Pairing: Ushishira
| TenSemi |IwaOi
Parte: 8/9.
Avvertimenti: Soulmates!AU in
cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno.
| Angst | Malattia | Non odiatemi troppo | Per
le parti in cui saranno coinvolti gli IwaOi è
necessario leggere la prima soulmate, che trovate qui.
Alla
mia parabatai Luna.
Don’t
let me be gone.
Parte ottava.
Permisero a Wakatoshi
di accompagnare Kenjirou fino all’ingresso della sala
operatoria. I due ragazzi non aggiunsero nulla alle parole che s’erano detti e
non si salutarono. Tennero gli sguardi fissi l’uno sull’altro per tutto il
tempo, anche quando Shirabu abbracciò i suoi genitori
e quando ad Ushijima non rimase che guardare il
corridoio vuoto che si intravedeva dalla porta a cui era stato fermato anche
diverso tempo dopo che Kenjirou era stato portato
via.
Il resto della Shiratorizawa
era dietro di lui. Come nel giorno in cui Shirabu era
stato ricoverato, nessuno aveva davvero pensato che quella mattina ci fosse un
altro posto in cui essere. Non s’erano dovuti mettere d’accordo, avevano
semplicemente lasciato ognuno la propria stanza con la precisa intenzione di
andare in ospedale e l’intima consapevolezza che non sarebbero stati da soli.
Non parlavano. Nessuno provava a dire che
sarebbe andato tutto bene - Reon solamente lo aveva
fatto, ma s’era rivolto ai genitori di Kenjirou,
quindi non contava. Fra di loro c’era un mutuo silenzio, una consapevole e
condivisa sensazione che le parole non servissero, che non potessero fare nulla
in quel momento. Le presenze bastavano, le presente avevano più significato di
qualsiasi altra cosa. Ushijima ascoltava il silenzio
alle sue spalle e si sentiva forte.
Yotaro era sceso poco dopo l’arrivo degli altri
e si teneva in disparte, approfittando del fatto che nessuno l’aveva ancora
notato. Se ne stava seduto e sorrideva, a dispetto della situazione, perché
nonostante tutto era fatto in quel modo e ora, più che in qualunque altro
momento, gli piaceva pensare che Shirabu aveva tante
belle persone al suo fianco, persone che si sarebbero prese cura di lui in
qualunque circostanza. Lo invidiava, non aveva remore a pensarlo - o a dirlo;
lo invidiava perché quei ragazzi gli stavano accanto con semplicità e a
prescindere da ciò che Shirabu pensava di sé. Una
volta anche lui aveva avuto delle persone così, prima di restare solo con la musica.
Wakatoshi smise quasi subito di controllare
l’orologio perché sapeva che l’operazione avrebbe richiesto molto tempo e che
non esisteva un termine prestabilito da attendere, ma la lancetta dei secondi
continuava a scandire la sua attesa con un distacco che lo innervosiva.
«Farò una passeggiata», disse,
rivolgendosi soprattutto ai genitori del compagno «Ho il cellulare con me, per
qualunque evenienza».
Cercò di apparire calmo come sempre, ma il
battito del cuore così come i movimenti più rapidi del solito tradivano il suo
nervosismo: ora che era rimasto da solo, la paura lo aveva raggiunto. Ushijima aveva scoperto di non aver paura del dolore: lo
aveva già provato, sapeva che cosa aspettarsi e per quanto avesse fatto male
non sarebbe stata una novità. Ushijima aveva paura di
ciò che sarebbe venuto dopo il dolore, perché era sopravvissuto la prima volta,
pur desiderando così tanto perdersi nell’incoscienza e ritrovare Shirabu, ovunque fosse, e probabilmente stavolta sarebbe
successa la stessa cosa. Si sarebbe salvato, sarebbe sopravvissuto: il legame
perfetto non era sufficiente ad ucciderlo.
«Vuoi che ti accompagni, Wakatoshi?» si offrì Tendou -
Semi poteva sentire quanto fosse preoccupato: la sua pelle pizzicava come se
fosse attraversata da energia cinetica.
Ushijima stette a pensarci per qualche istante,
fissando il suo migliore amico senza vederlo davvero; poi negò con la testa.
Voleva stare da solo, anche se aveva paura, anche se in questo modo i pensieri
non gli avrebbero dato pace. E voleva anche che gli altri stessero vicini a Shirabu, quanto più vicini possibile.
«Sto bene, Satori.
Voglio solo camminare un po’».
Tendou non disse nulla e lo osservò lasciare
lentamente il corridoio; solo in quel momento vide Yotaro,
in disparte.
Ushijima non aveva una meta precisa: la sua
connessione con Kenjirou sarebbe stata forte ovunque
fosse andato e quindi prese a camminare con lentezza, ciondolando quasi, lungo
i corridoi, seguendo di tanto in tanto le linee colorate che, sul pavimento,
segnavano i diversi percorsi di emergenza. Salì e scese rampe di scale diverse
in diverse ale del grosso ospedale, attraversò
qualche piccolo giardino aperto che faceva da connessione fra un reparto e
l’altro e si fermò a prendere una bottiglina d’acqua ad un distributore automatico
lungo il percorso. Nell’attesa, gli pareva di vedere la propria vita scorrere
dall’esterno, senza essere davvero lui a muoverne le fila e tutte le sensazioni
di ansia e di paura si mescolavano con uno strano distacco, alla consapevolezza
di essere completamente impotente. Pur essendo compagni, gli esseri
umani restavano limitati.
Quando si trovò nel reparto di maternità, Wakatoshi aveva già dimenticato gran parte del percorso che
aveva fatto. Non aveva mai davvero visitato quel posto e, entrando, fu pervaso
da una strana atmosfera, così intensa da sembrare che potesse pizzicargli la
pelle. Tendou avrebbe detto che era il miracolo della
vita ciò che riempiva l’aria di quei corridoi, anche se Ushijima
avrebbe giurato che fosse solo disinfettante e odore di latte materno.
Camminando, si accorse che quel posto, più
di qualunque altro avesse visto nell’ospedale, racchiudeva l’ironia più
profonda della vita umana: tra quelle mura si consumava una delle gioie più
grandi e la disperazione più assoluta ed entrambe erano sensazioni così pure
che il ragazzo pensò di essersi avvicinato un po’ di più al mistero che era la
conoscenza dell’essere umano.
Si fermò davanti ad una grossa stanza
dalle vetrate trasparenti e istintivamente prese a guardare al suo interno,
sebbene non fosse la cosa più discreta da fare. Non c’erano molte persone
dentro e l’attenzione del ragazzo fu catturata da una donna che, con addosso un
camice sterile verdino ed una mascherina, tendeva la mano a qualcosa che Ushijima non riuscì subito ad identificare. Dovette
avvicinarsi di più al vetro e guardare bene per capire che quella accanto alla
donna era un’incubatrice e che all’interno un bambino che avrebbe potuto avere
pochi giorni di vita era ricoperto da tubicini. Il ragazzo non aveva molte conoscenze
a riguardo, ma doveva trattarsi di un parto prematuro.
«A guardarlo, non diresti mai quanto è
forte».
La voce di un uomo lo raggiunse mentre
questi si fermava accanto a lui davanti al vetro. Ushijima
si voltò di scatto e pensò di essere stato davvero scortese ad invadere in quel
modo la privacy di due sconosciuti.
«Mi spiace, non volevo-».
«Non c’è problema», gli sorrise l’uomo,
prima che Wakatoshi potesse finire «Non hai fatto
niente di male».
Il ragazzo annuì, prima di tornare a
guardare davanti a sé - la donna non pareva essersi accorta di loro.
«Ha bisogno di molte cure», riprese
l’uomo, riferendosi al neonato «Ma i medici dicono che migliora giorno dopo
giorno. Dopotutto, il suo nome è Katashi».
«Resistenza», sussurrò Ushijima.
C’era qualcosa nella voce di quell’uomo che lo agitava: il modo in cui parlava,
la fiducia con cui osservava sua moglie e suo figlio, senza mostrare il minimo
dubbio che le cose sarebbero andate per il meglio, lo disorientavano. Anche lui
era stato così? Non lo ricordava più: ora si sentiva solo stanco e spaventato,
come un cane randagio appena cacciato di casa.
«Tu sei qui per far visita a qualcuno? Mi
sembri disorientato, se vuoi ti mostro dove andare...».
Wakatoshi lo guardò per qualche istante interdetto,
poi scosse la testa.
«Avevo solo bisogno di fare una
passeggiata», si scusò «E attraverso il reparto di maternità si può arrivare
alla sala della pet therapy»,
spiegò.
«Sei preoccupato per qualcosa?»
Ushijima deglutì, in difficoltà: non aveva voglia
di parlare di Shirabu, di quello che stava
succedendo, di come si sentisse - aveva l’impressione che anche solo provare a
farlo lo avrebbe messo così a dura prova da rischiare di crollare.
«Scusami», rise l’uomo, guardandolo
davvero negli occhi per la prima volta - ora a Wakatoshi
non pareva così privo di paura, ma anzi era evidentemente stanco «Dimentico che
non tutti sono così disposti a parlare di sé. Ho solo pensato che gli animali
potessero essere uno dei migliori rimedi allo stress o al cattivo umore».
Ushijima annuì ancora, senza però aggiungere
niente e l’uomo gli sorrise con una gentilezza che il ragazzo non si aspettava.
«Sei bello grosso, forse le persone
dimenticano che sei ancora un bambino. Spero che vada tutto per il meglio».
Il capitano della Shiratorizawa
lo guardò indossare un camice sterile ed entrare nella stanza delle incubatrici
per poi fargli un cenno dall’interno e raggiungere la sua famiglia. Il sorriso
che gli aveva rivolto quasi bruciava sulla pelle e Ushijima
si allontanò da quel posto in fretta, ferito. C’era una speranza, in quei
corridoi, a cui non voleva abbandonarsi del tutto e se ne rendeva conto solo
adesso che era da solo, ora che Kenjirou non era
accanto a lui: non aveva mai sperato con tutto se stesso, aveva sempre e solo
cercato di resistere, di andare avanti, inconsapevole di ciò che lo ricordava.
Era come quel bambino che ancora non aveva aperto gli occhi e già lottava. La
resistenza era tutto ciò che gli era rimasto e nessuno poteva essere davvero
certo che gli sarebbe bastata.
La sala della pet
therapy era calma come la ricordava e Ushijima riuscì a riprendere fiato solo una volta che,
entrato, riconobbe l’odore degli animali che vi erano ospitati. Quella mattina
alcuni bambini erano alle prese con due Terranova, mentre un’anziana donna
accarezzava con dolcezza un Collie. In un angolo della sala diverse gabbiette
ospitavano dei cuccioli di coniglio e poco lontano un paio di Pastori Tedeschi
attendevano le visite giornaliere.
«Oh, Ushijima!
Buongiorno!», lo salutò Nyoko, una delle ragazze
addette alla cura degli animali «Sei venuto a prendere Kutasagi?».
Ushijima cercò in automatico con lo sguardo il
coniglietto beige che la ragazza aveva chiamato Kutasagi
- il piccolino se ne stava in un angolo della gabbietta, probabilmente a
dormire.
«In realtà no. Shirabu
è in sala operatoria», affermò, forse con troppa libertà a giudicare
dall’espressione sul volto di Nyoko. Non ci badò. «Mi
chiedevo però se potessi comunque stare un po’ con Kuta...».
Non sapeva con precisione per quale motivo
cercasse l’animaletto, ma sperava che accarezzarlo e giocare con lui lo avrebbe
potuto aiutare a non pensare, almeno per un po’. La ragazza annuì, aprendo la
gabbietta e prendendo con cura il cucciolo che, intontito dal sonno, non fece
alcuna resistenza.
«Resta pure con lui per tutto il tempo che
vuoi, Ushijima», gli disse; Wakatoshi
non notò il tono preoccupato e lievemente accondiscendente di Nyoko – uno dei motivi per cui Shirabu
piuttosto che scendere nella sala preferiva che fosse qualcuno a portare su il
coniglietto – e prese Kutasagi tra le mani,
portandoselo in grembo. Si allontanò dalla ragazza, sedendosi su una delle
poltrone della stanza e cominciò ad accarezzare il cucciolo con lentezza; il
coniglietto non sembrava troppo d’accordo con quella situazione: probabilmente,
ora che era completamente sveglio, risentiva del brusco cambiamento d’ambiente
e fissava Wakatoshi con un’aria che chiunque avrebbe
facilmente definito seccata.
A voler essere sinceri, Ushijima non aveva mai capito davvero quali benefici
potesse offrire quella semplice azione. Al di là della piacevole sensazione del
pelo morbido a contatto con le sue mani, il ragazzo non trovava alcun sollievo
nel guardare il musino per nulla simpatico di quel coniglietto. Shirabu lo aveva scelto, distrattamente, la prima volta che
il suo medico curante gli aveva consigliato la pet
therapy, al secondo ciclo di chemio; l’alzatore
aveva escluso i cani ed aveva puntato su qualcosa di più piccolo e gestibile,
per poi guardare le gabbiette nell’angolo e scegliere Kutasagi,
senza una vera ragione. Tendou aveva detto che
avevano lo stesso cipiglio seccato dal mondo e Goshiki
lo aveva trovato adorabile, sebbene il piccolino avesse provato a morderlo non
appena il ragazzo lo aveva preso in mano.
Ushijima prese un pezzetto di carota da una
bustina e la offrì al coniglietto che prese a sgranocchiarla senza fare troppe
cerimonie. Stette a guardarlo, mentre col musetto faceva smorfie di ogni tipo e
tremolava tutto nella foga di mangiare quanto più velocemente possibile.
«Guarda che non vado da nessuna parte, non
c’è bisogno di affannarsi», sussurrò Ushijima – era
la prima volta che si trovava a parlare con Kutasagi:
normalmente, non avrebbe trovato senso in una simile azione, sebbene fosse il
solo a pensarla in quel modo e persino Shirabu di
tanto in tanto indirizzava all’animaletto qualche commento, ma adesso gli era
parso naturale e il coniglietto si fermò al suono della sua voce così vicino.
«Sei sorpreso di non vedere la faccia di Shirabu?» gli chiese con una certa serietà, cercando di
immaginare a cosa stesse pensando quel cervellino, ma Kutasagi
lo fissò ancora solo per qualche istante e poi riprese a mangiare, nuovamente
indifferente a ciò che lo circondava.
Ushijima lo accarezzò di nuovo con la mano libera,
sebbene avesse imparato che al piccolo non piaceva, e sospirò, tirando la
testa all’indietro e chiudendo gli occhi, appena cosciente del fatto che il
coniglietto fosse ancora sulle sue gambe. No, la pet
therapy non faceva per lui, ma in quel momento
non aveva neanche la forza di alzarsi, quindi stare lì era la sola opzione che
gli restava.
«Ushiwaka?».
Wakatoshi riconobbe subito la voce di Yotaro e si mise dritto, vedendolo arrivare verso di lui.
«C’è una poltrona proprio davanti a te»,
gli disse con tono neutrale, guardandolo mentre gli si sedeva accanto. Per un
attimo era stato sul punto di agitarsi, nel vederlo, ma sapeva che non
era successo nulla a Kenjirou.
«Ero abbastanza sicuro di trovarti qui»,
gli disse quello, con un sorriso.
«Davvero?» Ushijima
era sinceramente sorpreso.
«Sei sempre tu a scendere per prendere Kutasagi, anche se poi non giochi mai con lui: ho pensato
che oggi potesse essere diverso», spiegò Yotaro:
parlare con Wakatoshi gli faceva sempre uno
strano effetto – la sua spontaneità e ingenuità, così come la decisione con cui
diceva qualunque cosa pensasse a rischio di poter essere frainteso, erano
qualità che apprezzava molto e che, in più di un’occasione, gli avevano
permesso di aprirsi con lui più che con chiunque altro, incluso Shirabu.
«È sulle tue gambe che sgranocchia
qualcosa?» continuò il ragazzo.
«Sì, gli ho dato un pezzetto di carota»,
spiegò Ushijima, senza aggiungere altro – si rendeva
conto, soprattutto con Yotaro, che il suo essere
laconico non aiutava a portare avanti una qualunque conversazione, ma allo
stesso tempo non aveva alcuna voglia di parlare.
Il ragazzo accanto a lui allungò una mano
ad accarezzare il piccoletto, sperando che non lo mordesse come aveva fatto
anche con lui la prima volta – per essere un coniglietto della pet therapy, Kutasagi aveva un caratterino niente male – ma il cucciolo
non smise di mangiare, lasciandolo fare o forse ignorandolo.
«Sei quello che lo coccola di meno, eppure
non sta così calmo neanche con Shirabu», osservò
divertito, ma Ushijima non lo stava ascoltando
davvero e Yotaro se ne accorse anche senza poterlo
vedere.
Cercò una delle sue mani e trovandola
libera la strinse fra le sue. La verità era che non sapeva per quale motivo
avesse deciso di andarlo a cercare – s’era detto che non voleva lasciare Ushijima da solo in un momento simile e che magari avrebbe
potuto gradire la sua compagnia, ma la verità era che quello a non voler
restare solo era lui. Improvvisamente, nel corridoio di chirurgia, si era
sentito solo come non era stato da anni, da quando aveva perso la vista e con
essa tutti i suoi legami. Era tanto tempo che Yotaro
non si legava a qualcuno nel modo semplice e naturale con cui s’era legato a Shirabu e quella mattina, nel silenzio dell’attesa, aveva
realizzato per la prima volta che esisteva una concreta possibilità per Kenjirou di non uscire vivo da quella storia. La sola idea,
s’era accorto, lo terrorizzava e per questo aveva cercato Wakatoshi
– poteva essere forte se doveva occuparsi di qualcun altro.
«Sai, andrà bene».
Quelle parole spiazzarono Yotaro. Perché stava per pronunciarle lui, perché era la
sua battuta sul copione, ciò che il ruolo di supporto che gli era stato
assegnato in quella storia chiedeva che dicesse in un momento del genere. E
invece era stato Ushijima a parlare, con una
naturalezza che aveva quasi ferito il violinista.
«Come fai a-».
«Non lo so. Non ne sono sicuro, non posso
esserne. Ma devo pensare che andrà tutto bene. E dovresti farlo anche tu – lo
posso vedere, sai, sul tuo viso, che ti stai lasciando andare alla paura».
Ecco a cosa si riferiva Yotaro quando diceva che la sincerità di Ushijima poteva toccarlo nel profondo. Aveva cinque anni in
più di lui e quel ragazzo gli parlava come si parla ad un fratello più piccolo
a cui si spiegano con semplicità concetti difficili.
«La musica per me è sempre stato qualcosa
di solitario, sai?» Yotaro riprese ad accarezzare Kutasagi conscio dello sguardo di Wakatoshi
addosso. «Anche durante gli anni che ho trascorso al conservatorio, anche
quando ho suonato in un’orchestra, ho sempre avuto la sensazione che la musica
fosse qualcosa di solitario – eravamo io ed il mio violino. Certo, quando
frequenti quell’ambiente incontri molta gente che riesce a capire davvero
che cosa significhi per te suonare, eppure… eppure non ho mai avuto qualcosa
che potessi chiamare gruppo o squadra, qualcuno che ti guardasse le spalle
qualunque fosse la circostanza».
Ushijima lo ascoltava parlare, senza
interromperlo: aveva capito che aveva bisogno di dire quelle cose e in un
momento del genere per lui era più facile stare a sentire qualcuno che esporsi
parlando di sé.
«Quando… quando è successo» e il
violinista si portò una mano al viso, sfiorando gli occhi ormai liberi delle
bende e semplicemente chiusi «Quando è successo, non volevo accettarlo. Non
volevo accettare che tutto dovesse cambiare, che non avessi la possibilità di
tornare indietro. E ho fatto delle scelte, ho detto delle cose… nessuno è
rimasto con me: degli amici che consideravo più cari tutti, uno ad uno, se ne
sono andati. Ed io ero così furioso, così dannatamente frustrato che
alle volte mi pareva semplicemente di poter esplodere da un momento all’altro.
Ho tagliato i ponti con la mia vita passata, ho persino cambiato città. Quando
ho visto Shirabu per la prima volta, non avevo una
persona con cui parlare da molto tempo».
Yotaro si rimise dritto, smettendo di
accarezzare il coniglietto, e pensò che avrebbe potuto star zitto e non
continuare, che, per quanto ne avesse bisogno probabilmente, quello non era il
migliore dei momenti per aggiungere nuovi pensieri a situazione che stavano
affrontando. Ushijima lo guardava in attesa invece e
quando questi smise di parlare, strinse un po’ la prese della sua mano che era
ancora stretta in una di quelle del ragazzo.
«Ho paura di perderlo», sussurrò allora il
violinista, d’un tratto completamente esausto «E tutta la sua squadra è lì e mi
sento così sporco, ma invidio il rapporto che avete».
Poi si ritrovò in lacrime: tutti i
pensieri che in quei giorni aveva trattenuto, la preoccupazione e l’ansia che
lo avevano scovato nei momenti in cui non era impegno a fare qualcosa, ora si
scioglievano in quella confessione egoista e sincera. La mano libera di Wakatoshi gli sfiorò la testa con affetto. Doveva essere
lui a consolarlo e invece era Ushijima a fargli
forza. Che ironia.
«Una delle prime volte che ti ho visto, mi
sono chiesto se potessi ancora piangere», sussurrò Ushijima
- qualcosa stava cominciando a cambiare, sentiva una strana stanchezza renderlo
pesante ed aveva paura di sapere a chi apparteneva realmente «Mi fa piacere
sapere che... puoi farlo». Le ultime parole uscirono strozzate dalla sua bocca
e Ushijima si piegò in avanti.
«Ushijima? Che
succede?»
Le lacrime di Yotaro
s’erano fermate, la preoccupazione aveva preso il sopravvento su qualunque
altro sentimento potesse provare.
«Portami da Kenjirou…
per favore...».
Il violinista cercò di farlo tirare su,
avendo cura di spostare velocemente Kutasagi - il
coniglietto cercò di scappare, allarmato da quei movimenti improvvisi, ma Nyoko, accortasi della situazione, fu veloce a prenderlo e
a rimetterlo nella sua gabbietta.
«Chiamo qualcuno?» chiese poi la ragazza,
preoccupata, ma Yotaro scosse la testa.
Prese Ushijima
sotto braccio, sperando che se lo avesse sostenuto lui avrebbe potuto fare da
guida ad entrambi così che potessero muoversi velocemente. Wakatoshi
si sentiva più debole ad ogni passo che faceva e allo stesso tempo la
disperazione lo spingeva a muoversi più velocemente, più in fretta. Shirabu stava soffrendo, Shirabu
era in difficoltà e lui s’era allontanato. Non importava che potesse sentirlo
ugualmente in qualunque posto dell’ospedale fosse, non era al suo fianco, non
era quanto più vicino possibile a lui.
Gli istanti che l’ascensore impiegò a
raggiungere il primo piano sotto lo zero, dove c’erano le sale operatorie,
parvero ad entrambi i ragazzi interminabili. Ushijima,
con le spalle contro una delle pareti di metallo, respirava a fatica; Yotaro, con la paura che lo divorava e l’adrenalina che gli
scorreva in corpo, tremava d’impazienza e frustrazione. Quando entrarono nel
corridoio dove avevano lasciato gli altri il violinista portava completamente
il peso del ragazzo.
«Wakatoshi!»
esclamarono nello stesso momento i genitori di Shirabu
e Tendou, scattando in avanti verso di loro;
liberarono Yotaro dal peso di Ushijima
e portarono i due ragazzi verso le prime sedie libere.
«Cos’è successo? Kenjirou…?»
chiese con apprensione il padre di Shirabu.
Wakatoshi cercò di calmarsi, di respirare a fondo e
scacciare il dolore e la preoccupazione per capire che cosa stesse davvero
succedendo al compagno: era tutto estremamente confuso e non riusciva a
distinguere le emozioni che erano proprie da quelle estranee, portate dal
legame. Ma Kenjirou stava soffrendo; sebbene fosse
ancora in sala operatoria e sotto anestesia, Ushijima
poteva sentire chiaramente che qualcosa non andava.
«Andrà tutto bene», mormorò, gli occhi
chiusi e la testa tirata all’indietro «Resisti ancora un po’».
Tremava e per la prima volta appariva a
tutti debole ed indifeso come si sentiva. Tendou
tornò a sedersi accanto a Semi e questi gli si aggrappò contro con
disperazione, ferendolo nel profondo; lo strinse a sé mormorando il motivetto
di una ninnananna che improvvisamente gli era tornata in mente e sperando di
calmarlo anche solo un po’. Il signor Shirabu, di
nuovo con la moglie, non disse più nulla e tornò a fissare la porta come in
trance. Taichi fu l’ultimo a staccare gli occhi da Ushijima: come potevano gli altri accontentasi di quelle
pochissime informazioni che il capitano aveva dato loro? Come stava Shirabu? Perché Wakatoshi respirava
ancora con così tanta fatica e dolore? Che cosa stava davvero succedendo? Le
parole del ragazzo non potevano di certo rassicurarlo, perché non erano niente
più che vaghe e vuote speranze. E lui era stanco di sperare.
Sporgendosi in avanti, si prese il viso
fra le mani: non avrebbe pianto di nuovo, ma era così spossato da aver bisogno
di schermare se stesso dagli altri, in un qualunque modo, perché non leggessero
la disperazione sul suo volto. Prima che potesse realizzarlo, una delle sue
mani aveva lasciato il viso, trascinata in una stretta da quella di Goshiki, seduto accanto a lui. Kawanishi
stette a fissare quel gesto per qualche istante: le loro mani non s’erano mai
intrecciate in quel modo ed avrebbe giurato che un simile contatto lo avrebbe
infastidito, ma non poteva, non in quel momento. In quel momento, per quanto
odiasse la propria debolezza e la bontà di Tsutomu,
aveva bisogno di quel contatto, del sorriso senza senso che il primino gli stava rivolgendo. Strinse più forte la presa e
si arrese, per una volta. Si arrese.
«Ce la farà».
La voce di Ushijima
ora era forte, tanto da far voltare tutti verso di lui – pallido, sudato,
tremante ancora, il capitano della Shiratorizawa
s’era alzato in piedi barcollante. Gli occhi, oh, gli occhi erano quelli che
aveva prima di una partita, lo sguardo quello che non perdona gli avversari, il
volto serio di quando la squadra entra in campo e il pubblico si zittisce in un
istante perché l’ammirazione silenziose è ciò di cui si sono sempre nutriti.
«È di Shirabu Kenjirou che parliamo. Lui ce la farà. Perché è così che fa
sempre, lui riesce. E perché ce lo siamo promessi».
E lo sapeva, lo sapeva Ushijima
che ciò che aveva detto non aveva senso, che lo stacanovismo di Shirabu non avrebbe potuto salvarlo stavolta, che non
dipendeva da lui, ma stava dritto, forte e parlava in quel modo perché ci
credeva, perché ci credevano entrambi, perché la loro resistenza doveva pur
valere a qualcosa! Perché sapevano che il mondo era ingiusto e che i miracoli
non esistevano, ma non avevano smesso di crederci.
«Credi che possa venire ad una delle sue
partite, quando tornerà a giocare? Eh, Ushiwaka?»
Yotaro lo guardava con un grosso sorriso sul
viso, ma gli occhi lucidi.
«Non ho mai sentito una partita di
pallavolo, deve essere stupenda».
Shirabu era stato portato fuori dalla sala
operatoria nel pomeriggio. Ushijima era stato male
una seconda volta e poi semplicemente s’era addormentato, scivolando nella
completa incoscienza; la madre del suo compagno s’era seduta accanto a
lui ed aveva ascoltato il suo respiro lento per tutto il tempo, mentre
attendeva notizie del figlio e di tanto in tanto Semi o Reon
gli si erano avvicinati per controllare che non gli fosse salita la febbre o
stesse soffrendo.
Lo avevano svegliato solo quando i medici
erano finalmente usciti dalla sala operatoria, ma Ushijima
aveva impiegato molto a riprendersi, tanto da farli preoccupare.
«È normale che stia così», aveva detto il
chirurgo, avvicinandosi «Kenjirou ha subito un lungo
intervento: di solito raccomandiamo ai compagni di dormire per superare lo
stress di questo genere di situazioni».
«Kenjirou...»,
aveva mormorato Wakatoshi, destandosi a quel nome
«Come sta?»
«Il peggio è passato», aveva rassicurato
tutti il medico «Ha bisogno di molto riposo ora, ma siamo riusciti ad asportare
la massa completamente».
Ushijima aveva guardato l’uomo per qualche
istante, senza essere certo di aver capito davvero le sue parole. Aveva aperto
e chiuso gli occhi velocemente per diverse volte, lasciando che il significato
di quella frase riecheggiasse nella sua mente e si sedimentasse diventando
vero. Era andato tutto bene. Shirabu stava bene. Shirabu non aveva più il cancro. In quel momento, in quel
preciso istante, il suo compagno era vivo e non era più malato.
Quella semplice verità lo aveva scosso nel
profondo. Ci aveva sperato, ci aveva sempre e costantemente sperato, eppure…
eppure non si era mai davvero preparato per quella eventualità. Non si era mai
davvero preparato ad una prospettiva in cui Shirabu
sarebbe uscito vivo da quella sala operatoria.
Le lacrime erano scese lungo le guance con
semplicità, senza alterare l’espressione del viso, mentre un sorriso stanco si
allargava su di esso.
«Grazie», aveva mormorato, prima di
lasciarsi andare ad un respiro profondo. Aveva dimenticato come si respirasse
davvero.
Yotaro aveva riempito l’attesa nella stanza di Shirabu con il suo violino: i medici avevano detto che
potevano volerci anche diverse ore prima che il ragazzo si svegliasse e che
comunque non sarebbe stato in grado di conversare con loro più tanto a causa
dell’anestesia ancora in circolo, ma nonostante fosse sera ormai nessuno dei
ragazzi della Shiratorizawa aveva lasciato
l’ospedale, né aveva intenzione di farlo prima di vedere il ragazzo sveglio.
«Quanto credete che ci vorrà?» chiedeva di
tanto in tanto Goshiki, in un sussurro, per non
disturbare la musica, ma non riceveva mai risposta perché nessuno lo sapeva.
Ushijima, così come i genitori di Shirabu, non aveva fretta. Si limitava a fissare il
miracolo che aveva davanti agli occhi, quel petto che lentamente si alzava e si
abbassava, privo della malattia, privo dell’alone di morte che lo aveva
appesantito in quei mesi, e tanto gli bastava.
«Tendou?»
Hayato era appena rientrato in camera, portando
due bibite ai genitori dell’alzatore; dopo averle consegnate si avvicinò a Satori.
«Probabilmente subirò le conseguenze di
questa cosa fino al diploma, ma ho visto Semi in corridoio, mentre tornavo. Non
aveva una bella cera».
Satori scattò in piedi - aveva abbassato la
guardia e il legame, come sempre, non era stato abbastanza forte da avvisarlo.
Che cos’era successo? Cosa gli era sfuggito? Per cosa avrebbe dovuto farsi
nuovamente perdonare? In corridoio, ormai, non c’era quasi nessuno - anche loro
sarebbero dovuto tornare a casa quanto prima, sebbene gli infermieri avessero
chiuso un occhi le volte che erano entrati per controllare Shirabu.
La preoccupazione scavalcò i sensi di
colpa e Tendou prese a camminare con passo veloce,
cercando il compagno: Hayato aveva detto di
averlo visto vicino alle scale, ma ora di lui non c’era traccia. Quell’idiota,
pensò il Centrale, doveva essersi trascinato in un luogo più appartato per non
essere visto.
Lo trovò in bagno, al piano di sotto. Lo
trovò per puro caso, dal momento che la frenesia della ricerca era tanta che a
stento aveva guardato in direzione del bagno. Eppure, gli occhi lo avevano
individuato in qualche frazione di secondo e tanto era bastato.
«Eita», lo
chiamò con una certa urgenza, avvicinandosi. Il ragazzo aveva i capelli
bagnati, come se avesse infilato la testa sotto l’acqua, ed il fiato corto.
«Dovremmo smetterla di incontrarci in
questo modo: la gente potrebbe cominciare a parlare», riuscì a scherzare Satori, ricordando l’ultima volta che aveva visto Semi in
difficoltà, quando gli aveva confessato perché stava tanto male per Shirabu.
«Non è niente», minimizzò Eita, tirando su la testa e lasciando che i capelli gli
bagnassero il viso «Sto bene».
«Hai dato di stomaco?» chiese Tendou - oh, a lui davvero non poteva mentire: era
diventato bravissimo a capirlo, era il solo modo che aveva per sapere sempre
come stava.
Eita
schivò il suo sguardo e fece qualche passo avanti, cercando di superare il
compagno ed uscire dal bagno, ma Satori lo fermò,
prendendolo per un braccio con una forza che il ragazzo non si aspettava. Era
una situazione ridicola, ad entrambi sembrava una copia di ciò che avevano già
affrontato mesi prima e allo stesso tempo nessuno dei due era cambiato da
allora.
«Il peggio è passato», disse Tendou - era ovvio che Semi stesse male per tutta la
tensione della giornata.
«Lo so».
«Da ora in poi andrà meglio».
«Lo so».
«Avresti dovuto chiamarmi».
Semi guardò il compagno, entrambe
le sopracciglia alzate in un’espressione eloquente. Non lo avrebbe mai fatto,
non per parlare di quanto quella giornata e la paura di perdere Shirabu lo avessero provato nel profondo. Non avrebbe detto
al suo compagno di come la possibilità di perdere la persona che prima
di lui aveva amato lo aveva annichilito e terrorizzato.
Fece per superarlo e stavolta Satori non lo fermò: aveva capito. Ma non appena poté
vedere le sue spalle, le avvolse da dietro in un abbraccio, poggiando la testa
sulla spalla di Semi e stringendolo. Gli piaceva pensare che il calore del
corpo di Semi fosse diverso dagli altri, che il proprio petto potesse
riconoscerlo ad istinto, senza aver bisogno di una conferma visiva: era
sciocco, ma era una fantasia bellissima.
«Alle volte sei così stupido, SemiSemi», mormorò con dolcezza, senza staccarsi
dalla sua spalla, dalla sua schiena. Se fosse stato un altro, Eita avrebbe pianto – sentiva chiaramente tutto l’amore che
Satori provava, tutto l’amore che superava qualunque
fastidio, qualunque gelosia sciocca il ragazzo avrebbe potuto provare.
Ne avevano discusso diverse volte, da che
Semi aveva confessato a Tendou di aver provato
qualcosa per Shirabu, di essere stato in qualche modo
innamorato di lui. E tutte le volte che l’argomento era saltato fuori, Semi
aveva avuto paura di ferirlo, mentre Tendou non
avrebbe voluto fare altro che parlarne: per quanto fosse normalmente geloso di
chiunque guardasse il suo compagno, Satori
aveva capito che con Shirabu era diverso e che il
sentimento che ora legava Semi all’alzatore era qualcosa di sedimentato, spento
ma presente. Una parte di lui che voleva conoscere, ma di cui Eita non era disposto a parlare.
«Ho avuto così tanta paura», mormorò Semi,
aggrappandosi con le proprie mani alle braccia con cui Satori
ancora lo stringeva.
«Lo so».
«E ho invidiato così tanto la tua
sicurezza».
«Lo so». Satori
sospirò «Pensi troppo».
«Tu non pensi affatto», borbottò Eita «Hai sempre saputo che ce l’avrebbe fatta, che sarebbe
uscito da quella sala operatoria, mentre io non facevo altro che pensare a cosa
avrei fatto quando i medici ci avrebbero detto che non c’era stato niente da
fare, che…».
«Ssh», lo zittì Tendou, stringendolo un po’ più forte «Non parlare più,
amore mio. Non torturarti in questo modo».
Ushijima sentì chiaramente l’istante in cui Shirabu riprese i sensi. Il legame ebbe un guizzo, come una
sorgente che improvvisamente riprende a zampillare acqua purissima, e lui lo
aveva atteso come un assetato che, in pellegrinaggio, finalmente arriva alla
meta e scorge il miracolo.
«Kenjirou»,
lo chiamò, sussurrando. La squadra era ancora tutta nella stanza e per qualche
istante odiò il fatto di non essere solo. Lo avrebbe stretto a sé, lo avrebbe
baciato e non lo avrebbe mai più lasciato andare.
Il ragazzo sbatté le palpebre per qualche
istante, provando a mettere a fuoco ciò che aveva davanti; poi si voltò ai due
lati, guardando prima Ushijima e poi Tendou, che da un po’ era rientrato in stanza con Semi.
Restò qualche istante a fissare Wakatoshi con volto
serio e occhi sottili e concentrati. Si girò poi di scatto verso Tendou con la più confusa delle espressioni.
«Tendou, perché
questo bellissimo ragazzo è accanto a me?» mormorò con la voce ancora impastata
dal sonno forzato.
«Kenjirou...».
«Scusami, scusami davvero ma non puoi…
cioè, hai delle bellissime braccia, davvero, ma io ho già un compagno e tu non
puoi stare qui...».
Satori stava facendo violenza su se stesso per
trattenersi dal ridere di fronte a quella scena, perché aveva capito che cosa
stava succedendo: l’anestesia dell’operazione doveva essere ancora in circolo,
rendendo Shirabu completamente stordito e divertente
come non lo era mai stato da che lo conosceva. A saperlo prima, avrebbe trovato
un modo per farlo ubriacare una volta ogni tanto. Non si spiegava, però, come
mai Ushijima fosse apparentemente il solo che Shirabu non aveva riconosciuto.
Ridacchiando, il Centrale mimò con le
labbra al capitano di stare al suo gioco ed estrasse con un sorriso cattivo il
cellulare dalla sua tasca, guardando il resto della squadra presente con un
sguardo eloquente.
«Hai ragione, Shirabu.
Ora faccio uscire subito questo bellissimo ragazzo della tua stanza e vado a
chiamare Wakatoshi - deve essere qua fuori», disse,
prendendo Ushijima per un braccio e portandolo con
sé.
«Ecco sì, fallo», borbottò Kenjirou, cercando di tirarsi su con malagrazia - gli
antidolorifici e il residuo dell’anestesia gli rendevano la testa pesante e
faticava a coordinare i suoi movimenti anche solo per compiere un’azione tanto
semplice.
«Vuoi una mano?» si offrì Goshiki - in quel momento avrebbe fatto di tutto per
l’alzatore: vederlo sveglio era una cosa bellissima.
«Credi che mi serva una babysitter, primino? Non mi serve… una… babysitter», biascicò ancora Shirabu, riuscendo alla fine a sedersi in modo abbastanza
comodo senza fare danni con i tubicini a cui era ancora collegato.
Nessuno a parte Kawanishi
s’era accorto che Tendou era rimasto sulla soglia
della porta e stava riprendendo tutto con una delle facce più soddisfatte che
avesse mai avuto.
«Oh, eccoti, Wakatoshi!»
esclamò ad un tratto Satori, gridando più di quanto
fosse necessario per farsi sentire da Shirabu «Ci
chiedevamo tutti dove fossi finito!» Sembrava di assistere ad una recita
volutamente grottesca.
«Che succede?» mormorò Yotaro,
sporgendosi verso Semi che sapeva avere alla sua sinistra - aveva smesso di
suonare non appena aveva sentito le voci, ma non gli era del tutto chiara la
situazione.
«Shirabu è così
stordito da non aver riconosciuto Ushijima. Tendou ne sta approfittando», disse con finto disappunto
Semi - non lo avrebbe mai ammesso, ma la cosa era davvero divertente. Kawanishi intanto aveva preso a riprendere la scena da
un’angolazione diversa.
«Wakatoshi?»
mormorò ancora confuso l’alzatore, quando un Ushijima
altrettanto confuso rientrò nella stanza.
«Finalmente ti sei svegliato», disse
quello, avvicinandosi e sedendosi di nuovo accanto a lui «Volevo avvisare i
tuoi genitori, ma Satori ha detto che sarebbe stato
meglio stare con te». Ushijima era ancora troppo
serio per riuscire ad avvertire come lo stordimento di Shirabu
aveva rilassato il clima della stanza.
«Hai fatto bene». Shirabu
provò ad avvicinarsi a lui «Sai», disse poi con tono di voce più basso - e Kawanishi avrebbe giurato che era arrossito «Prima è
entrato un ragazzo, me lo sono trovato proprio davanti! E aveva delle braccia e
delle spalle bellissime!»
Wakatoshi lo fissava senza davvero capire come
avesse fatto a non riconoscerlo la prima volta che lo aveva visto; sentirlo
parlare, però, anche se di cose senza senso, era un sollievo e in breve si
rilassò.
«Ed io gli ho detto subito di andarsene,
perché ho già un compagno, ecco. E poi le tue braccia sono più belle»,
stava continuando Shirabu, senza avere alcun
controllo su ciò che usciva dalla sua bocca. L’intera stanza prese a ridere; Taichi e Tendou si guardavano
complici. «Per fortuna Tendou l’ha fatto uscire. Ma
io dico, quanta libertà!».
«Già, già», lo assecondò Ushijima, accarezzandogli i capelli «Meno male».
Shirabu parve calmarsi a quel tocco e socchiuse
gli occhi come a volersi riaddormentare. Kawanishi
era sul punto di fermare la registrazione, soddisfatto dall’avere materiale per
tormentare Shirabu fino al loro diploma e il resto
della squadra si guardava ridendo, quando Shirabu
riprese a parlare.
«Ushijima, Ushijima!» chiamò a voce alta, ma senza riaprire gli occhi
«Stanno barando!»
Wakatoshi si sentì nuovamente confuso e cercò il
volto di Tendou per capire a cosa si stesse riferendo
stavolta il suo compagno, ma il centrale era disorientato quanto lui e
scosse la testa senza fermare le riprese - sentiva che stava per venir fuori un
altro momento indimenticabile.
«Chi bara, Kenjirou?»
chiese il capitano con dolcezza.
«Non possono farlo!» disse ancora Shirabu, senza rispondere «Non è corretto, sicuramente il
regolamento non permetterà questa cosa! Perché l’arbitro non li ferma?»
«Cos’è che deve fermare l’arbitro, Shirabu?» insistette Semi dal fondo della stanza dov’era seduto
- Yotaro accanto a lui rise per il tono pesantemente
accondiscendente che il ragazzo aveva usato.
«Quel- quel- quel mirtillo! Deve essere
fermato! I mirtilli non possono giocare a pallavolo! E neanche le carote!
Quella carota mozza non può essere così veloce! Stanno barando! I mirtilli e le
carote non possono stare in campo!»
Per qualche istante il silenzio pervase la
stanza e i ragazzi della Shiratorizawa si guardarono
l’un l’altro cercando di capire il senso delle parole che Shirabu
aveva appena detto. Yotaro, che sapeva di non avere
alcuna possibilità, poteva quasi sentire i loro cervelli affaticarsi a trovare
una soluzione e rise di gusto per un’uscita tanto strampalata: se gli avessero
detto che Kenjirou sarebbe stato capace di farlo
ridere a quel modo non ci avrebbe mai creduto. Pensò che gli sarebbe mancato
davvero tanto, una volta che entrambi avrebbero lasciato l’ospedale.
«Ci sono!» esclamò d’un tratto Goshiki, scattando in piedi ed illuminandosi - Tendou fece un primo piano sulla sua faccia soddisfatta,
stando attento però a non perdere nessuna delle reazioni di Shirabu
«Ti riferisci ai primini della Karasuno! L’alzatore e
la piccola esca!»
Pensandoci, i ragazzi capirono facilmente
perché erano diventati proprio un mirtillo ed una carota mozza, e la cosa non
poté che farli nuovamente ridere. Kenjirou, invece,
ora di nuovo dritto e con gli occhi ben aperti, aveva messo uno strano broncio
e li fissava tutti con disappunto.
«Non c’è niente da ridere, ragazzi! Non
possono usare mirtilli e carote per vincere la partita. Lo sappiamo tutti che
la Shiratorizawa è più forte, non possono barare in
questo modo».
«In effetti, ha ragione», convenne Ushijima, cercando di tenere un’espressione seria.
«Quindi dobbiamo parlare con l’arbitro,
con i giudici! Questa volta...», socchiuse gli occhi, come avesse
improvvisamente sonno «Questa volta… non potranno… passarla liscia… quel
mirtillo e quella… carota mozza».
«Che cattivi», lo prese in giro Tendou, sghignazzando.
«Tu sai che non appena Shirabu
sarà di nuovo in sé ti ammazzerà per averlo ripreso in questo stato, vero?», lo
avvisò Semi, incrociando le braccia al petto ma senza riuscire a perdere il
sorriso.
«Certo! È per questo che lo sta
riprendendo anche Kawanishi», si difese Satori.
«E cosa, per l’esattezza, ti fa credere
che Kawanishi sia al sicuro dalla sua furia?»
Tendou parve pensarci su qualche istante, poi
fece spallucce con la sua solita aria divertita.
«Ne sarà valsa comunque la pena», concluse
«E ne faremo così tante copie che i nostri nipoti parleranno ancora di quella
volta in cui Shirabu minacciò di far cacciare dal
campo mirtilli e carote!»
Yotaro, intanto, s’era alzato arrivando vicino
al letto di Shirabu e cercando con attenzione una
delle sue mani - aveva capito che si stava riaddormentando e, non avrebbe mai
pensato di dirlo, la sua voce era davvero dolce in quella generale confusione.
«Mamma?» mormorò nel sonno Shirabu, sentendo il tocco ma con gli occhi già nuovamente
chiusi.
«Riposa», sussurrò Yotaro,
calandosi fino a trovare il suo viso e lasciandogli un bacio leggero sulla
guancia.
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Buone feste e a presto, col finale!