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Autore: Adeia Di Elferas    28/12/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quando finalmente vide le porte di Forlì, Simone Ridolfi si permise di tirare un sospiro di sollievo e maledisse ancora una volta la sua malasorte che aveva voluto per lui un bel diluvio non appena aveva lasciato Imola.

Ci aveva messo qualche giorno a decidersi, ma poi, mosso soprattutto dalle parole della moglie, aveva deciso di andare di persona dalla Contessa.

E così, anche se erano solo i primi di settembre, il cielo aveva ben pensato di caricarsi di nuvole e rovesciare su di lui tutto quello che aveva trattenuto negli ultimi giorni.

“Messer Ridolfi, Governatore di Imola.” si annunciò, restando a cavallo e mettendo una mano sotto al mantello, come a tirar fuori il documento che ne attestava l'identità.

La guardia, che ben lo conosceva, lo lasciò passare senza chiedergli di visionare nulla e così Simone spronò il cavallo e attraversò la città a gran velocità, desideroso di sottrarsi all'acquazzone.

Quando arrivò alla rocca, i piantoni che stavano all'ingresso furono più indaginosi, gli fecero consegnare il cavallo, lo perquisirono, prendendo in custodia il suo pugnale da viaggio, e lo fecero attendere qualche minuto, prima di dargli il permesso di entrare, e, anche in quel caso, gli dissero di attendere il castellano o il Capitano Mongardini.

Ridolfi, restando riparato sotto al portone, si mise in paziente attesa. Anche se non faceva freddo, bagnato com'era stava congelando.

I suoi occhi vividi stavano passando in rassegna ogni cosa e, finalmente, intravide un profilo che gli era molto familiare.

“Giovannino!” esclamò, alzando un braccio e facendo qualche passo in avanti.

“Vi ho chiesto di attendere qui.” lo riprese la guardia, ma, non appena il Medici riconobbe Simone, il soldato tornò al suo posto e non disse più nulla.

“Vieni dentro, che qui ti prenderai qualcosa...” fece subito Giovanni, andandogli incontro e facendogli strada su per la scale: “Che cosa ci fai qui?”

Ridolfi, nel salire al piano di sopra, notò come il Popolano zoppicasse vistosamente e fu sul punto di chiedergli come stesse, senonché un'altra domanda gli premeva di più: “Avete stretto sulla sicurezza, eh? Prima non erano così puntigliosi, i soldati all'ingresso...”

“Ho pensato che fosse una buona norma controllare di più chi entra e chi esce da qui.” spiegò Giovanni, mentre portava il cugino verso una delle stanze in cui il camino era acceso: “Per non avere altri incidenti.” specificò.

“E da quando decidi tu in merito alla sicurezza della rocca?” chiese Ridolfi, accigliandosi.

C'era qualcosa, nel piglio del Medici, che non riusciva a cogliere. Sembrava molto più a suo agio dell'ultima volta che si erano visti, nel girare per la rocca e anche il modo disinvolto con cui si era preso il merito della maggior attenzione alla sicurezza aveva colpito molto Simone.

“Perché sei qui?” chiese il Popolano, senza rispondere.

Ridolfi annuì da solo e poi, prima che Giovanni lo facesse accomodare in una delle camere, lo guardò e, mettendogli una mano sulla spalla, gli disse: “Devo parlare subito con tua moglie. Dove la posso trovare?”

L'ambasciatore di Firenze scrutò per un istante il viso dell'altro e poi sollevò le spalle: “È uscita da un paio d'ore. Dovrebbe tornare a momenti.”

“È in città?” chiese Ridolfi, già pronto ad andare a cercarla.

“Credo sia nei boschi.” rispose Giovanni, senza inflessione.

“Con questa pioggia?” domandò sorpreso il Governatore di Imola che, pur conoscendo l'indole selvatica della Tigre, non la credeva tanto incosciente da starsene volontariamente fuori con quel tempo da lupi.

Il Popolano stava per rispondere in qualche modo, quando dal cortile si sentirono delle voci e degli zoccoli battere in terra. Subito il Medici corse alla finestra che dava verso l'interno e vide la moglie che smontava di sella, dicendo qualcosa a uno degli stallieri.

A Simone non sfuggì l'espressione sollevata che ridiede colore al suo viso, ma fece finta di niente, quando Giovanni gli disse solo: “Ecco, è arrivata. Aspetta pure nello studiolo, se vuoi. Te la mando subito. Ma prima vuoi asciugarti un momento..?”

“No, sto bene così.” ribatté il Governatore e, senza trattenere oltre il Popolano, che sembrava impaziente di correre dalla Sforza, si diresse allo studiolo del castellano.

 

Violante restava immobile, sotto al lenzuolo, senza riuscire a fare o dire nulla. Pandolfo, seduto accanto a lei, si stava già rinfilando gli stivali, con gesti secchi e spezzati.

Da quando erano rientrati a Rimini, l'aveva cercata di continuo e non sempre con la solito violenza, incurante del fatto che lei lo volesse o meno. Anche se a volte, come in quel caso, l'aveva dovuta forzare, c'erano stati momenti in cui era riuscito a farsi accettare, benché la Bentivoglio per prima si chiedesse come vi fosse riuscito.

Quando erano stati a Venezia, il Pandolfaccio sembrava quasi essersi dimenticato di lei, mentre una volta a casa, per quello che aveva potuto capire Violante, non aveva avuto altre donne se non lei.

“Mi cercherai anche stanotte?” gli chiese, con un velo di paura nella voce.

Il Malatesta si immobilizzò e poi, guardandola da sopra la spalla pallida, le chiese: “Perché, hai di meglio da fare?”

“È solo che prima...” iniziò a dire la donna, non riuscendo a terminare la frase.

“Venezia si aspetta che io abbia degli eredi, per dare stabilità al mio Stato. Che ti piaccia o no, è meglio che un figlio maschio sia tu a darmelo, piuttosto che un'altra donna.” fece Pandolfo, alzandosi in fretta dal letto e recuperando il camicione appeso all'inginocchiatoio: “Venezia mi ha chiesto espressamente di assicurare una linea dinastica legittima. E io intendo rispettare gli accordi.”

Violante finalmente comprese cosa stava davvero dietro all'improvvisa dedizione del marito nei suoi confronti e così, mentre lo vedeva lasciare la camera a passo svelto, con le sue gambe lunghe e secche, si sentì ancor più sporca di quanto non si fosse sentita fino a pochi minuti prima.

 

“Ah, e ti ha detto che vuole?” chiese Caterina, mentre seguiva Giovanni verso la loro camera.

Anche se, alla notizia dell'arrivo di Simone, la Contessa aveva espresso l'intenzione di andare subito da lui, il marito era riuscito a convincerla almeno a cambiarsi d'abito, prima.

Il suo vagare per i boschi aveva fatto sì che la pioggia la infradiciasse fino alla sottoveste e il Medici aveva troppa paura che si prendesse qualcosa.

“Con tutta quest'umidità – disse, mentre l'aiutava a cavarsi l'abito e poi a metterne uno asciutto – si rischia solo di prendersi un malanno e se già lo si ha, non si fa che peggiorarlo.”

A quelle parole, la moglie gli prese un momento le mani, per fargli smettere un momento di annodarle i lacci delle maniche: “Ti stanno tornando i dolori?”

Il fiorentino guardò altrove e poi, con una certa insistenza, forzò il blocco momentaneo della Leonessa e riprese in fretta a vestirla: “No, sto bene...”

La Contessa ci credette fino a un certo punto, ma il modo abbastanza disinvolto con cui Giovanni si muoveva per la stanza, le fece credere che la situazione non dovesse essere poi tanto tragica, al momento.

“Sai, anche mio nonno Francesco aveva sofferto di gotta...” disse, mentre uscivano dalla camera e andavano verso lo studiolo, tralasciando il dettaglio che Francesco Sforza si era ammalato più in tarda età rispetto al Medici: “E mi raccontavano che anche a lui, con l'umidità, peggiorava, ma poi, appena tornava il sole, si sentiva subito meglio...”

Giovanni non disse nulla, apprezzando quel goffo tentativo della moglie di rassicurarlo e, arrivati alla porta dello studiolo, la guardò un momento, interrogativo.

“Lasciaci soli.” confermò la donna, rispondendo alla tacita domanda dell'uomo.

 

Gaspare Torella girò attorno al letto su cui riposava il figlio del papa. Appena Cesare aprì un occhio, il medico gli sorrise e gli posò una mano sulla fronte.

Il Borja gliela scansò di prepotenza e sbottò: “E smettetela di trattarmi come un moribondo. Ormai sto bene! Anzi, voglio tornamene a Roma.”

“Ancora un po' di pazienza...” provò a dire il medico, sulla cinquantina, che, malgrado i lunghi soggiorni a Roma ancora non aveva perso l'accento di Cervia: “Il mal francese è una brutta bestia, dovete stare attento.”

Cesare sospirò. Si sentiva bene. Aveva dormito molto, aveva riposato, s'era sfebbrato. Non capiva che altro volesse quel maledetto dottore da lui.

“Se non approfitto adesso – disse ancora il Borja, chiudendo gli occhi per l'esasperazione di non essere compreso – del fatto che mio padre sembra tornato in sé...”

Gli erano giunte voci del fatto che molti dei buoni propositi di Alessandro VI fossero in fretta naufragati e che, addirittura, stesse pensando di richiamare a sé tutti i suoi figli. Era stato lo stesso Torella a suggerirlo ulteriormente, riportando fresche notizie da Roma, che davano il papa già dimentico dei suoi santi propositi di penitenza e riforme.

In tal caso, Cesare voleva agire in anticipo e proporsi una volta per tutte come figlio prediletto, pronto a prendere sulle spalle il destino della famiglia.

In più, Michelotto gli aveva fatto sapere di essere in Italia, proprio su commessa del papa che lo aveva mandato in luglio a soccorrere gli abitanti di Orvieto...

“Se state tranquillo ancora per stanotte – gli promise a quel punto Torella, scuotendo il capo davanti all'impazienza del suo paziente – vi prometto che vi lascerò partire. Ma io dovrò venire con voi per assicurarmi che non...”

“Quel che vi pare, dannato medico!” lo interruppe il Borja e, come a voler sbrigare il prima possibile la notte, benché probabilmente fosse solo pomeriggio, si tirò la coperta fin sul mento e si voltò sul fianco, cercando di dormire.

 

“Mia signora.” disse subito Simone, alzandosi dalla sedia su cui si era sistemato e facendo un profondo inchino.

“Siete fradicio... Sicuro di non voler qualche abito asciutto?” fece la Tigre, iniziando a trafficare con il camino per accenderlo.

Ridolfi, che nella breve attesa aveva ripassato mentalmente quel che doveva dire, si schiarì con forza la voce e, per far le cose in fretta, in modo da farsi meno male, cercò di attirare l'attenzione della Leonessa: “Lasciate perdere il camino, sono grande e grosso, una camicia bagnata non mi porterà all'oltretomba, statene certa.”

Il tono deciso con cui il Governatore aveva parlato indussero Caterina a lasciar davvero perdere il fuoco e concentrarsi su di lui: “Ditemi pure, allora.”

“Ho saputo solo pochi giorni fa della sorte del mio parente in Firenze, decapitato per tradimento per aver brigato due volte contro i Popolani, in favore del Fatuo.” iniziò a dire Simone, il viso contrito e gli occhi scuri: “Volevo scrivervi, ma su consiglio di mia moglie, ho preferito venire di persona.”

“Avete detto che l'avete saputo giorni fa. Come mai arrivate qui solo oggi?” chiese la Sforza, che, avendo ancora i lunghi capelli bagnati, cominciava ad avere un po' di freddo e sperava di poter chiudere in fretta il discorso e rintanarsi al caldo.

“Perché mi pareva indelicato arrivare alla vostra corte proprio nel ricorrere della morte del Barone Feo.” disse a voce molto bassa Simone, senza ombra di ipocrisia.

Quando ci aveva pensato, era stato proprio quello, il primo motivo che l'aveva bloccato. E poi era passato qualche giorno in più del previsto, ma, secondo lui, l'importante era essersi risolti, infine.

“E dunque, che avete da dire?” chiese la Tigre, incrociando le braccia sul petto.

Il Governatore poggiò un ginocchio in terra e, chinando il più possibile il capo, disse: “Che io sono un vostro servo fedelissimo, vostro e di vostro marito e che mai farei nulla per ledere nessuno di voi due, tanto meno Lorenzo, vostro cognato. Se il mio parente era dalla parte del Fatuo, ebbene, sappiate che io con i parenti rimastimi in Firenze ormai non ho più contatto alcuno, tanto che nella mia ultima visita, i più hanno fatto finta di non conoscermi nemmeno.”

Caterina gli si avvicinò e con fare sbrigativo gli disse: “Alzatevi. Non mi piacciono queste sceneggiate.”

Simone, sentendosi molto più agitato di quanto avesse creduto possibile, si rimise in piedi, in attesa delle parole della donna.

“Sappiate che, a differenza mia, Giovanni non ha mai dubitato di voi. Mi aspetto che tanta lealtà venga ripagata adeguatamente.” decretò la Tigre, che ormai non aveva più dubbi sulla buonafede del Governatore di Imola.

Ridolfi aprì le labbra, pronto a rinnovare il proprio voto di fedeltà, ma la Contessa lo bloccò prima che potesse dire anche solo una parola.

“Adesso basta chiacchiere. Ci siamo chiariti. Ho apprezzato il vostro gesto. Siete nostro ospite a cena, e anche per la notte. Non vi permetto di rimettervi in strada con questa pioggia.” concluse Caterina, dedicandogli un brevissimo sorriso che, più di tutto il resto, riportò la calma nel petto del fiorentino.

 

Isabella Este aveva chiesto a tutti di lasciarla un momento sola. Nemmeno le sue dame di compagnia la dovevano vedere in quello stato.

Le era appena arrivato un messaggio da una delle sue spie di Brescia, ma, se ne rese conto con fin troppa semplicità, le sarebbe presto bastato leggere le lettere delle pettegole del nord Italia per avere le medesime informazioni che ora leggeva dalle righe del suo informatore.

'Messer Francesco, marito vostro – aveva scritto la spia – ogne sera facesi vedere senza pudor alcuno a una festa diversa quivi in Brescia et ogne sera ei se accompagna con una dama diversa, sempre amorevolmente e con grande fracasso, ridendo ch'ei può vantare una signora diversa a notte, dando mostra di non aver alcun cuore ne' confronti vostri e del vostro onore.'

Isabella strinse il messaggio con tanta forza da strappare in parte il foglio su cui era scritto.

Suo marito la stava mettendo in ridicolo, rendendola lo zimbello di mezza Italia e solo per farle dispetto, solo perché non voleva ammettere di aver commesso un errore madornale nel maldestro tentativo di risolverne un altro.

Quando Isabella aveva saputo della ricerca di Francesco di un'intercessione da parte di Caterina Corner, aveva capito subito che sarebbe tutto finito in un gran pasticcio, tanto che il Doge stesso pare avesse dileggiato il Marchese di Mantova apertamente con tutti i suoi amici, dicendo che non gli era bastato 'mandar la moglie' a parlamentare, ma 'perfino un'amante, come il più misero degli uomini'.

Anche se nessuno sembrava credere davvero che l'ex regina di Cipro fosse l'amante del Gonzaga, il modo in cui la Corner aveva parlato al Doge, evidentemente, aveva lasciato intendere che il Marchese, per ottenere la sua nominale protezione, si fosse offerto né più e né meno di come erano soliti offrirsi i gladiatori alle matrone di cui speravano di ottenere i favori.

A quel punto l'Este aveva scritto furiosa al marito, chiedendogli, in pratica, se per caso fosse impazzito o se fosse solo stupido.

La risposta di Francesco era stata, evidentemente, abbastanza chiara.

Isabella andò alla finestra e quando vide Mantova coperta da uno strato di pesante nebbia, già immersa nel buio della sera, si sentì, per la prima da anni, tremendamente sola.

 

La sala dei banchetti, benché ci fosse un ospite discretamente importante, come Simone Ridolfi, era quasi deserta.

A parte Caterina e Giovanni, erano a tavola Bianca, il Capitano Rossetti e il Capitano Numai. Da un lato, il Governatore non era scontento di vedere che le abitudini della rocca non erano state stravolte dal suo arrivo, ma dall'altro si chiedeva come facesse suo cugino, abituato alle formalità di Firenze, ad accettare senza fare una piega quel genere di andamento.

Mentre la Contessa si serviva ancora un po' di carne di cervo, Simone non riuscì a trattenersi dal fare una battuta – anche per ravvivare un minimo il silenzio che era calato sulla tavolata – e così rise: “Certo che la vostra voracità non è diminuita, dall'ultima volta che vi ho vista mangiare!”

Siccome la Tigre non pareva in vena di trovare il commento divertente, Ridolfi ammiccò verso Giovanni, che gli stava accanto e disse, a voce appena più bassa, ma non abbastanza da non farsi udire anche dagli altri presenti: “E immagino che non tutta questa fame non sia rivolta solo alla carne di cervo...”

“Simone, per favore...” fece il Medici, senza però alcun imbarazzo.

Il Governatore ridacchiò ancora tra sé, soprattutto quando notò uno scambio di sguardi molto significativo tra i due Capitani seduti a tavola.

Aveva sentito, nelle poche ore passate alla rocca quel giorno, delle chiacchiere davvero molto interessanti riguardo suo cugino e la sua cara consorte e quelle occhiate gli stavano tacitamente confermando quasi tutto, così come il rossore che aveva colorito le guance della figlia della Sforza.

“Seriamente, mia signora...” fece dopo un po' Simone, tornando vagamente più compito, ma reso loquace dal forte vino che la Contessa gli aveva offerto, pur, stranamente per i suoi costumi, non bevendone lei stessa: “Sembra quasi che dobbiate mangiare per due!”

Quella che voleva solo essere una battuta di spirito, suscitò nella Tigre e nel Popolano una reazione che il Governatore non si lasciò sfuggire.

Senza che riuscisse a cogliere ogni sfumatura di quello che marito e moglie si stavano tacitamente dicendo con lo sguardo, Simone capì comunque che la donna alla fine doveva aver dato qualche tipo di permesso a Giovanni, ma non colse altro.

Anche Bianca notò qualcosa di strano e, per quanto le fosse parso di aver capito benissimo il motivo di tanto imbarazzo e silenzio, la sua mente in quel momento si rifiutò di considerare l'idea che sua madre fosse incinta.

“Piuttosto – fece con una certa disinvoltura la Leonessa, tornando a infilzare la carne con il pugnale e addentandone un pezzo – parlateci dei lavori a Bubano.”

Al che Ridolfi venne letteralmente trascinato in una lunghissima discussione sulla messa in opera della chiesa e della rocca a Bubano, tanto che, stanchi di sentirli, il Capitano Rossetti e Numai si congedarono, dopo un po', e altrettanto fece Bianca.

Come succedeva sempre alla tavola di Ravaldino, i commensali si avvicendarono e solo a tarda sera il conciliabolo si sciolse.

Caterina si scusò, dicendo che prima voleva passare un momento a dire una cosa al Capitano Mongardini, e così diede modo a Giovanni di restare indietro con il cugino, in modo da potergli dire quel che pareva desideroso di confessare.

“Ti spiace seguirmi un attimo nella sala delle letture? A quest'ora dovrebbe essere vuota...” fece Il Medici, partendo subito, senza attendere risposta.

Simone, che non attendeva altro, praticamente gli corse dietro, così euforico da far quasi fatica a stare al passo un po' rallentato del Popolano.

Quando arrivarono nella stanza prescelta, Giovanni accese qualche candela in più e poi fece segno al parente di sedersi, più per poter fare altrettanto che non perché volesse intrattenersi a lungo.

Fuori dalla finestra la pioggia batteva ancora con forza e l'umidità gli stava entrando nelle ossa come un tarlo, rendendo le sue articolazioni ancor più legnose e dandogli la tangibile sensazione di essere un vecchio, benché non avesse ancora compito trent'anni.

“Allora, dimmi tutto, Giovannino.” lo invitò Ridolfi, puntellandosi coi gomiti sulle ginocchia, sporto in avanti come chi si aspetta una grande rivelazione da un momento all'altro.

“E allora...” cominciò il Medici, pensando a come nessuno, nemmeno suo fratello Lorenzo, fosse ancora stato messo al corrente dello stato di Caterina.

Il Governatore lo guardava con tanto d'occhi, in spasmodica attesa di sapere, il grosso viso reso un po' rosso dal vino, e le larghe spalle un po' strette, come se stesse trattenendo il respiro.

“Dai, non farmi stare sulle spine... Ho capito che c'è qualcosa di grosso...” fece Simone, quasi perdendo la pazienza.

“Caterina è incinta.” soffiò alla fine Giovanni.

Non lo avrebbe mai creduto, ma dirlo ad alta voce, un po' lo emozionò. Fino a quel momento, ne aveva parlato solo con la moglie, e sempre in termini abbastanza vaghi.

Poterne parlare con qualcuno che lo conosceva da sempre e che gli era amico, era qualcosa che dava a quella notizia un peso tutto diverso. In qualche modo, gli faceva sentire il bambino che ancora non era nato come qualcosa di più reale.

“E bravo Giovannino!” esplose subito Simone, alzandosi in piedi e avventandosi sul cugino per abbracciarlo: “Sei pelle e ossa – soggiunse, mentre gli cingeva le spalle con le sue forti braccia – ma sai fare il tuo dovere eh?”

“Sapevo che te ne saresti uscito con una delle tue frasi infelici...” fece il Medici, non trattenendo però una mezza risata, mentre spingeva via Ridolfi.

“Veramente, Giovannino...” riprese il Governatore, tornando un po' in sé e guardando l'altro fiorentino con una sorta di orgoglio: “Un figlio, ma ti rendi conto? Con la Tigre, per Dio!”

“Per uno come te non dovrebbe essere nulla di speciale.” tagliò corto il Medici, che temeva che Simone fosse sul punto di lanciarsi in un altro dei suoi volgari panegirici: “Non sei tu che ti vanti di averne seminati in ogni dove, per poi affibbiarli a mariti più o meno ignari?”

“Che c'entra...” fece l'altro, agitando la mano e senza più traccia di ilarità: “Io parlo sul serio, adesso, Giovannino. Un figlio dalla donna che ami. E per di più adesso, che siete all'apice del vostro amore! Ti rendi conto della fortuna che hai?”

Il Popolano arrossì violentemente, sentendosi il collo e le orecchie in fiamme. Le parole di Ridolfi rispecchiava esattamente il suo stato d'animo, ogni volta che si metteva a ragionare su quello che gli stava capitando.

“Hai ragione, sono fortunato.” ammise, con un ampio sorriso.

Passarono ancora qualche minuto a parlare, fino a che Simone non gli chiese se avessero già pensato a come chiamare il piccolo, ma il Medici gli disse che era troppo presto e che non avevano ancora sfiorato l'argomento.

“Lorenzo lo sa?” chiese il Governatore, dopo aver passato velocemente in rassegna le persone che avrebbero potuto essere già informate di quel lieto evento.

“No, e per ora non voglio che lo sappia.” rispose il Popolano, fissandolo in modo eloquente.

“E va bene, e va bene...” concluse allora Ridolfi, gli occhi ancora accesi di gioia e le labbra schiuse in un sorriso di sincera soddisfazione per una simile notizia: “Allora, per festeggiare ti porto con me al bordello. E pago io.”

Il Governatore aveva già preso di peso il cugino che, per quanto avvezzo ai suoi ragionamenti, era rimasto basito davanti a quella proposta.

“Ma che stai dicendo?” domandò il Medici, divincolandosi dalla presa e guardandolo con aria offesa.

“Se tua moglie è incinta, ho pensato che...” fece Ridolfi, per la prima volta un po' in imbarazzo.

“Mia moglie non mi rifiuta, se è questo che pensi. Anzi.” si permise di specificare l'ambasciatore, sollevando il mento.

L'altro allargò un po' le braccia, a mo' di scusa e spiegò: “È che avevo sempre sentito dire che le donne in stato interessante fossero solite evitare il marito, per paura di...”

“Ti ricordo che tu basi le tue idee su matrimoni combinati, in cui il più delle volte la moglie vorrebbe sfuggire al marito anche quando non è incinta.” ribatté Giovanni, piccato: “Senza contare che Caterina ha già partorito sette figli, tutti in salute. Immagino sappia quel che fa.”

“Ovviamente.” concordò Ridolfi, riacquistando il sorriso: “Allora vuol dire che al lupanare non avrà la concorrenza di un bell'uomo come te. Avanti, corri dalla tua Tigre. Se è vero che ha sempre certi appetiti, sarà affamata, ormai...”

Giovanni fece un'espressione scocciata, ma la pacca benevola che il cugino gli diede gli fece riprendere il buon umore di poco prima.

“Sarai un ottimo padre.” lo incoraggiò Ridolfi, appena prima di separarsi, nel corridoio: “Così come sei un ottimo marito.”

 
   
 
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