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Autore: Afaneia    28/12/2017    2 recensioni
In una Kanto dominata dal colosso multinazionale della Silph SpA, che monopolizza il mercato con politiche aziendali inflessibili e alleanze poco trasparenti, il signor Fuji, fondatore del celebre Centro Pokémon Volontario di Lavandonia, si è sempre schierato contro la corruzione e a difesa della dignità dei Pokémon.
Suo figlio però ha scelto una strada diversa: disposto a qualsiasi accordo pur di allontanarsi dall'opprimente presenza di suo padre, il dottor Emir Fuji si è specializzato in ingegneria genetica e si è trasferito sull'Isola Cannella, dove dirige un Laboratorio Pokémon dedito a esperimenti d'avanguardia. Da quando ha lasciato Lavandonia non ha più voluto avere niente a che fare con suo padre.
Un giorno, il Laboratorio Pokémon organizza un viaggio di ricerca in Guyana...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mew, Mewtwo, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
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Ciao a tutti!

Riguardo a questo capitolo non ho molto da dire, se non che, come mi capita di frequente, stava venendo fuori un capitolo decisamente troppo lungo che ho deciso di dividere in due parti, seppure un po’ disomogenee, per agevolare la lettura. Spero di riuscire a pubblicare presto il prossimo aggiornamento per chiudere il cerchio!

Un ringraziamento di cuore alla carissima cristal_93 per la sua recensione al precedente capitolo.

Nel frattempo non posso che farvi i miei migliori auguri per il nuovo anno e augurarvi buona lettura.

Un abbraccio enorme


Afaneia



Capitolo II – Ipocrita (Parte Prima).


«L’hai rubato tu quel Pokémon?»

Quando Emir aprì gli occhi, sforzandosi di riprendere conoscenza nella nebbia vischiosa di sonno e bromazepam che lo avviluppava, suo padre era seduto sul tavolino del salotto, a pochi passi dal divano dov’egli dormiva, e lo fissava. Aveva in mano un giornale arrotolato, ma Emir non fece neppure un minimo sforzo per cercare di leggerne il titolo. Non ne aveva bisogno. Tutto stava andando esattamente come aveva previsto da giorni, e il fatto che il furto fosse stato scoperto, precisamente com’era nei suoi piani, lo fece sentire improvvisamente più calmo. Per quanto ciò significasse che era nei guai e che avrebbe perso il lavoro, egli adesso sapeva che cosa stava succedendo a Isola Cannella. Quell’articolo di giornale costituiva per lui un canale di comunicazione che lo faceva sentire padrone della situazione.

Emir si sollevò faticosamente a sedere sul divano e si strofinò più e più volte gli occhi per riacquistare lucidità. Era stato un pazzo a venire lì e ad attirarsi addosso tutti i sospetti: che cosa ci sarebbe stato di più naturale e conseguente di pensare che fosse stato lui a sottrarre Mew e poi a scappare…? Forse se non avesse preso almeno cinquanta o sessanta gocce di bromazepam la sera precedente, prima di andare a prendere Mew e portarla via, non avrebbe agito in stato tanto confusionale; che gli era venuto in mente poi? Forse che a trent’anni ormai compiuti gli era parso, come quand’era bambino, che correndo a rifugiarsi tra le braccia del padre tutti i dubbi che aveva sarebbero stati sciolti dalla sua confortante autorevolezza?

Ma questo era quel che era. Aveva bevuto tanto di quel bromazepam da rischiare una crisi, a stomaco vuoto, poi d’un tratto, al trovarsi nella sua enorme casa vuota, silenziosa tanto che gli era parso di poter udire il proprio cuore rimbombare a ogni momento, aveva immaginato che allo svoltare di ogni angolo, all’imboccatura di ogni corridoio ci fosse qualcuno che lo aspettava; aveva creduto di venir accusato e braccato da ogni parte e in ogni rumore che provenisse dalla strada aveva riconosciuto il suono di una volante della polizia che veniva a prenderlo. Allora l’ansia aveva trionfato sulle benzodiazepine, e nella sua confusione egli non aveva trovato che una soluzione: scappare nell’unico luogo al mondo nel quale nessuno sarebbe venuto a cercarlo - nemmeno lui stesso.

«Già.»

Suo padre non doveva essersi aspettato che confessasse così francamente, subito, e ne rimase spiazzato. Senza accennare a muoversi dal tavolino aprì la bocca, la richiuse, ci pensò un poco e infine riprese: «Perché?»

Questa volta la sua voce non ebbe cedimenti. «Perché dovevo portarla via alla Silph.»

«Oh» mormorò suo padre, che evidentemente non sapeva bene come comportarsi alla scoperta che, per una volta nella sua vita, suo figlio si comportava in un modo ch’egli avrebbe potuto approvare. Ma il suo stupore era destinato a esser solo momentaneo: quando tornò alla carica, pochi attimii dopo, le sue domande si fecero più pressanti: «Rubare un Pokémon non è come rubare un quadro, Emir. Dove l’hai nascosta? È sola, ha cibo e acqua…?»

«Papà… non preoccuparti.» Persino là dove si trovavano, dalla parte opposta della regione, Emir si sentiva ancora troppo sospettoso e agitato per confessargli i dettagli, e a ogni modo era più sicuro per entrambi che suo padre sapesse il meno possibile di quella storia; ma nel rivelargli quella sola informazione non gli sembrava che ci fossero pericoli, ed Emir ne approfittò per tranquillizzarlo. «È in una Pokéball. Per il momento non ha bisogno di nulla. No, non qui» soggiunse, intercettando lo sguardo che suo padre scoccò verso la sua giacca ripiegata con cura su una vecchia poltrona informe. «Non ti avrei mai portato un Pokémon rubato in casa, devi credermi: non intendo farti accusare di ricettazione, nel caso in cui dovessero…»

«D’accordo, ho capito.» Suo padre continuò a riflettere in silenzio per qualche minuto, ruminando tra sé tutte quelle informazioni, cogli occhi ancora infissi su di lui, come se volesse incollare ciò che stava scoprendo sopra l’immagine mentale che si era fatto del proprio figlio. Emir lo lasciò fare. Aveva sempre odiato la rigida mentalità severa e intransigente di suo padre, così come aveva sempre odiato la sua casa, che gli sembrava aver assunto l’odore delle case dei vecchi dal momento preciso in cui se n’era andata sua madre, e Lavandonia che di quell’odore era sempre stata impregnata da ch’egli potesse ricordare; ma stavolta sapeva di non poter dire niente. Era tornato a casa da solo, spontaneamente, e nella casa del padre, egli lo sapeva, era giusto che valessero le sue regole, e che il suo fosse l’unico metro di giudizio ad avere corso.

Finalmente, dopo aver ragionato per un po’ per conto proprio, suo padre riprese. «Ti aspettavi che lo scoprissero così presto? Per essere sul giornale di oggi, devono averlo scoperto stanotte.»

Questo pensiero non lo sgomentava minimamente. «Sì, me lo aspettavo. Ogni quattro ore il custode notturno ha il compito di controllare che tutti i Pokémon del laboratorio abbiano cibo e acqua e tutto ciò che occorre, ci sono precise normative internazionali da rispettare per il benessere e la sicurezza delle…»

«Delle cavie» lo interruppe suo padre, ed Emir si trovò nell’imbarazzante situazione di non poterlo contraddire. Ma la filippica che si era atteso sull’ossequioso rispetto di norme create appositamente per poter violare in piena legalità i diritti naturali dei Pokémon gli fu risparmiata, per la prima volta nella sua vita: quel giorno suo padre stava pensando a tutt’altro.

«Pensi che sia probabile che ti scopriranno?»

Emir si strinse nelle spalle. Non ne aveva idea. «Non lo so, papà. Sono quasi certo che non ci siano prove contro di me, ci ho riflettuto e non penso di averne lasciate. Nel laboratorio non ci sono telecamere. Se tu confermerai che io ero qui…»

«Proprio questo mi preoccupa» lo interruppe suo padre. Lo colpì la sicurezza e l’immediatezza della sua voce: sembrava aver ragionato molto a lungo su quell’obiezione, forse persino da quando aveva aperto il giornale. «Il fatto che tu fossi qui, proprio stanotte o ieri sera, durante il furto… se ti avesse visto qualcuno non sarebbe un problema, ma nessun altro oltre a me potrà confermare che ti trovavi qui stanotte, e io sono tuo padre. Non sono tenuto a denunciarti, ma nessuno è tenuto a credere alla mia parola. Sembra un alibi costruito ad arte. Non trovi?»

«So che sospetteranno di me» ribatté Emir con calma, che non riteneva prudente dirgli quali altre misure avesse preso per tutelarsi. «Ma sulla base di soli indizi non si può condannare un uomo, e io ti giuro che più di indizi non troveranno mai. Mew è nascosta in un luogo in cui nessuno potrà mai trovarla, e la sola cosa che conta è che sia al sicuro.»

«Benissimo» consentì suo padre. Ogni obiezione che avesse formulata riguardo al suo piano, a questo punto della conversazione, doveva esser stata vinta. «Ma in tal caso dovrai tornare. La notizia è su tutti i giornali, non puoi fingere di non saperne niente, e se rimarrai nascosto qui sarà come ammettere ad alta voce la tua colpevolezza.»

«I miei colleghi mi staranno cercando» ammise Emir, sentendosi improvvisamente di essere del tutto sveglio. Suo padre aveva ragione: aveva perso tempo fino a quel momento, ma ora bisognava tornare al lavoro. «Devo assolutamente chiamare il laboratorio per dir loro che ho saputo e che sto arrivando, prima che pensino che sono scappato e mi sto nascondendo. Posso usare il tuo telefono?»

Comporre il numero del laboratorio gli richiese un notevole atto di coraggio. Alle domande di suo padre egli aveva risposto forse un po' più calmo e distaccato di quanto non si sentisse effettivamente: per quanto riguardava gli indizi egli non aveva mentito, in quanto si sentiva ragionevolmente certo che non potessero sorgere nulla più che sospetti nei suoi confronti; ma questo era quanto. Esser venuto lì era stata una follia. Sarebbe riuscito a comportarsi in modo tanto naturale, e soprattutto sarebbe riuscito a non tradirsi?

Dopo un numero spropositato di squilli, una voce maschile e nervosa che non era assolutamente quella della sua segretaria rispose: «Pronto?»

«Valérien, sono io.»

«Dio, Emir!» La voce di Valérien tremava talmente che Emir temette che stesse per piangere di sollievo. «Ragazzi, è Emir! È al telefono, è tutto a posto, ha chiamato, ha chiamato… Emir, dove sei? Che fine avevi fatto?»

Persino i suoi colleghi avevano pensato che fosse stato lui. Una parte di lui era consapevole che non c’era poi nulla di sorprendente (e che sentirsi ferito per questo era piuttosto ipocrita, dato ch’egli era realmente colpevole): nel corso della medesima notte Mew era stata rapita e il direttore del laboratorio era svanito nel nulla. Eppure gli avrebbe fatto piacere che i suoi colleghi si fossero fidati di lui a tal punto da non dubitare della sua innocenza. Persino Valérien, che di lui si fidava come di un maestro di vita, aveva avuto paura che fosse fuggito per sempre, ed era per questo che la sua voce gli era parsa tanto sollevata. «Ti abbiamo cercato dappertutto, abbiamo chiamato a casa tua, ma tu non rispondevi…»

«Va tutto bene, Valérien, sto arrivando. Stavo ancora dormendo, ma ti ho chiamato non appena mio padre mi ha portato il giornale. Ero venuto a passare il week-end a Lavandonia…»

Sulla conversazione calò un silenzio mortale.

Dopo un istante di silenzio glaciale Valérien riprese la parola in tono simulatamente tranquillo, ma con voce tanto tesa che chiunque, anche non conoscendolo, avrebbe intuito che stava fingendo. «Ah…! Da tuo padre, quindi…?»

Se Valérien preferiva ripetere stupidamente le sue parole piuttosto che manifestargli apertamente la sua perplessità, doveva essere perché non era solo e non voleva rischiare di metterlo nei guai con qualcuno. Emir avrebbe voluto accertarsene, ma non poteva chiederglielo direttamente; allora, sforzandosi di suonare il più professionale e sbrigativo possibile, proseguì: «Avete chiamato la polizia? Hanno già fatto i primi accertamenti?»

«Sì, sono ancora qui, credo… credo che vogliano parlare con te. Si chiedevano tutti che fine avessi fatto.»

Si chiedevano tutti se fossi scappato col Pokémon più raro del mondo. Emir tossì discretamente. «Lo so, mi dispiace così tanto, Valérien. Vorrei essere lì, ho letto il giornale, ma ti giuro che non sto capendo niente… è tutto così confuso… Comunque sto arrivando, ripartirò il prima possibile. Devo solo controllare l’orario dei traghetti. Ah, ecco…» Senza pronunciare una parola, suo padre gli aveva rivolto un cenno silenzioso per richiamare la sua attenzione. Aveva in mano un opuscolo: Emir gli gettò uno sbrigativo gesto di ringraziamento mentre si affrettava a sfogliarlo per cercare di decifrare gli orari. Chissà come mai suo padre teneva in casa un orario dei traghetti per Isola Cannella, poi. «Il primo traghetto è tra tre quarti d’ora, Valérien. Sarò da voi prima di mezzogiorno. Puoi spiegarlo tu a tutti?»

«Ci sarai, vero, Emir?»

Sentendosi profondamente stizzito, Emir rispose: «Per quale motivo non dovrei, Valérien?»

Dopo un attimo d’esitazione, Valérien mormorò: «Scusami, Emir. È solo che tutta questa storia…»

«Lo so. Sono confuso quanto te, devi credermi. » Per un solo attimo Emir si sorprese di quanto profondamente sincera suonasse la sua voce. Forse persino l’ipocrisia del suo atteggiamento giocava a suo favore: parlando con Valérien, in quel momento, egli si sentiva come se realmente il suo amico lo avesse accusato ingiustamente ed egli fosse stato all’oscuro di tutto fino a un quarto d’ora prima. «Risolveremo tutto non appena sarò lì e parlerò con la polizia. Non può essere lontana, me lo sento.»

«Certo» disse Valérien col tono di qualcuno che avrebbe tanto desiderato esser più convinto. «Allora ci vediamo tra poco, Emir. Solo…»

«Sì?»

«Non è nulla, ma penso che Rotwang sia veramente arrabbiato con te. Ha dato di matto, lo sai com’è fatto…»

Dio, Rotwang. Qualcosa all’altezza del suo stomaco si strinse spasmodicamente d’angoscia a queste parole. Come aveva fatto a non pensare a lui neppure una volta da quando aveva aperto gli occhi? Era ovvio che fosse arrabbiato, furioso con lui, e per una volta, anche se Valérien non poteva saperlo, ne aveva tutte le ragioni. Chissà se lo aveva accusato davanti a tutti…

«Con Rotwang me la vedrò io appena arrivo, tu non preoccuparti di niente. Perché non dovrebbe scaricare la colpa su di me? Dopotutto è quello che fa sempre.» Ma prima che Valérien facesse in tempo a riprendere la conversazione, Emir si affrettò a tagliar corto: «Bisogna che vada, Valérien, o perderò il traghetto. Occupatevi di tutto finché non arrivo e date retta a Portia.» Se c’era qualcuno in grado di mantenere la calma in quella situazione, quella era lei: quella donna era l’unica in grado di fare al meglio gli interessi della Silph SpA. In qualsiasi situazione, esattamente come in quella, tutti si sarebbero aspettati ch’egli lasciasse a lei le redini del laboratorio. «Ci vediamo tra poco.» Troncando di netto ogni possibile tentativo di continuare la conversazione da parte di Valérien, Emir riappese bruscamente la cornetta.

Quella conversazione lo aveva spossato più di quanto avrebbe creduto in un primo momento. Mentire non era difficile, almeno non quanto aveva temuto all’inizio, ma era sfiancante mantenere in continuazione la concentrazione necessaria a non contraddirsi mai.

Aveva mentito per meno di cinque minuti, ma si sentiva così stanco che poggiò la fronte contro il muro fresco, socchiudendo gli occhi, e inspirò profondamente. Il pensiero di Mew lo riconfortava oltre ogni immaginazione, lo splendore azzurro dei suoi occhi valeva bene la pena di rischiare il carcere; ma quella, pensò con uno spaso di rammarico, sarebbe stata egualmente una lunga giornata.


Emir fece una doccia mentre suo padre gli preparava la colazione, come tanti anni prima, quando era piccolo.

Per la prima volta da quando aveva litigato con suo padre, Emir si spogliò in quel bagno dove tante volte l’aveva fatto da bambino, quando ancora del mondo non conosceva che Lavandonia e della vita nient’altro che la morale di suo padre, ed entrò nella doccia dai vetri smerigliati ormai grattati via dal tempo.

Si stupì di ricordare ancora tutto. L’odore penetrante e umido dell’acqua rugginosa, delle vecchie tubature calcarose, gli riempì le narici con la stessa sensazione familiare, per nulla sorprendente, che avrebbe provato se l’avesse sentito per l’ultima volta non prima del giorno precedente; mentre egli ristava immobile sotto il flusso d’acqua bollente che gli bagnava i capelli e gli faceva bruciare gli occhi, il suo sguardo seguì da solo un suo percorso misterioso lungo un fiore stilizzato tra le piastrelle… ma tutti gli anni ch’egli aveva trascorso lontano da casa, allora non avevano cancellato proprio niente? Era per questo che era tornato, alla fine?

Prima di lasciarlo da solo in bagno, suo padre gli aveva dato dei vecchi abiti scelti tra quelli ch’egli non aveva voluto portare con sé quando’era partito per Isola Cannella, tanti anni prima. Erano dei jeans e un maglione che gli erano piaciuti molto all’epoca dell’università, ma che a un tratto gli erano parsi infantili e inadeguati e miseri quando la Silph gli aveva offerto la gestione di un laboratorio e un assegno particolarmente corposo per comprare ogni eventuale scrupolo della sua coscienza; ma quando li indossò, Emir non provò quel sentimento di distacco e di rifiuto verso la Silph SpA che sarebbe stato logico aspettarsi. Erano abiti vecchi, fuori moda, e puzzavano di chiuso e di naftalina. Era stato affettuoso da parte di suo padre conservarli puliti e stirati per tutto quel tempo; ma questa era tutta la poesia che Emir riusciva a trovarvi. Non c’era altro da dire.

Quando tornò in cucina, suo padre gli aveva messo insieme una seconda colazione un po’ più consistente della prima. Chissà da dove aveva fatto apparire un barattolo di confettura scura, fatta in casa, che aveva tutta l’aria di che aveva tutta l’aria di essere un regalo di qualcuno dei volontari del centro. Era confortante sapere che c'era ancora qualcuno a preoccuparsi che suo padre mangiasse, malgrado fosse solo – anche se il fatto che il barattolo fosse ancora sigillato avrebbe dovuto fargli sospettare quanto sprecato fosse ogni tentativo di convincere quell’uomo a occuparsi di se stesso.

Se fosse riuscito a mangiarne almeno un po’ e avesse avuto meno pregiudizi, egli avrebbe scoperto che quella marmellata fatta in casa aveva un gusto autentico e genuino e che era più saporita e meno chimica di qualunque prodotto egli avrebbe mai potuto trovare in vendita a Isola Cannella. Ma il barattolo era di vetro opaco e iscurito dal tempo, uno di quei contenitori riciclati e riutilizzati dalle vecchie per svariate decine di usi, e la marmellata aveva quella consistenza grumosa e disomogenea delle buone vecchie cose salutari di una volta: l’unica immagine ch’egli riuscì a visualizzare nella sua mente, quando la portò alla bocca, fu quella di mani anziane e incartapecorite che facevano bollire la frutta in mezzo all’odore raccapricciante delle cucine a gas e della plastica bruciata. Quell’odore dal quale egli aveva passato tutta la vita a scappare gli riempì le narici con tale intensità che gli risalì la gola un conato di vomito. Si affrettò a posare tutto sul piatto e lo spinse via in gran fretta per non rischiare seriamente di rigettare, mentre suo padre, dall’altro lato del tavolo, lo fissava con stupore.

«Non ti piace?»

«Sono troppo angosciato per mangiare» mentì Emir, e suo padre non indagò più di così. Dopotutto, non aveva l’aria di una bugia.

Suo padre si limitò a sparecchiare in silenzio. Solo in quel momento, dopo esser stato troppo impegnato per accorgersene prima, Emir si ritrovò a prestare attenzione all’orrida tovaglia di plastica antiquata, disseminata di buchi e abrasioni là dove il fondo troppo caldo di qualche pentola l’aveva bruciata, e scoprì che i conati di vomito erano ancora in agguato in fondo alla sua gola. Bisognava riempire quel silenzio di parole, a qualsiasi costo, ed Emir disse la prima cosa che gli venne in mente. «Accompagnami al molo. Devo ancora fare il biglietto.»

Solo quando suo padre si voltò verso di lui, con una domanda inespressa che esitava da qualche parte dietro la sua fronte aggrottata, Emir realizzò quanto strana e forzata suonasse questa richiesta da parte sua; ma era troppo tardi per ritirarla, e si affrettò a specificare: «Per il mio alibi, voglio dire. Perché ci vedano insieme.»

«Certo, Emir» mormorò suo padre con una lieve esitazione che non riuscì a non tradire un’espressione piacevolmente sorpresa. Era sempre suo padre, dopotutto, anche dopo averlo rinnegato. «Lasciami solo prendere il cappotto.»

Il cappotto, il cappotto. Là fuori, all’esterno, l’aria dicembrina era molto più gelida e umida di quanto gli fosse parsa quella notte e la nebbia odorava di fumo e di sterpaglie. Anche con la maturità che negli anni del suo esilio doveva aver acquisito, Lavandonia gli ripugnava esattamente come quando se n’era andato.

Il traghetto stava già imbarcando i passeggeri. Suo padre lo aspettò fuori mentre comprava il biglietto, probabilmente fissando con disapprovazione la lunga fila di persone ordinatamente incolonnate – e perciò, nella sua personale visione del mondo, alienate – che si trascinavano innanzi verso la vasta gola nera del traghetto, ed Emir si sbrigò a concludere l’acquisto e a tornare a raggiungerlo fuori. La ragazza al banco non aveva dato il benché minimo segno di sapere chi fosse o di collegarlo ai titoli che campeggiavano su tutti i giornali della sala di attesa, ma trovarsi lì da solo lo faceva sentire comunque esposto e agitato. Si affrettò a uscire non appena il biglietto fu stampato.

Lui e suo padre non erano particolarmente tagliati per gli addii, e anzi, a dire il vero, la volta precedente non ce n’erano stati, dato che la sera precedente la sua partenza avevano litigato ed Emir era partito da solo, senza dir nulla, col primo traghetto del mattino. Ma per averlo riaccolto in casa sua quella notte, mentre scappava come un animale braccato, egli sapeva di dover bene a suo padre almeno la cortesia di un vero addio.

Cercò qualcosa da dire per iniziare: «Se ti dovessero chiedere qualcosa, ti ricordi, vero…»

«Che sei arrivato ieri sera per cena, lo so, lo so. Che volevi parlare della mia ultima protesta verso la Silph…»

Suonava credibile, ma Emir insisté ancora: «Non dire niente che tu non sappia. Se ti fanno domande per trarti in inganno e farti confondere, tu rispondi che io e te di certe cose non parliamo per non litigare…»

«Emir» lo interruppe suo padre sollevando gentilmente le mani. «Ho capito. Non preoccuparti. Non è neppure detto che m’interrogheranno.»

Se suo padre l’aveva interrotto, doveva essergli parso troppo agitato, e questo non andava per niente bene: Emir inspirò profondamente per calmarsi e annuì. Guardò verso il traghetto. C’era ancora tempo, ma restar lì lo imbarazzava troppo e preferiva salire subito. «Allora, ehm… vado, papà. Io…»

C’era qualcos’altro che avrebbe voluto dire o chiedergli, qualcosa che aleggiava in fondo alla sua gola, ma non trovava spazio per uscire, e nell’istante di troppo ch’egli aspettò, suo padre tornò a prendere la parola.

«L’hai rubata per soldi, Emir?»

Si sentì stupefatto e attonito. Suo padre lo scrutava determinato ma tranquillo: non aveva alcuna intenzione di accusarlo. Voleva soltanto saperlo, e quella era l’unica occasione ch’egli aveva per parlare a suo padre di tutto quello che era accaduto in quegli anni. Ma da quando poi gli importava di giustificarsi davanti a lui?

«Non l’ho portata via per questo, papà» balbettò. Possibile che gli sembrasse d’un tratto d’aver tante cose da dire, così tante che non gliene bastava il tempo ed esse si accavallavano le une con le altre per uscire, quando per tutta la mattina non aveva aspettato altro che d’andarsene da lì? «Non ho mai fatto nulla per i soldi, non ho mai fatto nulla d’illegale, io… io lo sapevo quello che facevano, ma non l’ho mai fatto io con le mie mani… anche quando hanno regalato Porygon a quelli di Azzurropoli io non ci ho guadagnato niente, te lo giuro, io dovevo solo lavorare in laboratorio e non fare domande…»

Quel che stava dicendo non aveva alcun senso, ed egli se ne sarebbe accorto se fosse stato solo un po’ più lucido: ma era la prima volta checonfessava ad alta voce di sapere che tutto quel che aveva fatto era sbagliato. Rotwang l’aveva accusato per anni e suo padre aveva protestato sui giornali e in televisione contro le inumani politiche della Silph, ed egli aveva negato ogni singola volta solo perché sapeva che la legge lo tutelava; ma per quanto ciò fosse insensato gli sembrava di vitale importanza che suo padre sapesse ch’egli era a conoscenza di tutto ciò che la Silph faceva coi frutti del suo lavoro, ma che lui, personalmente, non aveva mai fatto nulla di crudele sui Pokémon; e per quanto si accorgesse benissimo che questa non si chiamava onestà, ma solo omertà, gli pareva che la linea sottile tra essere uno sfruttatore ed essere un ipocrita facesse tutta la differenza del mondo.

«Emir. Emir!» lo interruppe suo padre con fermezza, sollevando imperiosamente una mano, e solo in quel momento egli si rese conto d’aver parlato troppo e a voce troppo alta e che qualcuno li stava fissando. «Ti credo, ti credo, va bene. Era solo una domanda, ma tu non ti agitare.»

Si sentì molto stupido per aver parlato così ed essersi scoperto tanto proprio di fronte a suo padre, e si sentì in urto verso se stesso. Forse aveva davvero i nervi così fragili come gli aveva sempre detto Rotwang, e ora si vergognava tremendamente. «Certo, certo, giusto… solo una domanda.»

Cominciava a far tardi, ormai quasi tutti i passeggeri erano stati imbarcati; solo gli ultimi passeggeri a piedi stavano ancora salendo. Bisognava salire, sbrigarsi, tornare a fuggire da Lavandonia, e convincere se stessi che quel breve attimo di debolezza non si fosse verificato mai…

«Allora, salgo a bordo» mormorò un po’ impacciato, desiderando con tutto il cuore di non aver detto ciò che aveva detto; ma si tenne cautamente distante da lui, per non trovarsi invischiato in un abbraccio che non provava alcun desiderio di dare, e suo padre gli parve a disagio quanto lui.

«Già, è tardi. Allora… buona fortuna, eh?»

«Grazie» rispose Emir, e sentendosi profondamente stupido e fuori luogo si voltò e percorse la passerella senza voltarsi indietro.

Si sentì al sicuro solo quando fu al chiuso, in un salone coperto caldo e affollato, seduto presso una finestra convenientemente protetta da una pesante tenda polverosa. Con ogni probabilità, conoscendolo, suo padre doveva esser rimasto sulla banchina ad attendere la partenza, e guardando fuori egli l’avrebbe visto e avrebbe potuto salutarlo, visto che sul molo non gli era riuscito; ma Emir tirò la tenda finché non fu più in grado di vedere neppure un brandello di cielo e impose a se stesso d’ignorare la consapevolezza che suo padre era ancora là fuori. Una volta che il traghetto si fosse allontanato dal molo, Emir avrebbe potuto tornare a convincersi che suo padre per lui non esistesse e la sua opinione non avesse per lui alcun significato, e forse avrebbe smesso di sentirsi mortificato e stupido per l’eccesso di sincerità cui si era abbandonato. Quella notte a Lavandonia sarebbe stata solo una falla angosciosa in un piano che aveva richiesto più lucidità e stabilità di quanta egli avesse, e tutto sarebbe finito lì.

Chiudendo gli occhi contro la tenda, mentre tutto attorno a lui la sala esplodeva di frastuono e caos e tutti i passeggeri discutevano l’uno con l’altro del furto del Pokémon più raro del mondo, Emir cercò di concentrarsi sulla lunga giornata che lo attendeva e di non pensare al fatto che suo padre, dopo sei anni che non si rivolgevano la parola, teneva ancora in casa gli orari dei traghetti per l’Isola Cannella.

   
 
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