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Autore: Adeia Di Elferas    29/12/2017    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Allora? Hai detto tutto a Ridolfi?” chiese Caterina, non appena Giovanni entrò nella loro camera.

La Contessa era allo specchio e si stava mettendo la sua crema che profumava di galbano. Il marito si era accorto che ultimamente aveva preso a usarla quasi tutti i giorni. Così come usava con maggior frequenza la sua lozione per tenere le mani morbide, in modo da non lasciarsele rovinare dai lavori manuali dai quali era solita non sottrarsi.

Insomma, in un certo senso, gli pareva che Caterina stesse tornando a curarsi di più, un po' come aveva sentito dire che facesse quando era sposata con il suo secondo marito.

Quando si erano conosciuti, non era ancora uscita dal periodo più buio della sua vita. Giovanni la ricordava benissimo, nei suoi eccessi e nella confusione che tutt'ora, a volte, la riacciuffava, rischiando di rimetterla davanti ai propri demoni.

Vedere come stesse lentamente riacquistando un equilibrio, arrivando perfino a indulgere di nuovo in cose che riteneva frivole, come la cura di sé, scaldava il cuore del Medici. Non tanto perché così sarebbe stata più bella per lui, quanto perché era il segno che qualche ferita in lei iniziava a guarire.

“Sì, gli ho detto tutto.” affermò il fiorentino, andandosi a sedere sul letto, esausto.

La pioggia non accennava a smettere e quella giornata l'aveva stancato come non mai. Tuttavia, adesso che la notte stava scendendo, si sentiva molto meglio, malgrado le gambe doloranti.

“Come l'ha presa?” chiese la Tigre, finendo di mettersi la crema sul viso e voltandosi verso il marito.

“Dire che è euforico, sarebbe un eufemismo.” riassunse in breva il Popolano.

Caterina non fece alcuna espressione particolare, limitandosi a dire: “Davvero era così contento?”

“Tanto che ha deciso di andare a festeggiare in un postribolo.” precisò il Medici, con un'alzata di sopracciglio.

“È sempre il solito.” commentò lapidaria la Contessa.

“Mi ha anche chiesto di seguirlo.” soggiunse Giovanni, curioso di vedere come la Tigre l'avrebbe presa.

Si era atteso una battuta sprezzante, o anche un piccolo scatto di rabbia, invece il sorriso soddisfatto che increspò le labbra della moglie lo sorprese, e in modo molto piacevole: “E invece tu hai preferito restare qui con me.” disse la donna, chiaramente fiera del successo ottenuto.

“Solo uno sciocco lascerebbe il tuo letto per quello di un'altra.” assicurò il Medici, mentre la moglie gli arrivava accanto e, dopo un lungo bacio, cominciava a togliergli il giubbetto di raso.

Per poco il fiorentino non si mise a ridere da solo, ripensando alla mezza profezia fatta da Simone, ma si trattenne senza troppo sforzo, già anche troppo preso dalle mani di Caterina che, roventi e lisce come seta, si stavano già muovendo su di lui con intenzioni che conosceva molto bene.

 

Ottaviano Manfredi si passò una mano tra i lunghi capelli biondi e continuò ad ascoltare i due chiacchierone che erano seduti alle sue spalle.

La locanda, una delle peggiori di Pisa, era piena di gente e il baccano era tale che per il faentino esule era difficile cogliere proprio tutto quello che i due si dicevano. Per di più, purtroppo, entrambi avevano un accento veneziano così forte che era quasi impossibile distinguere alcune parti del discorso.

Per fortuna, però, Ottaviano aveva capito che la maggior parte delle parti meno intellegibili erano solo bestemmie.

Quando i due cominciarono a discorrere d'altro, Manfredi si concentrò di nuovo sul calice quasi vuoto che aveva davanti.

Il conflitto tra Firenze e Pisa s'era concretizzato poco, fino a quel momento, e ormai sembrava che i duecentocinquanta cavalieri di Giampaolo Manfrone, condottieri veneziano in difesa di Pisa, fossero sul punto di una rotta per la lunga e immotivata attesa.

I due beoni che Ottaviano aveva ascoltato fino a quel momento erano parte del suo seguito e avevano detto che il Manfrone fosse sul punto di chiedere al Doge il permesso per lasciare Pisa per un po', in modo da andare a Napoli dalla moglie.

Finendo il vino che aveva davanti, Manfredi si rialzò e lanciò una moneta al locandiere. Ormai aveva pochi soldi con sé e aveva capito di essere solo un incomodo per quelli che lo avevano accolto quando era arrivato in fuga e senza più un piano.

Uscendo in strada, sotto al cielo carico di nuvole del settembre pisano, Ottaviano annusò l'aria di mare che spirava da lontano e cominciò a ragionare.

Lo scontro che stava per aprirsi avrebbe destabilizzato tutti, ne era certo, e dunque doveva cominciare a chiedersi quale fazione appoggiare, a quale cercare di farsi amico, nella speranza imperitura di riuscire un giorno a tornare a Faenza e da lì a riconquistare anche Imola, strappando la prima dalle mani infantili di suo cugino Astorre e la seconda da una donna pazza quale era la Tigre di Forlì.

 

Simone Ridolfi era ripartito alla volta di Imola da qualche giorno e alla rocca la vita era ripresa normalmente.

Anche se la Contessa aspettava notizie precise sulla situazione di Rimini – dopo aver saputo del rientro di Pandolfo Malatesta, attendeva che il suo ambasciatore sapesse dirle qualcosa di più preciso – in linea di massima gli unici impegni della giornata per il governo forlivese erano badare ai lavori del mastio, che erano ormai quasi finiti, e risolvere le questue quotidiane.

Bianca, che da giorni ribolliva nel dubbio, aveva provato a fare qualche domanda a una delle serve che sapeva addette alla camera di sua madre.

Anche se non sperava che la Tigre si fosse confidata con una delle domestiche – e, infondo, come avrebbe potuto, dopo quello che le era successo con la moglie di Bernardino? – aveva sperato che, magari per caso, avesse sentito qualche discorso tra la Contessa e il Medici che potesse dissipare le sue perplessità.

Quando la serva aveva risposto alle sue domande in modo vago e quasi spaventato, forse temendo che la giovane Riario fosse una spia della madre, Bianca aveva desistito e aveva deciso di andare direttamente alla fonte.

Aveva aspettato che fosse tardo pomeriggio. Il sole stava già calando e il cielo, per quel giorno abbastanza sgombro, era tinto di rosso e arancio.

Caterina era ancora nel cortile d'addestramento assieme a Ottaviano, Bernardino e Galeazzo, ma quando la ragazzina arrivò, le fu chiaro che l'allenamento era quasi concluso.

Il maggiore dei suoi fratelli si stava prendendo un rimbrotto dal maestro d'armi, ma, strano per lui, non aveva alcun'aria di sfida sul volto, anzi, sembrava sinceramente in imbarazzo.

Galeazzo, invece, stava facendo qualche esercizio a corpo libero con una spada, mentre Bernardino lo osservava rapito, cercando invano di mimarne i movimenti.

“Madre, posso parlarvi un momento? Quando potete...” disse Bianca, un po' timorosa, una volta che fu abbastanza vicina alla Leonessa che, vedendosela arrivare lì, l'aveva fissata stranita.

La donna annuì subito e poi, dando un ultimo sguardo ai tre figli maschi che finivano la loro giornata da reclute, disse: “Vieni, mettiamoci nello studiolo del castellano.”

Bianca deglutì, mentre seguiva la madre. Notoriamente, quello che aveva scelto era il luogo dei discorsi importanti. Per una frazione di secondo, la giovane Riario si chiese se per caso la madre avesse già capito di che volesse parlarle.

“Vi spiace lasciarci solo un momento?” chiese Caterina, quando arrivò nello studiolo, in cui Cesare Feo era ancora al lavoro.

L'uomo sollevò lo sguardo dai resoconti che erano arrivati dalle cucine – i cui dispensieri imploravano presto l'acquisto di una marea di derrate alimentari per far fronte alle richieste molto esigenti della Contessa, che non voleva assolutamente sguarnire le scorte in vista dell'inverno – e borbottò, ancora immerso nei calcoli: “Certo, certo...”

Uscendo con il plico di fogli sotto al braccio, il Feo si chiuse la porta alle spalle. La Sforza allora si andò a mettere vicino alla finestra, appoggiando la schiena al muro e poi fece un cenno alla figlia, affinché parlasse.

La ragazzina fece un respiro abbastanza profondo e poi, afferrando il coraggio a due mani, chiese, con una certa secchezza: “Siete incinta?”

Da come la madre si morse il labbro, Bianca comprese che si era davvero aspettata quella domanda.

“Sì.” rispose la Contessa, senza giri di parole.

“Livio è morto da poco più di un anno...” sussurrò la figlia, senza riuscire a trattenersi.

Le sembrava una cosa così enorme, che sua madre avesse voluto un altro figlio a così breve tempo dalla morte del povero Livio...

Perché era certa che quel figlio fosse voluto. Sua madre era troppo rilassata, in quei giorni, troppo tranquilla, per essere una gravidanza indesiderata.

“Lo so.” ribatté la Leonessa, puntando gli occhi verdi verso il camino in cui ardevano ancora le braci del pomeriggio.

La Riario si passò le dita sulla fronte, cercando di ragionare. Anche se aveva avuto il sospetto, averne una conferma tanto netta l'aveva spiazzata. Si era attesa qualche lunga spiegazione, o anche qualche motteggio irritato, e invece sua madre aveva semplicemente risposto alla sua domanda, senza nascondere nulla né difendersi in alcun modo.

“Ne siete felice?” chiese Bianca, dopo un po', più per coprire il silenzio che non per reale interesse.

“Sì.” fece subito Caterina, ricorrendo ancora una volta a una battuta secca e lapidaria.

Siccome le iridi blu della ragazzina cominciavano a ombreggiarsi di confusione, la madre si fece forza e con un sospiro le chiese: “Tu che ne pensi?”

“Non lo so...” soffiò la figlia, dando voce ai suoi reali pensieri: “Ho bisogno di tempo, immagino, per rendermene conto.”

La Tigre non disse altro e, anzi, fece un ampio gesto del braccio, iniziando a muoversi verso la porta, come a invitare la figlia a uscire anch'ella dallo studiolo.

“E messer Medici come..?” domandò Bianca, non assecondando la tacita richiesta della madre.

“Lui ne è entusiasta...” ammise la Sforza: “Tanto che...” ma poi agitò in aria una mano, come a dire che non era il caso di parlarne.

Stava per dire alla figlia che Giovanni le aveva consigliato di non nascondere la pancia, quando si sarebbe vista, in modo tale da dare il tempo ai forlivesi di abituarsi all'idea, dando loro modo di chiacchierare quanto volevano nei primi mesi, cosicché, una volta nato, il loro piccolo non sarebbe più stato al centro assoluto dell'attenzione.

“Dovete dirlo anche ai miei fratelli.” disse la giovane Riario, con una fermezza che stupì la Leonessa: “Vi prego, non lasciate che lo scoprano per caso anche stavolta. Ditelo almeno a Ottaviano e a Cesare. Ai miei fratelli minori posso parlare io, ma a loro due... Evitate di commettere di nuovo un errore tanto grave...”

Caterina stava fissando la sua unica femmina con occhi di fiamma. Bianca, senza spiegarsi bene come, era certa che le sarebbe arrivato uno schiaffo da un momento all'altro.

E invece, quando la Tigre parlò, il suo tono era dimesso, quasi spento: “Hai ragione. Devo dirglielo, prima che sia chiaro a tutti...”

E con quelle ultime parole, finalmente, convinse Bianca a lasciare lo studiolo e, senza toccare più l'argomento, le due tornarono al piano di sotto, dove si divisero, la madre per andare nella sala della armi e la figlia verso le cucine, per trovare qualcuno con cui fare due chiacchiere e scaricare la tensione accumulata.

 

Milano era avvolta nella nebbia. Era solo settembre, ma a Isabella quel freddo ricordava le lunghe notti d'inverno passate nella torre di Pavia.

Stringeva a sé le due figlie e di quando in quando si sollevava sulla punta dei piedi, per guardare più in là, come se con quel piccolo gesto potesse accelerare l'arrivo di suo figlio Francesco.

Ludovico si era lasciato convincere, alla fine, e l'Aragona ancora stentava a credere alla sua fortuna.

La sua recita, per mostrarsi ubbidiente e dimessa, aveva avuto l'effetto sperato e il Moro, in un eccesso di malinconia, come spesso ormai gli capitava, aveva infine firmato il permesso per la liberazione di Francesco, permettendo che tornasse a Milano, assieme alla madre e alle sorelle.

“Dovreste stare dentro ad attenderlo. Tanto il calesse si fermerà nel cortile.” disse una delle guardie, avvicinandosi con cautela a Isabella.

In molti, nel vederla tanto cambiata e così attaccata alle figlie, la credevano impazzita a causa del lungo isolamento e questo aveva fatto sì che molte persone, soprattutto i soldati di stanza al palazzo di Porta Giovia, la trattassero o con condiscendenza o con un velo di paura.

Ben lungi dall'esserne infastidita, l'Aragona sfruttava quell'immeritata fama per prendersi qualcuna delle piccole libertà che si suole concedere ai folli.

“Sto bene qui.” disse, con un sorriso un po' forzato: “E poi voglio essere la prima a vederlo arrivare.”

La guardia fece un sospiro e poi, tornando dal suo compare vicino alla porta, si strinse nelle spalle e borbottò qualcosa che sollevò una nuvoletta di condensa alla luce tremola delle torce.

Strizzando gli occhi nella nebbia gelata, Isabella alla fine sentì – ancor prima di vedere – il calesse che le riportava suo figlio.

Quando il profilo scuro del mezzo e dei cavalli fu riconoscibile, la donna cominciò a piangere in silenzio e poi, prima che i soldati potessero fermarla, prendendo in braccio una figlia per lato, con la forza dell'euforia, cominciò a rincorrere la carrozza fin dentro al cortile.

“Francesco! Francesco!” esclamò, mentre la porta si apriva e il bambino, spaurito e con gli occhi sgranati, si guardava attorno, più intimorito da quel lugubre castello che non rincuorato dalla presenza della madre.

L'uomo che l'aveva scortato lo aiutò a scendere, per poi disinteressarsene completamente. Al suo posto arrivò un soldato che spiegò in fretta ciò che Isabella già sapeva, ovvero le norme restrittive che il Moro aveva comunque imposto al bambino.

Annuendo a tutto, ma non ascoltando nulla, l'Aragona si inginocchiò dinnanzi al bambino di sei anni e lo strinse a sé con tanta forza che per poco non gli fece male, e gli sussurrò: “Adesso non ci separerà mai più nessuno.”

 

Dopo aver promesso a Bianca di parlare della propria gravidanza a Cesare e Ottaviano, Caterina si era presa qualche giorno per rifletterci.

Sapeva che sua figlia aveva ragione e quando aveva accennato la cosa a Giovanni, anche lui era stato d'accordo, anzi, aveva aggiunto: “Meglio adesso che più avanti.”

Così, sperando di riuscire a controllarsi in caso di eventuali attriti, la Sforza aveva chiesto ai suoi figli più grandi di raggiungerla nella sala delle letture prima dell'allenamento del pomeriggio pomeriggio.

Cesare, che per quel giorno aveva in programma le sue solite letture sacre in Duomo, era arrivato per primo e si era messo ad aspettare Ottaviano con il viso corrucciato, appoggiato allo schienale della poltrona, una mano al crocifisso e una sul fianco.

Quando il sedicente Conte degnò finalmente la madre e il fratello della sua presenza, la Contessa prese la parola in modo risoluto: “Ho riflettuto a lungo e ho deciso di parlarvi apertamente. In passato...”

La voce le morì in gola e non riuscì a sostenere lo sguardo di nessuno dei due ragazzi che le stavano davanti. Ottaviano aveva diciotto anni, Cesare diciassette: erano due uomini, eppure in quel momento Caterina si rivedeva davanti i due ragazzini spaventati che l'avevano sentita gridare contro gli Orsi dalle merlature di Ravaldino.

La Tigre si prese un momento e poi, appena prima che Cesare aprisse bocca per dire qualcosa che smuovesse la situazione, riprese: “Una famiglia è forte solo se sa restare unita e io ho intenzione di fare quel che posso, per riunire la nostra.”

Il viso di Ottaviano, pallido come un cencio e vuoto, in contrasto con il ventre abbastanza pingue, venne attraversato da uno strano lampo, mentre sulle labbra di Cesare si formò un'increspatura ironica che per poco non fece perdere la pazienza alla Leonessa.

Stringendo i pugni per controllarsi, Caterina chiuse un attimo gli occhi e disse: “Io e Giovanni aspettiamo un figlio. E trovo sia giusto che voi lo sappiate adesso e da me.”

“Tra quanto nascerà?” chiese Ottaviano, la voce ridotta a un filo e gli occhi scuri che lampeggiavano verso la madre.

La Sforza non capiva se in quella domanda vi fosse più paura o repulsione, ma ormai era in ballo e doveva ballare: “Probabilmente verso fine marzo o inizio aprile.”

Il primogenito abbassò lo sguardo e fece un cenno secco con il capo, per dire che aveva capito.

La Contessa, malgrado tutto, era abbastanza soddisfatta della reazione di Ottaviano. Aveva temuto che si frantumasse un'ennesima volta, davanti a quella notizia, e invece aveva retto bene e non sembrava nemmeno troppo contrariato.

L'unica cosa che si permise di dire fu, con un mezzo sorriso amaro, mentre si sistemava una ciocca di stretti ricci dietro l'orecchio: “Finalmente avrete l'erede che tanto volevate.”

Caterina, il cuore che pompava con forza, stava per ribattere in qualche modo, ma la voce di Cesare, pungente e cattiva, le tolse la parola di bocca: “Non avete perso tempo...”

“Come ti permetti..?” fece la Leonessa, voltandosi verso di lui e trovandosi difronte un'espressione dura e severa, che, con un vago dolore al petto, per un attimo le ricordò la propria, che ogni tanto le capitava di vedere riflessa nello specchio.

“Almeno siete certa che sia il Medici il pad...” le parole erano scivolate fuori in fretta dalle labbra sottili di Cesare, ma altrettanto rapido era stato lo schiaffo della madre, che l'aveva colpito in pieno volto.

“Questa volta ti basti uno schiaffo, ma la prossima volta che oserai muovere certe accuse, sappi che non avrò alcun riguardo.” lo minacciò la Tigre.

Ottaviano, a pochi passi dal fratello, aveva chinato il capo e giunto le mani in grembo, come se quelle invettive fossero rivolte anche a lui.

In tutta risposta, Cesare risollevò subito lo sguardo, mettendo in mostra la guancia un po' ruvida di barba e già molto rossa per via del violento colpo: “Ho capito benissimo.”

Madre e figlio si fissarono per parecchio tempo, pupille nelle pupille, e alla fine, senza che Ottaviano, che osservava la scena impotente, capisse che cosa stava accadendo tra i due, entrambi si trovarono con gli occhi velati.

“Adesso andatevene.” concluse la Sforza, distogliendo lo sguardo da quello di Cesare e indicando la porta con l'indice: “E vi prego di non dire nulla a nessuno, fino a che non vi verrà detto altrimenti.”

Ottaviano, mesto, e Cesare, ancora scosso per quell'ultimo intenso scambio, andarono subito alla porta e la Contessa, stremata, si mise su una delle poltrone e, riversando la testa indietro, si chiese perché mai non riuscisse a star calma quando si trovava davanti i suoi due primi figli.

In fondo, si disse, nulla era cambiato da quel giorno in cui li aveva chiamati uno dopo l'altro al suo cospetto, per confrontarsi con loro in merito alla morte di Giacomo. Erano tutti e tre intrappolati in un labirinto senza risoluzione.

Con un sospiro profondo, la Leonessa si passò una mano sul ventre e poi, desiderosa di liberarsi la mente, uscì frettolosa dalla sala delle letture, arrivando in un lampo fino alle stalle, dove prese un cavallo, decisa a trascorrere il resto della giornata a girare in mezzo ai boschi.

 

Cesare Borja era stato accolto, alle porte di Roma, da uno stuolo di porporati e loro familiari, come si conveniva a un legato pontificio della sua levatura.

Tuttavia, dopo aver attraversato in gran pompa l'intera città ed essere giunto al palazzo apostolico dov'era suo padre, gli era stato chiesto di attendere, come un ospite qualsiasi.

“Ma si può sapere di che stanno discutendo?” chiese il figlio del papa, a un certo punto, avvicinando uno degli usceri.

Aveva parlato sottovoce, ma i tanti curiosi che si erano messi nell'anticamera con lui avevano comunque sentito tanto le sue parole, quanto il suo tono adirato.

Cesare si sentiva ancora molto debole per via della febbre passata da pochi giorni e per il viaggio che da Napoli lo aveva riportato a marce forzate fino a Roma. Se solo avesse saputo che suo padre aveva in animo di farlo attendere tanto, avrebbe fatto in modo di arrivare nell'Urbe a notte fatta, lontano dagli occhi voraci di tutti i pettegoli del Vaticano.

“Una diatriba tra il Vescovo di Vienna e il rettore dell'Università della medesima città... Una causa per ingiurie.” spiegò il servo, chinando il capo ossequioso.

Il Borja quasi si strangolò da solo per la rabbia. Un'inezia, l'ennesima questione tra due galli che lottavano per lo stesso pollaio. Qualche parola di troppo, qualche epiteto eccessivamente colorito, nulla, insomma, che dovesse richiedere tutta quella solerzia da parte del Santo Padre.

Solo un anno addietro, suo padre non avrebbe esitato un momento a sospendere la riunione per andargli incontro, anche se lui non era Juan.

Quando finalmente Alessandro VI prese la decisione in merito alla spinosa questione tra il Vescovo e il rettore, le porte si aprirono e Cesare si rimise dritto, in attesa del saluto del genitore.

Quando Rodrigo incrociò lo sguardo del figlio, che era tornato a Roma semplicemente previo avviso e non dopo una regolare richiesta, lo prese con freddezza per le spalle e scambiò con lui il classico bacio sulla guancia con cui era solito salutare i figli in pubblico.

Non gli disse nemmeno mezza sillaba e tutti quanti si accorsero del gelo che era corso tra i due, nel momento in cui si erano sfiorati per il saluto.

Il papa lasciò l'anticamera praticamente subito e a quel punto a suo figlio, vestito come il più ricco dei cavalieri, non restò che guardare con arroganza tutti i presenti e andarsene nei suoi appartamenti, ancora fumante di rabbia e risentimento per quella sceneggiata che l'aveva coperto di ridicolo.

La cosa che lo aveva ferito di più, però, era stato il non capire a fondo il motivo di tanta freddezza.

Era stato solo per insistere con le sue fandonie sul suo rifiuto verso il nepotismo, oppure..?

Cesare scosse il capo, mentre i suoi servi lo aiutavano a togliersi il mantello, e si disse che la battaglia poteva essere persa, ma la guerra era lunga e lui l'avrebbe vinta. Suo padre non aveva più il suo adorato Juan, né aveva più il caro Pedro Luìs. Jofré non era da calcolarsi, dunque restava solo lui, Cesare.

Con un po' di pazienza, anche Rodrigo se ne sarebbe accorto.

 

Giovanni aveva notato qualcosa di strano nella moglie, negli ultimi giorni. Qualcosa la impensieriva, ma quando aveva provato a chiederle in modo velato che cosa fosse, lei aveva evitato di rispondere.

Quella sera, di ritorno da un giro in città, durante il quale la Contessa aveva parlato con molti forlivesi e altrettanto aveva fatto lui, il Medici era quasi deciso a domandarle in modo chiaro che cosa la stesse distraendo a quel modo.

Tuttavia, mentre stava per farlo, Caterina gli si avvicinò e cominciò ad aiutarlo con i lacci della giubba, parlando quasi tra sé: “Sai come lo chiamavano? Il mantenuto della Sforza.”

Il fiorentino aveva capito subito a chi si stesse riferendo. E aveva anche una mezza idea sul perché gliene stesse parlando.

Quando stavano per rientrare a Ravaldino, un paio di donne anziane che vendevano scampoli, li avevano fermati poco sotto la statua del Barone Feo e in breve Giovanni si era reso conto di essere l'unico a tenere viva la conversazione, dato che lo sguardo della moglie continuava a correre al profilo bronzeo di Giacomo, impedendole di seguire il filo del discorso.

“In un certo senso era vero – proseguì la Sforza, sfilando il giacchetto dalle spalle del Popolano e aiutandolo anche con i nodi del camicione – dipendeva da me, economicamente, non lo nego, ma era il modo in cui lo dicevano che mi faceva arrabbiare...”

Come a sottolineare quelle parole, le mani della Tigre si erano messe a lavorare con maggior forza, tanto che Giovanni temette di vedere qualcuno dei lacci lacerarsi.

“Ne parlavano come se fosse stato il ragazzo di un bordello, che veniva retribuito per i suo servigi a letto.” disse tra i denti la Contessa, togliendo anche la camicia al marito.

Quando si trovò davanti la sua pelle nuda, sollevò lo sguardo verso di lui e, con un sospiro pesante, si scusò: “Perdonami se ogni tanto ti parlo di lui, ma non ho nessuno a cui dire certe cose. Tu sei l'unico che riesca ad ascoltarmi.”

Smosso dalla mestizia di quell'affermazione, il Medici abbracciò la moglie e la tenne stretta a sé per un po'.

Mentre ancora aveva il viso premuto contro il collo caldo del marito, la Sforza sussurrò: “Ti va di andare alla Casina per qualche ora, domani?”

“Vuoi anche andare a caccia?” gli chiese Giovanni che, da tutto il giorno, avvertiva un vago tormento alle caviglie e temeva di non riuscire a reggere una battuta in mezzo alla riserva.

“No – rispose la donna, staccandosi un po' da lui e mordendosi il labbro, prima di chiarire – vorrei solo stare un po' con te e parlare con calma di una cosa. Preferisco alla Casina, così saremo lontani dalle orecchie di questa rocca. Non sai mai chi potrebbe sentire...”

“Va bene.” accettò allora il fiorentino, che aveva colto una nota molto seria nella sua voce, accarezzando la testa della moglie e dandole un bacio in fronte: “Tutto quello che vuoi.”

 
   
 
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