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Autore: lucille94    02/01/2018    1 recensioni
Aprile 1199. Una tragedia piomba sulla Normandia, e molte altre ancora la seguiranno. Rebecca si trova straniera, sola, indifesa. Dapprima la paura, poi la prudenza guideranno i suoi passi: ma in gioco c'è un bene più grande...
*
*
Dopo il mio sequel di Ivanhoe, "Paix entre Nous", pubblico ora il primo capitolo di "Je veux t'attendre", ulteriore prosecuzione della storia. Visto che sto ancora scrivendo, avviso da subito che pubblicherò i capitoli con intervalli piuttosto lunghi.
Genere: Avventura, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La mattina si annunciò con un progressivo imbiancare del cielo. Le nuvole che la sera precedente avevano rovesciato i loro carichi d’acqua sul castello sembravano riprendere le forze e prepararsi a una nuova scrosciata. Rebecca guardava in su, verso quelle nuvole, come aspettando che insieme alla pioggia cadesse anche qualche notizia di suo marito lontano. Stringeva tra le mani l’ultima lettera che le aveva spedito. Diceva che stava bene, che faceva freddo, che nonostante tutto si continuava a combattere. Era iniziato aprile, ma l’aria era ancora gelida nelle prime ore del mattino. E la distanza le rendeva ancora più difficili.
Un brivido la percorse in tutto il corpo e le mani, di colpo, accartocciarono la lettera. Un nuovo singhiozzo, subito strozzato, e gli occhi che all’improvviso cominciano a bruciare. Rebecca conosceva fin troppo bene quella sensazione di fatalità. Ma era sempre stata forte ed era per questo che lui l’aveva ammirata dal primo momento in cui si erano conosciuti. Doveva dimostrare che anche in quella situazione avrebbe saputo mantenere la sua lucidità.
Presto arrivarono le serve e la trovarono ancora alla finestra, fissa come una statua di pietra, una Madonna a mani giunte. L’ebrea, come la chiamavano quando non c’era, a volte sapeva rivestirsi di un ammanto quasi sacro, un candore austero che raramente le donne cristiane potevano sfoggiare. Per questo ispirava rispetto e, nonostante appartenesse a un popolo maledetto, non si sarebbe potuto maledirla. Rebecca si volse, l’espressione composta nel dolore, e posò la lettera sul davanzale; quindi si avvicinò, tendendo le braccia alle tre serve pronte ad aiutarla con il bagno. Il catino era già pronto, l’acqua calda vi era stata versata secchio dopo secchio e le essenze di erbe e fiori mescolate nelle dosi giuste. Rebecca, affidandosi al loro sostegno, scavalcò il bordo di assi di legno e si immerse. L’abbraccio caldo era rigenerante e, riaffiorando, la giovane donna trasse un respiro di sollievo. Una serva, dietro di lei, cominciò subito a pettinarle i lunghi capelli neri, mentre un’altra le passava una spugna sul corpo. Si permetteva un bagno a settimana e questo era un’altra delle tante consuetudini che facevano storcere il naso agli abitanti del castello.
«Come sta vostra madre, Jeanne?» domandò Rebecca ad occhi chiusi. La serva che la stava pettinando rispose: «Sta bene, signora. L’unguento l’ha aiutata a respirare»
«Ne sono contenta» disse sorridendo.
Le tre serve si scambiarono un’occhiata, quindi la più anziana, l’unica rimasta in piedi a guardare affermò: «Le notizie riguardo a re Richard sono state confermate da altri viaggiatori giunti questa mattina»
«Era difficile dubitarne, ormai... – convenne Rebecca socchiudendo gli occhi – Ora non possiamo far altro che aspettare...»
Non era chiaro cosa rimanesse in sospeso in quella frase: aspettare l’incoronazione del nuovo re d’Inghilterra? O aspettare il ritorno di Bois-Guilbert?
«Hanno dormito bene questa notte?» domandò ancora, reclinando il capo su una spalla e lasciandosi scivolare contro il bordo del catino.
«Constance dice di sì, signora» rispose puntualmente la terza serva. Rebecca aspettò ancora qualche minuto, quindi si alzò in piedi e uscì dall’acqua. La prima serva, quella che l’aveva pettinata, la avvolse in un telo pulito e la aiutò ad asciugarsi. Vestì un abito nero in segno di lutto per la morte del re. Sperò di non avere altri motivi per farlo.
«Voglio tornare dai poveri – confessò – Consegnerò loro un altro pane e comunicherò loro la notizia. Poi verrò nel salone per la colazione»
Si avviò sola lungo il corridoio e sola scese le scale e imboccò la strada che conduceva al quadriportico. Era una visita inusuale e i mendicanti non la aspettavano. C’era chi si sgranchiva le gambe con una passeggiata, chi si rincantucciava tra i propri stracci per patire meno il freddo, c’era chi scambiava qualche parola con i vicini. Al suo apparire tutti ammutolirono e si raggrupparono lungo una parete. Nel frattempo, da una porta usciva una fila ordinata di servi.
«Cari ospiti – cominciò a parlare Rebecca – Mi duole dirvi che qualche giorno fa, nell’assedio della città di Chalus, Richard Plantagenet, detto Cuor di Leone, è rimasto ucciso. Darò ordine che vengano celebrate le funzioni di suffragio per la sua anima»
Un mormorio crebbe tra tutti i poveri; con l’eccezione di tre figure, ammantate in spesse stoffe grezze, che guardavano da un angolo discosto. Rebecca li notò proprio perché, a differenza degli altri, la notizia non sembrava averli colti impreparati. Si avvicinò alla serva che l’aveva assistita nel suo bagno e bisbigliò: «Ricordate se quei tre erano presenti già ieri sera?»
La serva li osservò con attenzione, poi ribatté a bassa voce: «Non ricordo, mia signora, ma mi pare di no. Non sembrano così miserevoli come gli altri... E quei mantelli non sono quelli di un povero...»
«Sono arrivati questa notte – raccontò un servo che, essendo vicino, aveva ascoltato la conversazione – Hanno battuto tanto al portone, ma senza spiccicare neanche una parola. Li abbiamo condotti qui e abbiamo dato loro del pane avanzato, e ancora non hanno ringraziato! Li abbiamo tenuti d’occhio perché temevamo che volessero far del male a qualcuno...»
«Hanno dato problemi?» domandò ancora Rebecca, sentendo una morsa che lentamente le chiudeva la gola.
«Semplicemente non hanno dormito, mia signora. Sono rimasti svegli a parlare in una strana lingua»
«Come lo sapete?»
«Alcuni mendicanti si sono avvicinati per farli smettere, perché disturbavano il sonno degli altri. Questa mattina ci hanno riferito che i nuovi arrivati erano stranieri e arroganti»
Rebecca si prese un momento per pensare, poi chiese: «Avete pensato che forse non hanno risposto perché non conoscono la nostra lingua?»
«Non è possibile – negò quello – Se gli si dice di andare a destra o a sinistra, capiscono senza difficoltà»
«Dunque chi possono essere? Cosa potrebbero volere?» disse Rebecca, pensando tra sé e sé.
Li guardò meglio, cercando di notare qualcosa che prima le fosse sfuggito. Era un’operazione difficile, perché i tre si schiacciavano contro le pareti e si stringevano nei loro mantelli con attenzione quasi maniacale a non lasciare nulla in vista. Anche i visi erano occultati dai cappucci. Si intravedevano solo le labbra e il mento, coperto da una corta barba.
«Non sembrano affatto anziani... Sono forse mutilati? Sono zoppi, storpi?» incalzò con le domande.
«Uno zoppica e gli altri due lo aiutano» confermò il servo.
In quel momento, uno dei tre alzò lo sguardo; non abbastanza da rendere visibile il volto, ma abbastanza da lasciare intendere chi fosse l’oggetto della sua attenzione. Rebecca trasalì e pensò di aver infastidito lo sconosciuto con la sua insistenza inopportuna e si convinse che fosse meglio andarsene. Si sarebbe almeno tolta di dosso quella strana sensazione di pericolo.
«Andiamo. Lasciate qui i pani e che ognuno ne prenda quanto ne vuole»
«Ma scoppieranno litigi, signora... Ricordate lo scorso autunno, quando...» la riprese la serva.
Rebecca scosse il capo: «Oggi non voglio avvicinarmi di più. Antoine – disse poi, rivolta al servo con cui aveva parlato – Continuate a tenere d’occhio i tre sconosciuti e qualsiasi cosa doveste scoprire riferitemela. E se decidessero di andarsene, meglio per tutti»
 
Al termine del pranzo il castellano le si avvicinò. La sua espressione tradiva i pensieri cupi della sua mente e la preoccupazione del suo cuore. Per questo Rebecca si preparò al peggio, sentendo già il respiro più affannoso. Dietro il maggiordomo si profilarono due figure, due uomini in armatura. Rebecca chiuse gli occhi e sussurrò una preghiera ebraica per allontanare da sé il male che quegli uomini le avrebbero procurato. Ormai, però, non si nascondeva il tenore delle loro notizie.
“Se non altro” pensò “uscirò da questo stato di sospensione. Saprò cos’è successo”
«Mia signora – la richiamò la voce alterata del castellano – Questi due signori sono nobili normanni che hanno notizie su vostro marito. Vogliono porvele di persona»
Rebecca annuì, si alzò in piedi e molti suoi vicini la imitarono. Era terrea in volto e poggiava le mani tremanti sulla tavola per tenersi stabile. Uno dei due uomini, il più alto e più vicino, chinò leggermente il capo in un gesto di cortesia, poi parlò con voce cavernosa: «Signora, ciò che ci è stato detto di voi non regge il confronto con ciò che siete. La vostra bellezza è mille volte più splendente di quanto la lingua mortale possa esprimere e il vostro contegno vi innalza su questa terra. Mi duole, quindi...»
Rebecca si morse le labbra e non riuscì a trattenere un gemito. Il suo interlocutore si trovò in difficoltà a continuare, ma quando i loro occhi si incontrarono nuovamente capì che era un desiderio comune terminare quel discorso appena cominciato.
«Mi duole – ripeté – informarvi della morte di vostro marito, il cavaliere Brian de Bois-Guilbert, durante l’assedio di Chalus»
Le sue braccia cedettero e Rebecca ricadde seduta sulla sedia, le mani premute sugli occhi. Il suo grido era stato straziante e molti le si erano accostati di slancio, lasciando da parte per un attimo i pregiudizi. La sua disperazione era la disperazione di tutti, sebbene fosse dettata da motivi diversi. Se Rebecca era dilaniata dal dolore della perdita, tutti gli altri erano consapevoli di ben altro affare: ora, senza più il signore a capo del castello e del feudo, senza più il re che era stato tanto generoso con il cavaliere e la sua famiglia, si promettevano tempi bui. Ora ne avevano la certezza e, di colpo, sentivano l’urgenza di mettersi al riparo dal pericolo incombente.
I pregiudizi fecero in fretta a tornare: sbarazzarsi dell’ebrea e dei suoi figli? Forse sì, ma quando sarebbe stato il momento opportuno? Certamente quando fosse stato chiaro chi sarebbe stato il nuovo duca di Normandia! Forse Arthur avrebbe concesso la protezione reale alla vedova del cavaliere del predecessore; John, sicuramente, avrebbe invece colpito lei e tutti i suoi fedeli non appena avesse avuto in mano il controllo del ducato. E Philippe Auguste non avrebbe avuto nulla da guadagnare da un’ebrea che si era unita in modo alquanto dubbio a un uomo che tempo prima era stato un Templare.
Rebecca piangeva lacrime pure, lacrime di paura, lacrime di dolore. Rivedeva tutti i loro momenti più cari, risentiva la sua voce come se fosse lì e le parlasse proprio in quel momento. Ma bastava scostare leggermente le dita dagli occhi per accorgersi che non era vero. Davanti a lei c’era quel cavaliere composto, con lo stemma di Richard sul petto.
«Quando è accaduto?» domandò a fatica, asciugandosi gli occhi con un fazzoletto che una dama le aveva porto. Il cavaliere attese che fosse pronta prima di rispondere: «E’ accaduto il secondo giorno del mese di aprile. È stato il re ad inviarci qui per informarvene...»
«E le sue spoglie?»
«Riposano a Chalus, mia signora. Non c’era modo di trasferirle qui... La Normandia è molto distante da Chalus» disse l’altro cavaliere. La sua voce era più giovane e cristallina rispetto a quella del compagno. Rebecca li guardò ancora per un istante, poi si volse verso una ragazza in abito semplice.
«Constance – chiamò – Fa’ venire qui i miei bambini, per favore»
La giovane si allontanò, ma non passò molto tempo prima che i piedini di un bambino rimbombassero nell’anticamera. E il bambino entrò nella sala quasi di corsa: aveva folti capelli neri e un paio di occhi azzurri come il cielo. Dimostrava circa quattro anni e tutta l’esuberanza che si addice a quell’età. La sua curiosità cadde sugli uomini in armatura e lo portò ad avvicinarsi.
«Siete cavalieri veri?» domandò indicando la lunga spada che pendeva al fianco dell’uomo più alto. Quello, imbarazzato, gli dedicò un’occhiata severa, fin troppo severa per un bambino. Ma il piccolo non lo notò nemmeno e si rivolse all’altro per avere una risposta: «Siete cavalieri del re?»
«David – lo chiamò sua madre, e solo allora, solo dal suo tono il bambino capì che era accaduto qualcosa di brutto – David, non essere insolente e vieni qui»
Constance si affacciò sulla porta reggendo tra le braccia una bambina di un anno e mezzo; anche lei aveva folti capelli corvini, ma neri erano anche i suoi occhi. Rimase abbagliata dalle armature e, proprio come il fratello più grande, mostrò una certa curiosità, balbettando qualcosa di incomprensibile. La balia la adagiò in grembo alla madre e la bambina rise istintivamente, cercando le coccole cui era abituata.
«Cos’avete, mamma?» domandò David, aggrappandosi alle sue ginocchia. La bambina le accarezzò la guancia e Rebecca la baciò, e poi la strinse a sé, sentì il suo cuoricino battere forte, poi si protese e baciò il suo David tante, tante volte. Alla fine, parlando con il figlio primogenito, rivelò tremando: «David, tuo padre non c’è più»
Il bambino storse il naso e inclinò la testa: «Non c’è mai stato, mamma» disse. Rebecca trasse un sospiro: era vero, suo figlio non mentiva. L’ultima volta in cui si erano incontrati era stata due anni prima e il bambino non poteva ricordarselo. Era cresciuto già orfano, come se il destino avesse voluto per lui questa sorte fin dall’inizio. Si decise quindi a parlare chiaro: «David, tuo padre è morto»
Il bambino ristette: il concetto non gli era nuovo, benché fosse così piccolo. Aveva visto morire fiori, animali, aveva anche sentito dire che un servo, una volta, era morto. E non avendo invece un chiaro concetto di cosa fosse un padre, non manifestò nessun dispiacere, sebbene lo colpisse profondamente l’aspetto disperato di sua madre. Era qualcosa che faceva male più a lei e David pensò che fosse naturale così e che sua madre gli stesse chiedendo di essere consolata.
«Mamma, io vi voglio bene lo stesso...» disse, cercando di venirle incontro. Rebecca gli accarezzò la testa, spettinandogli i capelli non troppo lunghi, e guardò la sua piccola Judith con occhi vacui.
«Anch’io vi voglio bene, figli miei...»

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NOTA: I nomi dei bambini sono francesi, quindi "Davìd" e "Judìth"
   
 
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