- I
confini del corridoio scomparvero al
suono dei suoi pensieri, l’occhio vagava il necessario per
comprendere dove
fosse. Nella bocca dell’inferno, avrebbe risposto, se
qualcuno avesse avuto
modo di chiedergli la cagione di un cupo ombreggiare che rendeva il suo
sguardo
ancor più affilato di quanto non inquietasse solitamente.
Tanto cupo da rendere
l’uragano di nome Crow Hogan uno scienziato silenzioso ed
efficiente.
- Se
le condizioni lo avessero voluto in uno stato di completa solitudine,
se le
prerogative che rendevano lui un
capo
tanto ammirevole – come lei aveva tanto benevolmente
sottolineato – non lo
avessero riscosso dal suo pertugio, per lasciarlo a condursi in una
sorta di
male assopito nei confronti dei suoi sentimenti, avrebbe accasciato il
suo corpo
nel primo strato molle a sua disposizione, e quegli occhi
così inspessiti dal
freddo indossato avrebbero nuovamente lasciato al dolce tanto atteso la
capacità di rinvenire e di correre da lei, di percorrere i
suoi stessi passi e
terminare ciò che stava – stupidamente –
per fare. Un errore che non aveva
alcun margine di spiegazione, un bisogno che nasceva da un desiderio di
cui
ignorava la natura, un istinto che, per quei pochi secondi, aveva
difficilmente
tenuto a bada. La
voglia di
annullare le distanze, di conoscere il suo respiro, di assaggiare il
suo
sapore.
- ‘Cosa
diavolo mi sta succedendo?’
- Analizzare
era la ragione riconducibile ad ogni sua azione; era il diagramma di
ogni mente
razionale – e la sua, a tal proposito, avrebbe dovuto
eccellere in simile
abilità – e il costrutto sul quale fondare la
propria proiezione mentale di
quel mondo che meritava, nell’essere descritto, solo epiteti
grotteschi e
immorali. Per lui, per quel Reiji Akaba che viveva delle sue
convinzioni e che,
forse per questo, peccava di quella presunzione in cui versa chi
–
maledettamente – scopre di avere sempre l’esatta
convinzione del momento, non
esisteva alcun errore almeno che non fosse nel dubbio tacito di
ciò che non era
lecito sapere; etichettare, marchiare, rinominare... era il vezzo del
suo
essere scienziato, e una deformazione che aveva corrotto il suo stesso
io al
limite dell’asettica impersonalità, un
costrutto sostanziale nel quale racchiudere la gente in gradi macroaree
e lì
lasciare che le loro opinioni fermentassero, nella graduatoria da lui
stabilita
e ad un ordine soltanto da lui scandito. Era il suo stesso modo di
rapportarsi
alla gente, alla società, alla vita; un modo forse
schematico oltre i limiti
consentiti, ma certamente degno di quella precisione di cui amava
circondarsi e
su cui gli altri dovevano passare prima di arrivare alla sua augusta
persona.
- E
invece c’era lei. Lei, che non aveva alcun rank nel quale
posizionarla, alcun
luogo nel quale analizzarla, alcun pensiero col quale scrutarla. I
pensieri... erano
da ingabbiare, al fine di evitare che assumessero la consistenza delle
parole.
Era l’implicito rifiuto a non voler scoprire - di se - cose
che aveva ignorato,
cose che non avrebbe potuto prevedere, cose che non era in grado di
porre sotto
un attento esame.
- Provò
a domandarsi quale causa – quale cataclisma naturale
– lo avesse trascinato sin
nei meandri della follia, tanto vicino da circuire ogni sua difesa ad
onta
dell’irrazionale. Non era l’aver percepito la sua
vera essenza, il suo
dichiararsi al pari di un fiore che sboccia alla gentile carezza dei
raggi
luminosi; vi aveva scorto un impercettibile piacere, quando era emersa
l’ammissione della sua saggezza, quel suo prevedere delle sue
intenzioni al
pari – se non meglio – di colei che ne custodiva la
chiave, una sorta di prova
generale che – per l’ennesima volta – si
fermava a confermare quanto di lui vi
era di certo e consolidato.
- Ma
poi la mente – e la ragione al suo seguito – aveva
preso una direzione che
conduceva dritto nel tunnel nell’oblio. Forse quando la
frizzante fragranza dei
fiori di bosco lo aveva avvolto in una nuvola di soffice tenerezza, o
quando i
toni tremanti di lei avevano denunciato un crollo emotivo prossimo al
segnale
dalle lacrime. Non lo sapeva – e questo era fonte di
indiscusso fastidio, per
lui – ma nonostante tutto, quando quel qualcosa aveva deciso
di scattare, in
lui, l’istinto di avvicinarla, di stringerla, di tendersi a
lei... lo aveva
sopraffatto. Qualsiasi suo scudo a difesa dei gesti inconsulti
dimentico al suo
fianco, sciolto dalla sua persona al pari di un indumento opprimente
che aveva
la facoltà di essere rimosso facilmente.
- Ed
era stato ad un passo, ad un centimetro dal risollevare ogni suo
precedente
pensiero, ogni suo giudizio passato; chi ella fosse,come lo avesse
stregato –
ed egli era un uomo di scienza, ed era ridicolmente consapevole quanto
le
fatture fossero solo orpelli di fiabe da racchiudere solo nelle storie
da
raccontare a suo fratello – come lo avesse abbagliato, fino a
quel punto...
- Dio,
cosa c’era di sbagliato, in lui?
- Se
lasciava ampio margine alla fredda razionalità che di solito
decideva per lui,
quella maschera di imperfezione che tutti gli riconoscevano e gli
additavano in
quanto sua primaria personalità, allora la ricerca di una
scusa, di una
qualunque costruzione convenzionale agibile in tal maniera da
nascondere tutto
quanto non meritava la luce del sole – ossia della
rivelazione – avrebbe fatto
capolino e in esso si sarebbe rifugiato. Magari, con accortezza, si
sarebbe
insinuato nella subdola idea che ogni colpa – ancora una
volta – si andava
additando al padre crudele, quel bastardo assassino che, con il suo
imperversare nella sua vita, aveva capovolto con sgraziata inettitudine
ogni
sua basilare convinzione. No, forse non simile, catastrofica,
presentazione; ma
che in lui vi fosse stata, un tempo, la certezza di un Leo incapace di
agire
con la consapevole certezza di uccidere, era certamente una
verità al quale non
sentiva verso di dissentire. Poteva
essere quello, l’inizio di una crepa che aveva divelto il
pavimento nel quale
era solito camminare con annoiata grazia; lui, e di seguito la
consapevolezza
che dell’odio condiviso con lei non c’era assoluta
ragione di seria complicità.
Solo uno sbaglio enorme da risanare, una colpa addossatasi sulle sue
spalle
solo per quel sangue condiviso e adesso non più voluto.
- Doveva
essere solo quello, però. E la sua costruzione di carte mal
celava il resto taciuto
al di fuori dei suoi schematismi. Era un vento gentile, quello che
aveva
accarezzato il suo cuore, e in simile brezza il dovere non attecchiva,
ne
inquinava la purezza di un qualcosa nato dal suo primigenio io.
- Che
fosse quello, l’Es incontrollato che faceva tanto terrore ai
medici e
psichiatri?
- Reiji
Akaba, in quel frangente, aveva numerose scelte. Avrebbe potuto
rifugiarsi
nella più semplice, e lasciare nel dimenticatoio –
o almeno, fino a quando il
vermiglio della sua aura non fosse riapparso all’orizzonte
– ogni attimo speso
senza la sua amata ragione, al fine di non divenirne pazzo. Poteva
– e questo
però poteva escluderlo a prescindere – tendere una
mano verso il suo giovane
assistente, attirarne l’attenzione e porlo al vaglio della
sua disperata –
almeno a suo dire – condizione. Alla lunga, poteva perfino
gettare al vento
ogni grammo di razio e gettarsi a capofitto nella direzione di lei, in
quella
stanza nel quale l’aveva severamente confinata –
anche se in lui, ancora scosso
da se stesso, vi era stato un parziale tentativo di ingentilimento
della sua
voce – e porre un degno finale alle sue intenzioni.
- Scelte
dalla natura infingarda, e che in quanto tali si prefiguravano in una
serie di
previsioni a lui molto sfavorevoli. Era una multipla scelta che, a suo
dire,
doveva comprendere un’ultima nota, nel quale le soluzioni
precedenti dovevano
con forza essere escluse; non era un vigliacco, Reiji Akaba, ma
– sebbene così
invischiato in una situazione a lui totalmente ignota –
avrebbe voluto agire in
un solo e unico modo... come Reiji Akaba avrebbe davvero fatto. Come lui era solito porsi.
- “Questo
cos’è?”
- La
cartellina in mano, Reiji ponderò questa domanda al fine di
comprendere quale
recondito pensiero ci fosse nel consegnargliela, dato che Crow, sempre
volto
nella sua direzione, non aveva accennato ad alcun commento –
e ciò era
catalogabile certamente come fenomeno paranormale, data la
quantità abnorme di
parole capace di fuoriuscire dalle sue labbra.
- “I
dati che volevo tu vedessi”
- Secco,
conciso. Di un banale che aveva dell’irrisorio. Una stoltezza
che infastidì
Reiji per il suo presentarsi nel momento a lui peggiore.
- I
corridoi della villa, caratterizzati dal bianco candore che a molti
suggeriva
un clima ospedaliero, terminarono il loro infinito scorrere piazzando
entrambi
sul davanti di una ferrosa porta, la cui tecnologia non consentiva loro
nemmeno
l’ausilio di un dito per l’essere aperta.
Spalancatasi, al suono dei loro
passi, tutto ciò che loro ebbero da fare fu attraversare
l’uscio, e
nell’immediato i loro sguardi furono catapultati nel centro
nevralgico
dell’inferno. Era l’anticamera, il limbo dal quale
si dipanavano i numerosi
gironi, la stanza di controllo nel quale servi di poco conto
– ma comunque
uomini di fiducia da lui personalmente scelti – scorrevano
con pigrizia le
immagini trasmesse dai monitor, quasi vi fosse della giustificazione al
sonno
per la scontata definizione di immoto che loro avevano della vita dei
pazienti.
Uomini senza speranza, che in quanto tali erano stati posizionati
laddove
inabili a far danni.
- E,
d’altronde, non vi era null’altro, ad eccezione dei
numerosi monitor e delle
sedie nei quali quei severi uomini – scuri anche nelle
uniformi eleganti da
loro indossate – sostavano placidamente; un cubicolo tanto
angusto mai avrebbe
potuto garantire la sopravvivenza di coloro che ancora nutrivano la
speranza.
- “Se
davvero tutto ciò che volevi era farmi visionare queste
carte, perché non me le
hai lasciate nell’ufficio?”
- La
voce venne fuori con irruenza eccessiva a quella concordata, una sorta
di
impazienza che tradiva aspettative maggiori. Crow forse se ne avvide, o
forse
la distrazione lo aveva convogliato – per alcuni secondi
– lontano da quella
stessa conversazione del quale lui in primis era l’artefice.
Quale che fosse la
verità, adesso lo guardava senza la benché minima
punta di astio a inquinare lo
zaffiro brillante. No... non doveva davvero aver prestato attenzione al
suo
essere scorbutico... altrimenti nulla gli avrebbe permesso di sorridere
in quel
modo. Un distendersi delle labbra che inquietava per la mancanza di
convinzione.
- “Non
sono quelle carte, ciò che volevo lei vedesse ora. Ho
bisogno di lei, capo...
perché, se i dati che ho stampato adesso dicono qualcosa...
beh, io ne ho vista
un’altra. Mi vuole seguire?”
- Ogni
essere umano dotato di coscienza avrebbe negato con urgenza, una simile
proposta. Perché il farlo comportava l’avvicinarsi
ai meandri della morte, alle
porte di quel cogito che tanto impensieriva nelle urla dei pazienti e
nel
sangue lasciato scorrere senza adeguate protezioni. Il candore nel
quale i loro
piedi affondavano era solo un maggior espediente per dare al posto
un’idea
adeguata di sanatorio, perché in nessun altro modo potevano
essere viste quelle
stanze, incassate con compatta precisione nei corridoi dipanati dalla
camera
principale, studiati per un guadagno cinico dello spazio e del tempo
– quello
che i medici dovevano spendere per offrire ai pazienti le blande cure
di
circostanza, quelle comuni e utili a offrire un briciolo di sollievo a
chi nel
dolore dimenticava perfino chi fosse – ed elaborati in modo
tale che, in essi,
il massimo contenibile non dovesse oltrepassare la soglia del letto e
dei
macchinari costosi che detenevano le vite dei morituri. Un posto che
avrebbe
disgustato anche chi poneva grande fiducia nella propria resistenza...
ma che
poco prevalse su Akaba, ormai assuefatto alla disperazione dei luoghi
abbietti.
Era un suo modo di pensarla, ossia l’aver compreso cosa fosse
il male e averne
sfiorato la sua più intima essenza. Niente, in quel genere
di osservazione,
contemplava il desistere alla debolezza. Poteva solo avanzare.
- Avanzare.
Dirigersi con eleganza laddove la sua presenza era richiesta, incapace
di
essere scalfito dai gemiti, dalle lacrime, dalle urla e dalle
suppliche, dalle
maledizioni nei confronti di un Dio crudele e dalle preghiere di chi ne
richiedeva l’urgente presenza. Era il suo mondo, quello, e
ormai in esso poteva
viverci senza impazzire. A Ray, egli doveva anche quello.
- Erano
opachi, quei smeraldi spenti che fissavano con riluttanza il soffitto
dalle
luci soffuse, e in esso non vi si segnalava nulla, ad eccezione di un
respiro
fragile e di un cuore stanco di esistere. All’attento sguardo
di Akaba, il
fisico gracile del ragazzino, segnato dalle uguali macchie vermiglie
che, sulla
pelle diafana, lo comparavano ad ogni altro paziente lì
risiedente, non era
altro che un nuovo cadavere del quale Roger avrebbe dovuto occuparsi.
Una nuova
vittima portata via dall’assassino
dell’umanità, una bestia immonda a cui non
era bastato osservare il candore esile di un bimbo allo sbocciare dei
suoi dieci
anni per placare la sua fame. Nel cuore dell’uomo, attonito
dinanzi allo spettacolo
postogli innanzi, vi fu uno sfavillio terrorizzato; la sua
immaginazione ebbe
l’ardire di tradirlo, in quei secondi, e pose
l’ombra di Reira dinanzi alla
devastazione del nuovo ragazzo. Quei capelli turchini, ora caoticamente
disposti sul rigido cuscino sporco della sua stessa essenza, furono,
per lui,
l’unico appiglio nel quale ritrovarsi per il presente.
- “Può
non sembrarlo, ma è ancora vivo”
- Quasi
vi fosse in lui una qualche impercettibile capacità
telepatica, Crow predisse i
suoi pensieri, e con la sua affermazione recise sul nascere qualunque
sforzo da
compiere per la domanda in atto di essere espressa.
- “Shiun’in
Sora. Secondo i dati, le sue condizioni di salute rimangono gravi,
però
stazionarie. Eppure, da questa mattina, ha spalancato gli occhi in
questo modo,
e ha continuato per tutto il giorno. Ce ne siamo accorti poco fa, ma le
registrazioni hanno detto il resto”
- “I
suoi parametri vitali?”
“Minori rispetto alla norma... e intendo la norma dei pazienti. Però non sono irregolari, e i macchinari gli permettono di sopravvivere. Capo... lui era uno del Gruppo Sperimentale. Sa cosa vuol dire?”
Una domanda amletica, in quel preciso frangente. Il dividersi dei pazienti tra Sperimentali e di Controllo era un calcolo programmato per il collidersi dell’ipotesi nulla e di quella alternativa. Un fattore scientifico solitamente lasciato al ramo delle cure psicologiche, ma che ormai erano divenute una voga dei settori prettamente scientifici e la cui validità ne aveva confermato il primato. Allo stadio attuale, in quanto stabilito dall’ipotesi nulla, non vi era assolutamente alcuna differenza tra i malati sottoposti alle cure sperimentali – le cui basi si dovevano al sangue di Yuya – e coloro che invece si aggrappavano alla vita per mezzo dei medicinali comuni – solitamente, i facenti parte di simile macroarea vantavano un contagio meno violento e meno incline a fulminarli nel giro di alcuni secondi. Era l’ipotesi da combattere, quella nulla, in modo da dimostrare quanto l’alternativa fosse efficiente; se in qualcuno di loro un nuovo effetto fosse stato registrato, essa sarebbe in automatico balzata in primo piano, decretando in tal modo la vittoria dell’umanità. E la vittoria di Reiji. - “Però
non possiamo parlare di miglioramento. Se mai, possiamo affermare il
contrario”
- Era
l’essere rigidi di fronte alla speranza, ma anche un modo
coerente per il ruolo
che deteneva. La speranza andava nutrita con le belle parole, ma la
fiducia non
era concessa soltanto a scampoli di indizi che, ad occhio critico,
sembravano
anche tendere verso una strada sterrata e maggiormente sconnessa
rispetto a
quella già percorsa. Non era un risultato del quale essere
soddisfatti; era un
dubbio, anzi, che richiedeva l’immediata risoluzione.
- “Ora
capisce perché avevo bisogno anche dell’aiuto
della signorina Yuya?” fu il
commento divertito di Crow, ancora in vantaggio nel carpire
ciò che era celato
dietro lo sguardo calcolatore del suo datore di lavoro “Lo so
che ci vuole
tutti belli e riposati... ma qui c’è del lavoro da
sbrigare. E in fretta”
- Reiji
Akaba non era un vigliacco. Scappare da una situazione del genere
avrebbe
seriamente compromesso l’immagine che lui stesso
rappresentava quando alla
propria mente toccava di descriversi, e di certo nulla lo avrebbe
spinto
lontano da quel piedistallo di stoicismo nel quale amava stare... ma
come
affrontarla nuovamente, dopo quelle vicinanze annullate?
- “A
proposito, capo... Che fine ha fatto Kurosaki? È da un
po’ che non lo vedo in
giro...”
- “Ha
detto che non si sentiva tanto bene, e che preferiva ritirarsi nella
sua stanza
per la notte” rispose l’uomo, distrattamente.
- “Aspetti,
stiamo parlando della stessa persona? Di quella che lancia vampe
di fuoco verso chiunque non rispetti con precisione svizzera gli orari
di
lavoro?”
- “Parliamo
del collega che andrai a cercare mentre io riporto qui Yu... Sakaki. E
sbrigati; l’hai detto anche tu, non abbiamo tempo da
perdere”
- La
vita sapeva essere crudele. Toglieva quanto donato, e nel suo essere
sadica
lasciava che ciò avvenisse di fronte ai tuoi occhi, vedendo
appassire quello
che più hai amato e che non rivedrai mai più.
- Sora
amava la sua famiglia. Quella madre tanto apprensiva e che lo cullava
nella
piccola bolla di vetro costruitagli con cieco amore; quel padre tanto
severo
quanto pronto a gettare la sua maschera fredda per accogliere i suoi
figli tra
le sue braccia; perfino quella sorellina pestifera, quella che urlava
ad ogni
ora del giorno e che gli impediva di dedicarsi ai suoi dolci con la
sacra
ritualità a cui un tempo non sapeva resistere.
- Era
tutto parte del suo mondo, della sua quotidianità. Frammenti
di serena gioia
che, nel loro essere scontati, sanno ferire maggiormente quando
scompaiono. E
Sora ancora soffriva in maniera avvilente, quando guardava il suo nuovo
io e vi
scorgeva solo un
vuoto brancolare.
- La
solitudine non aveva mai avuto simili dimensioni, la sua cupa ombra non
lo
avvolgeva con strette tanto soffocanti... perché un tempo
egli quel termine
nemmeno era arrivato a intenderlo. Era ingenuità, o forse
pigrizia nel
conoscere... ma lui avrebbe preferito rimanere ignorante, e lasciare
alla
solitudine stessa il compito di rimanere un semplice lemma del
vocabolario.
- Vi
era una sola consolazione, nel limite prossimo alla morte. Bastava
lasciar
dietro quel corpo ridotto in cenere, quelle ossa e quei muscoli
divenuti deboli
e incapaci di rispondere ai suoi comandi, e in cambio avrebbe
nuovamente
rivisto tutti; famiglia e amici erano dall’altra parte della
soglia, oltre i
confini dei viventi, in un regno candido che aspettava solo lui.
Commuoveva l’idea
che tutti quanti fossero al cospetto delle porte dorate, pronte a
intercettare
il suo spirito e ad accoglierlo a braccia aperte, tanto felici da
quella
neonata riunione da dimenticare ogni buona maniera in merito
all’essere
piccoli, come il silenzio, le risate contenute, il fracasso che avrebbe
potuto
infastidire i vicini. Non ne sapeva molto, di aldilà e cose
simili, ma le
scarne informazioni ricevute rendevano simile destinazione la meta
più
agognabile nei suoi desideri.
- “Dunque
vorresti arrenderti così?”
- Il
volto di Sora non aveva alcun potere, né la forza
sufficiente a voltarsi.
Eppure, sebbene si rese conto che nulla, nel mondo esterno, aveva
più la forza
di attirare la sua attenzione, pure si convinse che la voce appena
udita non
era solo il germoglio dei suoi sogni allucinati; era qualcosa di
esterno, la
cui forza travalicava le barriere erette tra la sua mente e un mondo
pronto a
rifiutarlo.
- “Sai,
qui ci sono parecchi come te, che hanno perso la speranza e vogliono
trapassare
il più in fretta possibile. Però non lo fanno per
i tuoi stessi motivi, no...
vogliono solo smettere di soffrire, e se gli mettessero sotto al naso
un farmaco
capace di guarirli, allora lo arrafferebbero senza nemmeno pensare alle
conseguenze. Dimmi, Sora... se io ti offrissi la cura al male che ti
affligge,
la prenderesti?
- Per
quale assurda ragione accettare un’offerta tanto ambigua? Era
solo un bambino,
e la sua capacità di giudizio ne risentiva per la mancata
esperienza, ma non
era così sciocco da credere a parole gettate solo per sadico
divertimento.
- E
comunque la sua risposta sarebbe stata
assolutamente negativa. Anche in un contesto in cui
simile miracolo
fosse stato possibile, non vi era alcuna ragione, per lui, di restare.
Nessuno
lo attendeva, nessuno pregava per la sua salvezza, nessuno gli avrebbe
sorriso
se lui si fosse ripreso. Semplicemente, non aveva più
alcunché per cui
combattere.
- “Ma
dai, piccolo Sora... se fai così, ti mostri ancora
più interessante... e mi fai
venir voglia di salvarti. Così. Solo per farti un
dispetto”
Stava... divertendosi? Quell’uomo – chiunque esso fosse – provava davvero tanto gusto nel denigrarlo, scarnificando ogni sua difesa e carpendo dalle sue elucubrazioni ciò che era necessario per lasciarsi andare alle risate? - “No,
non sono davvero così crudele. Però mi servi,
caro Sora... o meglio, mi serve
una persona che, dopo averla guarita, non scappi via per commettere
chissà
quale peccato. Voglio qualcuno che mi sia fedele, e io so
già come averti mio,
piccolo...”
- ‘Stai...
delirando?’
- “Voglio
fare un patto con te, Sora”
- No,
nel suo tono non vi era alcun segno di quell’irrisione prima
così palese.
- “Io
esaudirò un tuo desiderio, di qualsiasi specie e di
qualsiasi natura... ma tu
in cambio dovrai portarmi una persona. Sarai la mia marionetta al fine
di
strappare la cara Yuya da quegli sporchi umani che vogliono usarla al
pari di
un burattino”
- “Dove
sei?”
- Era
questa, la domanda che Yuya avrebbe voluto porre nei loro ultimi
istanti,
quando la distanza li aveva resi al pari di due estranei, di quelli che
chiacchierano freddamente quando le circostanze impongono educazione.
- Non
era stato altro, infatti. Semplice galanteria vuota che aveva come fine
quello
di scacciarla – nuovamente – e porre di nuovo quei
confini prima dimentichi al
suolo, freddi sotto le suole delle loro scarpe, inutili mentre entrambi
conoscevano i colori delle loro vite.
- Colori
di cui ella non conosceva il significato, ma che avrebbe volentieri
approfondito, se l’intervento di Crow non avesse rotto
l’idillio.
- Ma,
in fondo, poteva davvero aver mal pensieri su un suo collega, quando
ella
stessa aveva da porsi seri quesiti sul suo coraggio? No, forse le sue
labbra
avrebbero custodito i suoi segreti, al pari di un forziere lontano
dalla sua
chiave. Non ci sarebbe stata una confessione, non maggiore rispetto a
quelle
già fornite, per il semplice fatto che il suo animo aveva
avvertito
l’indebolirsi della sua corazza, e quel lato sensibile che
lasciava al suo
cuore la forza di scalpitare nel petto erano un lato di lei che non
meritava un
emergere, nemmeno parziale. Aveva permesso all’uomo di
avvicinarla – e in questo
non vi era stato alcun male, l’amicizia era certamente il
miglior antidoto a
quella tensione che aveva avvinto i loro precedenti incontri
– ma oramai doveva
cominciare a porsi seri confini entro il quale non farlo entrare.
Timore di
essere ferita – proprio come in quel momento
- e terrore per le conseguenze da lei rese manifeste
– l’esempio
perfetto erano le lacrime cristalline che, imperterrite, lasciavano
scie salate
su guancie arrossate dall’emozione – sarebbero
stati i pilastri sul quale
avrebbe retto nuovamente i suoi rapporti con l’uomo.
- Era
questa la decisione che aveva preso, e a simili elucubrazioni pensava,
quando
la porta della sua stanza lasciò allo scatto automatico di
immetterla nella
camera dalle ombre cupe.
- I
suoi pensieri crollarono come cristalli duramente scagliati lontano.
- “Fermami
dal ferirti ancora...”
- Fu
quello il
primo commento che le labbra di Yuto le concessero.