi della situazione, fu veloce a prenderlo e a rimetterlo nella sua gabbietta.

«Chiamo qualcuno?» chiese poi la ragazza, preoccupata, ma Yotaro scosse la testa.

Prese Ushijima sotto braccio, sperando che se lo avesse sostenuto lui avrebbe potuto fare da guida ad entrambi così che potessero muoversi velocemente. Wakatoshi si sentiva più debole ad ogni passo che faceva e allo stesso tempo la disperazione lo spingeva a muoversi più velocemente, più in fretta. Shirabu stava soffrendo, Shirabu era in difficoltà e lui s’era allontanato. Non importava che potesse sentirlo ugualmente in qualunque posto dell’ospedale fosse, non era al suo fianco, non era quanto più vicino possibile a lui.

Gli istanti che l’ascensore impiegò a raggiungere il primo piano sotto lo zero, dove c’erano le sale operatorie, parvero ad entrambi i ragazzi interminabili. Ushijima, con le spalle contro una delle pareti di metallo, respirava a fatica; Yotaro, con la paura che lo divorava e l’adrenalina che gli scorreva in corpo, tremava d’impazienza e frustrazione. Quando entrarono nel corridoio dove avevano lasciato gli altri il violinista portava completamente il peso del ragazzo.

«Wakatoshi!» esclamarono nello stesso momento i genitori di Shirabu e Tendou, scattando in avanti verso di loro; liberarono Yotaro dal peso di Ushijima e portarono i due ragazzi verso le prime sedie libere.

«Cos’è successo? Kenjirou…?» chiese con apprensione il padre di Shirabu.

Wakatoshi cercò di calmarsi, di respirare a fondo e scacciare il dolore e la preoccupazione per capire che cosa stesse davvero succedendo al compagno: era tutto estremamente confuso e non riusciva a distinguere le emozioni che erano proprie da quelle estranee, portate dal legame. Ma Kenjirou stava soffrendo; sebbene fosse ancora in sala operatoria e sotto anestesia, Ushijima poteva sentire chiaramente che qualcosa non andava.

«Andrà tutto bene», mormorò, gli occhi chiusi e la testa tirata all’indietro «Resisti ancora un po’».

Tremava e per la prima volta appariva a tutti debole ed indifeso come si sentiva. Tendou tornò a sedersi accanto a Semi e questi gli si aggrappò contro con disperazione, ferendolo nel profondo; lo strinse a sé mormorando il motivetto di una ninnananna che improvvisamente gli era tornata in mente e sperando di calmarlo anche solo un po’. Il signor Shirabu, di nuovo con la moglie, non disse più nulla e tornò a fissare la porta come in trance. Taichi fu l’ultimo a staccare gli occhi da Ushijima: come potevano gli altri accontentasi di quelle pochissime informazioni che il capitano aveva dato loro? Come stava Shirabu? Perché Wakatoshi respirava ancora con così tanta fatica e dolore? Che cosa stava davvero succedendo? Le parole del ragazzo non potevano di certo rassicurarlo, perché non erano niente più che vaghe e vuote speranze. E lui era stanco di sperare.

Sporgendosi in avanti, si prese il viso fra le mani: non avrebbe pianto di nuovo, ma era così spossato da aver bisogno di schermare se stesso dagli altri, in un qualunque modo, perché non leggessero la disperazione sul suo volto. Prima che potesse realizzarlo, una delle sue mani aveva lasciato il viso, trascinata in una stretta da quella di Goshiki, seduto accanto a lui. Kawanishi stette a fissare quel gesto per qualche istante: le loro mani non s’erano mai intrecciate in quel modo ed avrebbe giurato che un simile contatto lo avrebbe infastidito, ma non poteva, non in quel momento. In quel momento, per quanto odiasse la propria debolezza e la bontà di Tsutomu, aveva bisogno di quel contatto, del sorriso senza senso che il primino gli stava rivolgendo. Strinse più forte la presa e si arrese, per una volta. Si arrese.

«Ce la farà».

La voce di Ushijima ora era forte, tanto da far voltare tutti verso di lui – pallido, sudato, tremante ancora, il capitano della Shiratorizawa s’era alzato in piedi barcollante. Gli occhi, oh, gli occhi erano quelli che aveva prima di una partita, lo sguardo quello che non perdona gli avversari, il volto serio di quando la squadra entra in campo e il pubblico si zittisce in un istante perché l’ammirazione silenziose è ciò di cui si sono sempre nutriti.

«È di Shirabu Kenjirou che parliamo. Lui ce la farà. Perché è così che fa sempre, lui riesce. E perché ce lo siamo promessi».

E lo sapeva, lo sapeva Ushijima che ciò che aveva detto non aveva senso, che lo stacanovismo di Shirabu non avrebbe potuto salvarlo stavolta, che non dipendeva da lui, ma stava dritto, forte e parlava in quel modo perché ci credeva, perché ci credevano entrambi, perché la loro resistenza doveva pur valere a qualcosa! Perché sapevano che il mondo era ingiusto e che i miracoli non esistevano, ma non avevano smesso di crederci.

«Credi che possa venire ad una delle sue partite, quando tornerà a giocare? Eh, Ushiwaka

Yotaro lo guardava con un grosso sorriso sul viso, ma gli occhi lucidi.

«Non ho mai sentito una partita di pallavolo, deve essere stupenda».

 

Shirabu era stato portato fuori dalla sala operatoria nel pomeriggio. Ushijima era stato male una seconda volta e poi semplicemente s’era addormentato, scivolando nella completa incoscienza; la madre del suo compagno s’era seduta accanto a lui ed aveva ascoltato il suo respiro lento per tutto il tempo, mentre attendeva notizie del figlio e di tanto in tanto Semi o Reon gli si erano avvicinati per controllare che non gli fosse salita la febbre o stesse soffrendo.

Lo avevano svegliato solo quando i medici erano finalmente usciti dalla sala operatoria, ma Ushijima aveva impiegato molto a riprendersi, tanto da farli preoccupare.

«È normale che stia così», aveva detto il chirurgo, avvicinandosi «Kenjirou ha subito un lungo intervento: di solito raccomandiamo ai compagni di dormire per superare lo stress di questo genere di situazioni».

«Kenjirou...», aveva mormorato Wakatoshi, destandosi a quel nome «Come sta?»

«Il peggio è passato», aveva rassicurato tutti il medico «Ha bisogno di molto riposo ora, ma siamo riusciti ad asportare la massa completamente».

Ushijima aveva guardato l’uomo per qualche istante, senza essere certo di aver capito davvero le sue parole. Aveva aperto e chiuso gli occhi velocemente per diverse volte, lasciando che il significato di quella frase riecheggiasse nella sua mente e si sedimentasse diventando vero. Era andato tutto bene. Shirabu stava bene. Shirabu non aveva più il cancro. In quel momento, in quel preciso istante, il suo compagno era vivo e non era più malato.

Quella semplice verità lo aveva scosso nel profondo. Ci aveva sperato, ci aveva sempre e costantemente sperato, eppure… eppure non si era mai davvero preparato per quella eventualità. Non si era mai davvero preparato ad una prospettiva in cui Shirabu sarebbe uscito vivo da quella sala operatoria.

Le lacrime erano scese lungo le guance con semplicità, senza alterare l’espressione del viso, mentre un sorriso stanco si allargava su di esso.

«Grazie», aveva mormorato, prima di lasciarsi andare ad un respiro profondo. Aveva dimenticato come si respirasse davvero.

Yotaro aveva riempito l’attesa nella stanza di Shirabu con il suo violino: i medici avevano detto che potevano volerci anche diverse ore prima che il ragazzo si svegliasse e che comunque non sarebbe stato in grado di conversare con loro più tanto a causa dell’anestesia ancora in circolo, ma nonostante fosse sera ormai nessuno dei ragazzi della Shiratorizawa aveva lasciato l’ospedale, né aveva intenzione di farlo prima di vedere il ragazzo sveglio.

«Quanto credete che ci vorrà?» chiedeva di tanto in tanto Goshiki, in un sussurro, per non disturbare la musica, ma non riceveva mai risposta perché nessuno lo sapeva.

Ushijima, così come i genitori di Shirabu, non aveva fretta. Si limitava a fissare il miracolo che aveva davanti agli occhi, quel petto che lentamente si alzava e si abbassava, privo della malattia, privo dell’alone di morte che lo aveva appesantito in quei mesi, e tanto gli bastava.

«Tendou

Hayato era appena rientrato in camera, portando due bibite ai genitori dell’alzatore; dopo averle consegnate si avvicinò a Satori.

«Probabilmente subirò le conseguenze di questa cosa fino al diploma, ma ho visto Semi in corridoio, mentre tornavo. Non aveva una bella cera».

Satori scattò in piedi - aveva abbassato la guardia e il legame, come sempre, non era stato abbastanza forte da avvisarlo. Che cos’era successo? Cosa gli era sfuggito? Per cosa avrebbe dovuto farsi nuovamente perdonare? In corridoio, ormai, non c’era quasi nessuno - anche loro sarebbero dovuto tornare a casa quanto prima, sebbene gli infermieri avessero chiuso un occhi le volte che erano entrati per controllare Shirabu.

La preoccupazione scavalcò i sensi di colpa e Tendou prese a camminare con passo veloce, cercando il compagno: Hayato aveva detto di averlo visto vicino alle scale, ma ora di lui non c’era traccia. Quell’idiota, pensò il Centrale, doveva essersi trascinato in un luogo più appartato per non essere visto.

Lo trovò in bagno, al piano di sotto. Lo trovò per puro caso, dal momento che la frenesia della ricerca era tanta che a stento aveva guardato in direzione del bagno. Eppure, gli occhi lo avevano individuato in qualche frazione di secondo e tanto era bastato.

«Eita», lo chiamò con una certa urgenza, avvicinandosi. Il ragazzo aveva i capelli bagnati, come se avesse infilato la testa sotto l’acqua, ed il fiato corto.

«Dovremmo smetterla di incontrarci in questo modo: la gente potrebbe cominciare a parlare», riuscì a scherzare Satori, ricordando l’ultima volta che aveva visto Semi in difficoltà, quando gli aveva confessato perché stava tanto male per Shirabu.

«Non è niente», minimizzò Eita, tirando su la testa e lasciando che i capelli gli bagnassero il viso «Sto bene».

«Hai dato di stomaco?» chiese Tendou - oh, a lui davvero non poteva mentire: era diventato bravissimo a capirlo, era il solo modo che aveva per sapere sempre come stava.

Eita schivò il suo sguardo e fece qualche passo avanti, cercando di superare il compagno ed uscire dal bagno, ma Satori lo fermò, prendendolo per un braccio con una forza che il ragazzo non si aspettava. Era una situazione ridicola, ad entrambi sembrava una copia di ciò che avevano già affrontato mesi prima e allo stesso tempo nessuno dei due era cambiato da allora.

«Il peggio è passato», disse Tendou - era ovvio che Semi stesse male per tutta la tensione della giornata.

«Lo so».

«Da ora in poi andrà meglio».

«Lo so».

«Avresti dovuto chiamarmi».

Semi guardò il compagno, entrambe le sopracciglia alzate in un’espressione eloquente. Non lo avrebbe mai fatto, non per parlare di quanto quella giornata e la paura di perdere Shirabu lo avessero provato nel profondo. Non avrebbe detto al suo compagno di come la possibilità di perdere la persona che prima di lui aveva amato lo aveva annichilito e terrorizzato.

Fece per superarlo e stavolta Satori non lo fermò: aveva capito. Ma non appena poté vedere le sue spalle, le avvolse da dietro in un abbraccio, poggiando la testa sulla spalla di Semi e stringendolo. Gli piaceva pensare che il calore del corpo di Semi fosse diverso dagli altri, che il proprio petto potesse riconoscerlo ad istinto, senza aver bisogno di una conferma visiva: era sciocco, ma era una fantasia bellissima.

«Alle volte sei così stupido, SemiSemi», mormorò con dolcezza, senza staccarsi dalla sua spalla, dalla sua schiena. Se fosse stato un altro, Eita avrebbe pianto – sentiva chiaramente tutto l’amore che Satori provava, tutto l’amore che superava qualunque fastidio, qualunque gelosia sciocca il ragazzo avrebbe potuto provare.

Ne avevano discusso diverse volte, da che Semi aveva confessato a Tendou di aver provato qualcosa per Shirabu, di essere stato in qualche modo innamorato di lui. E tutte le volte che l’argomento era saltato fuori, Semi aveva avuto paura di ferirlo, mentre Tendou non avrebbe voluto fare altro che parlarne: per quanto fosse normalmente geloso di chiunque guardasse il suo compagno, Satori aveva capito che con Shirabu era diverso e che il sentimento che ora legava Semi all’alzatore era qualcosa di sedimentato, spento ma presente. Una parte di lui che voleva conoscere, ma di cui Eita non era disposto a parlare.

«Ho avuto così tanta paura», mormorò Semi, aggrappandosi con le proprie mani alle braccia con cui Satori ancora lo stringeva.

«Lo so».

«E ho invidiato così tanto la tua sicurezza».

«Lo so». Satori sospirò «Pensi troppo».

«Tu non pensi affatto», borbottò Eita «Hai sempre saputo che ce l’avrebbe fatta, che sarebbe uscito da quella sala operatoria, mentre io non facevo altro che pensare a cosa avrei fatto quando i medici ci avrebbero detto che non c’era stato niente da fare, che…».

«Ssh», lo zittì Tendou, stringendolo un po’ più forte «Non parlare più, amore mio. Non torturarti in questo modo».

 

Ushijima sentì chiaramente l’istante in cui Shirabu riprese i sensi. Il legame ebbe un guizzo, come una sorgente che improvvisamente riprende a zampillare acqua purissima, e lui lo aveva atteso come un assetato che, in pellegrinaggio, finalmente arriva alla meta e scorge il miracolo.

«Kenjirou», lo chiamò, sussurrando. La squadra era ancora tutta nella stanza e per qualche istante odiò il fatto di non essere solo. Lo avrebbe stretto a sé, lo avrebbe baciato e non lo avrebbe mai più lasciato andare.

Il ragazzo sbatté le palpebre per qualche istante, provando a mettere a fuoco ciò che aveva davanti; poi si voltò ai due lati, guardando prima Ushijima e poi Tendou, che da un po’ era rientrato in stanza con Semi. Restò qualche istante a fissare Wakatoshi con volto serio e occhi sottili e concentrati. Si girò poi di scatto verso Tendou con la più confusa delle espressioni.

«Tendou, perché questo bellissimo ragazzo è accanto a me?» mormorò con la voce ancora impastata dal sonno forzato.

«Kenjirou...».

«Scusami, scusami davvero ma non puoi… cioè, hai delle bellissime braccia, davvero, ma io ho già un compagno e tu non puoi stare qui...».

Satori stava facendo violenza su se stesso per trattenersi dal ridere di fronte a quella scena, perché aveva capito che cosa stava succedendo: l’anestesia dell’operazione doveva essere ancora in circolo, rendendo Shirabu completamente stordito e divertente come non lo era mai stato da che lo conosceva. A saperlo prima, avrebbe trovato un modo per farlo ubriacare una volta ogni tanto. Non si spiegava, però, come mai Ushijima fosse apparentemente il solo che Shirabu non aveva riconosciuto.

Ridacchiando, il Centrale mimò con le labbra al capitano di stare al suo gioco ed estrasse con un sorriso cattivo il cellulare dalla sua tasca, guardando il resto della squadra presente con un sguardo eloquente.

«Hai ragione, Shirabu. Ora faccio uscire subito questo bellissimo ragazzo della tua stanza e vado a chiamare Wakatoshi - deve essere qua fuori», disse, prendendo Ushijima per un braccio e portandolo con sé.

«Ecco sì, fallo», borbottò Kenjirou, cercando di tirarsi su con malagrazia - gli antidolorifici e il residuo dell’anestesia gli rendevano la testa pesante e faticava a coordinare i suoi movimenti anche solo per compiere un’azione tanto semplice.

«Vuoi una mano?» si offrì Goshiki - in quel momento avrebbe fatto di tutto per l’alzatore: vederlo sveglio era una cosa bellissima.

«Credi che mi serva una babysitter, primino? Non mi serve… una… babysitter», biascicò ancora Shirabu, riuscendo alla fine a sedersi in modo abbastanza comodo senza fare danni con i tubicini a cui era ancora collegato.

Nessuno a parte Kawanishi s’era accorto che Tendou era rimasto sulla soglia della porta e stava riprendendo tutto con una delle facce più soddisfatte che avesse mai avuto.

«Oh, eccoti, Wakatoshi!» esclamò ad un tratto Satori, gridando più di quanto fosse necessario per farsi sentire da Shirabu «Ci chiedevamo tutti dove fossi finito!» Sembrava di assistere ad una recita volutamente grottesca.

«Che succede?» mormorò Yotaro, sporgendosi verso Semi che sapeva avere alla sua sinistra - aveva smesso di suonare non appena aveva sentito le voci, ma non gli era del tutto chiara la situazione.

«Shirabu è così stordito da non aver riconosciuto Ushijima. Tendou ne sta approfittando», disse con finto disappunto Semi - non lo avrebbe mai ammesso, ma la cosa era davvero divertente. Kawanishi intanto aveva preso a riprendere la scena da un’angolazione diversa.

«Wakatoshi?» mormorò ancora confuso l’alzatore, quando un Ushijima altrettanto confuso rientrò nella stanza.

«Finalmente ti sei svegliato», disse quello, avvicinandosi e sedendosi di nuovo accanto a lui «Volevo avvisare i tuoi genitori, ma Satori ha detto che sarebbe stato meglio stare con te». Ushijima era ancora troppo serio per riuscire ad avvertire come lo stordimento di Shirabu aveva rilassato il clima della stanza.

«Hai fatto bene». Shirabu provò ad avvicinarsi a lui «Sai», disse poi con tono di voce più basso - e Kawanishi avrebbe giurato che era arrossito «Prima è entrato un ragazzo, me lo sono trovato proprio davanti! E aveva delle braccia e delle spalle bellissime!»

Wakatoshi lo fissava senza davvero capire come avesse fatto a non riconoscerlo la prima volta che lo aveva visto; sentirlo parlare, però, anche se di cose senza senso, era un sollievo e in breve si rilassò.

«Ed io gli ho detto subito di andarsene, perché ho già un compagno, ecco. E poi le tue braccia sono più belle», stava continuando Shirabu, senza avere alcun controllo su ciò che usciva dalla sua bocca. L’intera stanza prese a ridere; Taichi e Tendou si guardavano complici. «Per fortuna Tendou l’ha fatto uscire. Ma io dico, quanta libertà!».

«Già, già», lo assecondò Ushijima, accarezzandogli i capelli «Meno male».

Shirabu parve calmarsi a quel tocco e socchiuse gli occhi come a volersi riaddormentare. Kawanishi era sul punto di fermare la registrazione, soddisfatto dall’avere materiale per tormentare Shirabu fino al loro diploma e il resto della squadra si guardava ridendo, quando Shirabu riprese a parlare.

«Ushijima, Ushijima!» chiamò a voce alta, ma senza riaprire gli occhi «Stanno barando!»

Wakatoshi si sentì nuovamente confuso e cercò il volto di Tendou per capire a cosa si stesse riferendo stavolta il suo compagno, ma il centrale era disorientato quanto lui e scosse la testa senza fermare le riprese - sentiva che stava per venir fuori un altro momento indimenticabile.

«Chi bara, Kenjirou?» chiese il capitano con dolcezza.

«Non possono farlo!» disse ancora Shirabu, senza rispondere «Non è corretto, sicuramente il regolamento non permetterà questa cosa! Perché l’arbitro non li ferma?»

«Cos’è che deve fermare l’arbitro, Shirabu?» insistette Semi dal fondo della stanza dov’era seduto - Yotaro accanto a lui rise per il tono pesantemente accondiscendente che il ragazzo aveva usato.

«Quel- quel- quel mirtillo! Deve essere fermato! I mirtilli non possono giocare a pallavolo! E neanche le carote! Quella carota mozza non può essere così veloce! Stanno barando! I mirtilli e le carote non possono stare in campo!»

Per qualche istante il silenzio pervase la stanza e i ragazzi della Shiratorizawa si guardarono l’un l’altro cercando di capire il senso delle parole che Shirabu aveva appena detto. Yotaro, che sapeva di non avere alcuna possibilità, poteva quasi sentire i loro cervelli affaticarsi a trovare una soluzione e rise di gusto per un’uscita tanto strampalata: se gli avessero detto che Kenjirou sarebbe stato capace di farlo ridere a quel modo non ci avrebbe mai creduto. Pensò che gli sarebbe mancato davvero tanto, una volta che entrambi avrebbero lasciato l’ospedale.

«Ci sono!» esclamò d’un tratto Goshiki, scattando in piedi ed illuminandosi - Tendou fece un primo piano sulla sua faccia soddisfatta, stando attento però a non perdere nessuna delle reazioni di Shirabu «Ti riferisci ai primini della Karasuno! L’alzatore e la piccola esca!»

Pensandoci, i ragazzi capirono facilmente perché erano diventati proprio un mirtillo ed una carota mozza, e la cosa non poté che farli nuovamente ridere. Kenjirou, invece, ora di nuovo dritto e con gli occhi ben aperti, aveva messo uno strano broncio e li fissava tutti con disappunto.

«Non c’è niente da ridere, ragazzi! Non possono usare mirtilli e carote per vincere la partita. Lo sappiamo tutti che la Shiratorizawa è più forte, non possono barare in questo modo».

«In effetti, ha ragione», convenne Ushijima, cercando di tenere un’espressione seria.

«Quindi dobbiamo parlare con l’arbitro, con i giudici! Questa volta...», socchiuse gli occhi, come avesse improvvisamente sonno «Questa volta… non potranno… passarla liscia… quel mirtillo e quella… carota mozza».

«Che cattivi», lo prese in giro Tendou, sghignazzando.

«Tu sai che non appena Shirabu sarà di nuovo in sé ti ammazzerà per averlo ripreso in questo stato, vero?», lo avvisò Semi, incrociando le braccia al petto ma senza riuscire a perdere il sorriso.

«Certo! È per questo che lo sta riprendendo anche Kawanishi», si difese Satori.

«E cosa, per l’esattezza, ti fa credere che Kawanishi sia al sicuro dalla sua furia?»

Tendou parve pensarci su qualche istante, poi fece spallucce con la sua solita aria divertita.

«Ne sarà valsa comunque la pena», concluse «E ne faremo così tante copie che i nostri nipoti parleranno ancora di quella volta in cui Shirabu minacciò di far cacciare dal campo mirtilli e carote!»

Yotaro, intanto, s’era alzato arrivando vicino al letto di Shirabu e cercando con attenzione una delle sue mani - aveva capito che si stava riaddormentando e, non avrebbe mai pensato di dirlo, la sua voce era davvero dolce in quella generale confusione.

«Mamma?» mormorò nel sonno Shirabu, sentendo il tocco ma con gli occhi già nuovamente chiusi.

«Riposa», sussurrò Yotaro, calandosi fino a trovare il suo viso e lasciandogli un bacio leggero sulla guancia.

 

 

 

 

 

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Buone feste e a presto, col finale!

   
 
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