Anime & Manga > Yu-gi-oh serie > Yu-gi-oh! Arc-V
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Autore: Selena Leroy    07/01/2018    1 recensioni
Il progetto "Les Enfant Terrible" aveva uno scopo: dare alla luce una nuova generazione più consapevole, più capace e più ambiziosa della precedente. Non era rimasto molto, d'altronde, agli ultimi superstiti di un pianeta arso vivo dalla Peste, un nuovo morbo che infesta il pianeta uccidendo qualunque creatura esistente si trovi sul suo cammino.
Yuya Sakaki è una di queste speranze, cresciuta assieme al padre e alla medicina. Ha solo sedici anni, ma il suo quoziente intellettivo supera di gran lunga quello delle sue normali coetanee; con il suo amico di sempre, quel ragazzo di nome Yuto segretamente innamorato di lei, continua una battaglia che però sembra persa in partenza.
E la situazione, per lei, volgerà inaspettatamente verso il peggio; alla morte improvvisa del padre, le decisioni di un uomo mai visto né sentito e che risponde al nome di Leo Akaba, la porteranno via dal suo luogo natio, dai suoi affetti e dai suoi amici, e in quella solitudine imposta da estranei, nelle cui menti si cela un segreto dalle cupe ombre, tutto ciò che le rimane da fare è lottare, e continuare quella ricerca ora così preziosa. Se farlo o meno da sola, dipenderà solo da Reiji Akaba...
[Pendulumshipping]
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akaba Reiji/ Declan Akaba, Yuto, Yuya Sakaki
Note: AU | Avvertimenti: Gender Bender
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I confini del corridoio scomparvero al suono dei suoi pensieri, l’occhio vagava il necessario per comprendere dove fosse. Nella bocca dell’inferno, avrebbe risposto, se qualcuno avesse avuto modo di chiedergli la cagione di un cupo ombreggiare che rendeva il suo sguardo ancor più affilato di quanto non inquietasse solitamente. Tanto cupo da rendere l’uragano di nome Crow Hogan uno scienziato silenzioso ed efficiente.
Se le condizioni lo avessero voluto in uno stato di completa solitudine, se le prerogative che rendevano lui un capo tanto ammirevole – come lei aveva tanto benevolmente sottolineato – non lo avessero riscosso dal suo pertugio, per lasciarlo a condursi in una sorta di male assopito nei confronti dei suoi sentimenti, avrebbe accasciato il suo corpo nel primo strato molle a sua disposizione, e quegli occhi così inspessiti dal freddo indossato avrebbero nuovamente lasciato al dolce tanto atteso la capacità di rinvenire e di correre da lei, di percorrere i suoi stessi passi e terminare ciò che stava – stupidamente – per fare. Un errore che non aveva alcun margine di spiegazione, un bisogno che nasceva da un desiderio di cui ignorava la natura, un istinto che, per quei pochi secondi, aveva difficilmente tenuto a bada. La voglia di annullare le distanze, di conoscere il suo respiro, di assaggiare il suo sapore.
‘Cosa diavolo mi sta succedendo?’
Analizzare era la ragione riconducibile ad ogni sua azione; era il diagramma di ogni mente razionale – e la sua, a tal proposito, avrebbe dovuto eccellere in simile abilità – e il costrutto sul quale fondare la propria proiezione mentale di quel mondo che meritava, nell’essere descritto, solo epiteti grotteschi e immorali. Per lui, per quel Reiji Akaba che viveva delle sue convinzioni e che, forse per questo, peccava di quella presunzione in cui versa chi – maledettamente – scopre di avere sempre l’esatta convinzione del momento, non esisteva alcun errore almeno che non fosse nel dubbio tacito di ciò che non era lecito sapere; etichettare, marchiare, rinominare... era il vezzo del suo essere scienziato, e una deformazione che aveva corrotto il suo stesso io al limite dell’asettica impersonalità,  un costrutto sostanziale nel quale racchiudere la gente in gradi macroaree e lì lasciare che le loro opinioni fermentassero, nella graduatoria da lui stabilita e ad un ordine soltanto da lui scandito. Era il suo stesso modo di rapportarsi alla gente, alla società, alla vita; un modo forse schematico oltre i limiti consentiti, ma certamente degno di quella precisione di cui amava circondarsi e su cui gli altri dovevano passare prima di arrivare alla sua augusta persona.
E invece c’era lei. Lei, che non aveva alcun rank nel quale posizionarla, alcun luogo nel quale analizzarla, alcun pensiero col quale scrutarla. I pensieri... erano da ingabbiare, al fine di evitare che assumessero la consistenza delle parole. Era l’implicito rifiuto a non voler scoprire - di se - cose che aveva ignorato, cose che non avrebbe potuto prevedere, cose che non era in grado di porre sotto un attento esame.
Provò a domandarsi quale causa – quale cataclisma naturale – lo avesse trascinato sin nei meandri della follia, tanto vicino da circuire ogni sua difesa ad onta dell’irrazionale. Non era l’aver percepito la sua vera essenza, il suo dichiararsi al pari di un fiore che sboccia alla gentile carezza dei raggi luminosi; vi aveva scorto un impercettibile piacere, quando era emersa l’ammissione della sua saggezza, quel suo prevedere delle sue intenzioni al pari – se non meglio – di colei che ne custodiva la chiave, una sorta di prova generale che – per l’ennesima volta – si fermava a confermare quanto di lui vi era di certo e consolidato.
Ma poi la mente – e la ragione al suo seguito – aveva preso una direzione che conduceva dritto nel tunnel nell’oblio. Forse quando la frizzante fragranza dei fiori di bosco lo aveva avvolto in una nuvola di soffice tenerezza, o quando i toni tremanti di lei avevano denunciato un crollo emotivo prossimo al segnale dalle lacrime. Non lo sapeva – e questo era fonte di indiscusso fastidio, per lui – ma nonostante tutto, quando quel qualcosa aveva deciso di scattare, in lui, l’istinto di avvicinarla, di stringerla, di tendersi a lei... lo aveva sopraffatto. Qualsiasi suo scudo a difesa dei gesti inconsulti dimentico al suo fianco, sciolto dalla sua persona al pari di un indumento opprimente che aveva la facoltà di essere rimosso facilmente.
Ed era stato ad un passo, ad un centimetro dal risollevare ogni suo precedente pensiero, ogni suo giudizio passato; chi ella fosse,come lo avesse stregato – ed egli era un uomo di scienza, ed era ridicolmente consapevole quanto le fatture fossero solo orpelli di fiabe da racchiudere solo nelle storie da raccontare a suo fratello – come lo avesse abbagliato, fino a quel punto...
Dio, cosa c’era di sbagliato, in lui?
Se lasciava ampio margine alla fredda razionalità che di solito decideva per lui, quella maschera di imperfezione che tutti gli riconoscevano e gli additavano in quanto sua primaria personalità, allora la ricerca di una scusa, di una qualunque costruzione convenzionale agibile in tal maniera da nascondere tutto quanto non meritava la luce del sole – ossia della rivelazione – avrebbe fatto capolino e in esso si sarebbe rifugiato. Magari, con accortezza, si sarebbe insinuato nella subdola idea che ogni colpa – ancora una volta – si andava additando al padre crudele, quel bastardo assassino che, con il suo imperversare nella sua vita, aveva capovolto con sgraziata inettitudine ogni sua basilare convinzione. No, forse non simile, catastrofica, presentazione; ma che in lui vi fosse stata, un tempo, la certezza di un Leo incapace di agire con la consapevole certezza di uccidere, era certamente una verità al quale non sentiva verso di dissentire.  Poteva essere quello, l’inizio di una crepa che aveva divelto il pavimento nel quale era solito camminare con annoiata grazia; lui, e di seguito la consapevolezza che dell’odio condiviso con lei non c’era assoluta ragione di seria complicità. Solo uno sbaglio enorme da risanare, una colpa addossatasi sulle sue spalle solo per quel sangue condiviso e adesso non più voluto.
Doveva essere solo quello, però. E la sua costruzione di carte mal celava il resto taciuto al di fuori dei suoi schematismi. Era un vento gentile, quello che aveva accarezzato il suo cuore, e in simile brezza il dovere non attecchiva, ne inquinava la purezza di un qualcosa nato dal suo primigenio io.
Che fosse quello, l’Es incontrollato che faceva tanto terrore ai medici e psichiatri?
Reiji Akaba, in quel frangente, aveva numerose scelte. Avrebbe potuto rifugiarsi nella più semplice, e lasciare nel dimenticatoio – o almeno, fino a quando il vermiglio della sua aura non fosse riapparso all’orizzonte – ogni attimo speso senza la sua amata ragione, al fine di non divenirne pazzo. Poteva – e questo però poteva escluderlo a prescindere – tendere una mano verso il suo giovane assistente, attirarne l’attenzione e porlo al vaglio della sua disperata – almeno a suo dire – condizione. Alla lunga, poteva perfino gettare al vento ogni grammo di razio e gettarsi a capofitto nella direzione di lei, in quella stanza nel quale l’aveva severamente confinata – anche se in lui, ancora scosso da se stesso, vi era stato un parziale tentativo di ingentilimento della sua voce – e porre un degno finale alle sue intenzioni.
Scelte dalla natura infingarda, e che in quanto tali si prefiguravano in una serie di previsioni a lui molto sfavorevoli. Era una multipla scelta che, a suo dire, doveva comprendere un’ultima nota, nel quale le soluzioni precedenti dovevano con forza essere escluse; non era un vigliacco, Reiji Akaba, ma – sebbene così invischiato in una situazione a lui totalmente ignota – avrebbe voluto agire in un solo e unico modo... come Reiji Akaba avrebbe davvero fatto. Come lui era solito porsi.
 
“Questo cos’è?”
La cartellina in mano, Reiji ponderò questa domanda al fine di comprendere quale recondito pensiero ci fosse nel consegnargliela, dato che Crow, sempre volto nella sua direzione, non aveva accennato ad alcun commento – e ciò era catalogabile certamente come fenomeno paranormale, data la quantità abnorme di parole capace di fuoriuscire dalle sue labbra.
“I dati che volevo tu vedessi”
Secco, conciso. Di un banale che aveva dell’irrisorio. Una stoltezza che infastidì Reiji per il suo presentarsi nel momento a lui peggiore.
I corridoi della villa, caratterizzati dal bianco candore che a molti suggeriva un clima ospedaliero, terminarono il loro infinito scorrere piazzando entrambi sul davanti di una ferrosa porta, la cui tecnologia non consentiva loro nemmeno l’ausilio di un dito per l’essere aperta. Spalancatasi, al suono dei loro passi, tutto ciò che loro ebbero da fare fu attraversare l’uscio, e nell’immediato i loro sguardi furono catapultati nel centro nevralgico dell’inferno. Era l’anticamera, il limbo dal quale si dipanavano i numerosi gironi, la stanza di controllo nel quale servi di poco conto – ma comunque uomini di fiducia da lui personalmente scelti – scorrevano con pigrizia le immagini trasmesse dai monitor, quasi vi fosse della giustificazione al sonno per la scontata definizione di immoto che loro avevano della vita dei pazienti. Uomini senza speranza, che in quanto tali erano stati posizionati laddove inabili a far danni.
E, d’altronde, non vi era null’altro, ad eccezione dei numerosi monitor e delle sedie nei quali quei severi uomini – scuri anche nelle uniformi eleganti da loro indossate – sostavano placidamente; un cubicolo tanto angusto mai avrebbe potuto garantire la sopravvivenza di coloro che ancora nutrivano la speranza.
“Se davvero tutto ciò che volevi era farmi visionare queste carte, perché non me le hai lasciate nell’ufficio?”
La voce venne fuori con irruenza eccessiva a quella concordata, una sorta di impazienza che tradiva aspettative maggiori. Crow forse se ne avvide, o forse la distrazione lo aveva convogliato – per alcuni secondi – lontano da quella stessa conversazione del quale lui in primis era l’artefice. Quale che fosse la verità, adesso lo guardava senza la benché minima punta di astio a inquinare lo zaffiro brillante. No... non doveva davvero aver prestato attenzione al suo essere scorbutico... altrimenti nulla gli avrebbe permesso di sorridere in quel modo. Un distendersi delle labbra che inquietava per la mancanza di convinzione.
“Non sono quelle carte, ciò che volevo lei vedesse ora. Ho bisogno di lei, capo... perché, se i dati che ho stampato adesso dicono qualcosa... beh, io ne ho vista un’altra. Mi vuole seguire?”
Ogni essere umano dotato di coscienza avrebbe negato con urgenza, una simile proposta. Perché il farlo comportava l’avvicinarsi ai meandri della morte, alle porte di quel cogito che tanto impensieriva nelle urla dei pazienti e nel sangue lasciato scorrere senza adeguate protezioni. Il candore nel quale i loro piedi affondavano era solo un maggior espediente per dare al posto un’idea adeguata di sanatorio, perché in nessun altro modo potevano essere viste quelle stanze, incassate con compatta precisione nei corridoi dipanati dalla camera principale, studiati per un guadagno cinico dello spazio e del tempo – quello che i medici dovevano spendere per offrire ai pazienti le blande cure di circostanza, quelle comuni e utili a offrire un briciolo di sollievo a chi nel dolore dimenticava perfino chi fosse – ed elaborati in modo tale che, in essi, il massimo contenibile non dovesse oltrepassare la soglia del letto e dei macchinari costosi che detenevano le vite dei morituri. Un posto che avrebbe disgustato anche chi poneva grande fiducia nella propria resistenza... ma che poco prevalse su Akaba, ormai assuefatto alla disperazione dei luoghi abbietti. Era un suo modo di pensarla, ossia l’aver compreso cosa fosse il male e averne sfiorato la sua più intima essenza. Niente, in quel genere di osservazione, contemplava il desistere alla debolezza. Poteva solo avanzare.
Avanzare. Dirigersi con eleganza laddove la sua presenza era richiesta, incapace di essere scalfito dai gemiti, dalle lacrime, dalle urla e dalle suppliche, dalle maledizioni nei confronti di un Dio crudele e dalle preghiere di chi ne richiedeva l’urgente presenza. Era il suo mondo, quello, e ormai in esso poteva viverci senza impazzire. A Ray, egli doveva anche quello.
Erano opachi, quei smeraldi spenti che fissavano con riluttanza il soffitto dalle luci soffuse, e in esso non vi si segnalava nulla, ad eccezione di un respiro fragile e di un cuore stanco di esistere. All’attento sguardo di Akaba, il fisico gracile del ragazzino, segnato dalle uguali macchie vermiglie che, sulla pelle diafana, lo comparavano ad ogni altro paziente lì risiedente, non era altro che un nuovo cadavere del quale Roger avrebbe dovuto occuparsi. Una nuova vittima portata via dall’assassino dell’umanità, una bestia immonda a cui non era bastato osservare il candore esile di un bimbo allo sbocciare dei suoi dieci anni per placare la sua fame. Nel cuore dell’uomo, attonito dinanzi allo spettacolo postogli innanzi, vi fu uno sfavillio terrorizzato; la sua immaginazione ebbe l’ardire di tradirlo, in quei secondi, e pose l’ombra di Reira dinanzi alla devastazione del nuovo ragazzo. Quei capelli turchini, ora caoticamente disposti sul rigido cuscino sporco della sua stessa essenza, furono, per lui, l’unico appiglio nel quale ritrovarsi per il presente.
“Può non sembrarlo, ma è ancora vivo”
Quasi vi fosse in lui una qualche impercettibile capacità telepatica, Crow predisse i suoi pensieri, e con la sua affermazione recise sul nascere qualunque sforzo da compiere per la domanda in atto di essere espressa.
“Shiun’in Sora. Secondo i dati, le sue condizioni di salute rimangono gravi, però stazionarie. Eppure, da questa mattina, ha spalancato gli occhi in questo modo, e ha continuato per tutto il giorno. Ce ne siamo accorti poco fa, ma le registrazioni hanno detto il resto”
“I suoi parametri vitali?”
“Minori rispetto alla norma... e intendo la norma dei pazienti. Però non sono irregolari, e i macchinari gli permettono di sopravvivere. Capo... lui era uno del Gruppo Sperimentale. Sa cosa vuol dire?”
Una domanda amletica, in quel preciso frangente. Il dividersi  dei pazienti tra Sperimentali e di Controllo era un calcolo programmato per il collidersi dell’ipotesi nulla e di quella alternativa. Un fattore scientifico solitamente lasciato al ramo delle cure psicologiche, ma che ormai erano divenute una voga dei settori prettamente scientifici e la cui validità ne aveva confermato il primato. Allo stadio attuale, in quanto stabilito dall’ipotesi nulla, non vi era assolutamente alcuna differenza tra i malati sottoposti alle cure sperimentali – le cui basi si dovevano al sangue di Yuya – e coloro che invece si aggrappavano alla vita per mezzo dei medicinali comuni – solitamente, i facenti parte di simile macroarea vantavano un contagio meno violento e meno incline a fulminarli nel giro di alcuni secondi. Era l’ipotesi da combattere, quella nulla, in modo da dimostrare quanto l’alternativa fosse efficiente; se in qualcuno di loro un nuovo effetto fosse stato registrato, essa sarebbe in automatico balzata in primo piano, decretando in tal modo la vittoria dell’umanità. E la vittoria di Reiji.
“Però non possiamo parlare di miglioramento. Se mai, possiamo affermare il contrario”
Era l’essere rigidi di fronte alla speranza, ma anche un modo coerente per il ruolo che deteneva. La speranza andava nutrita con le belle parole, ma la fiducia non era concessa soltanto a scampoli di indizi che, ad occhio critico, sembravano anche tendere verso una strada sterrata e maggiormente sconnessa rispetto a quella già percorsa. Non era un risultato del quale essere soddisfatti; era un dubbio, anzi, che richiedeva l’immediata risoluzione.
“Ora capisce perché avevo bisogno anche dell’aiuto della signorina Yuya?” fu il commento divertito di Crow, ancora in vantaggio nel carpire ciò che era celato dietro lo sguardo calcolatore del suo datore di lavoro “Lo so che ci vuole tutti belli e riposati... ma qui c’è del lavoro da sbrigare. E in fretta”
Reiji Akaba non era un vigliacco. Scappare da una situazione del genere avrebbe seriamente compromesso l’immagine che lui stesso rappresentava quando alla propria mente toccava di descriversi, e di certo nulla lo avrebbe spinto lontano da quel piedistallo di stoicismo nel quale amava stare... ma come affrontarla nuovamente, dopo quelle vicinanze annullate?
“A proposito, capo... Che fine ha fatto Kurosaki? È da un po’ che non lo vedo in giro...”
“Ha detto che non si sentiva tanto bene, e che preferiva ritirarsi nella sua stanza per la notte” rispose l’uomo, distrattamente.
“Aspetti, stiamo parlando della stessa persona? Di quella che lancia vampe di fuoco verso chiunque non rispetti con precisione svizzera gli orari di lavoro?”
“Parliamo del collega che andrai a cercare mentre io riporto qui Yu... Sakaki. E sbrigati; l’hai detto anche tu, non abbiamo tempo da perdere”
 
La vita sapeva essere crudele. Toglieva quanto donato, e nel suo essere sadica lasciava che ciò avvenisse di fronte ai tuoi occhi, vedendo appassire quello che più hai amato e che non rivedrai mai più.
Sora amava la sua famiglia. Quella madre tanto apprensiva e che lo cullava nella piccola bolla di vetro costruitagli con cieco amore; quel padre tanto severo quanto pronto a gettare la sua maschera fredda per accogliere i suoi figli tra le sue braccia; perfino quella sorellina pestifera, quella che urlava ad ogni ora del giorno e che gli impediva di dedicarsi ai suoi dolci con la sacra ritualità a cui un tempo non sapeva resistere.
Era tutto parte del suo mondo, della sua quotidianità. Frammenti di serena gioia che, nel loro essere scontati, sanno ferire maggiormente quando scompaiono. E Sora ancora soffriva in maniera avvilente, quando guardava il suo nuovo io e vi scorgeva solo  un vuoto brancolare.
La solitudine non aveva mai avuto simili dimensioni, la sua cupa ombra non lo avvolgeva con strette tanto soffocanti... perché un tempo egli quel termine nemmeno era arrivato a intenderlo. Era ingenuità, o forse pigrizia nel conoscere... ma lui avrebbe preferito rimanere ignorante, e lasciare alla solitudine stessa il compito di rimanere un semplice lemma del vocabolario.
Vi era una sola consolazione, nel limite prossimo alla morte. Bastava lasciar dietro quel corpo ridotto in cenere, quelle ossa e quei muscoli divenuti deboli e incapaci di rispondere ai suoi comandi, e in cambio avrebbe nuovamente rivisto tutti; famiglia e amici erano dall’altra parte della soglia, oltre i confini dei viventi, in un regno candido che aspettava solo lui. Commuoveva l’idea che tutti quanti fossero al cospetto delle porte dorate, pronte a intercettare il suo spirito e ad accoglierlo a braccia aperte, tanto felici da quella neonata riunione da dimenticare ogni buona maniera in merito all’essere piccoli, come il silenzio, le risate contenute, il fracasso che avrebbe potuto infastidire i vicini. Non ne sapeva molto, di aldilà e cose simili, ma le scarne informazioni ricevute rendevano simile destinazione la meta più agognabile nei suoi desideri.
“Dunque vorresti arrenderti così?”
Il volto di Sora non aveva alcun potere, né la forza sufficiente a voltarsi. Eppure, sebbene si rese conto che nulla, nel mondo esterno, aveva più la forza di attirare la sua attenzione, pure si convinse che la voce appena udita non era solo il germoglio dei suoi sogni allucinati; era qualcosa di esterno, la cui forza travalicava le barriere erette tra la sua mente e un mondo pronto a rifiutarlo.
“Sai, qui ci sono parecchi come te, che hanno perso la speranza e vogliono trapassare il più in fretta possibile. Però non lo fanno per i tuoi stessi motivi, no... vogliono solo smettere di soffrire, e se gli mettessero sotto al naso un farmaco capace di guarirli, allora lo arrafferebbero senza nemmeno pensare alle conseguenze. Dimmi, Sora... se io ti offrissi la cura al male che ti affligge, la prenderesti?
Per quale assurda ragione accettare un’offerta tanto ambigua? Era solo un bambino, e la sua capacità di giudizio ne risentiva per la mancata esperienza, ma non era così sciocco da credere a parole gettate solo per sadico divertimento.
E comunque la sua risposta sarebbe stata  assolutamente negativa. Anche in un contesto in cui simile miracolo fosse stato possibile, non vi era alcuna ragione, per lui, di restare. Nessuno lo attendeva, nessuno pregava per la sua salvezza, nessuno gli avrebbe sorriso se lui si fosse ripreso. Semplicemente, non aveva più alcunché per cui combattere.
“Ma dai, piccolo Sora... se fai così, ti mostri ancora più interessante... e mi fai venir voglia di salvarti. Così. Solo per farti un dispetto”
Stava... divertendosi? Quell’uomo – chiunque esso fosse – provava davvero tanto gusto nel denigrarlo, scarnificando ogni sua difesa e carpendo dalle sue elucubrazioni ciò che era necessario per lasciarsi andare alle risate?
“No, non sono davvero così crudele. Però mi servi, caro Sora... o meglio, mi serve una persona che, dopo averla guarita, non scappi via per commettere chissà quale peccato. Voglio qualcuno che mi sia fedele, e io so già come averti mio, piccolo...”
‘Stai... delirando?’
“Voglio fare un patto con te, Sora”
No, nel suo tono non vi era alcun segno di quell’irrisione prima così palese.
“Io esaudirò un tuo desiderio, di qualsiasi specie e di qualsiasi natura... ma tu in cambio dovrai portarmi una persona. Sarai la mia marionetta al fine di strappare la cara Yuya da quegli sporchi umani che vogliono usarla al pari di un burattino”
 
“Dove sei?”
Era questa, la domanda che Yuya avrebbe voluto porre nei loro ultimi istanti, quando la distanza li aveva resi al pari di due estranei, di quelli che chiacchierano freddamente quando le circostanze impongono educazione.
Non era stato altro, infatti. Semplice galanteria vuota che aveva come fine quello di scacciarla – nuovamente – e porre di nuovo quei confini prima dimentichi al suolo, freddi sotto le suole delle loro scarpe, inutili mentre entrambi conoscevano i colori delle loro vite.
Colori di cui ella non conosceva il significato, ma che avrebbe volentieri approfondito, se l’intervento di Crow non avesse rotto l’idillio.
Ma, in fondo, poteva davvero aver mal pensieri su un suo collega, quando ella stessa aveva da porsi seri quesiti sul suo coraggio? No, forse le sue labbra avrebbero custodito i suoi segreti, al pari di un forziere lontano dalla sua chiave. Non ci sarebbe stata una confessione, non maggiore rispetto a quelle già fornite, per il semplice fatto che il suo animo aveva avvertito l’indebolirsi della sua corazza, e quel lato sensibile che lasciava al suo cuore la forza di scalpitare nel petto erano un lato di lei che non meritava un emergere, nemmeno parziale. Aveva permesso all’uomo di avvicinarla – e in questo non vi era stato alcun male, l’amicizia era certamente il miglior antidoto a quella tensione che aveva avvinto i loro precedenti incontri – ma oramai doveva cominciare a porsi seri confini entro il quale non farlo entrare. Timore di essere ferita – proprio come in quel momento  - e terrore per le conseguenze da lei rese manifeste – l’esempio perfetto erano le lacrime cristalline che, imperterrite, lasciavano scie salate su guancie arrossate dall’emozione – sarebbero stati i pilastri sul quale avrebbe retto nuovamente i suoi rapporti con l’uomo.
Era questa la decisione che aveva preso, e a simili elucubrazioni pensava, quando la porta della sua stanza lasciò allo scatto automatico di immetterla nella camera dalle ombre cupe.
I suoi pensieri crollarono come cristalli duramente scagliati lontano.
 
“Fermami dal ferirti ancora...”
Fu quello il primo commento che le labbra di Yuto le concessero.

 

 

 

 

 

   
 
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